foto antonio  1.jpgDenuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, calunnia o pazzia le accuse le provo con inchieste testuali tematiche e territoriali. Per chi non ha voglia di leggere ci sono i filmati tematici sul 1° canale, sul 2° canale, sul 3° canale Youtube. Non sono propalazioni o convinzioni personali. Le fonti autorevoli sono indicate.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

SCEGLI IL LIBRO

PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

E-BOOK SU AMAZON

CARTACEO SU LULU E CREATE SPACE

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE IN TESTO: TEMA - TERRITORIO

 

 

http://www.megghy.com/immagini/animated/bobine/bandes-10.gif INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - ANTONIO GIANGRANDE - TELEWEBITALIA

80x80 LIBRI: HTML - EBOOK - BOOK

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA   

 

INGIUSTIZIA

OSSIA, LA LEGGE DEL PIU’ FORTE, NON LA FORZA DELLA LEGGE

DISFUNZIONI DEL SISTEMA CHE COLPISCONO IL SINGOLO

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

Della malagiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.

LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI ?!?!

LA GIUSTIZIA E' DI QUESTO MONDO ?!?!

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."

di Antonio Giangrande

GIUSTIZIOPOLI

L'INGIUSTIZIA CHE COLPISCE IL SINGOLO

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE.

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

IL SUD TARTASSATO.  

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.

AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.

DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.

SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.

QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.

BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.

L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.

CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.

INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….

L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.

L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

FINANZA E GIUSTIZIA.

RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.

SENTIAMO CESARE BATTISTI.

YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.

L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.

LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO. 

DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.

BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.

DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.

L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.

LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....

DELINQUENTE A CHI?

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

LE TOGHE IGNORANTI.

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA LEGA MASSONICA.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.

IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.

TOGHE SCATENATE.

CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

CHI E' ANTONIO ESPOSITO.

ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.

GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.

SEI IN CARCERE? CREPA!

SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?

ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.

E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.

PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

SARAH SCAZZI. MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.

ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.

IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.

MELANIA REA. OMICIDI E SETTE SATANICHE? NON SE NE DEVE PARLARE!!

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. dELITTO DI MELANIA REA. SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE.

GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA. L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.

RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.

PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.

PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.

ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.

INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.

INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.

TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?

OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO.

OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.

OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.

IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.

MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.

OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.

OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.

OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI. 

CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.

SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.

L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI. 

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE.

CARCERE E STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.

CARA INGIUSTIZIA.

GLI INNOCENTI IN GALERA.

IL COSTO DEGLI ERRORI GIUDIZIARI.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.

LETTERE DAL CARCERE.

INTERVISTA AL PROCURATORE CAPO.

CENTO VOLTE INGIUSTIZIA.

TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?

EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE.

DATI MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DIPARTIMENTO PENITENZIARIO. CARCERE: ICONA DELL'INGIUSTIZIA.

ABUSI E VIOLENZE SUI DETENUTI: UN DOSSIER INFINITO....

NIENTE RISARCIMENTO PER L'INGIUSTA IMPUTAZIONE.

(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

IL DIRITTO DI DIFESA: UGUALE PER TUTTI ???

IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.

MPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.

MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ???

IL MISTERO USTICA.

IL MISTERO MATTEI.

IL MISTERO MORO.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

IL MISTERO PEDOFILIA.

IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.

IL MISTERO MOBY PRINCE.

DA MOSTRO A INNOCENTE, STORIE DI CALVARI.

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

MILANO: IL CASO RIZZOLI.

MILANO: IL CASO BERLUSCONI.

MILANO: IL CASO BARILLA’.

MILANO: I CASI MARIANI E CROSIGNANI

MILANO: IL CASO PALAU GIOVANNETTI.

CAGLIARI: IL CASO MANUELLA.

NUORO: IL CASO CONTENA.

ROMA: IL CASO ANDREOTTI.

ROMA: IL CASO LUTTAZZI.

ROMA: IL CASO SABANI.

ROMA: IL CASO DELITTO SIMONETTA CESARONI.

CASERTA: IL CASO OGARISTI.

NAPOLI: IL CASO TORTORA.

BARI: IL CASO LASTELLA.

TARANTO: IL CASO MORRONE.

TARANTO: IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO.

TARANTO: IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO.

LECCE: IL CASO DI NAPOLI.

COSENZA: IL CASO MASALA.

CALTANISSETTA: IL CASO TURCO.

TRAPANI: IL CASO GULOTTA.

 

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

*****

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Fbi, il grande inganno degli esami truccati per incastrare gli imputati. Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone, scrive Vittorio Zucconi su “La Repubblica”. Morire per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli. Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate. L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano. Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna. L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere. Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.

Ed in Italia?

La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.

"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.

La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.

I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive  "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando Esposito è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.

Con questo sistema si mettono in carcere gli innocenti.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Per l'Europa è tortura anche il carcere duro. I forcaioli che dicono?". Se fosse introdotto il reato di tortura allora dovremmo abrogare anche il 41 bis, il cosiddetto carcere duro: come la mettiamo? Il paradosso è decisamente sfuggito all’ampio fronte che ieri ha plaudito alla decisione della Corte Europea di condannare l’Italia per il reato appunto di tortura, che da noi non esiste: ed è interessante che trattasi dello stesso fronte che considera il 41 bis come un moloch sacro e intoccabile, anzi, vorrebbe estenderne l’applicazione. Tocca citare il solito Fatto Quotidiano (che ieri ha ufficialmente scoperto la Corte Europea per i diritti umani) ma anche il Corriere della Sera e nondimeno ampi settori del Pd, tutta gente che invoca una legge che sembra eternamente pronta, sempre in dirittura d’arrivo: ma di cui, di fatto, si parla e basta dal 1984, anno in cui l’Italia firmò la convenzione Onu contro la tortura. La condanna del 2008 - E quel che non si ricorda - dicevamo - è che la stessa Corte Europea ha condannato lo Stato italiano per il regime del 41 bis: il 16 gennaio 2008 fu deliberato che quel regime violava due articoli della Convenzione, al punto che l’avvocato del ricorrente dichiarò che «il 41 bis è una Guantanamo italiana». Ma non c’è solo la Corte Europea. Più di un giudice statunitense, negli anni passati, condannò il carcere duro all’italiana come un regime di detenzione al quale la giustizia americana non voleva prestare il fianco. Uno dei casi più noti risale all’11 settembre 2007, quando un magistrato di Los Angeles negò l’estradizione in Italia del narcotrafficante Rosario Gambino - che aveva già scontato 22 anni - perché a suo dire il 41 bis aveva caratteristiche «che costituiscono una forma di tortura» e violavano la convenzione delle Nazioni Unite in materia: le stesse motivazioni della Corte Europea. Ma le fonti sono anche altre: basta rileggere i rilievi del Dipartimento di Stato americano sul rispetto dei diritti umani nel nostro Paese, quelli di Amnesty International, così pure i rapporti degli ispettori europei che visitarono il nostro sistema penitenziario: nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (C.P.T.) disse che il 41 bis italiano era risultato il più duro tra tutti quelli esaminati dagli ispettori: la delegazione parlò di trattamenti inumani e degradanti che potevano tradursi in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Ultime ma non ultime, ci sono le denunce solitarie e puntuali di Amnesty Italia e di Nessuno tocchi Caino. Risale a meno di due settimane fa, poi, la denuncia del senatore Giuseppe De Cristofaro di Sinistra Ecologia e Libertà: «Se la ratio del 41 bis resta quella di costringere al pentimento, allora è una tortura». Celebrazioni selettive - Insomma: questa celebrazione selettiva delle sentenze della Corte Europea - soprattutto da parte del fronte forcaiolo - può diventare imbarazzante, perché è la stessa Corte che ci ha condannato non solo per il 41 bis (tortura anche quella) ma anche per  durata eccessiva dei procedimenti e per il sovraffollamento carcerario. Da non confondere con la Corte di giustizia europea, quella che nel novembre 2011 ha detto che dovevamo aggiornare la norma sulla responsabilità civile dei giudici. Morale: è un attimo santificare le cortei e trovarle, subito dopo, tremendamente impiccione.

Quante vittime della giustizia condannate a perdere la testa. Dal dirigente convinto che Borrelli fosse un clone al «vendicatore» che suonava «Bella ciao» Stritolati da attese infinite e sentenze inaccettabili, molti crollano. E diventano casi clinici. Ci sono quelli che sparano. Quelli che si mettono a suonare la fisarmonica sotto il tribunale. E poi c'è l'infinito numero di quelli che si consumano nel chiuso delle loro case e delle loro teste, e dissolvono anni e patrimoni in carte bollate e fotocopie, sempre più voluminose e sempre meno comprensibili. Non sono matti. Ma sono tutti, in diverso modo e misura, vittime della psicosi da giustizia. Una malattia reale e inguaribile, che chiunque frequenti i tribunali conosce bene. E talmente pervasiva da far ritenere quasi consolatorio che i casi come quelli Claudio Giardiello, cui il senso di persecuzione ha armato la calibro 9 e la voglia di sangue, siano così pochi. É una psicosi che non ha nulla a che vedere con la delegittimazione della magistratura berlusconiana o renziana; ma che nemmeno è figlia di particolari brutalità di questo o quel magistrato. Se si vanno ad analizzare una per una le cento storie di cittadini che hanno perso il senno inseguendo il mito di una giustizia giusta, l'impressione che se ne cava è che a stritolarli non sia stata l'effettiva iniquità del loro caso, ma la potenza distruttiva del sistema giudiziario in quanto tale. La macchina del processo parte, viaggia coi suoi ritmi imperscrutabili, trita. Non solo quando si occupa di delitti o di anni di galera, ma anche - e anzi più spesso - quando piccoli, quasi futili diritti (l'avanzamento di carriera; il prato usurpato; eccetera) veri o immaginari che siano non trovano soddisfazione. Davanti alla sentenza contraria c'è chi si rassegna. E c'è chi si avvita in un mondo tutto suo, dove giudici, avvocati, testimoni contrari finiscono per impersonare gli attori di un unico gigantesco complotto ai loro danni. Nel palazzo di giustizia di Milano, quello che l'altro ieri Giardiello ha trasformato in mattatoio, la galleria di queste vittime dell'illusione di giustizia è lunga: e potrebbe apparire persino pittoresca se dietro ognuno di questi casi non si celassero tragedie profonde. Ai tempi di Mani Pulite, un dirigente di banca urlava la sua rabbia nei corridoi della Procura, sostenendo che il Borrelli che vi si aggirava fosse in realtà un sosia del vero procuratore, finito agli arresti per le sue malefatte. A portare il dirigente sull'abisso era stata una causa contro la sua banca, in cui si era visto dare torto; aveva denunciato i giudici ad altri giudici, e questi ad altri ancora. Uno dei vice di Borrelli aveva un suo stalker personale, un maestro di musica che accusava la cantante Mietta di avergli rubato una canzone: tra magistrato e visionario si stabilì una sorta di simbiosi, al punto che quando il primo cambiò procura se lo portò appresso. Un medico accusato e poi prosciolto dall'accusa di avere ucciso in collega si è aggirato a lungo, tuonando o ragionando a seconda dell'umore, nei corridoi del tribunale. Oggi a incarnare queste tristezze è un ingegnere di profonda cultura, che nella sua rabbia sommerge l'intera magistratura di insulti irriferibili, e si vendica suonando Bella Ciao sotto le finestre del palazzo di giustizia, fin quando a ondate successive di Tso - trattamenti sanitari obbligatori, il destino di tanti di questi sventurati - lo spediscono a venire sedato in un reparto ospedaliero. Questi sono i casi estremi. Ma il punto di non ritorno lo superano in tanti. Certo, la lentezza estenuante della giustizia italiana ha il suo peso, nel logorare l'equilibrio, nell'ingigantire la portata dei torti subiti e dei diritti negati; a spezzare l'equilibrio della gente però è soprattutto la distanza siderale tra il proprio carico emotivo e la freddezza della giustizia: che ha nei suoi simboli a volte la spada, a volte la bilancia, ma mai il cuore. Nell'autunno scorso, quando il Giornale aprì la sua casella di mail alle storie di malagiustizia, insieme a tante vicenda gravi e oggettivamente scandalose, fu impressionante il numero di racconti dove era difficile districarsi tra paranoia, delirio di persecuzione, battaglie contro i mulini a vento. Forse affidare nell'immaginario collettivo una visione salvifica della Giustizia con la «G» maiuscola ha incrementato il numero di queste catastrofiche disillusioni. Ma le psicosi da diritto negato sono sempre esistite, e probabilmente esisteranno per sempre.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi. Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

I magistrati sanno solo dire: “Lei non sa chi sono io?”

Giudice insulta il vigile che lo multa e finisce sotto processo al Csm. Ad aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Pier Franco Bruno una sanzione disciplinare, scrive Fulvio Fiano su "Il Corriere della Sera”. «Ma tu sai chi sono io? Non mi riconosci o fingi di non riconoscermi? ». « Dispiacente, io in servizio non riconosco nessuno.... ». Non è il dialogo tra il sindaco Vittorio De Sica e il vigile Alberto Sordi, ma molto vi somiglia. Il più classico dei «Lei non sa chi sono io» l’ha pronunciato stavolta un giudice «infastidito» dall’insolenza di un pizzardone che pretendeva di multarlo. La sua reazione per l’auto sanzionata in divieto di sosta in pieno centro a Roma diventa ora materia per il Csm. «Io sono un magistrato della Corte costituzionale, la multa me la deve togliere e basta», avrebbe sostenuto in un rigurgito di «lesa maestà» il giudice del tribunale di sorveglianza Pier Franco Bruno di fronte al vigile e al suo blocchetto delle contravvenzioni. La lite è raccontata nell’atto di incolpazione redatto dalla procura generale della Cassazione. E quando il semplice titolo di magistrato non è bastato ad ammorbidire l’agente della municipale, il giudice sarebbe andato oltre, minacciandolo: «sappia che tutto questo avrà un seguito». Il 17 aprile il Consiglio superiore della magistratura deciderà se infliggere a Bruno una sanzione disciplinare. Il magistrato si sarebbe spinto sino a offendere «l’onore e il decoro» del suo interlocutore. E lo avrebbe fatto sostenendo che l’80% delle violenze e degli oltraggi che ricevono i vigili sono provocati dai loro atteggiamenti. Insomma, una sceneggiata. Tra la divertita curiosità dei passanti e il «disagio e sconcerto» degli altri vigili accorsi. Per le sue escandescenze il giudice è finito anche sotto processo a Perugia,dove però il gip ha archiviato.

Intanto c'è chi marcisce in galera...

“Io, uomo ombra, crepo in carcere”. Su “Il Garantista”, la lettera inviata da Carmelo Musumeci, detenuto nel carcere di Padova e condannato all’ergastolo. "Caro Il Garantista, ho saputo che da qualche giorno sei in edicola e siccome sono davvero pochissimi i quotidiani disposti a darci voce, voglio subito chiedervi luce e spazio per gli uomini ombra, come chiamo io noi condannati alla “pena di morte viva”, l’ergastolo senza benefici penitenziari, vale a dire con un reale fine pena mai. Sono Carmelo Musumeci, attualmente detenuto nel carcere di Padova, condannato, in Italia – patria del diritto romano e di Cesare Beccaria – alla pena di morte viva: così viene chiamata tra di noi quella condanna che non ti dà nessuna possibilità, un giorno, di uscire. Ebbene è una vera condanna a morte, presa a gocce un po’ tutti i giorni e tutte le notti. Sul muro della mia cella ho scritto: “Io non sono né morto né vivo, sono solo un’ombra”. Da tanti anni combatto contro l’ergastolo. In particolare combatto l’ergastolo ostativo, perché, allo stato attuale delle leggi, molti di noi ergastolani usciranno solo cadaveri dal carcere. Ma se la nostra Costituzione dice che “Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato” (articolo 27) ai “buoni” che stanno fuori dal muro di cinta io continuo a chiedere che senso abbia rieducare qualcuno per portarlo rieducato alla tomba. L’ergastolo ostativo è una pena disumana. Ho una compagna che mi aspetta da 23 anni, ho 2 figli e 2 nipotini e so che la mia famiglia avrà di me soltanto il mio cadavere. Combattere contro la pena dell’ergastolo è un po’ come fare una partita a scacchi con la morte: non puoi vincere. Però io non posso nemmeno perdere, perché ho qualcuno che mi vuole bene e che mi aspetta, senza rassegnarsi. Anche tanti dei miei compagni non vogliono capire e molti di loro hanno scoperto che non usciranno mai solo dopo decenni di carcere. La legge dice che o collabori, cioè mandi in cella qualcun altro al posto tuo, o rimani dentro. Ma chi non se la sente di mettere in pericolo la vita dei propri cari, che dopo tanti anni ancora pagano per colpe che non sono loro? Per essere mogli, figli, nipoti di ergastolani? E chi vuol pagare la propria colpa senza farla pagare ad altri? A tanti che mi dicono: “non è possibile che una persona che viene condannata sia colpevole per sempre”, io rispondo che siamo in Italia, non negli Stati Uniti o in altri paesi che, bene o male, non sono così crudeli: ti mettono a morte e basta. Qui vogliono ammazzarti un po’ alla volta, lentamente tutti i giorni, con la scusa di rieducarti, appunto, per l’aldilà. Quando scrivo di queste cose c’è sempre chi mi ricorda di parlare anche delle vittime. Lo faccio molto volentieri, perché ciò che mi fa star male più di tutto è che la mia sofferenza, e soprattutto quella della mia famiglia, non è di consolazione a nessuno, perché il mio reato è per una guerra tra bande, non ci sono “vittime innocenti”. In realtà era così: io ammazzavo te o tu ammazzavi me. E questo vale per quasi tutti i condannati per reati associativi, cioè appunto quelli ostativi ai benefici penitenziari. Quello che mi fa più rabbia della mia sofferenza, e di quella della mia famiglia, è che non serve a nessuno. Se facesse bene a qualcuno, la accetterei, invece vedo che non ha alcuna utilità. Io sono entrato in carcere con la quinta elementare, poi ho preso la licenza media, mi sono diplomato, mi sono laureato in giurisprudenza e adesso mi sono iscritto alla facoltà di filosofia di Padova. Ma faccio tutto questo esclusivamente per passare il tempo, perché la società non mi darà mai la possibilità di rimediare al male che ho fatto facendo del bene. Eppure ci sarebbero tanti modi di scontare la pena Per esempio, preferirei spazzare le strade di qualche città, o fare volontariato in un Pronto Soccorso, perché credo che la pena si sconti quando esci dal carcere. Non chiuso in una cella senza far nulla. Io e altri 1.500 ergastolani dovremmo morire qui dentro per placare la sete di giustizia di una società che in realtà vuole vendetta? A chi giova tutto questo?

“Tor Scemenza”, il titolo dell’editoriale di Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano, lasciava sperare in una riflessione misurata sulla follia che si esprime quando il disagio diventa esasperazione e l’impellenza di bisogni mai soddisfatti rende l’altro estraneo e carnefice, reo dell’incessante lottare in difesa degli stessi bisogni, della stessa mesta umanità, scrive Maria Brucale su "Il Garantista". «Chi ha la pancia vuota è molto più giustizialista di chi l’ha piena», dice Travaglio – «e guardandosi intorno in cerca dei colpevoli, li individua negli ultimi arrivati, sentendosi sempre penultimo di qualcun altro». Sana considerazione, saggia. Questo è il germe delle esplosioni di rabbia di Tor Sapienza. Non un odio autentico, radicato nel razionale, nella lucida opposizione a un male riconoscibile, nella individuazione consapevole di un colpevole. È l’identificazione del sé e la contrapposizione con l’altro, diverso dal sé, la depauperazione dei diritti dell’estraneo appannaggio dei propri. È la polverosa cantilena del: «vengono a mangiare il nostro pane»; la squallida, grigia scena dei capponi manzoniani, legati insieme per le zampe e diretti allo stesso patibolo ma capaci solo di beccarsi l’un l’altro e di ferirsi mentre la stessa disgrazia li accomuna. Questo è il germe anche – ha ragione Travaglio – del giustizialismo. Non dell’amore per la giustizia, non dell’aspirazione alla legalità! Del giustizialismo. Il giustizialismo è un fenomeno malato. Un’esasperazione, anch’esso: la ricerca di un colpevole, uno, ad ogni costo; la possibilità di puntare il dito contro un male, la distruzione del quale offra l’illusione che una soluzione c’è. Ma l’individuazione del male è figlia adottiva della stessa tara: l’irrazionalità della pancia vuota. Quando le pance sono vuote è a loro che si deve parlare, le menti sono sopite, stanche, distanti. Gli istinti dominano, impellenti, rabbiosi e chiedono una gogna alla quale scagliare i propri sassi. E a loro parla Travaglio e offre pronto ristoro. Il nirvana è lo stesso di sempre, cerbero, il tintinnar di manette, pianto e stridore di denti. Purificazione. Il disagio sociale ha un volto: approda alla Camera la legge «salva ladri», così la definisce. Una legge che tende a moderare l’abuso della carcerazione preventiva e che, in sé, è mera espressione di principi costituzionali dal valore assoluto seppur trascurati al punto da costringere il legislatore ordinario a una specificazione ed a un chiarimento. Una legge della quale non ci sarebbe bisogno, in realtà, ove di quei principi fondamentali venisse fatta corretta e coerente applicazione. La misura cautelare in carcere è, infatti, nel nostro ordinamento estrema ratio, quando ogni altra misura risulti inadeguata a rispondere alle esigenze cautelari, nell’ottica della prevenzione del crimine e della sicurezza. Per dirlo con le parole di Papa Francesco: la carcerazione preventiva, «quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto», costituisce «un’altra forma di pena illecita e occulta, al di là di ogni patina di legalità». E ancora: «Il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuta verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte». Ed è solo una patina di legalità che sorregge la custodia in carcere quando al giudice che dovrebbe applicarla appare chiaro che la pena eventualmente irrogata in caso di condanna dovrà essere sospesa (una delle ovvietà introdotte dalla “salva ladri”). Che senso avrebbe mettere in carcere chi ancora deve essere giudicato se una volta dichiarato colpevole con sentenza deve essere scarcerato? La legge specifica il principio di residualità secondo cui la custodia cautelare in carcere può essere irrogata quando altre misure coercitive o interdittive risultino inadeguate. Per i reati più gravi le soglie di accertamento delle esigenze cautelari rimangono immutate mentre, per tutti gli altri reati, si prevede che, nel disporre la custodia cautelare in carcere, il giudice debba indicare le specifiche ragioni per cui ritiene inidonea, nel caso concreto, la misura degli arresti domiciliari. Qualora i vincoli imposti a chi è ristretto agli arresti domiciliari vengano violati, viene disposta la custodia in carcere. Una legge, dunque, quella che approda alla Camera che, assai lontana dal fare rivoluzioni normative, offre delle linee guida di adattamento a parametri costituzionali preesistenti e forse mai adeguatamente osservati. Una legge, pertanto, necessaria a fronte di due dati: la drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri tutt’altro che risolta dalle normative di urgenza, blanda e inefficace risposta alla sentenza Torreggiani e alle sonore bacchettate inferte e promesse dall’Unione Europea; l’esistenza di un dato statistico circa la tendenza inversamente proporzionale tra ammissione a misure alternative al carcere e tasso di recidiva. In parole povere, spazio all’ovvio: se il carcere si prospetta come reinserimento e rieducazione, si riduce il rinnovato ricorso al crimine. Afferma, ancora, Travaglio che a un cittadino che veda qualcuno commettere un reato è difficile spiegare che «bisogna lasciarlo libero (magari a casa sua, senza controlli) per una decina d’anni, in attesa della fine delle indagini, dell’udienza preliminare, del processo in tribunale, in appello e in cassazione». E, allora, caro Travaglio, a chi venga colto in flagranza di reato, ricorrendone i presupposti di legge, potrà essere applicata anche una misura diversa dalla custodia in carcere, quale quella degli arresti domiciliari, non senza controlli ma con i consueti, rigorosi controlli che a tale misura sono correlati. E magari si eviterà l’atroce abuso del tenere in carcere per anni, in attesa delle esasperanti lentezze giudiziarie, chi non avrebbe mai dovuto entrarci; si alleggerirà la decomposizione delle patrie galere, la brutalizzazione di uomini, l’incancrenirsi della società.

Accendi la televisione, ti dicono che il sistema carcerario italiano costa circa 2.8 miliardi di euro ogni anno, e che quindi ogni detenuto pesa sulle nostre tasche per circa 4.000 euro al mese, scrive Mario Di Vito, Giornalista e conduttore del programma “Al di sopra di ogni sospetto” di Radio Città Aperta, su "Il Garantista". Questo il passaggio che più ha fatto scalpore della puntata di Report andata in onda domenica scorsa su Raitre, in prima serata. Messa giù così, i risultati possono essere solo due, e molto simili tra loro: da una parte si pensa che, come al solito, lo Stato va sperperando cifre inverosimili invece di stringere la cinghia come stanno facendo un po’ tutti, dall’altra parte si è portati a pensare che ancora lo Stato dia ricche prebende a ladri-stupratori- assassini-e-mafiosi. In fondo, comunque, tutto questo rientra nell’assurda normalità di questi ultimi tempi: il tono dell’italiano medio quando si parla di carcere e giustizia è sempre apocalittico, e la linea di pensiero (ahinoi, molto in voga pure a sinistra) è che, in Italia, ci sono troppo pochi arresti e siamo immersi in un regime d’impunità permanente nel nome del latrocinio e del buonismo generalizzato. Nell’immaginario comune, il carcerato è colui che vive senza fare niente nella stanza di un hotel a cinque stelle, con tre pasti al giorno, la televisione e il parquet lucido per terra. A questo punto, in epoca di populismo esasperato e demagogia a buonissimo mercato, arriva Report e rilancia: lavoro obbligatorio per i detenuti. Spunta pure il supermagistrato Nicola Gratteri a pontificare che «i carcerati che rifiutano il lavoro, rifiutano lo Stato ». Questo però vuol dire, allo stesso tempo, dare un’informazione sbagliata e un punto di vista disonesto sulla reale situazione delle patrie galere. L’informazione sbagliata riguarda il costo di ogni detenuto: nei 4.000 euro calcolati dalla trasmissione di Raitre vanno considerate anche le spese per il personale, la manutenzione, le uscite fisse. Nessuno ha mai fatto un discorso del genere sulle scuole o sugli ospedali: provate a fare il calcolo di quanto costano i malati di cancro, metteteci dentro il prezzo delle medicine che passa la mutua, gli interventi, gli stipendi dei chirurghi e dei primari. Seguendo questa linea di pensiero si può arrivare a sostenere che i malati di cancro siano una spesa sociale elevatissima e che quindi andrebbero eliminati. Spostate il modello di cui sopra sui carcerati e giungete alla conclusione: ammazzarli non si può – farebbe troppo «soluzione finale» – ma si possono sempre tirare fuori i cari vecchi lavori forzati come viatico per mettere a posto gli asfalti dis-sestati delle nostre città, abbattendo le spese della manodopera. L’inviata di Report è pure andata a sentire qualche funzionario pubblico, mettendolo alle strette perché non conosce la legge italiana sul lavoro volontario dei detenuti per le opere di pubblica utilità. La verità però è che questa possibilità negata non va imputata agli enti pubblici, ma alla magistratura di sorveglianza che, dati alla mano, di permessi lavorativi ai detenuti ne concede con il contagocce. Fin qui le notizie sbagliate. Il punto di vista disonesto, invece, è nel ricatto morale alla base di tutto il discorso: se voi foste un imprenditore in crisi di liquidità o un comune strozzato dal Patto di stabilità, per fare un lavoro chi scegliereste, un lavoratore che poi va pagato o un carcerato che fa tutto gratis? La domanda, va da sé, è da respingere come ennesimo tentativo di mettere gli ultimi contro i penultimi, sport parecchio in voga negli ultimi anni. Asso nella manica fondamentale per evitare i temi davvero importanti e focalizzare l’attenzione su particolari di sicuro effetto emotivo, ma, a conti fatti, irrilevanti. Se provi a spiegare che le carceri italiane versano in condizioni «disumane e degradanti» ti rispondono che, con la crisi economica, anche chi sta fuori dalle sbarre non se la passa bene e l’argomento ha scarsa presa su un’opinione pubblica sempre più cinica e individualista.  Vuoi mettere se insinui il dubbio che i carcerati sono dei nullafacenti che costano 4.000 euro la mese? Lo share è assicurato. Infine c’è un piano teorico: dall’Illuminismo in poi è prevalsa la tesi che la pena dovrebbe servire a riabilitare il reo; dovrebbe provare ad avere un senso cioè e non essere soltanto un modo facile per separare i buoni dai cattivi. Il lavoro gratuito, che a questo punto non sarebbe volontario ma obbligatorio, diventa così una grave violazione dei diritti, oltre che una pesante dose di concorrenza sleale nel mondo del lavoro. Senza considerare che – pochi e mal sovvenzionati, ma non è colpa dei detenuti – dei percorsi di reinserimento professionale per i detenuti già esistono in diversi istituti italiani. Report però ha parlato. E gli italiani, soprattutto quelli di sinistra, hanno ascoltato: basta farsi un giro veloce su Facebook o su Twitter per comprendere in che misura l’idea dei lavori forzati sia tornata di moda. In maniera soft, però, che in qualche modoci si dovrà pur distinguere dalla destra.

L'autrice storica di Report ormai è avviata sulla strada che conduce alla beatificazione in vita, scrive Vittorio Feltri su "Il Giornale". Milena Jole Gabanelli, autrice storica di Report, programma più duro e duraturo del carbonio, in onda su Rai 3, ormai è avviata sulla strada che conduce alla beatificazione in vita. La sua fama di indefessa fustigatrice di malcostumi è consolidata e nessuno osa scalfirla. È passata l'idea che la gentildonna sia la più brava organizzatrice di inchieste al vetriolo e ciò che ella afferma è considerato verbo televisivo, un esempio di libero giornalismo da prendersi quale pietra miliare. Ha vinto più premi lei con la telecamera che non Valentino Rossi con la motocicletta. Tutti meritati, per carità. La signora infatti è molto dotata, coraggiosa e astuta al punto da prendere un briciolo di verità e di saperlo tramutare in una montagna. Pertanto si deve riconoscere che la verità c'è, ma la montagna è di cartapesta. C'è chi monta la panna e chi, come la suddetta, si specializza nell'arte inimitabile di ingigantire i nani. Utilizzando potentissime lenti di ingrandimento, è riuscita perfino nell'ardua impresa di far apparire Renato Brunetta, capogruppo dei deputati di Forza Italia, un colosso (immobiliare, s'intende) attribuendogli un patrimonio in mattoni immenso, degno di essere filmato e proposto al pubblico allo scopo - colto in pieno - di suscitarne l'invidia. La tecnica della giornalista è raffinata ed efficace: consiste in pratica nell'abilità, fra l'altro, di definire tre monolocali «una serie di appartamenti». Dal punto di vista lessicale, nulla da eccepire: tre stanze in effetti sono tre alloggi; da quello della sostanza, restano tre vani. La retorica scandalistica, se ben articolata, fa miracoli sensazionali, come commutare l'acqua in vino: che poi sempre di liquido si tratta. Non vorremmo diminuire la professionalità proverbiale della curatrice di Report; anzi, desideriamo dire che essa viene esaltata da una mirabile faccia di bronzo. Milena Jole ha diverse frecce al suo arco e non ne spreca una. Oltre a essere capace di spacciare pagliuzze per travi, è in grado di demolire in dieci minuti reputazioni monumentali. Quella di Antonio Di Pietro, che aveva resistito ad attacchi violenti da ogni parte sferrati, è stata sbriciolata in mezza puntata. Intervistato con consumata malizia nel corso della rinomata trasmissione, l'ex magistrato fu steso, prima stordito con problematiche catastali e costretto a balbettare per spiegare questioni burocratiche, quindi colpito da un pugno micidiale. Fine di una carriera tra Palazzo di Giustizia e Palazzo Montecitorio. Tonino oggi arranca nelle retrovie dispersive della politica minore. La collega di Rai 3, oltre a un medagliere di riguardo, sfoggia una collezione di vittime illustri. Esibendo un servizio sulle oche spiumate, che ha inorridito anche animalisti tiepidi, ha contestualmente spennato Moncler, azienda leader in Italia e altrove nella confezione di piumini, provocando un disastro economico che neppure Maurizio Landini sarebbe stato all'altezza di eguagliare. Giustamente, la Gabanelli se ne vanta. Grazie a lei la lotta al capitalismo si è giovata di un contributo importante. In ordine di tempo, l'ultimo trofeo esposto nella bacheca della giornalista dall'infallibile mira è stato Pietro Ciucci, da dieci anni presidente dell'Anas. È bastato un raglio di Report per costringere costui a dimettersi.

La realtà, però, è un'altra cosa...

Valium, antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine, ipnotici e oppiacei, questi sono gli psicofarmaci somministrati ai detenuti per contenerli e sedarli, scrive Damiano Aliprandi su "Il Garantista". L’istituzione carceraria si serve così della psichiatria per stemperare il conflitto, e garantirsi una maggiore sopportazione, da parte dei detenuti, delle situazioni di degrado e sovraffollamento che sono costretti a subire. Inoltre c’è il sospetto che dietro alcuni suicidi che avvengono al carcere ci sia l’ombra dell’abuso degli psicofarmaci. C’è il caso di Alessandro Simone, il 28enne bitontino che si è tolto la vita il 28 maggio di quest’anno nel carcere di Bari, è che l’autopsia ha negato la presenza di lesioni e violenze esterne. Il calvario di Alessandro comincia il 13 marzo, quando è associato al carcere del capoluogo pugliese con le accuse di detenzione d’arma (non trovatagli addosso, ma in campagna e ricondotta a lui) e di maltrattamenti familiari (avrebbe picchiato la sua compagna, più grande di lui, che poi ha esporto denuncia). Una volta in carcere, il giovane bitontino viene posto nella sezione dei cosiddetti “sex offender”, cioè il reparto degli stupratori e di chi ha commesso violenze sessuali, ed è sottoposto a regime di sorveglianza h24, perché tenta due volte il suicidio (impiccagione e taglio delle vene) ed è considerato un “soggetto problematico”. Nonostante la sorveglianza, il ragazzo si sarebbe impiccato nel bagno.  Si sono aperte ben due inchieste per far luce su alcune zone ombra, soprattutto sulla sorveglianza che non c’è stata. La famiglia del giovane bitontino, però, vuole andare oltre e capire, per esempio, che ruolo abbiano avuto gli psicofarmaci che Alessandro assumeva in carcere, proprio perché “soggetto problematico”. Secondo la famiglia queste forti assunzioni di psicofarmaci, forse non bene coordinati tra loro, piuttosto che aiutarlo lo hanno indebolito e portato ad atti autolesionistici. Recente è anche la denuncia di Rita Bernardini, segreteria di radicali italiani, nel corso della scorsa audizione nella commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani presieduta dal senatore Luigi Manconi, ove ha dichiarato che «nelle carceri si risparmia su tutto, anche nel materiale di pulizia della cella, tranne che sugli psicofarmaci, che consentono a persone provate dalla detenzione di poter superare questo stato. È molto alta infatti, intorno al 25% la percentuale di persone detenute che hanno precedenti di tossicodipendenza ». Molte richieste di psicofarmaci, infatti, sono fatte soprattutto dai detenuti tossicodipendenti che cercano di sostituire con essi la sostanza stupefacente.  Le maggiori richieste sono rivolte alle benzodiazepine, i tranquillanti che riuscivano a trovare e che usavano anche prima della carcerazione nei periodi di astinenza. I tossicodipendenti cercano di procurarsene dosi molto elevate. Fingendo di ingoiare la compressa per poi sputarla non appena l’infermiere o l’agente se ne va, riescono ad accumulare più dosi per ottenerne una consistente e quindi più forte, quasi quanto una vera dose di droga. Tutto ciò ha costretto il corpo dei medici penitenziari alla prescrizione di formulazioni farmaceutiche in gocce che, a differenza delle compresse, se assunte davanti all’infermiere, difficilmente possono essere nascoste sotto la lingua. Per l’esperienza accumulata all’esterno, i tossicodipendenti conoscono i farmaci molto bene. Scrive lo studioso del settore Daniel Gonin: «Il Transene 5 o 10 per esempio gli sembra ridicolo; per loro una vera prescrizione non ha senso che a partire da una compressa di 50 mg”; e frasi come ”La compressa rosa dottore, quella rosa e non la capsula rosa e bianca o tutta bianca” sono assai frequenti». Continua Gonin: «È con i drogati che ho imparato a conoscere i diversi colori delle medicine alle quali prima non sapevo che dare un nome, o attribuire una formula molecolare difficile da ricordare. Ma il valium bianco, giallo o blu, o meglio ancora il Xanax color pesca, li avevo ignorati!». È chiaro quindi che il problema della richiesta di psicofarmaci da parte dei tossicodipendenti è particolarmente difficile: da una parte l’inevitabile sofferenza del detenuto e dall’altra la necessità di tutelare la sua salute e di intraprendere la strada della disintossicazione. Il ”divezzamento” è fonte, secondo Gonin, di molteplici controversie. Egli si chiede se sia lecito fornire legalmente una droga illecita oppure somministrare una droga di sostituzione come il metadone, che crea minori rischi per la salute dei consumatori, permettendo loro al contempo, di ottenere un discreto inserimento sociale; o se sia più opportuno rimpiazzare la droga con dei medicinali dei quali si diminuirà progressivamente la dose per permettere una disintossicazione senza traumi: questo atteggiamento terapeutico ha il vantaggio di alleviare rapidamente l’astinenza e di procurarsi la riconoscenza del drogato, ma non è privo di effetti di natura tossicomanica. Inoltre risulta estremamente difficile ridurre le dosi dei medicinali prescritti, il che conferma chiaramente l’instaurazione di una nuova forma di tossicodipendenza nel soggetto. Infine l’autore si chiede se non sia più opportuno astenersi, rifiutando qualsiasi prescrizione di una molecola chimica e lasciare che il processo di disintossicazione segua il suo corso, onde evitare di cadere da una consumazione di sostanze tossiche in un’altra. In Toscana la terapia adottata in carcere per la disintossicazione è costituita dalla somministrazione del metadone cloridrato, uno sciroppo ad alta percentuale di zucchero contenente questa sostanza oppiacea (il metadone) che funziona da ”sostitutivo” coprendo le crisi di astinenza. Al primo ingresso in carcere la terapia viene iniziata con un dosaggio massimo di 30 cc di metadone per 2 o 3 giorni, dando modo all’organismo di assestarsi, per poi cominciare a scalare di 1 cc al giorno. Nel corso di 30 giorni lo scalaggio (il metandone) è più o meno finito. L’articolo 5 del decreto ministeriale (n. 445, 19 dicembre 1990) stabilisce che il trattamento della tossicodipendenza da oppioidi con farmaci sostitutivi è limitato ai soggetti con comprovata dipendenza fisica. I programmi con metadone sono riservati ai soggetti per i quali altri tipi di trattamento non abbiano determinato la cessazione di assunzione di eroina o di altri oppioidi.  Alla fine del trattamento con metadone, il detenuto tossicodipendente può chiedere la somministrazione del Naltrexone, farmaco chimico utilizzato come ”scudo” contro l’eroina. Devono trascorrere 7/8 giorni senza che il detenuto assuma nessuna sostanza, nemmeno il metadone, dopodiché viene somministrato il Naltrexone che impedisce all’eroina di produrre qualsiasi effetto. Tale farmaco deve essere assunto per un minimo di 6 mesi, tutti i giorni. Il consumo molto elevato di psicotropi in prigione è una caratteristica dell’incitamento alla tossicomania da medicinali (farmacodipendenza), tipica dell’ambiente carcerario. La prigione, che già di per sé causa numerosi disturbi postumi nel detenuto tornato alla vita libera, ”fabbrica” così dei tossicodipendenti da farmaci. Molti sono gli ex detenuti che non riescono più a vivere senza tranquillanti e sonniferi. Il timore di diventare vittime dell’assuefazione viene spesso sentito già durante il periodo della carcerazione; in questi casi è lo stesso detenuto a chiedere al medico che lo psicofarmaco prescritto sia leggero nell’effetto come nella dose e, il suo uso, limitato ad un particolare momento di crisi. Il consumo eccessivo di psicofarmaci all’interno della popolazione carceraria è un problema ancora non risolto, anche se c’è la volontà, rara, di sostituire i farmaci con la psicoterapia. Il ricorso ad essa però è ostacolato dall’organizzazione sanitaria carceraria che prevedendo un solo psichiatra a fronte di centinaia di detenuti, non permette una ”presa in carico” di tutti i pazienti che necessitano di cure psichiatriche. Ma resta il vero problema ancora non affrontato di petto: i tossicodipendenti in carcere non ci dovrebbero proprio stare.

Tagli al personale che incidono anche sulle morti in carcere, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Ogni anno oltre cento detenuti muoiono per ”cause naturali”. A volte la causa della morte è l’infarto, evento difficilmente prevedibile, ma altre volte sono le complicazioni di malanni trascurati o curati male e un lungo deperimento, dovuti a malattie croniche. L’articolo 1 del Decreto Legislativo 230/99, sul riordino della medicina penitenziaria stabilisce che: «I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali». Dall’entrata in vigore di questa legge sono trascorsi 14 anni, nel corso dei quali le competenze sull’assistenza sanitaria dei detenuti avrebbero dovuto gradualmente passare dal Ministero della Giustizia a quello della Sanità: invece, quello che si è sicuramente verificato è stato il taglio delle risorse economiche destinate alle cure mediche per i detenuti, mentre l’attribuzione delle pertinenze è tuttora argomento di discussione e di confusione. Nel frattempo i detenuti morti per problemi di salute sono aumentati d’anno in anno. Ma l’assistenza sanitaria in carcere è molto complicata anche perché a volte i detenuti ”usano” la propria salute per cercare di ottenere migliori condizioni di detenzione – una dieta speciale, una cella singola, l’autorizzazione a fare la doccia ogni giorno, farmaci con i quali ”sballarsi” – oppure la detenzione domiciliare o il rinvio della pena. I medici, a loro volta, tendono a considerare tutti i detenuti dei simulatori, a minimizzare di fronte ai sintomi di una malattia, a rassicurare il paziente – detenuto sul fatto che ”non è niente di grave”. Il comportamento di entrambe le parti impedisce l’instaurarsi di un rapporto di fiducia, che pure sarebbe necessario per l’effettività e l’efficacia delle cure. Così, quando un detenuto muore, una azione di ”depistaggio” viene spesso messa in campo per scaricare su altri la responsabilità dell’accaduto, sia all’interno del carcere – gli agenti non l’hanno sorvegliato, i medici non l’hanno curato, gli psicologi non l’hanno capito, i magistrati non l’hanno scarcerato -, sia all’esterno – non è morto in cella, ma durante la corsa verso l’ospedale, oppure subito dopo l’arrivo in ospedale -, il che vuol dire: «Noi non c’entriamo, il carcere non c’entra, da qui è uscito ancora vivo». Ed è vero che ci sono delle indagini, che un fascicolo viene aperto in Procura, però le notizie diffuse dai mezzi di  informazioni si basano quasi sempre sulle versioni ”addomesticate” che provengono dal carcere. Fanno  eccezione solo i casi nei quali i famigliari o gli avvocati del detenuto morto s’impegnano fortemente perché venga fatta chiarezza sulla fine del loro congiunto e, allora, si arriva anche all’accertamento delle responsabilità, a sentenze di condanna, a volte alla rimozione di direttori e dirigenti sanitari.

Giustizia: per l'Unione europea la presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale, scrive Damiano Aliprandi su "Il Garantista" del 15 aprile 2015. Iniziato iter per la Direttiva. Il giustizialismo è diventato un problema europeo e la commissiono europarlamentare vuole correre ai ripari. "La presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale e anzitutto un principio essenziale che intende garantire da abusi giudiziari e giudizi arbitrari nei procedimenti penali!", ha dichiarato la francese Nathalie Griesheck, relatore del provvedimento in Commissione Libertà civili che prevede una normativa in grado di dissuadere le autorità giudiziarie nazionali dal fare dichiarazioni sulla colpevolezza di un condannato prima del giudizio definitivo, o che violino i principi dell'onere della prova (che spetta alla pubblica accusa), quello di rimanere in silenzio durante gli interrogatori e quello di essere presenti fisicamente al proprio processo. Questa "proposta di direttiva nasce dal fatto che notiamo un'erosione del principio di presunzione di innocenza in diversi Paesi membri", ha aggiunto sempre la Griesheck, Il provvedimento della Commissione pone anche il problema dei mezzi di informazione molto spesso legati con le autorità giudiziarie che fanno da megafono. Infatti l'emendamento richiede ai Paesi membri di vietare alle autorità giudiziarie locali di dare informazioni - incluse interviste e comunicazioni in collaborazione con i media - che potrebbero creare pregiudizio o biasimo nei confronti di indagati o accusati prima della sentenza finale in tribunale. L'europarlamento in pratica chiede di promuovere un vero e proprio codice etico e di rispettarlo. Un altro aspetto dell'emendamento è quello di non far travisare - attraverso i mezzi di informazione - la legittima facoltà di non rispondere dell'imputato come "prova" di colpevolezza. "L'esercizio di questo diritto - spiega sempre la relatrice Nathalie Griesbeck - non deve mai essere considerato come una conferma dì una tesi sui fatti occorsi". Con l'approvazione della Commissione ora inizia il negoziato con il Consiglio Uè per poi arrivare alla formale proposta di direttiva. Sempre attraverso la suddetta Commissione, in questi giorni, ci si sta occupando della situazione carceraria e il commissario Nìls Muiznieks ha espresso gratitudine per i miglioramenti apportati per rimediare al nostro sovraffollamento penitenziario, ma ha precisato che ancora non abbiamo risolto definitivamente il problema. Nel corso di un'audizione della Commissione Libertà civili, è stato ascoltato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e consulente del Governo Renzi sui problemi della giustizia e la lotta alle mafie, ha dichiarato di non rallegrarsi per quello che è stato detto dal Consiglio d'Europa sullo svuotamento delle carceri in Italia. Ma sempre per Gratteri la soluzione è la costruzione di nuove carceri e non subire ciò che dice l'Europa. Gratteri, ricordiamo, solo per un soffio al momento della formazione del Governo Renzi non diventò ministro della Giustizia così come era stato annunciato.

Giustizia: mille carabinieri in piena notte circondarono il paese di Platì, scrive Ilario Ammendolia e pubblicato su Cronache del Garantista del 14 aprile 2015. Fu un’operazione di guerra, si inventarono anche una città sotterranea, ma era un errore di stampa. Mamme strappate ai bambini, un ragazzo handicappato trascinato via. Le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di appello di Reggio Calabria l’altro ieri fanno definitivamente scoppiare come una bolla di sapone la “brillante” operazione “Marine”. Una Caporetto per il pm Nicola Gratteri. Ricordiamo i fatti: era l’alba del 12 novembre del 2003, quando scatta l’operazione “Marine” dedicata ai morti di Nassirya. Le truppe si muovono circondando un piccolo paese della Calabria: Platì! Sono un vero esercito. Si parla di mille uomini che avanzano protetti dalle tenebre verso l’Aspromonte. All’alba, l’assalto. Abitazioni forzate, pianto di bimbi, urla di donne. Sembra un territorio controllato dall’Isis ma l’operazione si svolge in Calabria, nel cuore della notte. Quando il sole sorge, i notiziari nazionali riportano come prima notizia i risultati della operazione di polizia: circa 150 gli arrestati. Più di duecento le persone denunciate. Un numero enorme per un paese così piccolo. E come se a Roma, in una sola notte, ci fossero centomila arresti! Si sarebbe gridato al colpo di Stato, ma qui siamo in Calabria ed è tutta un’altra storia. Poi i cellulari carichi di prigionieri scendono verso valle e man mano che si allontanano da paese, il cuore della gente di Piatì diventa sempre più piccolo. Non possono far altro che suonare le campane e rifugiarsi in Chiesa. Si rivolgono alla Giustizia di Dio, avendo constatato la fallacia di quella umana. Quei corpi in catene rappresentano la mortificazione estrema della persona umana. Sono l’altra faccia dei morti ammazzati sulle nostre strade. Quanti sono gli innocenti? Secondo i giudici quasi tutti. Per giorni l’operazione Marine tiene le prime pagine dei giornali, perfino i titoli principali del NY Times e della Bbc. Nel frattempo l’operazione fornirà altri mattoni per costruire l’immagine della “Calabria criminale” su cui scrivere libri seriali, produrre fiction e film che rasentano il razzismo e la diffamazione sistematica verso i calabresi. Già nelle prime ore dell’operazione, l’opinione pubblica verrà messa a conoscenza della protervia dei pubblici amministratori di Platì, così spavaldi da realizzare una città sotterranea chiamandola “zona latitanti”. Una colossale e cinica bugia. Infatti, una correzione automatica del computer trasforma la parola “latistanti” (distanza da due lati) in latitanti. Però l’inesistente città sotterranea entra nella leggenda. Per anni all’opinione pubblica viene raccontata un’altra storia. Si continua a parlare di una “brillante operazione” e nessun rappresentante delle istituzioni, in questi lunghi anni, troverà il coraggio di dire che s’è scritta una pessima pagina di (ingiustizia sommaria che dissanguerà le casse dello Stato e rafforzerà enormemente la ndrangheta, saldando in un fronte unico ‘ndranghetisti e cittadini perbene. Si eviterà di dire che in quella operazione è stato arrestato anche un povero portatore di handicap che non sapeva pronunciare il proprio nome e che per farlo salire sul cellulare i suoi compaesani gli hanno raccontato la pietosa bugia che lo avrebbero portato a Lourdes. Ho riproposto questa storia solo perché l’Italia sappia che alle varie operazioni “Marine” abbiamo il dovere di contrapporre “l’operazione verità”. Verità sulla Calabria! Dobbiamo raccontare a noi stessi, all’Italia e al mondo una verità cinicamente oscurata, ferita, stravolta dall’informazione di regime e dai poteri forti. Rifletta la “commissione” presieduta dal dottor Gratteri, insediata al ministero della Giustizia, su quanto è successo a Piatì. Prenda atto che “Marine” non è stata una operazione contro la ‘ndrangheta ma contro la Calabria, un oggettivo favoreggiamento alle organizzazioni criminali. Si acquisisca la consapevolezza che la ‘ndrangheta s’è legittimata grazie ad operazioni insensate come quella di Platì. L’attuale classe dirigente che sa di pecorume continuerà a nascondere la testa nell’erba, parlando d’altro! Ciò ha reso possibile che in nome della falsa legalità venisse imposto un pesante basto e una stringente bardatura al popolo calabrese ed italiano. In nome della legalità si stanno colpendo al cuore i diritti dei cittadini soprattutto dei più deboli. Noi ci collochiamo in un altro emisfero e non abbasseremo la testa. Alla legalità formale contrapponiamo l’antindrangheta dei diritti. Diritto di fare impresa, diritto al lavoro, diritto alla vita ed alla sicurezza. Diritto di dormire tranquilli quando non si commettono reati né prepotenze di sorta, senza la paura che qualcuno ti metta una bomba estorsiva o, peggio ancora, che, nell’ombra qualcuno trami “legalmente” contro la tua libertà solo perché non intendi chinare la testa, né trovarti un “protettore”.

Il mostro è innocente, scrive Davide Varì su "Il Garantista" del 15 aprile 2015. Contrada era un servitore dello Stato e non un uomo al servizio dei boss. L’ha stabilito ieri la corte di Strasburgo: «L’accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». Poche parole che radono al suolo 23 anni di indagini, centinaia di udienze, polemiche feroci, bugie e mezze verità.  Come quella di Antonino Caponnetto che in un’aula del Tribunale riferì che Giovanni Falcone «disprezzava» il poliziotto del Sisde. Di più, nel corso del processo di primo grado a Contrada, l’ex capo del pool di Palermo raccontò un episodio che avrebbe dovuto definitivamente chiarire il rapporto conflittuale e avvelenato tra l’ex uomo del Sisde, il traditore di Stato, e l’icona antimafia, Giovanni Falcone: «Quando Contrada venne interrogato sull’omicidio Mattarella – raccontò Caponnetto – mi rimase impresso un gesto di Falcone: una volta che Contrada ebbe terminato, entrambi, io e Falcone, ci alzammo per stringergli la mano. Poi Falcone la fissò per qualche istante e la pulì vistosamente sui pantaloni. Era un chiaro segno di ribrezzo». Ma qualcosa non torna: il fatto è che quel giorno il giudice Falcone non era in aula. Di più l’interrogatorio a Contrada non era stato verbalizzato dall’ufficio istruzione di Falcone ma dal procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno in persona, come verificarono gli avvocati e pochi, coraggiosi, giornalisti. E di fronte alla richiesta di qualche straccio di prova di quel che andava dicendo, Caponnetto cambiò versione e, con un’alzata di spalle, disse che forse si era sbagliato, che Falcone non lo disse in aula ma, “eventualmente”, nel suo studio. Ma questa è solo anedottica che pure ha contribuito a distruggere la carriera, e la vita, dello 007 italiano. La vita di Bruno Contrada va in frantumi la notte di Natale del 1992. Quattro pentiti sostengono che lui è il riferimento della mafia siciliana e tanto basta a rinchiuderlo preventivamente nel carcere militare di Forte Boccea dal quale uscirà solo 31 mesi e 7 giorni dopo. «Non c’era nessuna necessità di arrestarmi la vigilia di Natale – racconterà molto tempo dopo Contrada -. Avevo il telefono sotto controllo, sapevano benissimo che avrei passato le feste a casa con i miei figli. In anni di servizio non mi è mai capitato di arrestare i criminali nel giorno di Natale…». Nel frattempo la pratica passa ad Antonio Ingroia che nel ‘95 – e anche grazie agli “aneddoti” di Caponnetto -ottiene una condanna a 10 anni di carcere per concorso esterno. Nella sua requisitoria, Ingroia accuserà Contrada di essere «un funzionario a totale servizio di Cosa nostra, l’anello di una catena all’interno di un patto scellerato tra pezzi dello Stato e la mafia, responsabile del tradimento nei confronti di Boris Giuliano e Ninì Cassarà fino ad arrivare alla strage di Capaci». Contrada cascò dalle nuvole, era legato da una fortissima amicizia con Cassarà, il poliziotto ucciso dai corleonesi nell’agosto dell’85:«Avevo un rapporto fraterno con Ninì, ci chiamavano Castore e Polluce. Quando lasciai il comando della Mobile di Palermo lo lasciai a lui, lo lasciai per lui…». Passano gli anni, 5 per la precisione, il processo arriva di fronte ai giudici della Corte d’Appello di Palermo che sconfessano l’istruttoria e ribaltano il primo grado: Contrada viene assolto perché il fatto non sussiste, ma nel 2002 la Cassazione decide che l’Appello va rifatto davanti a una diversa sezione della Corte di Palermo. Il nuovo appello, dopo 35 ore di camera di consiglio, conferma la condanna a 10 anni di carcere e nel 2007 la Cassazione conferma la sentenza.  Contrada torna in carcere, a Santa Maria Capua Vetere, e chiede la revisione del processo che, dopo un lungo tira e molla, viene negata: «La richiesta è inammissibile», scrivono i giudici. L’odissea giudiziaria, a quel punto, sembra finita. Per la giustizia italiana Bruno Contrada è un funzionario dei Servizi al soldo dei clan. Iniziano le pratiche per la richiesta di grazia che lui rifiuta: «Sono un servitore dello Stato e sono innocente, non voglio nessuna grazia. Dallo Stato mi aspetto un grazie e non una grazia», ripeterà dal carcere dove vive sempre più isolato e malato. Al solo sentir parlare di grazia, Rita Borsellino, la Fondazione Caponnetto e la Fondazione Scopelliti, levano gli scudi e, nonostante le gravi condizioni di salute dell’ex 007, chiedono un incontro con Napolitano per bloccare qualsiasi iniziativa. L’associazione delle vittime di via dei Georgofili tira addirittura in ballo presunti ricatti da parte di Cosa nostra allo Stato. Sono i primi indizi della teoria della trattativa tra Stato e mafia: «È importante da parte delle massime Istituzioni – spiega l’Associazione – ascoltare la voce di chi come noi ha pagato un prezzo incredibile, perché servitori dello Stato hanno tradito questo Paese. Ma soprattutto perché si sappia fino in fondo, che la mafia in carcere condannata per le stragi del 1993 sta giocando una partita per lei molto importante a suon di ricatti». E qui occorre aprire una parentesi. Contrada aveva infiltrati, confidenti e poteva contare su tutta quella serie di legami indispensabili per un uomo del Sisde. Chi lavora per i Servizi si muove su un crinale ambiguo, vive al confine della linea d’ombra, lì dove le regole del normale ingaggio saltano, si trasformano, diventano più flessibili. E proprio lì, lungo quel confine, si creano legami veri e legami ambigui, ci sono amici e nemici, si fanno patti che un minuto dopo si tradiscono. E proprio grazie a quei patti (o tradimenti) Contrada arrivò a un passo dalla cattura di Bernardo Provenzano. Siamo alla fine di novembre del ‘92. Lo 007 ottiene notizie confidenziali su alcune utenze che fanno riferimento al nascondiglio di Provenzano. Erano i numeri di un nipote del boss che faceva da tramite tra lo zio e gli uomini di Cosa nostra. Contrada si ferma: il suo compito è quello di raccogliere informazioni e passarle agli “operativi”. Allora va a raccontare tutto al capo della Criminalpol, il quale gli dà l’incarico di scegliersi gli uomini migliori per portare a termine l’operazione Provenzano. Contrada si mette immediatamente al lavoro e nel giro di poco tempo riesce a beccare il nascondiglio del boss. E con il covo sotto controllo la sua cattura era davvero a un passo. Lui riferisce ai superiori e rimane in attesa dell’ok, ma qualche giorno dopo arriva una velina dal ministero dell’Interno che chiede di sciogliere la squadra messa in piedi da Contrada con effetto immediato. Pochi giorni dopo lo 007 viene arrestato. Mistero. Due le ipotesi: o il ministero sapeva che su Contrada c’era un’indagine che di lì a poco lo avrebbe portato in galera, oppure l’ex 007 finisce in galera perché Provenzano doveva restare uccel di bosco. E se così fosse, non solo l’ex 007 non sarebbe un uomo della trattativa, ma una vittima sacrificale. Del resto le mancate catture di Provenzano hanno lasciato sul campo tante vittime e costruito nuovi eroi tra togati e giornalisti. Ma questa è un’altra (strana) storia. Torniamo al 2007 e a quella richiesta di grazia che viene regolarmente negata. Contrada a quel punto finisce in ospedale: ha perso 22 chili e i suoi avvocati chiedono il differimento della pena e la richiesta dei domiciliari proprio per le gravi condizioni di salute del condannato. Le associazioni protestano ancora una volta e il presidente Napolitano – memore delle “minacce” sulla trattativa Stato mafia – scrive al Guardasigilli per bloccare tutto: Bruno Contrada può tranquillamente morire in carcere. Lui è rassegnato da tempo e arriva addirittura a chiedere l’eutanasia. Uscirà dal carcere, malato e umiliato, solo nel 2012. Prima della sentenza di ieri, nel 2014 Strasburgo aveva già condannato l’Italia: «La detenzione era incompatibile con il suo stato di salute», e ora, a distanza di 23 anni da quel giorno di Natale in cui fu trascinato in carcere, sempre dall’Europa arriva una seconda sentenza che rade al suolo decenni di controversie legali: l’ipotesi di aver aiutato i boss siciliani non è sufficientemente chiara, dicono i giudici. Fin qui la fredda cronaca. Ma la storia di Contrada è piena di chiaroscuri, di detti e non detti, ed è attraversata da vicende che si impastano con la storia più cupa e contraddittoria della nostra Repubblica e dei nostri eroi presunti.

«Il mio strazio aiuterà a costruire la vera giustizia», scrive Errico Novi su “Il Garantista. Esultanza? Non proprio. Né a casa Contrada, né nello studio del suo simpaticissimo avvocato, Giuseppe Lipera. «Non va bene», dice il legale, che ha il quartier generale a Catania e fatica a comunicare con il suo assistito, letteralmente bombardato di telefonate. «Non va bene perché la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sì stabilito che Contrada non avrebbe potuto essere condannato per un reato non previsto all’epoca dei comportamenti contestati, ma è pur vero che i giudici di Strasburgo non mettono in discussione la sussistenza di quella assurda fattispecie». Cioè del concorso esterno in associazione mafiosa, che in effetti non è definita da uno specifico articolo del codice penale ma è l’esito della combinazione di più reati così come la giurisprudenza italiana li ha “armonizzati”. «Ci vediamo a Caltanissetta», dice dunque Lipera, «lì ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo e la Corte d’Appello mi ha fissato l’udienza per il 18 giugno». E la sentenza con cui i giudici della Cedu hanno condannato lo Stato italiano a risarcire l’ex numero due del Sisde? Possibile che non peserà, davanti ai magistrati italiani «Sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna», dice il legale. Lui, il perseguitato, l’uomo che è stato stritolato per 23 anni da una macchina processuale infernale, ha invece per sé solo un aggettivo: «Sono frastornato».

Come ”frastornato”, dottor Contrada?

«E sì. Quando l’avvocato Lipera mi ha chiamato sono entrato un po’ in confusione. Sa com’è: dopo 23 anni non me l’aspettavo».

Stenta a crederci.

«Sì, non ci contavo. Anche se avevo già avuto una sentenza favorevole, dalla Corte europea, per l’ingiusta detenzione. Avrei avuto diritto ai domiciliari, anche per la mia età e il mio stato di salute. Ma la distruzione di una vita non si risarcisce neppure con 10 miliardi».

In pratica i giudici di Strasburgo dicono che lei ha fatto da ”cavia di laboratorio” per un reato definito successivamente.

«Sì è vero: ho fatto proprio da cavia. Si sono detti: se funziona, facciamo così anche con gli altri».

Un esperimento.

«Un preludio al processo Andreotti. Difatti, il processo Andreotti iniziò subito dopo la mia condanna. E il giudizio di primo grado a suo carico fu celebrato davanti alla stessa sezione penale che aveva condannato me. Stessa cosa: in appello: il processo di secondo grado ad Andreotti finì davanti alla stessa sezione che aveva condannato il sottoscritto».

Come andare sul sicuro. Ma la sentenza di Strasburgo segnala una giustizia italiana lasciata all’arbitrio assoluto dei magistrati?

«Non sono in grado di dare un giudizio del genere, andrei oltre i miei limiti. Allo stato attuale sono un cittadino condannato, non ho la veste per giudicare coloro che mi hanno giudicato. Ben altri organi possono valutare la condotta dei magistrati che si sono occupati di me: Csm, Parlamento, ministero della Giustizia. Un semplice cittadino non può».

E lei si aspetta che l’operato di giudici e pm del caso Contrada venga effettivamente messo in discussione?

«Non mi aspetto che il Csm se ne occupi, non penso lo farà. Ogni magistrato può valutare i fatti come vuole e il Csm non lo può sindacare».

La sentenza di Strasburgo peserà sulla richiesta di revisione del processo presentata dal suo avvocato a Caltanissetta?

«Vedremo, è un incrocio giuridico complesso. Ora so solo che secondo la Corte europea non avrei dovuto essere condannato».

Avverte almeno un sollievo?

«So di aver lottato per anni. Di aver fatto tutto il possibile per dimostrare che non era vero niente. Contro la sentenza di condanna ho prodotto dieci volumi di motivi di appello, più venti volumi di motivi aggiuntivi».

Erano sentenze già scritte?

«Sì, guardi, è così: io sono stato condannato nel momento stesso in cui mi hanno arrestato, il 24 dicembre 1992.

Ingroia dice che la Corte europea ha preso una cantonata.

«Posso fare un’obiezione?»

E siamo qui apposta, dottore.

«Lui deve dimenticare di essere stato magistrato inquirente e requirente al mio processo. È un avvocato, adesso, pensi ai suoi assistiti e non agli ex inquisiti o imputati. Il mio processo è il suo fiore all’occhiello, ma non è che può stare sempre lì a esibirlo».

Basta sventolare sempre la stessa bandiera.

«Faccia l’avvocato, adesso. Non è più un pm».

I processi si celebrano in tv e sui giornali più che in tribunale?

«Io non voglio accusare nessuno».

Che senso dà alle sofferenze che ha vissuto?

«Mi hanno rubato la vita, so solo questo».

La sua vicenda potrà contribuire a cambiare la giustizia?

«Sì, spero possa essere utile a qualcosa, indipendentemente da come si chiude il mio caso.

Che non si è ancora concluso. Mi interessa la giustizia italiana, devo dire, più che quella europea. La sentenza di Strasburgo è importante, senza dubbio, ma deve essere un tribunale italiano a dire che sono stato condannato e messo in prigione da innocente».

Non si sente risarcito?

«Nessuna cifra può ripagare la distruzione di un uomo da punto di vista morale e fisico, civile e sociale, professionale e familiare. Non è questione di prezzo, non mi interessa. Voglio essere giudicato innocente da un tribunale italiano. In nome del popolo italiano, va emessa la sentenza».

Il tempo è davvero galantuomo come dicono?

«E cosa posso dirle? Ho 84 anni, dall’arresto ne sono passati quasi 23. Comunque, guardi: mi farebbe piacere poter leggere il Garantista perché non lo distribuite in Sicilia?»

Siamo nati da poco, un passo per volta.

«Sì ma qui a Palermo la maggior parte dei giornali che mi piacerebbe sfogliare non è disponibile in edicola: il Garantista, il Foglio, il Tempo, l’Opinione. Non trovo neppure il Mattino di Napoli, che è il giornale della mia città».

Adesso non ci colpevolizzi, dottore. I distributori chiedono cifre folli, sa? E poi c’è la versione on line, potrebbe leggerci comodamente.

«E no. A internet non mi converto, può giurarci. Sono fermo a penna e calamaio».

Dottore, in questi anni l’ha aiutata la fede in Dio?

«Mi ha aiutato la mia forza morale. E la coscienza di non avere nulla da rimproverarmi».

Perchè leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca  

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.  

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il bene placido delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA……

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

La negligenza dei PM. Marianna Manduca e le altre o gli altri.

Per la Corte di Cassazione 12 denunce disattese valgono “la negligenza inescusabile” dei PM.

Commento di Antonio Giangrande. Scrittore e sociologo storico.

Trattare il caso di Marianna Manduca, anche in video, è come trattare miriadi di casi identici, così come ho fatto in “Ingiustiziopoli. Disfunzioni del sistema che colpiscono i singoli”, e mi porta ad affrontare un tema che tocca argomenti inclusi in vari saggi da me scritti e pubblicati su Amazon.it e su Lulu.com o su Createspace.com.

Per la verità la decisione della Corte di Cassazione, tanto enfatizza dai media, è intervenuta solo per affermare un principio giuridico formale. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (Carmelo Calì che è un cugino della loro mamma che vive a Senigallia, nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore.

La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ha affermato che  i figli di Marianna ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce.

Tanto si è parlato del caso di Marianna Manduca. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce della donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. Il padre uxoricida è stato condannato a soli venti anni di reclusione. Le aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo, nonostante le sue richieste di aiuto.

«Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato». Ergo: sbagliano le toghe, pagano gli italiani, muoiono le vittime.

Ma a tutti è sfuggito un particolare importante che porta a chiederci: per le toghe quante denunce insabbiate valgono una vita umana? Una, due, tre, dieci…Oppure fino a che punto lo stantio o l’inerzia provoca l’inevitabile evento denunciato?

E perché, come ai poveri cristi, alle toghe omissive non viene applicato il reato di omissione d’atti di ufficio, ex art. 328 C.P.? Non si paventa il dolo omissivo?

Non si pensi che la morte di Marianna Manduca sia un caso isolato e riferito solo alla trinacride magistratura. Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. «La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

La sua storia è esemplare: è il padre di Carmela. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Invece di perseguire chi l’aveva violentata, hanno di fatto perseguito una bambina rinchiudendola in vari istituti in cui Carmela non voleva stare. E, come ha denunciato il padre, usando il metodo facile di «calmarla» con psicofarmaci.

Fin qui la questione attinente al femminicidio.

L’uomo orco da scotennare? No! C’è un paradosso da non sottovalutare. Se i Pm insabbiano, i giudici sono punitivi.

«Giudici punitivi, sempre dalla parte delle madri. E padri disperati: troppe le storie quotidiane di sofferenza atroce». E’ agguerrito Alessandro Poniz di Martellago (Ve), coordinatore Veneto dell’associazione Papà Separati. Esprime la rabbia e la frustrazione che ogni giorno tanti genitori «vessati dall’ex coniuge» riversano su di lui. «Ci si scontra continuamente con madri “tigri” tutelate dalla legge - accusa Poniz - . Non mi stupisce il dramma del papà di Padova. Sì, sono convinto che per la disperazione si possa arrivare a togliersi la vita. Sapete quanti padri si presentano puntuali a prendere i figli, secondo le sentenze stabilite dai tribunali, suonano il campanello e vengono mandati via dalla madre con la scusa che il bimbo è ammalato? Escamotage simili vanno avanti per anni... E quanti scontano l’odio e il rancore di figli “plagiati” dalle madri?».

«Il sistema non è mai pronto a intervenire tempestivamente», sostiene Alessandro Sartori, presidente Veneto dell’associazione italiana avvocati per la famiglia e per i minori (Aiaf). «Ci vorrebbe una formazione specifica sia per i giudici che per i servizi sociali. A volte sono chiamati a pronunciarsi su questa materia delicatissima giudici che fino al giorno prima si occupavano di diritto condominiale...».

Divorzi e paternità: ecco come la donna violenta l'uomo. False denunce e false accuse tra violenze fisiche, verbali e paternità negate. Nella coppia la donna diventa sempre più violenta. Ecco i risultati sconcertanti del questionario, scrive Nadia Francalacci  su “Panorama”. “Sono prive di fondamento le teorie dominanti che circoscrivono ruoli stereotipati: donna/vittima e uomo/carnefice”. Ad affermarlo è la psicologa forense Sara Pezzuolo, dopo aver condotto in Italia la prima “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”. “Dal questionario emerge come anche un soggetto di genere femminile sia in grado di mettere in atto una gamma estesa di violenze fisiche, sessuali e psicologiche - continua a spiegare a Panorama.it, l’esperta - che trasformano il soggetto di genere maschile in vittima”.

E quando gli affidi diventano scippi e le vittime sono i figli ed entrambi i genitori?

Ci sono i falsi abusi, ma che realizzano vere tragedie. Solo 3 denunce su 100 si concludono con una condanna.

Minori strappati dalle mura domestiche e rinchiusi all’interno di comunità.  Storie di sofferenze, abusi, maltrattamenti, ma anche di errori giudiziari, che segnano indelebilmente la vita di minori, costretti a vivere e crescere in comunità o famiglie affidatarie lontane dall’affetto dei genitori.

Da quanto detto si estrae una semplice conclusione. Il sistema esaspera gli animi ed il debole soccombe. Non vi è differenza di sesso od età. Solo i media esaltano il fenomeno del femminicidio. Lo fanno per non colpire i veri responsabili: i magistrati.

Bene. Anzi, male. Perché se è vero, come è vero, che  questo sistema della stagnazione delle denunce o la loro invereconda procedibilità viene applicato anche per qualsiasi altro tipo di reato violento, allora si è consapevoli del fatto che ogni vittima è rassegnata al peggio. Si badi bene. Qui si parla anche di vittime di estorsioni. Quindi vittime di mafia. Senza parlare poi delle vittime di errori giudiziari.

Ecco, allora, chiedo a Voi toghe. Quando scatterebbe la “la negligenza inescusabile” dei PM che provoca morte o rassegnazione, dopo una, due, tre, dieci…denunce? Ce lo dite con una vostra alta sonante pronuncia, in modo che noi vittime, poi, teniamo il conto di quelle già insabbiate. Se poi, in virtù dell’indifferenza sopravviene la morte, chissà, forse i nostri figli si potranno rivalere economicamente, non sui responsabili, come sarebbe giusto, ma, bontà vostra, sui nostri e vostri concittadini che pagano le tasse anche per quei risarcimenti del danno. Danni riferiti a responsabilità dei magistrati, ma non a questi addebitati. 

Giustizia per Marianna, uccisa dopo 12 denunce, scrive Gianluca Mercuri su “Il Corriere della Sera”. Marianna Manduca aveva 32 anni quando, il 3 ottobre 2007, il suo ex marito Saverio Nolfo la ammazzò con dodici coltellate. Dodici come le denunce che la ragazza aveva presentato alla Procura di Caltagirone, senza che nessuno prendesse sul serio le minacce e le aggressioni, perfino pubbliche, che subiva. Accadde a Palagonia, nel Catanese, e pochi giorni dopo Marianna avrebbe vinto la lunga battaglia giudiziaria per l’affidamento dei tre figli. L’uomo sconta una condanna a vent’anni, ma finora la vittima non aveva mai avuto vera giustizia, né in vita né in morte. Ora forse un inizio di giustizia c’è. Il 12 settembre la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del cugino di Marianna, tutore dei suoi figli, che vivono con lui e la sua famiglia nelle Marche. In base a questa sentenza, la Corte di Appello di Messina non potrà più respingere per scadenza dei termini la richiesta di risarcimento ai tre ragazzi per la “negligenza inescusabile” dei pubblici ministeri che avrebbero dovuto prendere in esame le denunce della madre. Per i giudici messinesi, l’istanza andava presentata entro due anni dalla morte di Marianna. La Cassazione li costringerà a ragionare: la scadenza dei termini va calcolata «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», cioè dal giorno in cui un adulto è stato nominato loro tutore, cosa avvenuta solo nel dicembre 2010. Il rifiuto di ammettere la richiesta di indennizzo era stato solo l’ultimo affronto della giustizia di questo paese a Marianna Manduca e alla sua memoria. Prima c’era stata l’inerzia di fronte alle sue denunce, e prima ancora l’incredibile decisione di affidare i bambini al padre, nullatenente e tossicodipendente ma capace – dopo avere di fatto sequestrato i figli e impedito per mesi alla madre di vederli – di plagiarli fino a indurli a mostrarsi ostili a Marianna nelle udienze in cui si discuteva la loro sorte. La giustizia ci cascò: quando stava finalmente per rimediare, arrivarono le pugnalate di Saverio Nolfo. Alla ragazza non era bastato il coraggio di lasciare il marito dopo anni di violenze. La sua storia (raccontata da Amore criminale su Raitre e visibile su YouTube) ricalca le tante lette e ascoltate troppe volte: un amore ingenuo, l’errore di cedere alla richiesta di rinunciare al proprio lavoro, l’inizio dell’incubo, la vergogna e il terrore di ribellarsi: «Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante». Sono parole di Marianna. Poi Marianna la paura seppe vincerla, ma non le bastò. L’invito giusto e ovvio che viene sempre rivolto alle donne nella sua situazione – smettete di subire, affidatevi alle istituzioni – lei lo accolse ma le istituzioni la presero a botte come il marito. Ora che finalmente la Cassazione ha cambiato il corso di questa storia, sarebbe bello che la Corte di Appello di Messina e la Presidenza del Consiglio – nei cui confronti è stata avanzata la richiesta di risarcimento per gli orfani – si arrendessero al buon senso e la dessero vinta, senza il minimo ostruzionismo, a chi si prende cura di quei ragazzi. In nome di Marianna Manduca, sette anni fa vittima di femminicidio.

La Cassazione: «Dai pm negligenza inescusabile. Ora lo Stato risarcisca i figli di Marianna», scrive “La Sicilia”. Per la Cassazione i magistrati non diedero importanza alle denunce di donna poi uccisa dal marito ed è per questo che i suoi tre figli hanno diritto ad un risarcimento. La vicenda si riferisce all’omicidio di Marianna Manduca - uccisa il 3 ottobre del 2007 con dodici coltellate a Palagonia – vittima delle furia del marito nonostante essa l’avesse già denunciato dodici volte alla Procura di Caltagirone le intenzioni omicide dell’ex marito Saverio Nolfo. La Corte Suprema, sulla base della legge del 1988 sulla responsabilità civile dei magistrati, ora potranno avere un risarcimento dallo Stato per la «negligenza inescusabile» dei pm che avrebbero dovuto invece occuparsi di quelle denunce. La Cassazione ha insomma accolto la richiesta del legale dei tre adolescenti, l’ex pm antimafia Aurelio Galasso. La Suprema Corte ha accolto il ricorso con il quale il tutore dei tre bambini (che è un cugino della loro mamma che vive nelle Marche) ha fatto valere il diritto dei piccoli a ottenere giustizia. La Corte di Appello di Messina non potrà più respingere la richiesta sostenendo che sono scaduti i termini e che l’azione andava esercitata entro i due anni dalla morte di Marianna. Per la Cassazione invece le argomentazioni dei magistrati messinesi «non hanno giuridico fondamento» perchè - spiegano i supremi giudici - il termine biennale, in un caso del genere, non può decorrere dal giorno della morte della donna ma «dal momento in cui i minori stessi avessero acquistato la capacità di agire», ovvero dal giorno in cui un adulto veniva ufficialmente nominato loro tutore. La Corte di Appello ora deve considerare valida la domanda risarcitoria avanzata nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri a nome dei tre figli di Marianna. Il padre uxoricida è stato condannato a venti anni di reclusione. La aggressioni alla ex moglie erano tutte avvenute in pubblico. Ciò nonostante nessuno condusse indagini, e nemmeno prese provvedimenti a tutela della donna in pericolo nonostante le sue richieste di aiuto. L’aggressione fatale avvenne alla vigilia della sentenza che doveva affidare i tre bambini alla mamma dopo la separazione. L’omicida accoltellò non solo la donna, ma colpì gravemente anche Salvatore Manduca (59 anni), il padre di Marianna, l’unico uomo che l’ha difesa.

Marianna Manduca, geometra di 32 anni di Pagonia, Catania aveva denunciato suo marito Saverio Nolfo ben 12 volte per percosse e minacce, tutte avvenute in pubblico, ma l'autorità giudiziaria non ha mai preso provvedimenti. Poi 12 coltellate hanno posto fine alla vita della donna, scrive Michele Pinoto su “Vivere Senigallia”. Ora i suoi tre figli, di 3, 5 e 6 anni, sono affidati ad una famiglia senigalliese. La storia di Marianna Manduca ha dell'incredibile. Dopo la separazione dal marito, Saverio Nolfo, 36 anni, tossicodipendente, è iniziato un vero e proprio inferno. Nolfo l'ha picchiata più e più volte, tanto che la donna ha presentato ai carabinieri ben 12 denuncie. Il presidente del tribunale ha in un primo momento affidato i tre figli della coppia al marito,  nonostante fosse nullatenente e tossicodipendente mentre Marianna aveva un lavoro fisso. Dopo una difficile e lunga battaglia legale la donna è riuscita a riprendere i bambini in via temporanea. A pochi giorni dalla sentenza che le avrebbe affidato i figli in via definitiva e le avrebbe quindi permesso di trasferirsi lontano, a Milano dove aveva dei parenti, il marito la tampona con l'auto, per costringerla a fermarsi, poi accoltella il padre della donna ed infine la uccide con 12 coltellate. "Spesso la legge non tutela le donne, ma in questo caso anche quelle previste non sono state applicate - denuncia l'avvocato Corrado Canafoglia - è incredibile che 12 dodici aggressioni avvenute in strada, pubblicamente e alla presenza di testimoni l'uomo non sia stato allontanato. Non appena sarà nominato il nuovo Ministro Guardasigilli chiederemo un ispezione ministeriale per sapere chi non ha svolto il proprio dovere e per intraprendere un'azione giudiziaria". Per rendersi conto dell'incubo vissuto dalla donna possiamo leggere alcune delle sue parole: "Ho riferito circostanze precise in merito all'ultima vile aggressione (non saprei definirla diversamente) perpetrata nei miei confronti culminata addirittura a colpi di sedia. Aggressione, che mi ha costretto ad abbandonare la residenza familiare per evitare ben più gravi conseguenze. In quella occasione i sanitari della guardia medica mi refertarono acchimosi in tutto il corpo. Ancora oggi porto i segni di tale aggressione. Purtroppo però quella non è stata l'unica volta che ho subito violenze. Mi ha sempre minacciato di morte se avessi raccontato a chiunque quello che mi faceva e a causa di ciò ho sempre temuto per la mia incolumità e per quella dei miei figli. Capisco che è difficile, a chi non ha mai vissuto nulla di simile, comprendere tutto ciò, soprattutto comprendere come sia possibile patire tutto e sempre in silenzio, ma avevo molta paura e il clima in cui vivevo era davvero pesante. Non ho mai raccontato prima di ora questi gravissimi episodi solo ed esclusivamente per paura ed anche perché mio marito minacciava ritorsioni contro i miei figli". Dopo l'omicidio Nolfo è stato arrestato ed i tre bambini sono stati affidati a Carmelo Calì, cugino di Marianna e residente a Senigallia. "Quando siamo andati a prendere i bambini, nell'ottobre del 2007, pochi giorni dopo l'omicidio di mia cugina, è stata necessaria la scorta delle forze dell'ordine, tale era il clima a Pagonia. Oggi i bambini stanno bene a casa mia, insieme ai miei due figli. Vorrei ringraziare il Comune di Senigallia per il sostegno: non è facile mantenere 5 figli, in particolare l'assessore Volpini e il dirigente Mandolini". La necessità di una scorta fa pensare che in questa storia non sia estranea la mafia, tanto che Calì ha anche oggi, a Senigallia, ha paura di ritorsioni.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta. 

INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.

Mio marito, ’ndranghetista per sempre. Ma è innocente anche per la legge, scrive Yvone Graf su “Il Garantista".

«Racconto la mia storia, una storia qualunque di malagiustizia, di una vita segnata irrimediabilmente da un marchio posto sulle teste della mia famiglia e mai più rimosso: la ‘ndrangheta. Nel lontano 1991 ho incontrato l’uomo che oggi è mio marito. All’epoca lui era un sorvegliato speciale, doveva ancora scontare 4 anni di sorveglianza per una misura di prevenzione. Li abbiamo scontati insieme. Chi vive con un sorvegliato speciale patisce tutte le limitazioni e le conseguenze che ne derivano: andare tutti i giorni in questura a mettere la firma; non uscire da casa prima del alba e rincasare prima del tramonto; stare tutte le notti pronti a subire un controllo improvviso che può coglierti nel sonno profondo e farti rischiare una denuncia per evasione. Aveva 18 anni mio marito quando fu accusato di appartenere a una cosca della ‘ndrangheta e di essere il super killer di questa cosca. L’avevano accusato di una diecina di omicidi, altrettanti tentati omicidi, sequestri di persona, porto abusivo di armi da guerra e chi più ne ha più ne metta. Fu condannato in primo grado tenuto conto della sua giovane età a 101 anni e 6 mesi di carcere. Dopo i vari gradi di giudizio, nel 1990 fu assolto da tutte le incriminazioni per non aver commesso il fatto ma condannato per associazione a delinquere, art. 416 c.p. – all’epoca dei fatti il reato di associazione mafiosa non era ancora codificato. Mio marito si professava innocente. Le accuse specifiche erano cadute ma era rimasta in piedi quella associativa a salvare il teorema degli inquirenti e una misura di prevenzione, appunto, cinque anni di vigilanza. Condannato senza commettere un reato a tre anni di reclusione; cresciuto e vissuto in un paese dove tutti conoscono tutti e tutti si frequentano, giovani, nelle strade e nelle piazze di paese. Per quel ragazzo che era mio marito fu devastante, fu causa di un grave sbandamento. Era vittima di un’ingiustizia che gli stava distruggendo la giovinezza e la vita. Da detenuto si era ammalato di anoressia ed era stato messo ai arresti domiciliari a causa del suo deperimento organico. Poi mandato al confino nel Lazio, solo e lontano dalla famiglia , affetto da una grave depressione ed in balia di una assoluta incertezza sul suo futuro. Poi una sera, sbandato per come era all’epoca, commise il furto di una macchina e fu arrestato e condannato per questo a 4 mesi di reclusione. Dopo questa carcerazione e dopo di aver scontato la sua sorveglianza, nel dicembre del 1994 decidemmo di lasciare l’Italia e di venire in Svizzera, il mio paese di appartenenza. Speravamo di iniziare una vita serena, di trovarci un lavoro entrambi e di vivere lontano da tutto tranquillamente ma ancora una volta questo ci fu impedito dallo stato italiano. Dopo appena 4 mesi che eravamo in Svizzera siamo venuti a sapere che lui era di nuovo ricercato dalla giustizia italiana. Un pentito lo accusava, per sentito dire, di essere il killer di un duplice omicidio avvenuto nei primi anni 80. In primo grado per queste accuse ha preso una condanna a 26 anni di reclusione. Il pm in appello chiese l’ergastolo. Nel 1998 la polizia svizzera esegue l’arresto di mio marito che nel frattempo era stato inserito nella lista dei 500 latitanti più pericolosi d’Italia su mandato internazionale emesso dall’Italia nonostante da subito ci fossimo opposti all’estradizione. Mio marito si dichiarava un perseguitato dalla giustizia italiana. Intanto mio marito ancora lottava con gli effetti collaterali delle prime ingiustizie subite e le loro conseguenze: attacchi di panico, ansia, depressione maggiore. In quel periodo avviammo le pratiche per poterci sposare. Nel ’96 avevo partorito il mio primo figlio che lui non aveva potuto riconoscere in quanto latitante ed ero incinta al 5 mese, al momento del suo arresto, della mia seconda figlia. Nel dicembre del ’98 ci sposammo nel carcere in svizzera e ai miei figli fu riconosciuta la paternità. Nel febbraio 1999 arrivo l’estradizione e mio marito fu prelevato e portato via dalla Svizzera. Per giorni non sono riuscita a sapere dove l’avevano portato . Poi seppi che era nel carcere a Como. Partii subito e mi accompagnò al carcere un avvocato del posto cui il mio legale aveva chiesto una cortesia. Lo fece malvolentieri precisandomi che non era opportuno per un avvocato stare vicino a chi aveva quel genere di imputazioni. Non trovai mio marito a Como. Era stato trasferito in Calabria. Solo dopo tre settimane dall’estradizione ho potuto fare il primo colloquio con lui: devastante! Mio marito era l’ombra di sé, irriconoscibile, lo sguardo spento, movimenti spaventosamente rallentati, assente e incapace di formulare delle frasi compiute. Non gli somministravano la sua terapia e con delle punture di calmanti lo tenevano in quello stato. A marzo 1999 venne assolto con formula piena per non aver commesso il fatto! Ma non tornò libero subito. Continuavano a tenerlo in virtù di un’accusa fumosa e incomprensibile tanto che la Svizzera rifiutò l’estradizione. Mio marito restava però detenuto. Ho dovuto fare il diavolo a quattro con l’appoggio dell’ambasciatore che richiamava il ministero degli Interni al rispetto dei accordi. Per fortuna sul nostro cammino incontrammo un giudice onesto che dovette intimare la scarcerazione al direttore del carcere avvisandolo che rischiava una denuncia per sequestro di persona e mio marito tornò libero. Sembrava tutto finito, a parte le patologie depressive che ancora affliggono mio marito. Ma le conseguenze di una condanna per associazione sono immortali, ti seguono per sempre. Marchiano una persona e la sua famiglia in modo definitivo, incancellabile. La Svizzera nega a mio marito la cittadinanza in virtù di rapporti segreti e di una pericolosità sociale presunta ineluttabilmente e collegata alla qualifica di ‘ndranghetista. Mio marito non aveva commesso alcun reato ma è ‘ndranghetista per sempre per volontà dello Stato italiano, senza diritto di replica e senza speranza di redenzione. Mafioso da innocente, la sua vita, le nostre vite, proprietà dello stato, per sempre. I nostri figli, mafiosi per discendenza ereditaria e così, da padre in figlio, all’infinito.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

Tortura, dopo 26 anni l’Italia ancora non riconosce il reato, scrive Andrea Oleandri su “Il Garantista”.

10 dicembre 1984. 3 novembre 1988. 10 dicembre 2004. 5 marzo 2014. 27 ottobre 2014. Cosa hanno in comune tra loro queste cinque date? Molto, per chi conosce la storia della mancata introduzione del reato di tortura nel nostro paese.

Era il 10 dicembre 1984 quando l’assemblea generale delle Nazioni Unite approvò la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. All’articolo 1 si definiva tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso [...] qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.

Quasi quattro anni dopo, il 3 novembre 1988, nei prossimi giorni “festeggeremo” il ventiseiesimo anniversario, l’Italia ratificò questa Convenzione ma, in questi ventisei anni, il nostro paese non è stato in grado di dotare il proprio codice penale di questo reato.

Il 10 dicembre del 2004, a vent’anni dall’approvazione della Convenzione da parte dell’Onu, in un carcere italiano, quello di Asti, accadde un fatto che molto c’entra con la tortura o che molto avrebbe potuto averne a che fare. In quel giorno – e nei giorni successivi – due detenuti, protagonisti di un’aggressione ai danni di un agente penitenziario, vengono sottoposti a violenze e umiliazioni a scopo ritorsivo. Il fatto lo riporta Claudio Sarzotti nel n. 3-2013 della rivista di Antigone. “Nell’immediatezza dei fatti i due vengono denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri, nonostante il freddo dovuto alla stagione invernale, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli, strappandogli, nel caso di R.C., il codino e, in entrambi i casi, sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo, giungendo anche, almeno per C.A., a schiacciargli la testa con i piedi”. Il processo parte solo nel luglio del 2011 – non per le denunce di altri che nel carcere lavoravano, ma solo per alcune intercettazioni che, inizialmente, nulla avevano a che fare con il caso – e si chiude in Cassazione il 27 luglio 2012. Secondo Riccardo Crucioli, giudice di primo grado “i fatti potrebbero essere agevolmente qualificati come tortura”. Tuttavia, non essendoci il reato, lo stesso viene derubricato.

Il 5 marzo 2014 il Senato approva un disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. Un testo che differisce dalla convenzione Onu in quanto non prevede la tortura come un reato proprio delle forze dell’ordine, ma lo rende generico con una aggravante per chi faccia parte di un corpo dello stato. Una volta approvato l’atto passa alla Camera dei Deputati dove è tutt’ora fermo.

Il 27 ottobre 2014, il Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani ha giudicato l’Italia nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR). Ancora non sono stati pubblicati i risultati di questa revisione, l’auspicio è, ovviamente, quello di una forte presa di posizione internazionale che spinga, finalmente e con ventisei anni di ritardo, il nostro paese a dotarsi di un reato irrinunciabile per qualsiasi democrazia avanzata.

Papa Francesco contro il Carcere. Sono queste le dure parole, pronunciate lo scorso 23 ottobre 2014 da Papa Francesco, del discorso tenuto da Papa Bergoglio di fronte ai membri dell'Associazione Internazionale di Diritto Penale.

Illustri Signori e Signore!

Vi saluto tutti cordialmente e desidero esprimervi il mio ringraziamento personale per il vostro servizio alla società e il prezioso contributo che rendete allo sviluppo di una giustizia che rispetti la dignità e i diritti della persona umana, senza discriminazioni.

Vorrei condividere con voi alcuni spunti su certe questioni che, pur essendo in parte opinabili – in parte! – toccano direttamente la dignità della persona umana e dunque interpellano la Chiesa nella sua missione di evangelizzazione, di promozione umana, di servizio alla giustizia e alla pace. Lo farò in forma riassuntiva e per capitoli, con uno stile piuttosto espositivo e sintetico.

Introduzione

Prima di tutto vorrei porre due premesse di natura sociologica che riguardano l’incitazione alla vendetta e il populismo penale.

a) Incitazione alla vendetta. Nella mitologia, come nelle società primitive, la folla scopre i poteri malefici delle sue vittime sacrificali, accusati delle disgrazie che colpiscono la comunità. Questa dinamica non è assente nemmeno nelle società moderne. La realtà mostra che l’esistenza di strumenti legali e politici necessari ad affrontare e risolvere conflitti non offre garanzie sufficienti ad evitare che alcuni individui vengano incolpati per i problemi di tutti. La vita in comune, strutturata intorno a comunità organizzate, ha bisogno di regole di convivenza la cui libera violazione richiede una risposta adeguata. Tuttavia, viviamo in tempi nei quali, tanto da alcuni settori della politica come da parte di alcuni mezzi di comunicazione, si incita talvolta alla violenza e alla vendetta, pubblica e privata, non solo contro quanti sono responsabili di aver commesso delitti, ma anche contro coloro sui quali ricade il sospetto, fondato o meno, di aver infranto la legge.

b) Populismo penale. In questo contesto, negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale. Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici:figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste.

I. Sistemi penali fuori controllo e la missione dei giuristi. Il principio guida della cautela in poenam. Stando così le cose, il sistema penale va oltre la sua funzione propriamente sanzionatoria e si pone sul terreno delle libertà e dei diritti delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili, in nome di una finalità preventiva la cui efficacia, fino ad ora, non si è potuto verificare, neppure per le pene più gravi, come la pena di morte. C’è il rischio di non conservare neppure la proporzionalità delle pene, che storicamente riflette la scala di valori tutelati dallo Stato. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. Si è anche affievolito il dibattito sulla sostituzione del carcere con altre sanzioni penali alternative. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e di contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società. Coloro che hanno una così grande responsabilità sono chiamati a compiere il loro dovere, dal momento che il non farlo pone in pericolo vite umane, che hanno bisogno di essere curate con maggior impegno di quanto a volte non si faccia nell’espletamento delle proprie funzioni.

II. Circa il primato della vita e la dignità della persona umana. Primatus principii pro homine

a) Circa la pena di morte. È impossibile immaginare che oggi gli Stati non possano disporre di un altro mezzo che non sia la pena capitale per difendere dall’aggressore ingiusto la vita di altre persone. San Giovanni Paolo II ha condannato la pena di morte (cfr Lett. enc. Evangelium vitae, 56), come fa anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (N. 2267). Tuttavia, può verificarsi che gli Stati tolgano la vita non solo con la pena di morte e con le guerre, ma anche quando pubblici ufficiali si rifugiano all’ombra delle potestà statali per giustificare i loro crimini. Le cosiddette esecuzioni extragiudiziali o extralegali sono omicidi deliberati commessi da alcuni Stati e dai loro agenti, spesso fatti passare come scontri con delinquenti o presentati come conseguenze indesiderate dell’uso ragionevole, necessario e proporzionale della forza per far applicare la legge. In questo modo, anche se tra i 60 Paesi che mantengono la pena di morte, 35 non l’hanno applicata negli ultimi dieci anni, la pena di morte, illegalmente e in diversi gradi, si applica in tutto il pianeta. Le stesse esecuzioni extragiudiziali vengono perpetrate in forma sistematica non solamente dagli Stati della comunità internazionale, ma anche da entità non riconosciute come tali, e rappresentano autentici crimini. Gli argomenti contrari alla pena di morte sono molti e ben conosciuti. La Chiesa ne ha opportunamente sottolineato alcuni, come la possibilità dell’esistenza dell’errore giudiziale e l’uso che ne fanno i regimi totalitari e dittatoriali, che la utilizzano come strumento di soppressione della dissidenza politica o di persecuzione delle minoranze religiose e culturali, tutte vittime che per le loro rispettive legislazioni sono “delinquenti”. Tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà sono dunque chiamati oggi o a lottare non solo per l’abolizione della pena di morte, legale o illegale che sia, e in tutte le sue forme, ma anche al fine di migliorare le condizioni carcerarie, nel rispetto della dignità umana delle persone private della libertà. E questo, io lo collego con l’ergastolo. In Vaticano, poco tempo fa, nel Codice penale del Vaticano, non c’è più, l’ergastolo. L’ergastolo è una pena di morte nascosta.

b) Sulle condizioni della carcerazione, i carcerati senza condanna e i condannati senza giudizio. – Queste non sono favole: voi lo sapete bene – La carcerazione preventiva – quando in forma abusiva procura un anticipo della pena, previa alla condanna, o come misura che si applica di fronte al sospetto più o meno fondato di un delitto commesso – costituisce un’altra forma contemporanea di pena illecita occulta, al di là di una patina di legalità. Questa situazione è particolarmente grave in alcuni Paesi e regioni del mondo, dove il numero dei detenuti senza condanna supera il 50% del totale. Questo fenomeno contribuisce al deterioramento ancora maggiore delle condizioni detentive, situazione che la costruzione di nuove carceri non riesce mai a risolvere, dal momento che ogni nuovo carcere esaurisce la sua capienza già prima di essere inaugurato. Inoltre è causa di un uso indebito di stazioni di polizia e militari come luoghi di detenzione. Il problema dei detenuti senza condanna va affrontato con la debita cautela, dal momento che si corre il rischio di creare un altro problema tanto grave quanto il primo se non peggiore: quello dei reclusi senza giudizio, condannati senza che si rispettino le regole del processo. Le deplorevoli condizioni detentive che si verificano in diverse parti del pianeta, costituiscono spesso un autentico tratto inumano e degradante, molte volte prodotto delle deficienze del sistema penale, altre volte della carenza di infrastrutture e di pianificazione, mentre in non pochi casi non sono altro che il risultato dell’esercizio arbitrario e spietato del potere sulle persone private della libertà.

c) Sulla tortura e altre misure e pene crudeli, inumane e degradanti. – L’aggettivo “crudele”; sotto queste figure che ho menzionato, c’è sempre quella radice: la capacità umana di crudeltà. Quella è una passione, una vera passione! – Una forma di tortura è a volte quella che si applica mediante la reclusione in carceri di massima sicurezza. Con il motivo di offrire una maggiore sicurezza alla società o un trattamento speciale per certe categorie di detenuti, la sua principale caratteristica non è altro che l’isolamento esterno. Come dimostrano gli studi realizzati da diversi organismi di difesa dei diritti umani, la mancanza di stimoli sensoriali, la completa impossibilità di comunicazione e la mancanza di contatti con altri esseri umani, provocano sofferenze psichiche e fisiche come la paranoia, l’ansietà, la depressione e la perdita di peso e incrementano sensibilmente la tendenza al suicidio. Questo fenomeno, caratteristico delle carceri di massima sicurezza, si verifica anche in altri generi di penitenziari, insieme ad altre forme di tortura fisica e psichica la cui pratica si è diffusa. Le torture ormai non sono somministrate solamente come mezzo per ottenere un determinato fine, come la confessione o la delazione – pratiche caratteristiche della dottrina della sicurezza nazionale – ma costituiscono un autentico plus di dolore che si aggiunge ai mali propri della detenzione. In questo modo, si tortura non solo in centri clandestini di detenzione o in moderni campi di concentramento, ma anche in carceri, istituti per minori, ospedali psichiatrici, commissariati e altri centri e istituzioni di detenzione e pena. La stessa dottrina penale ha un’importante responsabilità in questo, con l’aver consentito in certi casi la legittimazione della tortura a certi presupposti, aprendo la via ad ulteriori e più estesi abusi. Molti Stati sono anche responsabili per aver praticato o tollerato il sequestro di persona nel proprio territorio, incluso quello di cittadini dei loro rispettivi Paesi, o per aver autorizzato l’uso del loro spazio aereo per un trasporto illegale verso centri di detenzione in cui si pratica la tortura. Questi abusi si potranno fermare unicamente con il fermo impegno della comunità internazionale a riconoscere il primato del principio pro homine, vale a dire della dignità della persona umana sopra ogni cosa.

d) Sull’applicazione delle sanzioni penali a bambini e vecchi e nei confronti di altre persone specialmente vulnerabili. Gli Stati devono astenersi dal castigare penalmente i bambini, che ancora non hanno completato il loro sviluppo verso la maturità e per tale motivo non possono essere imputabili. Essi invece devono essere i destinatari di tutti i privilegi che lo Stato è in grado di offrire, tanto per quanto riguarda politiche di inclusione quanto per pratiche orientate a far crescere in loro il rispetto per la vita e per i diritti degli altri. Gli anziani, per parte loro, sono coloro che a partire dai propri errori possono offrire insegnamenti al resto della società. Non si apprende unicamente dalle virtù dei santi, ma anche dalle mancanze e dagli errori dei peccatori e, tra di essi, di coloro che, per qualsiasi ragione, siano caduti e abbiano commesso delitti. Inoltre, ragioni umanitarie impongono che, come si deve escludere o limitare il castigo di chi patisce infermità gravi o terminali, di donne incinte, di persone handicappate, di madri e padri che siano gli unici responsabili di minori o di disabili, così trattamenti particolari meritano gli adulti ormai avanzati in età.

III. Considerazioni su alcune forme di criminalità che ledono gravemente la dignità della persona e il bene comune. Alcune forme di criminalità, perpetrate da privati, ledono gravemente la dignità delle persone e il bene comune. Molte di tali forme di criminalità non potrebbero mai essere commesse senza la complicità, attiva od omissiva, delle pubbliche autorità.

a) Sul delitto della tratta delle persone. La schiavitù, inclusa la tratta delle persone, è riconosciuta come crimine contro l’umanità e come crimine di guerra, tanto dal diritto internazionale quanto da molte legislazioni nazionali. E’ un reato di lesa umanità. E, dal momento che non è possibile commettere un delitto tanto complesso come la tratta delle persone senza la complicità, con azione od omissione, degli Stati, è evidente che, quando gli sforzi per prevenire e combattere questo fenomeno non sono sufficienti, siamo di nuovo davanti ad un crimine contro l’umanità. Più ancora, se accade che chi è preposto a proteggere le persone e garantire la loro libertà, invece si rende complice di coloro che praticano il commercio di esseri umani, allora, in tali casi, gli Stati sono responsabili davanti ai loro cittadini e di fronte alla comunità internazionale. Si può parlare di un miliardo di persone intrappolate nella povertà assoluta. Un miliardo e mezzo non hanno accesso ai servizi igienici, all’acqua potabile, all’elettricità, all’educazione elementare o al sistema sanitario e devono sopportare privazioni economiche incompatibili con una vita degna (2014 Human Development Report, UNPD). Anche se il numero totale di persone in questa situazione è diminuito in questi ultimi anni, si è incrementata la loro vulnerabilità, a causa delle accresciute difficoltà che devono affrontare per uscire da tale situazione. Ciò è dovuto alla sempre crescente quantità di persone che vivono in Paesi in conflitto. Quarantacinque milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di situazioni di violenza o persecuzione solo nel 2012; di queste, quindici milioni sono rifugiati, la cifra più alta in diciotto anni. Il 70% di queste persone sono donne. Inoltre, si stima che nel mondo, sette su dieci tra coloro che muoiono di fame, sono donne e bambine (Fondo delle Nazioni Unite per le Donne, UNIFEM).

b) Circa il delitto di corruzione. La scandalosa concentrazione della ricchezza globale è possibile a causa della connivenza di responsabili della cosa pubblica con i poteri forti. La corruzione è essa stessa anche un processo di morte: quando la vita muore, c’è corruzione. Ci sono poche cose più difficili che aprire una breccia in un cuore corrotto: «Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio» (Lc 12,21). Quando la situazione personale del corrotto diventa complicata, egli conosce tutte le scappatoie per sfuggirvi come fece l’amministratore disonesto del Vangelo (cfr Lc 16,1-8). Il corrotto attraversa la vita con le scorciatoie dell’opportunismo, con l’aria di chi dice: “Non sono stato io”, arrivando a interiorizzare la sua maschera di uomo onesto. E’ un processo di interiorizzazione. Il corrotto non può accettare la critica, squalifica chi la fa, cerca di sminuire qualsiasi autorità morale che possa metterlo in discussione, non valorizza gli altri e attacca con l’insulto chiunque pensa in modo diverso. Se i rapporti di forza lo permettono, perseguita chiunque lo contraddica. La corruzione si esprime in un’atmosfera di trionfalismo perché il corrotto si crede un vincitore. In quell’ambiente si pavoneggia per sminuire gli altri. Il corrotto non conosce la fraternità o l’amicizia, ma la complicità e l’inimicizia. Il corrotto non percepisce la sua corruzione. Accade un po’ quello che succede con l’alito cattivo: difficilmente chi lo ha se ne accorge; sono gli altri ad accorgersene e glielo devono dire. Per tale motivo difficilmente il corrotto potrà uscire dal suo stato per interno rimorso della coscienza. La corruzione è un male più grande del peccato. Più che perdonato, questo male deve essere curato. La corruzione è diventata naturale, al punto da arrivare a costituire uno stato personale e sociale legato al costume, una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà e della sfacciataggine impudica sulla discrezione onorevole. Tuttavia, il Signore non si stanca di bussare alle porte dei corrotti. La corruzione non può nulla contro la speranza. Che cosa può fare il diritto penale contro la corruzione? Sono ormai molte le convenzioni e i trattati internazionali in materia e hanno proliferato le ipotesi di reato orientate a proteggere non tanto i cittadini, che in definitiva sono le vittime ultime – in particolare i più vulnerabili – quanto a proteggere gli interessi degli operatori dei mercati economici e finanziari. La sanzione penale è selettiva. È come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare. Le forme di corruzione che bisogna perseguire con la maggior severità sono quelle che causano gravi danni sociali, sia in materia economica e sociale – come per esempio gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione – come in qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi.

Conclusione. La cautela nell’applicazione della pena dev’essere il principio che regge i sistemi penali, e la piena vigenza e operatività del principio pro homine deve garantire che gli Stati non vengano abilitati, giuridicamente o in via di fatto, a subordinare il rispetto della dignità della persona umana a qualsiasi altra finalità, anche quando si riesca a raggiungere una qualche sorta di utilità sociale. Il rispetto della dignità umana non solo deve operare come limite all’arbitrarietà e agli eccessi degli agenti dello Stato, ma come criterio di orientamento per il perseguimento e la repressione di quelle condotte che rappresentano i più gravi attacchi alla dignità e integrità della persona umana. Cari amici, vi ringrazio nuovamente per questo incontro, e vi assicuro che continuerò ad essere vicino al vostro impegnativo lavoro al servizio dell’uomo nel campo della giustizia. Non c’è dubbio che, per quanti tra voi sono chiamati a vivere la vocazione cristiana del proprio Battesimo, questo è un campo privilegiato di animazione evangelica del mondo. Per tutti, anche quelli tra voi che non sono cristiani, in ogni caso, c’è bisogno dell’aiuto di Dio, fonte di ogni ragione e giustizia. Invoco pertanto per ciascuno di voi, con l’intercessione della Vergine Madre, la luce e la forza dello Spirito Santo. Vi benedico di cuore e per favore, vi chiedo di pregare per me. Grazie.

Decreto Legge Carceri, 8 euro ai detenuti mentre si muore di carcere, scrive Cristina Amoroso su “Il Faro sul mondo”. Altri due detenuti suicidi nei giorni in cui la Camera si apprestava a discutere il decreto legge sulle carceri. Il primo a Padova, un detenuto di 44 anni trovato morto nella cella di un carcere in emergenza nazionale; il secondo a Trento, un detenuto di 32 anni suicida in quello che è considerato un carcere modello. Intanto il decreto legge sulle carceri è approvato in prima lettura alla Camera con 305 sì, 110 no e 30 astenuti. Il decreto completa il “Pacchetto normativo” già approvato nei mesi scorsi in risposta alla sentenza “Torreggiani” della corte europea dei diritti dell’uomo, che ha condannato l’Italia per la situazione delle carceri. Sentenza scaturita dall’esposto avanzato da Torreggiani ed altri quattromila detenuti per sovraffollamento delle strutture carcerarie tale da determinare un trattamento disumano. Essendo una sentenza pilota, l’Italia aveva un anno di tempo per evitare che la situazione persistesse nel sistema penitenziario. Il provvedimento, che prevede un risarcimento giornaliero in denaro oppure uno sconto di pena ai detenuti che si trovano in condizioni degradanti ed umilianti ed abbiano quindi subito una violazione dei diritti umani, passa ora al Senato. Nel dettaglio, se la pena è ancora da espiare è previsto un abbuono di un giorno ogni dieci passati in celle sovraffollate. Qualora lo sconto di pena non è applicabile interviene il risarcimento in denaro pari ad otto euro giornalieri da consegnare ai detenuti già usciti dal carcere, per cui sono stati previsti 20,3 milioni di euro fino al 2016. Resta difficile non considerare il provvedimento uno “svuotarceri”, destinato a favorire anche mafiosi, nella convinzione dell’assoluta priorità di altri provvedimenti, come il reddito di cittadinanza o l’abolizione di Equitalia, come hanno dichiarato alcuni parlamentari, mentre con il contentino in denaro o lo sconto di qualche giorno non si affronta il problema reale delle carceri italiane: il disumano sovraffollamento in cui i detenuti vivono. Con otto euro passa la paura o passa la tortura? Intanto nel giro di una settimana l’Italia ha riportato altre due condanne. Entrambe dinanzi alla Corte europea dei diritti umani: una per i maltrattamenti inflitti dalle forze dell’ordine a una persona in stato di arresto (sentenza 24 giugno 2014, Alberti contro Italia), e un’altra, otto giorni dopo, per i maltrattamenti a molti detenuti nel carcere di Sassari (sentenza Saba contro Italia). Entrambe a conferma della giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 della Convenzione). Esse ricordano, una volta ancora, che in Italia le violenze fisiche e morali perpetrate dalle forze dell’ordine sulle persone in Stato di privazione della libertà personale rimangono prive di adeguate sanzioni e molte storie rimangono soltanto dei numeri. Perché i detenuti non rimangono semplici nomi ha provveduto il Dossier 2000-2014, “Morire di carcere”, aggiornato fino al 25 luglio, ad opera di Ristretti Orizzonti, che ha evidenziato i casi di suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose, elencando i detenuti morti dal 2002 al 2014: per cognome, età, data e luogo del decesso. I morti totali nelle carceri dal 2000 al 2014 sono stati 2320, di cui 825 suicidi, nel 2014 i morti in carcere sono stati 82, di cui 24 suicidi. Il dossier “Morire di carcere” rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane, per suicidio, per malattia, per overdose, per “cause non accertate”, riuscendo a restituire un’identità a centinaia di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli “eventi critici”. Per altrettante persone, morte in carcere, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa “inosservato”, si legge nella presentazione del Dossier.

Carceri affollate, risarcimento ai detenuti. Così l'Italia prova a salvarsi dai ricorsi. La Camera ha stabilito per ogni recluso che ha vissuto in uno spazio inferiore ai 3 metri quadrati un indennizzo di 8 euro al giorno o uno sconto di pena. Una decisione per evitare sanzioni dalla Corte europea, che ha spesso richiamato l'Italia. Soddisfatte le associazioni per i diritti, protestano Lega e Movimento 5 Stelle, scrive Federico Formica su “L’Espresso”. L'Italia ci mette una pezza. E per evitare guai peggiori, garantirà un risarcimento in denaro o uno sconto di pena ai detenuti costretti a vivere in situazioni di sovraffollamento talmente gravi da ledere l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo, secondo il quale “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. La Camera dei deputati ha infatti approvato con 305 voti favorevoli, 110 contrari e 30 astensioni il “decreto Carceri”, che ora dovrà passare al vaglio del Senato. È un testo destinato a lasciare il segno, dal valore simbolico - e non solo - molto forte. Cosa cambia. Il principio stabilito dal decreto legge è chiaro: chi vive o ha vissuto in condizioni inumane o degradanti nelle nostre carceri, deve essere risarcito in qualche modo. Il testo prevede due strade:

Risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in carcere in violazione dell'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo;

Lo sconto di un giorno di pena residua per ogni dieci vissuti, appunto, nelle condizioni già citate.

Il risarcimento in denaro verrà riconosciuto a chi è già uscito dal carcere oppure ai detenuti la cui pena residua è talmente breve che i giorni di “abbuono” sarebbero superiori rispetto a quelli da scontare. Oppure, ancora, a chi ha vissuto in condizioni “inumane o degradanti” per meno di quindici giorni. Lo sconto di pena invece si applicherà a chi è ancora ristretto - nelle condizioni già citate - nelle carceri del nostro Paese. Intendiamoci, il Parlamento italiano non ha scoperto tutto d'un tratto la solidarietà verso i detenuti. Con questo decreto, il nostro Paese cerca infatti di evitare una pioggia di risarcimenti di entità imprevedibile, visto che oltre 6000 detenuti hanno già presentato ricorso alla Corte europea per violazione dell'articolo 3. Non è difficile prevedere l'esito di questi procedimenti, visto che il precedente è già stato fissato dalla sentenza Torreggiani, dal nome di un ex detenuto nel carcere di Busto Arsizio che si rivolse alla Corte Ue. L'8 gennaio 2013, infatti, la Corte ha certificato che il nostro sistema carcerario non solo funziona male, ma lede i diritti più elementari degli esseri umani. Tra i quali, appunto, quelli stabiliti dall'articolo 3. Come conseguenza, i giudici hanno dato all'Italia un anno di tempo per mettere la famosa “pezza”. Cioè per approvare una legge che prevedesse compensazioni e garantisse “una riparazione effettiva” per le violazioni della Convenzione. “Il decreto legge appena approvato a Montecitorio non è una sorpresa, visto che era una procedura obbligata. Ma è sicuramente una buona notizia, nel nome della dignità e del rispetto dei diritti” è il commento di Patrizio Gonnella, presidente dell'associazione Antigone. Il fondo per i risarcimenti ammonterà a 20,3 milioni di euro fino al 2016. Una cifra che potrebbe sembrare piuttosto esigua. Secondo Gonnella, però, “è un calcolo tutto sommato esatto. Teniamo presente infatti che dal gennaio 2013 a oggi il numero dei detenuti è calato da 66.000 a 58.000. I detenuti reclusi in meno di tre metri quadrati sono, al momento, poche decine. La ratio del decreto è quella di risarcire chi, in passato, ha vissuto in quelle condizioni”. Il riferimento ai 3 metri quadrati non è casuale. Nel 2009, infatti, un'altra sentenza della corte europea dei diritti dell'uomo - che tra gli addetti ai lavori è nota come “sentenza Sulejmanovic” - accertò che il detenuto bosniaco che aveva fatto ricorso, Izet Sulejmanovic, era stato recluso in uno spazio di 2,7 metri quadri in una cella del carcere di Rebibbia. Una condizione che violava l'articolo 3 della convenzione dei diritti dell'uomo. Il Comitato per la prevenzione della tortura ha infatti fissato lo spazio minimo in 7 metri quadri. Il calcolo fu piuttosto semplice: Sulejmanovic - che ottenne un indennizzo di 1000 euro - aveva condiviso una cella da 16,20 metri quadri insieme ad altre cinque persone. Di qui l'assunto: nel momento in cui lo Stato obbliga un detenuto a vivere in meno di tre metri quadrati, gli infligge un trattamento “disumano e degradante”. Stabilita l'entità dei risarcimenti, bisognerà capire in quali casi concederli e in quali no. Insomma, capire di caso in caso quand'è che le condizioni di un detenuto violano la Convenzione. “Il principio finalmente è passato: lo Stato riconosce che una situazione di sovraffollamento grave esiste. In passato era stato messo in dubbio persino questo. Ora è tutta una questione di interpretazione” spiega Alessandro Stomeo, avvocato di Lecce che da anni si occupa di diritti dei detenuti. “I magistrati si rifaranno ai parametri della sentenza Sulejmanovic oppure no? E se il detenuto, pur avendo vissuto in meno di tre metri quadrati, ha comunque passato diverse ore al di fuori della cella, magari perché il direttore della struttura ha consentito il regime delle sezioni aperte, cosa accadrà? In quel caso, dubito che possa essere riconosciuto il risarcimento”. Il regime delle sezioni aperte consente ai detenuti meno pericolosi di muoversi liberamente all'interno di un braccio del carcere, in orari prestabiliti. Alessandro Stomeo non è un avvocato qualunque. Nel 2011 il legale salentino vinse una causa storica che, in un certo senso, anticipò di tre anni il decreto carceri ora al vaglio di palazzo Madama. Stomeo riuscì infatti a fare ottenere al suo assistito, un ex detenuto tunisino che era stato recluso nel carcere di Lecce, un risarcimento di 220 euro per le “lesioni alla dignità umana” patite in un mese di reclusione. A differenza del caso Sulejmanovic la sentenza di Lecce proveniva da un magistrato di sorveglianza italiano e non dalla corte europea. Altre novità. Il decreto carceri ha stabilito anche un aumento del personale di Polizia penitenziaria di 204 unità. La differenza tra i 703 ispettori e vice ispettori in meno e i 907 tra agenti e assistenti in più. “I sindacati di Polizia saranno sicuramente soddisfatti, tuttavia le lacune sono altrove: mancano psicologi, educatori,assistenti sociali, magistrati di sorveglianza - ammonisce Patrizio Gonnella - e proprio le recenti leggi approvate attribuiscono ulteriori compiti e una maggiore mole di lavoro sia ad assistenti sociali che ai magistrati di sorveglianza”. Il decreto appena approvato, infatti, attribuisce a questi ultimi il potere di risarcire i detenuti, mentre un'altra legge, passata nell'aprile scorso, consente agli imputati di chiedere la sospensione del processo in cambio di un periodo di lavori di pubblica utilità. Con l'affidamento, appunto, ai servizi sociali. Dopo l'approvazione del decreto, da Lega Nord e Cinque Stelle sono piovute critiche. I grillini hanno parlato di “indulto mascherato” mentre secondo il leghista Nicola Molteni “un Paese che dà la paghetta ai criminali non è un paese né normale, né civile”. “Chi parla di indulto oggi è in malafede - risponde Patrizio Gonnella di Antigone - il decreto approvato in questi giorni è un tentativo di rimediare (con i soldi di tutti gli italiani) al disastro prodotto da leggi che hanno stipato le nostre carceri all'inverosimile. Curioso che molte critiche partano proprio da chi quelle leggi le promosse e le approvò”.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

La giustizia è ingiusta, scrive Giuseppe Rossodivita su “Il Tempo”. Dopo la condanna dei giudici di Strasburgo con la «sentenza Torreggiani» - ai quali occorrerà fornire risposte entro il prossimo 28 maggio - arriva anche quella dei parlamentari europei giunti in Italia per vedere con i loro occhi le condizioni delle nostre carceri. Peggio di noi solo Serbia e Grecia, scrivono nel rapporto i membri della Commissione Libertà Civili preoccupatissimi, come i giudici di Strasburgo, per l’abuso della detenzione preventiva, che è patologia del processo penale nostrano. Nei fatti è una vera e propria pena anticipata in assenza di condanna, la custodia cautelare in Italia, che pesa circa il 40% delle presenze in carcere. La metà di questo 40% sarà poi assolto, dicono le statistiche del Ministero della Giustizia e le decine di milioni di euro per risarcire le migliaia di ingiuste detenzioni sono prelevate dalle nostre tasse, giammai dalle tasche dei giudici che sbagliano con così tanta preoccupante frequenza. In realtà il carcere disumano e degradante italiano non è altro che il dietro le quinte di uno spettacolo quotidiano osceno: quello dello sfascio del sistema giustizia. Oggi sarà decisa la sorte di Berlusconi, affidamento ai servizi sociali o detenzione domiciliare, condannato eccellente che per vent’anni ha parlato di riforma della giustizia senza però mai muovere un dito.

Giudici che sbagliano e celle-loculi. In un anno quasi nulla è cambiato, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”. Innocenti dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei giudici. I primi spesso orfani di risarcimento dopo l’ingiustizia subita. I secondi impuniti nella maggior parte dei casi, malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. E comunque tutti, vittime del sistema giudiziario e «sicuri» colpevoli, costretti a subire la stessa barbara sorte in carceri sovraffollate, in celle che assomigliano a loculi. Era il quadro che abbiamo dipinto oltre un anno fa sulle colonne de «Il Tempo». Sono trascorsi tredici mesi. Poco o nulla è cambiato. Il ddl sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione di Anm (l’associazione delle toghe) e Csm (il loro organo di autogoverno). E le patrie galere? Sono sempre strapiene, anche se un po’ meno. In realtà il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà. Inoltre stabilisce che venga eliminato il «filtro» in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l’ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Nel 2013 scrivemmo che, negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo. Ma, considerando che le domande rigettate si aggiravano su due terzi del totale, si arrivava per difetto a circa 50 mila, 50 mila innocenti in galera, appunto. Il tutto per una spesa pubblica di circa 600 milioni di euro. Facendo un paragone fra l’anno scorso e quello in corso, sembrerebbe che i giudici sbaglino meno. Se, infatti, nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni erano stati 1368 e per gli errori giudiziari 25, nei primi dieci mesi del 2014 siamo a 431 ingiuste detenzioni e a 9 errori (fonte il sito «Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. Ma la statistica inganna, come insegna Trilussa. E anche in questo caso la parola magica è «ammissibilità»: dal ministero dell’Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l’ammissibilità della domanda di risarcimento. Non ci sono meno errori, ci sono meno soldi per le vittime degli errori e più richieste gettate nel cestino. Il 28 maggio 2014 è scaduto l’«ultimatum» della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. Noi siamo corsi ai ripari con provvedimenti come il decreto «svuota carceri», il perfezionamento di accordi e procedure per l’espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. E siamo stati promossi. Per ora. Ma non del tutto a ragione. Al 31 luglio 2013 dietro le sbarre c’erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Ma i radicali, da sempre impegnati sul fronte carceri, spiegano che dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43 mila posti. Insomma, se dodici mesi orsono, prima della verifica Ue, eravamo fuorilegge per 17.414 detenuti in più, adesso lo siamo «solo» per 4.848. Una bella consolazione. Ma non basta. Grazie alla possibilità che i carcerati hanno di uscire dalla cella oltre che per la classica ora d’aria e a causa dello scarso numero dei sorveglianti, sono aumentate le aggressioni agli agenti della penitenziaria: per il sindacato Sappe, del 70 per cento da quando c’è questa «vigilanza dinamica». E sono aumentati i suicidi degli agenti, che sono già 10 contro gli 8 di tutto il 2013. Quelli dei detenuti sono scesi ma soprattutto per il calo della popolazione carceraria. E anche lo sfruttamento dei 2000 «braccialetti elettronici», prima non impiegati, non ha risolto il problema, poiché per il Sappe ne occorrerebbero almeno il triplo. Il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti il 14 ottobre ha rivolto al Governo un’interrogazione con cui segnalava che «alcuni magistrati di sorveglianza» stanno «rigettando» le richieste di risarcimento dei detenuti ristretti in condizioni che violavano l’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, quello utilizzata dalla Corte Ue per bacchettarci. Anche in questo caso, il motivo è «una ritenuta inammissibilità dei reclami» per le detenzioni pregresse» o quelle che «si protraggono in diversi istituti». Insomma, il detenuto deve sperare che la richiesta arrivi al magistrato prima del suo trasferimento in un’altra prigione e, nel secondo caso, dovrebbe adire al giudice civile». Cosa, quest’ultima, praticamente impossibile nelle sue condizioni. Giachetti, poi, fa notare che la Corte non faceva solo riferimento allo spazio a disposizione dei carcerati, ma anche alla «possibilità di usare i servizi igienici in modo riservato, l’aerazione disponibile, l’accesso alla luce naturale e all’aria, la qualità del riscaldamento e il rispetto delle esigenze sanitarie di base». Un altro punto, infine, è se la superficie «vitale» (3 metri quadri) debba o meno comprendere gli arredi. E il Governo che ha risposto? Non ha risposto.

Niente responsabilità del magistrato, il calvario dei risarcimenti, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Tempo di bilanci, delle mille promesse, delle mille assicurazioni, e dopo la quantità di battimani per la presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, giunto a inviare un solenne messaggio alle Camere, il suo primo e unico messaggio, dopo le clamorose sentenze della Corte Costituzionale e delle giurisdizioni nazionali e internazionali; e dopo la clamorosa denuncia di papa Francesco che ha raccolto l’appello di Marco Pannella sulle carceri e levato la sua voce contro l’ergastolo, in concreto cos’è cambiato? Purtroppo poco o nulla. Innocenti continuano a languire dietro le sbarre, rinchiusi per un errore dei magistrati; per ulteriore beffa raramente vengono risarciti per il danno subito. I magistrati, a loro volta, quasi sempre se la cavano, nella maggior parte dei casi restano impuniti, e questo malgrado la vittoria di un referendum che chiedeva fossero considerati direttamente responsabili dei loro sbagli. Andiamo per punti: il disegno di legge sulla Giustizia che contiene una nuova normativa sulla responsabilità civile dei magistrati è fermo in Senato e può contare sulla strenua opposizione dell’Associazione Nazionale dei Magistrati e del Consiglio Superiore della Magistratura. Il ddl non prevede che sia diretta, ma solo che la rivalsa dello Stato sui magistrati che hanno sbagliato passi da un terzo alla metà dello stipendio. Inoltre stabilisce che venga eliminato il "filtro" in base al quale lo Stato deve affidare ai giudici l'ammissibilità della richiesta di rimborso per errore giudiziario o per ingiusta detenzione. Negli ultimi 22 anni, oltre 22 mila persone avevano avuto un rimborso per questo; ma vanno considerate anche le domande rigettate: circa i due terzi del totale; arriviamo così, per approssimazione a circa 50 mila persone innocenti che per qualche tempo hanno soggiornato in carcere. Non consideriamo i danni fisici e psicologici, irrisarcibili e impagabili. Consideriamo solo i costi “vivi” del tenere un detenuto in carcere. Quei 50 mila sono costati alle tasche del contribuente almeno 600 milioni di euro. Tanto sono costati quei 50 mila detenuti innocenti. Compariamo altri dati. Nel 2013 i risarcimenti per le ingiuste detenzioni sono state 1.368, e per gli errori giudiziari 25; nei primi dieci mesi del 2014 le ingiuste detenzioni sono state 431 e nove gli errori (la fonte è il sito "Errorigiudiziari.com). La spesa è stata rispettivamente di 37 e di 16 milioni di euro. C’è una spiegazione: dal ministero dell'Economia spiegano che la spending review ha colpito anche in questo settore e che la Cassazione è oggi di manica molto più stretta nel valutare l'ammissibilità della domanda di risarcimento. Quindi non è che si sbaglia di meno, è che ci sono meno fondi per le vittime degli errori, e di conseguenza più richieste rigettate. Passiamo al sovraffollamento delle carceri. Nel maggio scorso è scaduto l'ultimatum della Corte europea dei diritti dell'uomo, che ci ha condannato per le condizioni disumane delle prigioni. L’Italia ci ha messo una toppa con provvedimenti come il decreto "svuota carceri", il perfezionamento di accordi e procedure per l'espulsione degli stranieri in cella, il ripristino della vecchia legge sulla droga, le misure alternative. A Strasburgo hanno chiuso un occhio. Per ora. Ma dietro le sbarre c'erano 64.873 persone su una capienza regolamentare di circa 47.459. Il 30 settembre i detenuti erano 54.195 su 49.347 posti. Obietta la segretaria di Radicali Italiani Rita Bernardini, che da sempre segue le vicende della giustizia ed è unanimemente considerata un’autorità in materia, ci spiega che “dalla capienza regolamentare bisogna sottrarre 6.000 unità a causa di sezioni chiuse, inagibili o inutilizzate. Quindi arriviamo a 43mila posti”. Se un anno fa, prima della verifica UE, l’Italia era fuorilegge per 17.414 detenuti in più, lo è "solo" per 4.848; e proseguono i suicidi tra i detenuti e, anche,  degli agenti di custodia: quest’anno già dieci (nel 2013 furono otto). Torniamo alla questione dei risarcimenti per ingiusta detenzione. La procedura è lenta, farraginosa; la dimostrazione di quanto la burocrazia possa essere insensata. Il diritto al risarcimento, secondo elementare logica, nasce da un danno subito ingiustamente, in questo caso la privazione della libertà. Una volta accertato che il cittadino è innocente, il risarcimento dovrebbe essere automatico. Diventa invece un calvario di burocrazia e di ostacoli che appaiono frapposti ad arte: la richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta, due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell'istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, dì atti dibattimentali e predibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l'assoluzione dell'istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio,spesso si tratta di numerosi faldoni. Quando il richiedente cerca i documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio inizia nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla ricerca degli atti da allegare. Poi, una volta trovati bisogna chiedere che i fascicoli vengano inviati all'ufficio addetto al rilascio copie. Il personale spesso è carente, quindi occorrono giorni per soddisfare la richiesta. Quando finalmente tutti i documenti sono all'ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato il richiedente può compilare la richiesta copie. Quando poi finalmente il materiale necessario è raccolto, naturalmente corredato dall’istanza di risarcimento, i fascicoli ordinari e completi di indice, allora non resta che incrociare le dita e toccare ferro e tutto il toccabile. Bisogna attendere che l‘udienza sia fissata, e sperare che il risarcimento sia riconosciuto.

Per gli errori dei magistrati spesi 600 milioni in 20 anni. Prime Palermo e Catanzaro, scrive Dino Martirano su “Il Corriere della Sera”. Oltre ventiduemila risarcimenti. Perugia la più virtuosa. La cifra media pagata è di 6-700 euro al giorno. L'anno peggiore è stato il 2011. Nel 1983 la lettera di Tortora che soffriva l'errore giudiziario sollevò il caso. Il 17 giugno del 1983, quando venne arrestato su richiesta dei pm di Napoli con accuse pesantissime poi liquefatte come neve al sole, Enzo Tortora non immaginava nemmeno cosa fosse l'inferno del carcere preventivo: «La stregonesca e medioevale iniquità del rito giustizia in ferie come una rivendita di gelati, scriveva ad un amico il presentatore tv nel torrido agosto di quell'estate, mentre la spazzatura umana è lasciata fermentare nei bidoni di ferro delle carceri... Sventurati non interrogati e, come me, innocenti... Fate qualcosa, vi prego...».Quella lettera, scritta su un foglio a righe color paglierino, oggi campeggia nell'ufficio del vice ministro della Giustizia, Enrico Costa (Ncd), che la conserva incorniciata perché Tortora la spedì a suo padre, Raffaele Costa, sottosegretario e ministro negli anni 80. Da quel pezzo di carta, per il giovane vice ministro, è nata la curiosità di capire con le cifre cosa sia successo in questi 30 anni: il caso Tortora, conclusosi con un'assoluzione piena, generò, un anno prima della morte del presentatore, il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (1987), il nuovo codice di procedura penale (1988) che introdusse la riparazione per ingiusta detenzione e la legge Carotti (1999) che ha portato da 100 milioni a 516 mila euro il tetto del risarcimento. Negli ultimi 20 anni, i fascicoli R.I.D. (Riparazione per ingiusta detenzione) liquidati dal ministero dell'Economia sono 22.689 per un totale di 567 milioni 744 mila 479 euro e 12 centesimi. I risarcimenti (le richieste fino ad oggi sono state 32.998) sono andati a chi è stato sottoposto a custodia cautelare e poi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile. Ma i soldi sono andati anche a chi ha subito una ingiustizia formale a causa dell'applicazione illegittima della custodia in carcere a prescindere dalla successiva sentenza di assoluzione. Nella geografia delle procure e degli uffici Gip che sono costati di più in termini di risarcimenti spicca la piccola Catanzaro: nei primi sei mesi del 2014 ha prodotto 65 fascicoli R.I.D. liquidati per 2 milioni 303 mila 163 euro. La cifra media dei risarcimenti è di 6-700 euro al giorno. Per cui a Palermo (i reati di mafia prevedono una custodia cautelare più lunga e, dunque, risarcimenti più pesanti), i 35 casi di ingiusta detenzione hanno inciso solo quest'anno per 2 milioni 790 mila 476 euro. Mentre a Napoli, sempre nel 2014, i risarciti sono stati 48 per un totale di oltre un milione e 200 mila euro. Virtuose,anche perché piccole, le corti d'Appello di Perugia (2 casi, circa 12 mila euro) e di Trento (1 caso, circa 27 mila euro). Si tratta, spiega Costa, «di cifre importanti ma fredde: sono numeri che non raccontano le storie umane e i drammi di chi ha dovuto conoscere il carcere a causa dell'errore, o quanto meno della superficialità, di un pm o di un gip». Oggi i magistrati del caso Tortora, gli ex pm Lucio Di Pietro e Felice Di Persia, l'ex giudice istruttore Giorgio Fontana, non sono degli sconosciuti «ma tutti gli altri magistrati che fine hanno fatto?», è la domanda provocatoria di Costa: «Proporrò che venga avviata una commissione ministeriale per monitorare gli errori e le leggerezze che sono all'origine dei risarcimenti». È certo che questa proposta, nei giorni in cui alla Camera sono calendarizzate le regole più stingenti sulla custodia cautelare e al Senato si affronta la responsabilità civile dei magistrati, rischia di aprire più di qualche crepa tra Ncd e Pd.

Modifiche alla Legge Pinto: oltre al danno, la beffa! Il Dl Sviluppo cambia la Legge Pinto: procedure più snelle, parametri fissi ma eccessiva discrezionalità decisoria del giudice, scrive Lucia Polizzi su “Leggi Oggi”. Il Decreto- legge n. 83 del 22 giugno 2012, convertito in legge n.134/2012, cambia le regole e le procedure della celebre Legge Pinto (L. n. 89/2001), che consente di ottenere un’equa riparazione a chi abbia subito un danno patrimoniale e/o non patrimoniale dall’ingiusta durata di un processo. Da un lato, la novella legislativa snellisce le modalità di ricorso: decide infatti, con decreto inaudita altera parte, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. La riforma introduce inoltre parametri fissi sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio : il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro, per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo, e che comunque non potrà mai essere superiore al valore della causa. Invece il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità). Viene ribadito il termine decadenziale della domanda: il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, e non sarà più possibile invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio. Da un’altra angolazione però, le modifiche normative apportate dilatano oltremodo la discrezionalità decisoria del Collegio rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti , nell’accertare la violazione il giudice valuta:

- la complessità del caso,

- l’oggetto del procedimento,

- il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione.

Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia:

- in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria,

- nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa,

- nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa,

- nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso;

- e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento.

E, dulcis in fundo, al comma 5 quater, si manifesta la beffa: qualora infatti la domanda sia, agli occhi del giudicante, inammissibile o manifestamente infondata, il ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1000 euro e non superiore a 10.000 euro in favore della Cassa delle Ammende! Tutto “merito” del legislatore italiano, che – con un decreto legge!- è riuscito a trasformare un diritto tutelato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo in un nuovo eventuale introito per le Casse dello Stato!!

La Legge Pinto e la riparazione del danno per irragionevole durata del processo, scrive Studio Legale De Vivo. Con l’articolo di oggi, iniziamo una serie di interventi dedicati a quella che comunemente viene definita Legge Pinto (dal nome del suo estensore, Michele Pinto o legge 24 marzo 2001, n. 89). Tale legge disciplina il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. In questo primo articolo ne esamineremo la nascita e la sua evoluzione con il decreto Legge n. 201 del 2002. Negli interventi delle prossime settimane andremo poi ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti e l’attuale situazione. La cosiddetta Legge Pinto  nasceva con l’intento di salvaguardare l’Italia dalle condanne della Corte di Strasburgo a fronte dei ripetuti ritardi nella definizione dei procedimenti giudiziari ed anche per evitare l’intasamento della Corte medesima per i tantissimi ricorsi provenienti dall’Italia. Veniva così “nazionalizzato” il diritto all’equa riparazione per la durata irragionevole del processo, rendendo effettivo a livello interno il principio della “durata ragionevole” introdotto dalla Costituzione italiana a seguito della riforma  dell’art. 111 ispirato all’art . 6, paragrafo 1 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  e delle libertà fondamentali che riconosce il diritto di ogni persona a che la causa, di cui è parte, sia esaminata e decisa entro un lasso di tempo ragionevole e dell’art. 13 che afferma invece il diritto dei cittadini ad un ricorso effettivo contro ogni possibile violazione della Convenzione. Concretamente la legge disciplina il caso di chi in un procedimento civile, penale o amministrativo, ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della convenzione suddetta, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di durata. Ligio alle direttive e dotato di buone intenzioni il legislatore italiano approntava una disciplina semplice e (fatto raro) di facile applicazione. Senza pagare nulla in termini di costi di accesso alla giustizia (bolli, notifiche, contributi unificati, tassazione degli atti, copie ecc.) seguendo un procedimento snello e semplice, si poteva proporre un ricorso alla Corte di Appello competente ai sensi dell’art. 11 c.p.p., durante la pendenza del procedimento nel cui ambito la violazione si assumeva verificata, ovvero, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che concludeva il medesimo procedimento, era divenuta definitiva. Il danno liquidato è quello riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole. Senza disciplinare altro, era la giurisprudenza ad integrare le lacune legislative sulla scorta delle sentenze della Corte di Strasburgo, indicando alcuni parametri: innanzi tutto la durata consona di ogni grado di giudizio, ovvero per il primo grado 3 anni, per il secondo 2 anni, per il terzo 1 anno. Quindi la forbice entro la quale liquidare gli indennizzi variabile da 500,00 € a 1500,00 € per ogni anno eccedente la ragionevole durata. Premesso che, parimenti alla legge in questione, il legislatore italiano avrebbe dovuto attivarsi per velocizzare i processi  ma che non è mai riuscito nell’intento, a seguito di una sempre maggiore mole di ricorsi ai sensi della legge Pinto il legislatore comprese subito di aver aperto la strada ad una pericoloso fronte per le esangui casse statali, impegnando oltremodo la giustizia delle Corti di Appello. E’ da questa preoccupazione che nacque e prese forma l’esigenza di un nuovo intervento effettuato con il decreto legge n. 201 del 2002, teso ad introdurre una “pregiudiziale conciliativa” nell’originario meccanismo della suddetta legge. Il decreto Legge n. 201 del 2002 introdusse, anche se per poco tempo, nel tessuto originario della legge Pinto una conciliazione stragiudiziale in cui gli unici protagonisti divenivano l’Avvocatura dello Stato e l’interessato danneggiato dall’eccessiva durata del processo. Il nuovo articolo 2 bis subordinava la domanda di un’equa riparazione del danno al fatto che fossero decorsi 90 giorni da quello della comunicazione della volontà di introdurre l’azione da parte del futuro ricorrente, diretta all’Avvocatura dello Stato. Al termine del suddetto incontro o le parti raggiungevano un accordo, sottoscrivendo il relativo atto di transazione, oppure non pervenivano ad un’intesa con l’ovvia conseguenza che l’interessato poteva così finalmente procedere all’azione per un’equa riparazione del danno.
Durante questa fase conciliativa il legislatore non aveva però previsto per il ricorrente l’assistenza di un difensore (necessario per affrontare e risolvere i diversi balzelli di questa fase introduttiva) che rimaneva, eventualmente, a carico esclusivo della parte. Il Decreto Legge 201 del 2002, inoltre, si occupava anche del regolamento delle spese della fase contenziosa giungendo ad autorizzare, nelle ipotesi più nefaste, l’eventuale deroga al criterio della soccombenza nel caso in cui una parte non avesse motivato il rifiuto di aderire alla proposta formulata in sede precontenziosa creando un incentivo psicologico e materiale ad accettare la proposta dell’Avvocatura. Tuttavia, come spesso accade alle riforme introdotte per decreto legge, in sede di conversione il legislatore con la Legge n 259 del 2002, decideva di sopprimere il capo I del Decreto legge n. 201 del 2002 disciplinante la suddetta condizione di procedibilità, determinando l’eliminazione del “neo-obbligo” di esperire preventivamente il discusso tentativo di conciliazione. Come prevedibile quindi, stante l’inefficienza della macchina della giustizia, si verificò una richiesta sempre maggiore di indennizzi che portò ad un lento ma inesorabile ritardo della loro liquidazione per mancanza di fondi, sicché al ritardo relativo ai tempi processuali si aggiunse il ritardo relativo ai tempi della liquidazione dell’indennizzo. Ritardi su ritardi! La situazione creatasi però, lungi dal costituire un disincentivo per i cittadini danneggiati, ne aumentava l’aggressività concretizzantesi nell’attuazione delle procedure esecutive nei confronti dello Stato e/o delle amministrazioni  e dei ministeri. Gli indennizzi e le aggiuntive spese per le esecuzioni rappresentavano un onere troppo grande per l’inefficiente Stato Italiano ed è per questo che con varie leggi venne assicurata l’impignorabilità dei fondi destinati alla giustizia. A bloccare il credito del cittadino vi era anche un sistema di verifiche in base a cui  “…le amministrazioni pubbliche, prima di effettuare, a qualunque titolo, il pagamento di un importo superiore e diecimila euro, verificano, anche in via telematica, se il beneficiario è inadempiente all’obbligo di versamento derivante dalla notifica di una o più cartelle di pagamento …e, in caso affermativo, non procedono al pagamento e segnalano la circostanza all’agente della riscossione competente per territorio, ai fini dell’esercizio dell’attività di riscossione delle somme iscritte a ruolo”. Ecco quindi che con tali leggi di dubbia legittimità costituzionale, si precludeva la soddisfazione del credito dei cittadini doppiamente lesi dallo Stato nel loro diritto all’equo processo. La prossima settimana vedremo come il Governo Monti, con il D.L n. 83 del 22 giugno 2012, ha inteso riformare tale situazione….

Continuiamo la serie di interventi dedicati alla Legge Pinto relativa al diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo continua Studio Legale De Vivo. In questo secondo articolo andiamo ad analizzarne la riforma attuata con il Governo Monti. La riforma della Legge Pinto è avvenuta con il Decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012 convertito in L. n. 134/2012. Positiva la parte di semplificazione procedimentale: decide infatti, con decreto inaudita altera parte da emettere entro 30 gg dalla proposizione del ricorso, un giudice monocratico di Corte d’Appello su una domanda modellata sulla forma del ricorso per ingiunzione di pagamento. Apprezzabile è anche la codificazione dei parametri già stabiliti dalla giurisprudenza sia sul quantum risarcitorio che sui tempi di durata ragionevole del giudizio: il giudice liquiderà infatti una somma compresa tra 500 euro e 1.500 euro per ciascun anno o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. Criticabile è invece la norma che limita l’indennizzo che non potrà mai essere superiore al valore della causa. Altrettanto criticabile è aver stabilito che il danno sarà considerato integrato ed esistente solo se risultino superati i sei anni di durata del giudizio (tre anni in primo grado, due in secondo e uno nel giudizio di legittimità), quando precedentemente era sufficiente aver superato i soli 3 anni nel primo grado. Nel ribadire poi il termine decadenziale della domanda, secondo cui il ricorso può essere proposto esclusivamente entro sei mesi dal provvedimento giudiziale definitivo che conclude il procedimento, è discutibile la limitazione che vieta di invocare l’equa riparazione in pendenza di giudizio come era stato finora possibile. Le altre modifiche normative  dilatano la discrezionalità decisoria del Giudice rispetto alla verifica sulla esistenza stessa del danno. Il giudice infatti, nell’accertare l’entità della violazione valuta: la complessità del caso, l’oggetto del procedimento, il comportamento delle parti e del giudice durante il procedimento, nonché quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a contribuire alla sua definizione. Peraltro, il decreto tipizza i casi in cui non è possibile chiedere e ottenere alcun indennizzo, ossia: in favore della parte soccombente condannata a norma dell’art. 96 c.p.c. per lite temeraria; nel caso in cui la domanda del ricorrente sia stata accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa; nel caso in cui il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa; nel caso di estinzione del reato per intervenuta prescrizione connessa a condotte dilatorie della parte; o quando l’imputato non abbia depositato istanza di accelerazione del processo penale nei 30 giorni successivi al superamento dei limiti di durata considerati ragionevoli dall’art 2 bis della legge in discorso; e, in via residuale, ogniqualvolta sia constatabile un abuso dei poteri processuali che abbia procrastinato ingiustificatamente i tempi del procedimento. Criticabile è la previsione del comma 5 quater, laddove si minaccia che, qualora la domanda sia ritenuta dal giudicante inammissibile o manifestamente infondatail ricorrente potrà essere condannato al pagamento di una somma non inferiore a 1.000 euro e non superiore a 10. 000 euro in favore della Cassa delle Ammende! (Trattasi di un grande disincentivo, essendo ormai risaputa la vasta discrezionalità interpretativa dei giudici). Non solo! Altro aspetto degno rilievo (che stravolge l’iniziale giusta logica della gratuità dell’azione) è la modifica dell’art. 3, comma 3 della legge ai cui sensi “unitamente al ricorso deve essere depositata copia autentica dei seguenti atti:a) l’atto di citazione, il ricorso, le comparse e le memorie relativi al procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata;b) i verbali di causa e i provvedimenti del giudice;c) il provvedimento che ha definito il giudizio, ove questo si sia concluso con sentenza od ordinanza irrevocabili.” Considerando che prima della modifica era possibile produrre copia semplice degli atti e/o chiedere l’acquisizione del fascicolo di causa, si può capire come la copia autentica costituisca un peso ulteriore che dovrà sopportare il ricorrente già danneggiato dallo Stato. Un comune cittadino può legittimamente pensare che il legislatore prima di varare una riforma si preoccupi della compatibilità della stessa con le norme di rango superiore e pensa anche che se la legge persegue una finalità la stessa legge non può frapporre ostacoli al conseguimento dei suoi scopi. Purtroppo questo cittadino o non è italiano oppure assomiglia al Pangloss “singolare” precettore del Candido di Voltaire secondo cui tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili! In realtà il fine non troppo recondito perseguito dal legislatore italiano è quello di ostacolare (per il tempo occorrente alla dichiarazione di incostituzionalità della norma) l’esercizio del diritto riconosciuto per la risaputa ragione che lo Stato non è in grado né di far fronte ai pagamenti degli indennizzi né di evadere la gran mole dei ricorsi che per suoi inadempimenti si riversano nelle Corti di Appello competenti. Vediamo ora se le modifiche alla legge Pinto possano essere considerate compatibili e in che misura, con il sistema adottato dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, così come ricostruito dai giudici della CEDU, al cui rispetto l’Italia è tenuta. Come abbiamo rilevato l’obiettivo perseguito con la modifica è lo snellimento del ricorso e delle procedure. E pare che almeno su questo punto il legislatore abbia centrato il suo scopo. Peccato che il ricorrente ora debba sopportare il costo delle copie autentiche degli atti quando nel sistema previgente questa spesa non era prevista.

Considerazioni critiche. Relativamente al quantum dell’indennizzo che non può superare il valore della causa o del diritto in concreto accertato dal giudice nel procedimento in cui è violata la ragionevole durata (art. 2 bis co. III) è bene chiarire che si tratta di un limite non previsto né dalla Convenzione né dalla giurisprudenza CEDU.

Altro punto critico attiene alla previsione contenuta nell’art. 2 comma 2 ter, secondo cui l’indennizzo può essere richiesto solo se il procedimento non si è concluso nell’arco di 6 anni. A tal proposito la giurisprudenza CEDU ha ripetutamente stabilito che anche i procedimenti di durata inferiore ai sei anni possono legittimare l’ottenimento dell’indennizzo (Pelosi / Italia n. 51165/99; Di Meo – Masotta / Italia n. 52813/1999; Nuvoli / Italia n. 41424/1998).

Altro punto critico è quello relativo all’art. 4 della novella in forza del quale la parte ricorrente è obbligata ad attendere la conclusione definitiva del giudizio prima di adire lo strumento previsto dalla legge Pinto. Anche questa limitazione è decisamente contraria alla giurisprudenza CEDU che ha più volte stabilito (per tutti LEsjak / Slovenia n. 33946/03) che si può richiedere l’indennizzo prima della conclusione definitiva del giudizio quando questo eccede la ragionevole durata.

Viene inoltre confermata la precedente previsione della legge in forza della quale il giudice liquiderà l’indennizzo solo in relazione al periodo di tempo eccedente la durata ragionevole (art. 2 bis comma 1). Però anche tale previsione contrasta con la giurisprudenza CEDU che ha più volte ribadito che, ecceduti i termini della ragionevole durata, il procedimento nel suo complesso risulta essere in violazione della convenzione europea (ex plurimis Apicella / Italia n. 64890/01; Cocchiarella / Italia n. 64886/01).

Appare criticabile la nuova previsione in forza della quale l’indennizzo è escluso se una parte abbia rifiutato la proposta di definizione effettuata dal giudice. Si tratta infatti di altro limite non previsto nella convenzione e nella giurisprudenza CEDU.

Le nuove previsioni di cui all’art. 2 co. 2 sembrano attribuire al giudice notevoli margini di discrezionalità (oltre a notevoli già connaturati) nella valutazione delle circostanze del caso e in relazione al comportamento delle parti. Tuttavia tali previsioni, insieme alla tipizzazione delle preclusioni (art 2 quinquies), sollevano dubbi di coerenza con il sistema della convenzione perché l’obbligo di assicurare la ragionevole durata del procedimento grava sugli organi dello Stato che dovrebbero garantire un processo in tempi ragionevoli anche quando le Parti avessero assunto comportamenti dilatori.

Infine la previsione naturale per cui l’indennizzo viene pagato nei limiti delle risorse disponibili non è coerente con il sistema della convenzione europea, perché lo stato dovrebbe preoccuparsi di realizzare un sistema di finanziamento adeguato per far fronte ai propri obblighi (sentenza Simaldone / Italia n. 22644/2003; Gaglione / Italia n. 45867/07).

Perplessità desta la previsione di cui al nuovo art. 5 quater che facoltizza il giudice se accerta che la domanda di indennizzo è inammissibile o manifestamente infondata di condannare il ricorrente al pagamento di una salata ammenda da 1.000 a 10.000 euro, svolgendo questa una funzione dissuasiva per la presentazione del ricorso .

RISARCIMENTO LEGGE PINTO: per farmi risarcire dallo Stato per le cause troppo lunghe mi tocca anche pagarmi l'avvocato? Forse, NO!, scrive l'avv. Alberto Vigani. I tempi della giustizia: la risposta: patto di quota lite o gratuito patrocinio? Tutti, ma proprio tutti, ormai sanno che in Italia i processi durano ere geologiche. E, siccome quasi tutti ci sono passati, anche i sassi hanno capito che non dipende dalle scelte delle parti processuali o dagli avvocati, ma dal sistema! La macchina ha smesso di funzionare già decenni fa, schiacciata dal peso dei troppi procedimenti e da regole che in passato erano ancor più farraginose di oggi. Non devi però credere che ora il meccanismo processuale sia stato snellito e si viva solo del peso delle colpe di ieri. Il codice processuale italiano targato anni 40 era stato concepito per una gestione processuale con tempi da carta carbone e 30.000 avvocati in tutta Italia. Oggi la produzione processuale viaggia sui ritmi del “copia incolla” e gli avvocati in Italia sono 220.000 con quasi 10.000.000 milioni di fascicoli processuali aperti, fra civili e penali. Le regole erano forse perfette allora, nella prima metà del 900, e non tenevano conto delle esigenze e dei ritmi del terzo millennio; senza calcolare che pure le riformette di questi settantanni hanno anche complicato il funzionamento arrivando a prevedere ben 33 percorsi processuali diversi a seconda della tipologia di lite. Insomma, la macchina processuale non funziona più e le cause si trascinano per tempistiche che sono ormai sconnesse dalla vita reale. Un processo civile dura di media una dozzina di anni (12) fra primo e secondo grado. Nella speranza che nessuno degli avvocati delle parti tenti il ricorso per cassazione, che si ruba da solo almeno altri 3 anni. E se una lite riesce a prolungarsi per 15 anni significa che si è presa un quarto della vita operativa di una persona. Questa non è giustizia. I romani, intesi come coloro che parlavano latino e non come tifosi di una squadra di calcio, riuscivano a sintetizzare brillantemente istanti della loro cultura in pochissime parole. Avevano pensato anche a questo con il brocardo: œiustitia dilatio est quam dilatio.

Una giustizia che arriva tardi è una negazione della giustizia. Per fare fronte a questa situazione inaccettabile per democrazie come quelle occidentali, la Comunità Europea ha sanzionato moltissime volte la nostra amata Repubblica Italiana imponendole almeno il risarcimento dei danni causati da questi ritardi ingiustificabili ai cittadini che hanno svolto richiesta. Alla stratificazione dei procedimenti sanzionatori, l'Italia ha risposto con una legge che tutela il cittadino: parlo della legge 89/2001, più conosciuta come Legge Pinto, che ha istituzionalizzato le modalità  del risarcimento. Oggi, se il tuo processo è durato più di 3 anni in primo grado e più di due in secondo, puoi chiedere un risarcimento per il danno subito sia che esso sia patrimoniale, e in questo caso va dimostrato per come effettivamente subito, sia nel caso di danno non patrimoniale, e in quest'altro caso esso è presunto. Si, hai capito bene. Anche se non sei in grado di dare esatta quantificazione del tuo danno economico hai comunque diritto a ricevere una somma di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo. L'importo annuale da calcolare in moltiplicazione per il numero di annualità di durata processuale è di euro 1.500,00, e ne hai diritto ha prescindere che tu abbia vinto o perso la causa. La somma è dovuta anche se il processo è ancora in corso ma ha già superato le durate massime previste per ogni grado. In quest'ultimo caso il risarcimento non sarà però definitivo e potrà essere integrato, con apposita richiesta, all'esito finale della causa. Le somme in gioco possono quindi essere di rilevante interesse perchè superano facilmente i 10.000,00 euro per ogni parte processuale. Vediamo assieme perchè.  Oggi una causa media dura in primo grado circa 6 anni e mezzo mentre in appello supera spesso i 5 anni e mezzo. Sommando le durate di primo e secondo grado arriviamo a 13 anni di durata media. E 1.500,00 per 13 anni fa ammontare il risarcimento richiedibili in 4.500,00: questo perchè la norma parla di indennizzo per ogni anno di eccessiva durata del processo, e non di risarcimento per gli anni che superano la normale durata. Ma anche a conteggiare solo gli anni che superano i limiti di legge, ovvero 3 e 2 anni per i primi due gradi, si arriva a 12.000,00 euro (13-5= 8 anni x 1.500 euro). Gli importi sono quindi di tutto rispetto per ogni famiglia italiana.

Come si fa ad averne diritto??? Semplice: devi fare causa allo Stato! E devi avere l'assistenza di un avvocato! Sembra quasi una beffa: dopo esser stato prigionieri di una causa che non finiva più, ti trovi a doverne iniziare un'altra per ottenere giustizia del ritardo! In questi condizioni, molti mollano! Mollano perchè non sono informati. Impauriti dall'iniziare un nuovo processo e dalla necessità di dotarsi di un altro avvocato, rinunciano ad un risarcimento sicuro perchè non sanno che la causa per avere l'indennizzo dura solo 4 mesi e l'avvocato possono averlo a costo zero. I due passaggi critici del processo, durata e costo, si risolvono fin dall'inizio perchè la legge prevede espressamente che il risarcimento deve essere deciso entro il termine massimo di 4 mensilità mentre l'avvocato può essere ottenuto sempre o con il gratuito patrocinio o con il patto di quota lite. Esatto, hai capito benissimo: il primo caso è quello dell’avvocato pagato direttamente dallo Stato in presenza dei requisiti di legge. Con il Dpr 115/2002 è previsto che tutte le persone con un reddito inferiore a 10.766,33 euro hanno diritto ad avere la difesa processuale sostenuta dallo Stato pur potendosi scegliere l'avvocato che preferiscono fra coloro che sono abilitati all'attività specifica. Tutte le volte in cui invece non si hanno i requisiti reddituali per avere l'assistenza a carico dello Stato, si può avvalersi dell'opportunità concessa dalla riforma Bersani. Si, hai letto bene: Bersani ha messo mani anche a questa materia eliminando le tariffe minime e rimuovendo il divieto di patto quota lite. Dal 2008 puoi concordare con il tuo avvocato il suo compenso pattuendo che lui incassi soltanto se vinci ed in ragione di una percentuale di quanto riesci ad ottenere a tuo favore in sentenza. Fine dei rischi!

Se vinci, paghi. Se perdi, amici come prima. Questo vale doppiamente per i ricorsi per la cosiddetta Equa Riparazione da eccessiva durata del processo:

non sono previsti costi processuali, perchè vi sono l'esenzione del contributo unificato, dei costi di notifica e dei bolli, il risarcimento è assicurato e quindi il tuo avvocato sa che non è un terno al lotto, potendo così facilmente accettare l'accordo che gli proporrai. In quel caso, infatti, nessuno rischia. Basta perciò concordare il compenso in una quota dell'indennizzo e presentare il ricorso entro il termine di legge. Questa è la cosa più importante e la ho lasciata per ultima appositamente perchè non sfuggisse all'attenzione: la richiesta di indennizzo deve essere presentata entro 6 mesi dal passaggio in giudicato del provvedimento che chiude la controversia processuale che ha avuto una durata irragionevole. Che sia la sentenza di primo grado, quella di appello od il decreto di chiusura del fallimento, dal momento in cui questo provvedimento del giudice diventerà definitivo e non sarà più impugnabile (ovvero passerà in giudicato) scatterà il decorso dei sei mesi entro cui potrai chiedere il tuo risarcimento. Ricordalo, è importante. Dopo quel termine (di 6 mesi) perderai il diritto ad ogni richiesta risarcitoria!

Ricapitoliamo: tutti hanno diritto ad essere risarciti per la prigionia processuale ed i soldi sono assicurati perchè il debitore è lo stesso Stato che ha causato il ritardo. Per ottenere l'indennizzo basta un tempo brevissimo (4 mesi) ma devi chiederlo entro 6 mesi dalla fine della causa con l’assistenza di un avvocato, che puoi avere anche senza costi aggiuntivi. Basta concordare prima il patto di quota lite o, se ve ne sono i presupposti reddituali, il patrocinio a spese dello Stato.

Durata ragionevole del processo: la ''Pinto su Pinto'' al vaglio della Consulta. Corte d'Appello Firenze, sez. II civile, ordinanza 13.05.2014. Pasquale Tancredi su “Altalex”. La Corte di Appello di Firenze con ordinanza del 13 maggio 2014 promuoveva giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, commi 2-bis e 2-ter, della Legge 24 marzo 2001, n. 89 - “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo” - nella parte in cui essi trovano applicazione anche ai procedimenti di equa riparazione previsti dalla stessa Legge n. 89 del 2001, per contrasto con gli artt. 111, comma 2, e 117, comma 1, Costituzione. L’ordinanza è stata infatti emessa a seguito della promozione di un c.d. giudizio “Pinto su Pinto”, in cui il ricorrente con ricorso ex art. 2, L. 89/2001 proponeva domanda di equa riparazione davanti la Corte di Appello di Firenze lamentando l’eccessiva durata di un precedente giudizio di equa riparazione svoltosi innanzi la Corte di Appello di Perugia, durato complessivamente anni 2, mesi 9, e giorni 16. La Corte di Appello fiorentina sollevava la questione di legittimità costituzionale dell’articolo prima menzionato sulla scorta di valutazioni condivisibili. La Corte infatti ravvisava un contrasto tra la normativa vigente, in particolare tra:

l’art. 2, commi 2 bis e ter, i quali – a seguito delle modifiche del D.L. 83/2012 - prevedono che un giudizio di merito possa considerarsi dalla durata ragionevole allorquando abbia avuto una durata di tre anni in primo grado e comunque quando il giudizio sia stato definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni, e la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Cassazione la quale invece individua per un procedimento di Equa Riparazione una durata ragionevole in circa un anno e sei mesi (per un grado di giudizio, più la fase dell’esecuzione) e in due anni e sei mesi (per due gradi di giudizio, compresa la fase di esecuzione). Secondo la Corte rimettente il “diritto vivente” (uniforme alla interpretazione di CEDU e Corte di Cassazione) individua la durata complessiva di un processo ex lege 89 in due anni e tale interpretazione trova tra l’altro conforto anche nella nuova formulazione della stessa legge la quale fissa un termine di 30 giorni per l’emissione del decreto nella fase monitoria (art. 4, comma 3) e un ulteriore termine massimo di quattro mesi per l’eventuale fase di opposizione (art. 5 ter, comma 5). Lo Corte fiorentina, inoltre, rilevava fondatamente che “l’individuazione del principio costituzionale della “ragionevole durata” di cui all’art. 111 secondo comma Cost. non può essere infatti avulsa dalla natura del procedimento stesso, e dalla sua “naturale” durata, che dipende in primo luogo dalla sua maggiore o minore complessità; in questo quadro, il procedimento di equa riparazione è per sua natura destinato a durare assai meno di un giudizio ordinario di cognizione, data la semplicità dei fatti che deve accertare (la durata di un procedimento, e le ragioni della sua protrazione, di regola evincibili dalla mera produzione degli atti processuali), e le finalità a cui tende (indennizzare la violazione di un diritto fondamentale leso proprio da una precedente eccessiva durata), oltre che per la mancanza di un doppio grado nel merito; la previsione di una “ragionevole durata” pari a sei anni risulta pertanto incongrua, e lesiva del predetto art. 111 secondo comma Cost., oltre che dell’art. 117 primo comma, per violazione degli obblighi internazionali derivanti all’Italia dall’art. 6 (CEDU) […]”. L’ordinanza si inserisce quindi all’interno di un dibattito giurisprudenziale attuale ed accesso in cui ultimamente anche le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (19 marzo 2014, n. 6313) hanno aderito ai principi della giurisprudenza CEDU precisando che “nel caso in cui la fase della cognizione del processo Pinto si sia conclusa - non rileva se in senso favorevole o sfavorevole al ricorrente - in un tempo eccedente il termine complessivo di due anni (secondo il consolidato orientamento di questa Corte, conforme alla giurisprudenza della Corte EDU: cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012), il ricorrente può far valere, nelle forme e nei termini di cui alla medesima L. n. 89 del 2001, il diritto all'equa riparazione per la durata irragionevole di tale fase del processo Pinto eccedente i due anni. Caso, questo, che non comporta particolari difficoltà interpretative od applicative della legge n. 89 del 2001 ed è agevolmente riconducibile ai consolidati principi e criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di equa riparazione in generale nonché, specificamente, di durata del processo Pinto e dei relativi criteri di liquidazione del danno non patrimoniale (cfr., ex plurimis, le sentenze n. 5924 e n. 8283 del 2012 citt.)”.

La Corte Costituzionale è quindi di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della Legge 89/2001. La stessa Corte nella sentenza n. 30 dello scorso 27 febbraio 2014 ne aveva fortemente criticato il contenuto invitando il legislatore a riformare il meccanismo indennitario disciplinato dalla legge Pinto in quanto “il vulnus riscontrato e la necessità che l’ordinamento si doti di un rimedio effettivo a fronte della violazione della ragionevole durata del processo, se non inficiano – per le ragioni già esposte – la ritenuta inammissibilità della questione e se non pregiudicano la «priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario» (sentenza n. 23 del 2013), impongono tuttavia di evidenziare che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa […]”. Infine, ancor più di recente – con l’ordinanza 9 maggio 2014, n. 124 – il Giudice delle Leggi ha ribadito che l’indennizzo ex lege Pinto spetta anche alla parte soccombente del giudizio di cui si lamenta l’irragionevole durata “alla stregua del canone che impone di attribuire alla legge, nei limiti in cui ciò sia permesso dal suo testo, un significato conforme alla CEDU, tenuto conto che la Corte europea dei diritti dell’uomo interpreta l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nel senso della spettanza dell’equa soddisfazione per la lesione del diritto alla durata ragionevole del processo a tutte le parti di esso e, in particolare, anche alla parte che sia risultata soccombente”. (Altalex, 27 maggio 2014. Nota di Pasquale Tancredi)

Legge Pinto: e se lo Stato non paga? La risposta dell'Avv. Fabrizio Bartolini Vogliamo affrontare un problema particolare inerente i risarcimenti dovuti in base alla Legge Pinto e cioè quello legato alla effettiva riscossione del risarcimento una volta ottenuto. Infatti sia con la finanziaria del 2007 sia , successivamente con la L. 181/2008 lo Stato ha reso impignorabili i propri beni e quindi il danneggiato-creditore non potrà far altro che attendere i lunghi tempi di liquidazione subendo così, al danno, un altro danno sempre per lo stesso motivo. Questa pagina nasce da alcune denunce e richieste che ci sono state inoltrate  su questo problema ad oggi irrisolvibile se non ricorrendo alla Corte Europea che può condannare, come ha già fatto, al risarcimento lo Stato italiano per non aver provveduto in tempi congrui alla liquidazione. Pensiamo che però singoli ricorsi o testimonianze non diano un quadro ben preciso del problema ad oggi diffusissimo. E’ per questo che abbiamo deciso di raccogliere le vostre esperienze e testimonianze sul problema per poi inviarle, una volta raggiunto un numero ragguardevole, alla Corte Europea nonchè diffonderle via web. Una denuncia collettiva che potrà con il tempo far sentire questa nostra voce ad oggi flebile su questo problema che aggiunge al danno già subito la beffa di essere nuovamente danneggiati con tempi lunghi per attendere la liquidazione del dovuto.

UN ESEMPIO PRATICO

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 16 aprile scorso ha condannato il nostro Stato oltre che per la durata eccessiva dei processi anche per l’esiguità degli indennizzi ex Legge Pinto. Otto condanne in una sola sentenza per processi durati 22 anni e 4 mesi per un grado di giudizio in materia di successione in quanto la liquidazione non era stata calcolata sui criteri dettati da Strasburgo.Alla Corte si erano rivolti otto ricorrenti in quanto i processi erano durati troppo a lungo. Lo stato Italiano aveva sostenuto, costituendosi in giudizio. Che era stata violata la regola del previo esaurimento dei ricorsi interni. Tale eccezioni è stata però respinta dai Giudici di Strasburgo i quali , tra l’altro, hanno considerata esigua la somma risarcitoria riconosciuta dallo Stato Italiano in base alla Legge Pinto. Inoltre gli indennizzi erano stati versati ben oltre in termine di 6 mesi fissato dalla legge: in 5 casi 21i mesi dopo il deposito della sentenza, in un procedimento dopo 30 mesi e negli altri due, rispettivamente 17 e 19 mesi dalla pronuncia. Quindi oltre a durare troppo i processi è troppo lungo il tempo di attesa per ottenere il risarcimento; di attesa si tratta, infatti, in quanto il danneggiato/creditore non ha azioni contro lo Stato per recuperare forzatamente il dovuto potendo solo attendere e denunciare la propria situazione ancora una volta alla CE. Da qui la condanna ad un doppio indennizzo. La Corte ha infatti stabilito che non solo lo Stato deve integrare l’indennizzo troppo esiguo disposto dai giudici interni ma deve anche versare una riparazione per i ritardi nel pagamento. La Corte ha quindi accordato euro 1.400 di risarcimento per il ritardo nel pagamento.

Carte e cavilli: ecco l’inferno di chi deve essere risarcito, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Si discute in questi giorni la riforma della responsabilità civile dei magistrati per gli errori giudiziari; la possibilità dell’erario di rivalersi sul magistrato che ha sbagliato, l’automaticità del meccanismo di rivalsa, la misura di essa. Si affronta il tema della qualificazione dell’errore rilevante, idoneo a comportare l’obbligo risarcitorio. Si annusa il solito trend di supina deferenza all’Anm a dispetto delle dichiarazioni di Renzi che circa un mese fa tuonava: «L’Anm è insorta? Brrrr, che paura. Noi andremo avanti… Deve valere la responsabilità civile dei magistrati: quando sbagliano, devono pagare». La sensazione è che si vada verso una riforma apparente e, nella sostanza, inutile che perseguendo la sacrosanta libertà dei magistrati ne preservi, infine, l’arbitrio. Eppure dagli errori giudiziari possono discendere autentici drammi umani, la completa ed irreversibile distruzione di vite. La carcerazione di una persona innocente è in sé sempre una tragedia che strazia una cellula viva della società. È un cancro, una necrosi, un fenomeno distruttivo con effetti di portata devastante che si dispiegano senza esaurirsi nel nucleo in cui si produce e si sviluppa. La tutela per chi ha subito ingiustamente il carcere – al di là delle ipotesi di sanzione a carico del magistrato che ha determinato la condizione patologica – è lenta, oltremodo farraginosa e scoraggiante, connotata da una burocratizzazione cavillosa e spesso insensata. Chi è stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere ed è stato poi, all’esito del procedimento penale, prosciolto con sentenza di assoluzione diventata irrevocabile, ha diritto a ricevere un equo risarcimento del danno subito. Riparazione per ingiusta detenzione, questo l’istituto giuridico. Sembra facile: sei stato in carcere e poi assolto con pronuncia definitiva? Verrai risarcito. Un risarcimento che prescinde dalle responsabilità del giudice che aveva emesso la misura custodiale o la pronuncia di condanna poi riformata. Il diritto al ristoro economico nasce da una lesione di oggettiva gravità: la compressione immotivata di un diritto supremo, la libertà. Inizia, invece, un calvario di burocrazia e di ostacoli di varia natura che appaiono frapposti ad arte per rendere meno accessibile il doveroso rimedio. La richiesta deve essere presentata nella sezione di appello preposta: due fascicoli, ciascuno con indice, tre copie dell’istanza, una serie impressionante di allegazioni. La persona che ha patito la carcerazione ingiusta deve rintracciare il fascicolo dibattimentale e quello del pubblico ministero ed estrapolare dal loro interno copie, alcune in forma autentica, di atti dibattimentali e pre-dibattimentali. Spesso si tratta di processi corposi con molti imputati e mentre l’assoluzione dell’istante diviene definitiva, altri imputati condannati propongono impugnazione. Il fascicolo si sposta. Altra cancelleria. Alcuni atti vanno in archivio (spesso si tratta di numerosi faldoni). Così quando lo sventurato richiedente va in cerca dei documenti necessari, il primo sbarramento è dato proprio dalla ricerca del materiale. Il viaggio ha inizio nella cancelleria di origine e si snoda per archivi e uffici sotterranei alla disperata cerca di tutti gli atti da allegare. Occorrerà poi chiedere che i fascicoli vengano spostati da dove si trovano all’ufficio addetto al rilascio copie. Ci vogliono giorni! Il personale manca. L’interessato – o il suo avvocato – non può per ragioni di privacy e sicurezza portare a termine questa delicata operazione di trasferimento. Finalmente tutti i documenti sono all’ufficio copie, spillati e catalogati, ciascuno nel suo faldone impaginato con scientifica progressione numerica (dell’indice, spesso, rade tracce). Lo speranzoso richiedente compila infine la richiesta copie. Il rilascio è gratuito, anche per quelle autentiche. Il personale di cancelleria, però, avverte che la gratuità delle copie fa sì che loro non possano spendere in tale attività il loro tempo. All’avventore sconfortato – l’interessato o il suo difensore – verrà detto: “se le faccia lei”. Ed ecco allora che il malcapitato si trova per ore in un ufficio polveroso a togliere spille, slacciare documenti con meticolosa attenzione, affrontare macchine fotocopiatrici e risme di carta con la collaborazione (se finisce la carta, se si inceppa la macchina) amabile del personale di cancelleria, interrotto centinaia di volte perché la macchina che sta usando deve assolvere anche a tante altre esigenze più importanti e urgenti: c’è gente ancora da condannare, deve avere la priorità! Infine, quando avrà raccolto il necessario, corredato l’istanza come di dovere, predisposto fascicoli ed indice, aspetterà la fissazione dell’udienza e forse anche il risarcimento.

L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.

Immunità e impunità. Tutti uguali di fronte alla legge, tutti tranne i magistrati. Perché? Si chiede “Il Foglio”. Mentre sulle prime pagine dei giornali campeggia la polemica sull’immunità per i parlamentari – che in realtà dell’immunità ha solo il nome – la corporazione giudiziaria difende con successo la propria fattuale impunità, opponendosi a ogni forma di applicazione di effettiva responsabilità civile. Si tratta di una violazione palese del principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, peraltro confermata da un’espressione diretta della volontà popolare attraverso un referendum, completamente disatteso. Fa scandalo che i membri di un’Assemblea legislativa non possano essere privati della libertà personale ma non si vede l’enormità della pretesa di una categoria che può commettere, anche con “dolo o colpa grave”, ingiustizie senza pagarne mai le conseguenze. Secondo la legge in vigore, se un consesso di magistrati decide che un cittadino ha subìto un’ingiustizia, sarà lo stato a rispondere del danno arrecato. Teoricamente poi potrebbe rivalersi in parte sul magistrato responsabile, ma questo non accade praticamente mai. Va detto, peraltro, che quello che verrebbe sanzionato da una legge sulla responsabilità civile dei magistrati non è il semplice errore giudiziario, che è sempre possibile e che peraltro può essere corretto grazie all’esistenza di più gradi di giudizio. Si tratta di sanzionare comportamenti gravissimi che volontariamente o per inaccuratezza producono danni irreparabili a cittadini ingiustamente sottoposti a procedimenti giudiziari infondati o manipolati. E’ questo il senso del “dolo o colpa grave”: un comportamento di cui tutti sono tenuti a rispondere, esclusi solo i magistrati.

Le prigioni degli innocenti: l’errore giudiziario da Jules Mary a Pierre Boulle, scrive Michela Gardini. L’oggetto del nostro articolo consiste nella rappresentazione dell’errore giudiziario prevalentemente nella letteratura francese, in testi che si collocano tra la seconda metà dell’Ottocento (Jules Mary, Xavier de Montépin) e gli anni Cinquanta del Novecento (Léo Malet, Georges Simenon, Pierre Boulle). Il tema si inserisce nella più ampia prospettiva della relazione tra diritto e letteratura, alle cui connessioni sono stati dedicati anche recentemente svariati studi, a testimoniare l’interesse che l’incontro tra discipline eterogenee riveste, inaugurando una prospettiva di riflessione e di ricerca quanto mai produttiva. Privilegiando casi giudiziari frutto d’immaginazione, non entreremo nel merito dell' Affaire Dreyfus, su cui esiste già una vastissima bibliografia. Che cos’è un processo penale se non, esattamente come un’opera letteraria, una narrazione e una interpretazione di fatti che perdono totalmente la loro oggettività? Come argomenta Domenico Corradini H. Broussard, il processo al quale si assiste “sul palcoscenico dei tribunali” è un “play”, in cui “ciascun litigante è figlio del suo romanzo, di un romanzo in cui le azioni rappresentate non sono più le azioni storiche da lui compiute in un determinato locus e in un determinato punctum temporis” (2010:34). A dispetto della ricerca di una scientificità del diritto e del sistema penale, è l’arbitrarietà della ricostruzione dei fatti nonché la soggettività delle sentenze che spesso caratterizzano la cronaca giudiziaria. Ancora Domenico Corradini H. Broussard: L’omicida, come il mutuante o il mutuatario, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano il fatto ai loro difensori. I difensori, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano il racconto dei loro assistiti. I testimoni, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano. Il pubblico ministero, dal proprio punto di vista, racconta l’omicidio. L’imputato, dal proprio punto di vista, racconta lo stesso omicidio, anche avvalendosi dello ius tacendi e dello ius mentendi. I documenti prodotti, ciascuno dal proprio punto di vista, raccontano. Le perizie depositate, ciascuna dal proprio punto di vista, raccontano, il giudice, dal proprio punto di vista, racconta nella sentenza che emana. […] Tutti raccontano. Raccontano non l’eventum, che è rimasto fuori dalla porta del procedimento giurisdizionale. Ma raccontano l’inventum, che dalla porta del procedimento giurisdizionale è entrato. Per raccontare, devono inventare. […] E raccontando, tutti rappresentano a loro modo la realtà di ciò che è stato. (2010:36). Recenti studi di psicologia, d’altro canto, hanno dimostrato le influenze psicologiche che non di rado inducono i giudici a emettere sentenze non adeguate sulla base di vere e proprie distorsioni nella ricostruzione degli avvenimenti. La macchina giudiziaria può così diventare una terribile fabbrica di errori giudiziari, in balia dei fattori più svariati, di ordine psicologico, politico e sociale, dall’istintività dell’opinione pubblica all’arbitrarietà della stampa, dalle false testimonianze alle perizie fantasiosamente interpretate. Pierre Boulle, nel romanzo La faccia o Il procuratore di Bergerane, pubblicato nel 1953, rappresenta tutte le fasi che scandiscono la costruzione dell’errore giudiziario, tanto più tragico in quanto artatamente prodotto dalla mente spietata del procuratore Jean Berthier. Avendo assistito inerme all’incidente che porta la giovane Solange Grenier a scivolare nel fiume Rodano dove troverà la morte, il neonominato procuratore si cala totalmente nel ruolo del magistrato integerrimo, fermamente deciso a placare gli animi degli abitanti della cittadina di Bergerane, desiderosi a tutti i costi di avere un colpevole assicurato alla giustizia che possa dare loro l’illusione del trionfo della legalità. Guillaume Vauban, l’irascibile fidanzato della vittima, visto con lei poco prima della scomparsa della ragazza da testimoni colpevolisti a priori, appare come il capro espiatorio designato di un delitto inesistente. Non solo l’opinione pubblica lo condanna prima ancora che l’indagine venga svolta: “L’astio dell’opinione pubblica – si legge – si scagliava spontaneamente su quel figlio di ricchi ozioso, buono a nulla, traviato, che s’era attaccato a una ragazza di condizioni modeste” (Pierre Boulle 2007:138), ma, ancor più, la logica perversa dell’errore giudiziario porta la vittima stessa a confessare un omicidio mai commesso, irretito dalla strategia della difesa che convince Vauban, suo malgrado, ad ammettere la propria colpevolezza per poter ottenere le attenuanti. Molto spesso, come scrive Jacques Vergès, è come se l’errore giudiziario si alimentasse da solo, senza lasciare scampo alla vittima innocente ed ignara: Come un verme nella frutta, l’errore si situa a monte dell’inchiesta, negli a priori dell’inquirente, ed è a giusto titolo che l’avvocato Devedjian ha potuto desumere come una legge generale dell’errore giudiziario: “L’inchiesta preliminare è generalmente la fonte di tutti gli errori giudiziari perché è il momento in cui l’emozione è al culmine e i pregiudizi sono fortissimi”. Basta che l’accusato faccia prova di un’attitudine percepita come equivoca o sospetta, ed ecco che la macchina s’imballa (2011:71. Traduzione nostra). L’inautenticità che sta alla base della costruzione dell’errore giudiziario nel romanzo di Boulle raggiunge il parossismo nella simulazione del delitto che lo stesso Vauban è costretto ad interpretare sul luogo in cui venne ritrovata la bicicletta di Solange. E’ come se nel romanzo irrompesse la scena di una pièce teatrale o di un film, con tanto di atti, recitanti, prove. Vauban si trova a recitare la parte dell’assassino, remissivo, docile, ormai piegato alla macchina distorta della “giustizia”. Come in una mise en abyme, viene rappresentato un delitto inesistente sì, ma già raccontato nelle pagine precedenti, che si nutre della propria finzione e il cui copione è stato scritto dall’efficientissimo procuratore Berthier e dai suoi collaboratori: Come un regista che fa ripetere all’infinito la stessa scena, Charvin fece rimettere nella posizione di partenza i due attori, il criminale e la vittima, quest’ultima impersonata ora dal brigadiere Langelin. Vi furono ancora dei tentativi falliti, ma alla fine, grazie all’impegno dimostrato dal brigadiere, riuscirono a ricostruire con sufficiente fedeltà il dramma che sin dal primo giorno aveva tanto colpito l’opinione pubblica, che era stato pian piano ricostruito in corso d’istruttoria e la cui effettività era stata confermata dalla confessione del reo (Pierre Boulle 2011: 160-61). La mente senza scrupoli di Berthier, che vuole camuffare la propria viltà indossando la maschera del magistrato che assicura il colpevole alla giustizia, inventa spietatamente un reato non commesso giungendo a chiedere la pena capitale per l’accusato. La requisitoria si configura come una narrazione completamente slegata dalla veridicità dei fatti, ma tanto più convincente quanto più riesce ad incontrare le attese del pubblico colpevolista. D’altra parte, la storia del diritto penale in Francia a partire dalla Rivoluzione Francese sino alla fine dell’Ottocento se, da un lato, testimonia del tentativo di fondare una scienza giuridica, dall’altro, tuttavia, mostra tutta la sua arbitrarietà e la sua dipendenza da fattori esterni al diritto stesso. In particolare, alla fine del XIX secolo, si assiste, contemporaneamente all’equazione proletariato=delinquenza, proprio alla fabbrica dell’errore giudiziario. A dispetto di quanto si leggeva sulla Gazette des Tribunaux nel 1851 :”Grazie alle garanzie che le nostre leggi penali hanno creato a vantaggio degli accusati, la condanna di un innocente è oggi divenuta quasi impossibile” (cit. da Joëlle Deluche 1994:336. Traduzione nostra), la realtà dei fatti smentisce tragicamente questo ottimismo, in un’epoca in cui l’aumento della criminalità aveva reso cruciale il problema della repressione e della sicurezza sociale, al punto da rendere solo teorica la presunzione di innocenza introdotta dalla Rivoluzione Francese, come ricorda Joëlle Deluche: “In realtà, a partire dal momento in cui un individuo viene sospettato, è una presunzione di colpevolezza che si impossessa degli animi” (1994:344. Traduzione nostra). Nel suo saggio sul diritto penale francese nel corso del XIX secolo, “Du châtiment inflexible à la peine modulée: le droit pénal français au XIX e siècle” (2009), Bernard Schnapper denuncia quanto esso sia stato influenzato dalla storia politica del paese. Le conquiste della Rivoluzione Francese che, in campo giuridico, cercarono di porre rimedio all’arbitrarietà del diritto dell’Ancien Régime introducendo delle leggi scritte che si ispiravano alla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 e che vennero raccolte nel Codice penale del 25 settembre/6 ottobre 1791, conobbero talvolta, nel corso dei decenni, delle riformulazioni in senso involutivo. L’elezione dei giudici introdotta dalla Rivoluzione, che sarebbero poi stati controllati da un ministero pubblico, venne abolita da Napoleone Bonaparte che stabilì che i giudici fossero nominati direttamente dal capo dello Stato, addomesticando in tal modo la magistratura ed assumendone il potere. Di fatto Bonaparte elaborò un sistema penale di compromesso, che tenesse parzialmente conto del Codice penale della Rivoluzione ma che allo stesso tempo recuperasse alcune prerogative dell’Ancien Régime, nella direzione di un inasprimento della repressione e del rafforzamento del proprio potere. La svolta liberale del 1830 sino alla fine della II Repubblica cercò di riformare il sistema giuridico, ma il colpo di stato di Napoleone III pose fine al cammino di riforme introducendo, al contrario, un regime autoritario che si riflesse anche nel sistema penale. Bisognerà aspettare la caduta del Secondo Impero e l’avvento della III Repubblica perché venga rimessa mano al tentativo di riforma liberale della II Repubblica, promulgando, per esempio, una legge che permettesse agli accusati di essere assistiti da un avvocato. Tuttavia, la recrudescenza di eventi delittuosi, seminando il sospetto e la paura nella popolazione, spinse nella direzione di un rafforzamento della repressione, innescando in misura direttamente proporzionale una serie inaudita di errori giudiziari. Come documenta Frédéric Chauvaud nel suo saggio “Un «sujet de deuil» au XIXe siècle. La fabrique des erreurs judiciaires » (2004), tra gli anni 1860 e la fine degli anni 1890 la letteratura giuridica produce un numero importante di pubblicazioni proprio sul tema degli errori della giustizia. L’infallibilità dei giudici non è che un mito, come scrive nella propria tesi di dottorato Gaetan Péan, avvocato alla corte d’appello di Parigi: “è una verità antica e troppo banale per insistervi, e forse anche per pensarvi molto, che gli uomini sono condannati all’errore, e i giudici, essendo uomini…” (cit. in Frédéric Chauvaud 2004:155. Traduzione nostra). Nel corso dell’Ottocento l’errore giudiziario diventa sempre meno un episodio isolato per diventare un fenomeno collettivo, che può minacciare qualsiasi individuo del corpo sociale. La fretta nelle indagini, l’eccessiva fiducia accordata ai testimoni non sempre attendibili, la troppa importanza data alle presunzioni di colpevolezza e agli indizi sono tra i fattori che predispongono all’errore, ai quali va ad aggiungersi la pressione esercitata dall’opinione pubblica che desidera ad ogni costo trovare un colpevole, anche in mancanza di certezze irrefutabili. Questo spiega anche il fatto che “il destino dell’accusato innocente dipende ben poco da lui stesso. Rassegnato o ribelle, egli indossa gli abiti del colpevole” (Frédéric Chauvaud 2004:160. Traduzione nostra). In questo contesto emozionale, la stampa che dà voce all’opinione pubblica alimentandola, designa il colpevole prima che la giustizia abbia fatto il suo corso. “Bisogna far condividere delle emozioni – scrive Chauvaud – far fremere i lettori nello stesso modo in cui fremeva la folla che assisteva ai supplizi, e soprattutto tenerli in sospeso. Per fare ciò, vengono pubblicate parti dell’istruttoria, vengono condotte delle inchieste parallele e degli innocenti sono d’un tratto presentati come dei colpevoli” (2004:167. Traduzione nostra). Come emerge dai Souvenirs de la cour d’assises (1913) di André Gide, spesso le istituzioni appaiono meno preoccupate di far trionfare la giustizia che di dare prova di forza e di efficienza di fronte alla crescente criminalità. Auspicando che “delle riforme, poco a poco, potranno essere introdotte, sia riguardo al giudice e all’interrogatorio che riguardo ai giurati” (2009:13. Traduzione nostra), Gide non può che testimoniare la fragilità del sistema giudiziario, avendolo perlopiù conosciuto dall’interno grazie all’esperienza di giurato: ”sino a che punto la giustizia sia una cosa dubbia e precaria – scrive – è ciò che, durante dodici giorni, ho potuto sentire sino all’angoscia” (2009:12. Traduzione nostra). Dalle riflessioni di Gide emerge un’applicazione del diritto per molti versi lombrosiana: “L’opinione della giuria è che, dopo tutto, se non è del tutto sicuro che abbiano commesso questi furti, hanno dovuto commetterne altri; o che ne commetteranno; che, dunque, sono capaci di rubare. […] Colpevoli senza dubbio, ma forse non precisamente di questi crimini” (2009:17. Traduzione nostra). In quest’ottica di dubbio e di incertezza, Gide spiega il ricorso alle circostanze attenuanti come sintomo dell’esitazione della giuria che, in questo modo, opta per un verdetto di compromesso tra colpevolezza e innocenza. Tra gli errori giudiziari involontari e quelli volontari, si situano, dunque, quelli che nascono dal dubbio. Scrive Gide: Quante volte (e nello stesso caso Dreyfus) queste «circostanze attenuanti» indicano soltanto l’immensa perplessità della giuria! […] Ciò significa: sì, il reato è molto grave, ma non siamo del tutto certi che sia costui ad averlo commesso. Eppure ci vuole una punizione: per ogni evenienza puniamo costui, poiché è lui che ci offrite come vittima; ma, nel dubbio, non puniamolo troppo (2009:62. Traduzione nostra). Gide, infine, termina i suoi Souvenirs de la cour d’assises citando un conclamato errore giudiziario che portò in carcere per ventisette anni un innocente, scagionato soltanto dalla confessione, in punto di morte, del vero reo, attirando l’attenzione sul fatto che in casi come questo è la giustizia stessa a commettere un reato. Come non ricordare il drammatico film di Nanni Loy, Detenuto in attesa di giudizio (1971), in cui Alberto Sordi interpreta la parte di un uomo arrestato e incarcerato per errore. Quando i funzionari della giustizia, nella figura dell’avvocato e del giudice ammettono l’errore e comunicano al detenuto l’imminente scarcerazione, ne fanno tuttavia ricadere la responsabilità sul detenuto stesso (“in parte anche per colpa sua signor Di Noi”), non mettendo quindi affatto in discussione l’istituzione e non riconoscendo l’errore giudiziario come un reato commesso dalla giustizia stessa. Nemmeno la scarcerazione ormai può ricompensare la vittima della distruzione fisica e psicologica subita. Il detenuto, che dal carcere è stato trasferito nel manicomio giudiziario, è ora un essere ammansito, senza più reazioni, un corpo docile e una mente inerme, schiacciati dall’attesa frustrata di dare un senso alla terribile esperienza vissuta. Proprio l’impossibilità da parte dei personaggi di attribuire un senso all’esperienza vissuta permette di interpretare il film come una rivisitazione del Processo di Kafka (1925). Entrambe le vicende, sia di Josef K. che di Giuseppe Di Noi, infatti, arrestati senza aver commesso nulla e senza che vengano date loro spiegazioni, oltre a denunciare la mostruosità del labirinto giudiziario che trasforma il condannato in una pratica burocratica, pongono il problema esistenziale dell’uomo che equivale ad un eterno esilio rispetto alla legge, in un mondo sempre esposto all’errore e senza possibilità di giustizia. L’attesa e l’angoscia dell’imputato di conoscere il motivo dell’arresto tanto nel film di Nanni Loy quanto nel romanzo di Kafka presentano la questione cruciale della colpa che viene ad assumere una connotazione metafisica: il condannato, colpevole o innocente che sia rispetto ad un reato specifico, si comporta come se dovesse comunque espiare una colpa, partecipando all’erogazione della pena di cui è vittima. Si tratta perlopiù di un retaggio giudaico-cristiano che induce il condannato ad una sorta di rassegnazione rispetto ad una macchia originaria, la medesima rassegnazione che spinge Dmitrij nei Fratelli Karamazov (1879) ad accettare la condanna per il parricidio, in realtà commesso da Smerdjakov, poiché si sente comunque colpevole per il fatto di aver desiderato la morte del padre. “Tutti i protagonisti fittizi o reali di un errore giudiziario hanno così, nella loro vita, una falla” scrive Joëlle Deluche, cosicché la loro innocenza legale non è sufficiente a metterli al riparo (1994:340. Traduzione nostra). Il fatto che Josef K. non venga portato in prigione nonostante l’arresto, lo priva comunque della libertà, trasformando in una prigione tutti i luoghi che frequenta a cominciare dalla sede di lavoro, nei quali di fatto non è più padrone delle proprie azioni. L’umiliazione e il degrado di sé devono essere totali: Josef K. verrà giustiziato “come un cane”, mentre Giuseppe Di Noi è talmente piegato dal potere di cui è vittima, da comportarsi come il protagonista di un altro celebre testo di Kafka, La colonia penale (1914), dove “il condannato aveva talmente l’aspetto di un cane sottomesso, da dare l’impressione che lo si poteva lasciar correre liberamente per i pendii e che bastava chiamarlo poi con un fischio all’inizio dell’esecuzione, perché accorresse” (Kafka 1992:285). Il condannato subisce la sua pena come un destino ineluttabile, una “fatalità”, per utilizzare l’espressione di Léo Malet nella Premessa al suo romanzo L’ombra del grande muro (1942): Queste pagine, traversate da spari di rivoltelle automatiche, da corse furiose di auto lanciate a tutta velocità, sputando fuoco e morte, costituiscono la storia di un innocente che la fatalità spinge nel fango sanguinoso del crimine, fino a sprofondarvi definitivamente; di un uomo sul quale pesa certo più della lapide della tomba, al punto di fargli credere che il sole non sia per lui, l’ombra terribile del grande muro” (Léo Malet 2004: 7-8). Il condannato innocente subisce l’errore giudiziario come un eroe tragico che nulla può contro l’imperscrutabilità del Fato. La Pocharde, protagonista dei due romanzi di Jules Mary La Pocharde e Les Filles de la Pocharde (1897-1898), imprigionata ingiustamente, si sente come l’eroina di una tragedia antica, vittima impotente della fatalità: “Le fornaci da gesso! Tutta la sua disgrazia veniva da loro! Esse avevano svolto, nella sua vita, il ruolo della fatalità nelle tragedie antiche” (Jules Mary 2001:1054. Traduzione nostra). Nella rappresentazione letteraria dell’errore giudiziario assistiamo, tuttavia, ad un’evoluzione del genere tra la fine dell’Ottocento e gli anni Cinquanta del Novecento. Il romanzo popolare della fine dell’Ottocento, pur nella sua ridondanza e iperbolicità, di fronte ad un pubblico ormai di massa, si offre come lo specchio della società della sua epoca. Non stupisce, in quest’ottica, che molto spesso le vicende narrate riguardino il problema della criminalità e della repressione, una vera e propria urgenza nel contesto sociale della seconda metà dell’Ottocento. In particolare, si sviluppa quello che potremmo definire il genere dell’errore giudiziario, avente come protagonisti degli innocenti condannati ingiustamente. Maestro del genere è Jules Mary, nato nel 1851 e morto nel 1922, autore di decine di romanzi perlopiù apparsi come feuilletons sui giornali parigini e della provincia. La nostra attenzione si è rivolta a due romanzi principali con le loro rispettive continuazioni: Roger-la-Honte, seguito da La Revanche di Roger-la-Honte (1886-1887); La Pocharde, seguito da Les Filles de la Pocharde (1897-1898). Lo schema vi appare rigidamente il medesimo: il protagonista viene accusato e condannato ingiustamente, anche a fronte di una serie di indizi che effettivamente sembra deporre a sfavore del presunto colpevole, rendendo in tal modo la vicenda più movimentata ed accattivante. Ma né la deportazione di Roger Laroque, soprannominato la Honte (Vergogna) in Nuova Caledonia, né la lunga prigionia di Charlotte Lamarche soprannominata la Pocharde (Ubriacona) producono sulle vittime alcun cambiamento né alcuna lacerazione psichica. Essi restano fedeli a loro stessi e la loro identità non viene scalfita dalle prove patite durante la reclusione. Il loro unico desiderio è riuscire a dimostrare la propria innocenza ed ottenere pubblicamente la piena riabilitazione. Il loro è un percorso di dannazione e redenzione, che li rende figure cristiche, pronte al sacrificio in nome della verità. Non li anima nemmeno l’impulso della vendetta di Edmond Dantès, bensì, piuttosto, la ricerca di un’apoteosi finale che sancisca anche la riconciliazione sociale tra la vittima e il corpo della società da cui era stata iniquamente espulsa. In questo senso, del resto, il romanzo popolare assolve la propria funzione didattica e moralizzatrice. Questi romanzi sono specchio dell’epoca anche nella misura in cui mostrano come la stampa e la medicina legale svolgano un ruolo nevralgico nella cronaca giudiziaria tardo-ottocentesca. Roger Laroque, accusato di omicidio e di furto, condannato ai lavori forzati, evaso dal penitenziario in Nuova Caledonia per poter riabbracciare la figlia Suzanne, prima ancora di venire riabilitato davanti alla legge grazie alla confessione di Luversan in punto di morte, gode già della riabilitazione da parte dell’opinione pubblica che sostiene la sua causa dalle testate dei giornali. Il romanzo di Jules Mary mostra il potere detenuto dalla stampa, ora colpevolista ora innocentista, capace di influenzare i processi giudiziari in corso. “Roger Laroque – si legge nel romanzo – si stupì che la stampa fosse già al corrente delle informazioni confidenziali che egli aveva dato ai giudici. Ma poco gli importava. Aveva l’opinione pubblica dalla sua parte, questa era la cosa principale” (Jules Mary 2001:449. Traduzione nostra). Ancora: “La stampa parigina intraprendeva già una campagna in favore della sua riabilitazione. […] Sì, la stampa prendeva in mano e vigorosamente il suo caso. Numerosi strilloni gridavano per le vie i fogli pubblici annunciando: Il crimine di Ville-d’Avray! Un errore giudiziario! Agonia dell’assassino nella casa della vittima! Dettagli completi! (Jules Mary 2001:448. Traduzione nostra). Nella condanna di Charlotte Lamarche, invece, gioca un ruolo essenziale la perizia medico-legale. Il sospetto che Charlotte abbia avvelenato il figlioletto viene suffragato proprio dall’esame autoptico, che conferma la morte per avvelenamento, salvo scoprire che il veleno responsabile del decesso altro non è che l’esalazione dei fumi di gesso provenienti dalle fornaci ubicate vicino all’abitazione della donna. Come argomenta Frédéric Chauvaud nel saggio già citato, mentre nei processi le deposizioni dei testimoni e le confessioni stesse vengono sempre più contestate, la perizia medico-legale diventa protagonista nel processo penale proprio alla fine dell’Ottocento, sollevando talvolta il magistrato dalla responsabilità della sentenza. Altre volte, invece, i magistrati stessi denunciano la soggettività delle cosiddette prove scientifiche, come fu il caso nel 1880 da parte del procuratore generale Dauphin che non esitò a parlare di “opinioni personali scientifiche” (Frédéric Chauvaud 2004:166. Traduzione nostra) alla base degli errori giudiziari. La riabilitazione della Pocharde sarà possibile soltanto quando cadrà la prova medico-legale, allorché in punto di morte il dottor Marignan confesserà il proprio errore, taciuto per tanti anni per non compromettere il proprio prestigio. L’apoteosi finale che sancisce la piena riabilitazione della vittima innocente si configura come il tratto distintivo della letteratura popolare, come emergeva già nel 1863 nel romanzo di Xavier de Montépin L’Homme aux figures de cire. Anche in questo caso la ricerca della riabilitazione non ammette alcuna tentazione di accettare la grazia, per il fatto che essa non restituisce alla vittima la sua onorabilità. Vaubaron viene accusato ingiustamente dell’omicidio compiuto dallo spregiudicato Rodille che costruisce abilmente le prove contro Vaubaron che, “nato vittima”, come scrive Joëlle Deluche, “incarna la figura del manque” (Joëlle Deluche 1994:339), designato dal destino a subire l’ingiustizia celebrando non più solo l’equivalenza miseria=delinquenza ma piuttosto miseria=errore giudiziario. Ma, di fronte ad una giustizia insufficiente e fallace, Vaubaron sarà salvato dal suo stesso ingegno realizzando parossisticamente anche la propria ambizione di diventare artista: animando degli automi di cera con il sembiante delle vittime di Rodille, quest’ultimo crede di essere perseguitato dai fantasmi e confessa i propri delitti restituendo a Vaubaron pubblicamente la propria innocenza. Dannazione e redenzione ancora una volta dunque, come cifra del romanzo popolare. Ma questo binomio che sinora è parso ineludibile è destinato a cadere nella letteratura contemporanea. Nei testi in cui vi è la rappresentazione dell’errore giudiziario, infatti, per la vittima non vi è più alcuna riabilitazione possibile, ma solo un’inarrestabile caduta. Negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, quando i traumi della storia hanno ormai impresso la propria ombra sulla letteratura, il romanzo dell’errore giudiziario viene assorbito dal genere poliziesco che, lungi dal configurarsi come letteratura di evasione, si interroga sulle questioni sociali più cruciali quali, appunto, la giustizia nelle sue molteplici declinazioni, dal problema delle prove di colpevolezza alla pena di morte. Se la vittima tardo-ottocentesca in prigione manteneva intatta la sua forza, come se la privazione della libertà alimentasse in misura direttamente proporzionale il desiderio di riscatto e di ricongiungimento al corpo sociale, a sancire comunque il trionfo finale dell’istituzione giudiziaria, al contrario la vittima novecentesca in prigione subisce una trasformazione profonda e irreversibile. La reclusione si rivela un’esperienza di frammentazione dell’io, inteso sia come soggetto privato sia come soggetto sociale. Nel romanzo di Léo Malet L’ombra del grande muro (1942) il dottor Crawford, sulla base di incerte testimonianze e dell’assenza di un alibi, viene accusato dell’uccisione di Evelyn Stacy. La condanna per “omicidio involontario ed esercizio disonesto della medicina” a tre anni di prigione e a cinque di interdizione dalla professione a partire dalla fine della pena, del resto, diventa inevitabile dal momento che Crawford, per non coinvolgere la donna con cui aveva una relazione clandestina e con cui, di fatto, si trovava la sera del delitto, finisce per confessare il reato mai commesso, ormai intrappolato nell’ingranaggio perverso della giustizia: “Ma al processo avevo temuto che un supplemento d’indagine facesse scoprire la verità e, per evitare tale temibile eventualità, avevo ammesso il crimine di cui ero innocente” (Léo Malet 2004:36) afferma il dottor Crawford, come se, benché estraneo all’omicidio, dovesse espiare comunque un’infrazione, una macchia, la trasgressione legata alla sua segreta vita sentimentale. Rinchiuso nella prigione di Ossining, nello Stato di New York, Crawford cambia pelle e il giorno della sua liberazione la prigione non apre le proprie porte all’uomo che era tre anni prima, bensì ad un uomo ormai anestetizzato, marchiato a fuoco dal numero di matricola 9204, che sta per fare il suo ingresso realmente nel mondo del crimine: In seguito vagai come un’anima in pena. Era strano essere libero… era comunque un po’ sgradevole. Pensandoci bene, non era il fatto di essere libero ad essere sgradevole… era il sentirsi solo, vedere gli amici di un tempo voltarti le spalle, sentirsi segnato e smarrito al centro di una sorda ostilità, un’ostilità che sembrava manifestarsi persino in coloro che ignoravano la tua condizione, come se il numero di matricola restasse anche sul completo nuovo (Léo Malet 2004:40). Entrato a far parte di una banda di criminali prestando dapprima il proprio servizio come medico, Crawford arriva ad uccidere senza provare alcuna emozione né rimorso: «E’ morto», dissi rialzandomi e asciugandomi meccanicamente le mani sporche di sangue sulla coscia. Avevo appena ucciso un uomo con una facilità sconcertante. I tre anni di Ossining dovevano in buona parte avere a che fare con tale calma (Léo Malet 2004:65). Se le vittime innocenti dei romanzi popolari della seconda metà dell’Ottocento, come abbiamo analizzato, avevano come unico desiderio quello di veder riconosciuta la propria innocenza, il romanzo di Malet termina con il ritorno di Crawford in carcere dopo che questi ha compiuto la propria vendetta, uccidendo il marito dell’amante di allora, che altri non era che il vero assassino di Evelyn Stacy. La prigione, dunque, foucaultianamente come produttrice di delinquenza, il “grande muro” che getta un’ombra indelebile: “Lo so. – afferma Crawford – Trascinavo con me l’ombra del grande muro e sulla mia persona l’impronta della griglia dalle sbarre d’acciaio, cruciverba nel quale non si scrive mai l’aggettivo libero” (Léo Malet 2004:79). Anche Simenon non manca di denunciare le distorsioni della giustizia, come avviene nei due romanzi Corte d’assise (1941) e Maigret e una vita in gioco (1957), per i cui protagonisti, vittime di un errore giudiziario, non vi è redenzione possibile. Petit Louis, nel primo romanzo, è il capro espiatorio perfetto per salvare i veri colpevoli, protetti da una giustizia connivente con il crimine. Come nel romanzo di Pierre Boulle, l’errore giudiziario viene fabbricato ad arte, condannando Petit Louis, che ascolta il verdetto completamente inerme, a vent’anni di lavori forzati, vent’anni di divieto di residenza e alla perdita dei diritti civili. Dopo la sentenza, i ruoli tra l’istituzione e il condannato paiono beffardamente ribaltati: Erano tutti colpevoli, magistrati, giurati, giornalisti, belle spettatrici e spettatori, tutti, compresi gli avvocati, che all’improvviso trovarono qualcosa di urgente da fare, sentirono il bisogno di muoversi, di precipitarsi verso qualcuno o verso una porta, perché non ce n’era uno che non avesse un motivo per non vergognarsi (Georges Simenon 2010:180). Dal comportamento che mostra in carcere Joseph Heurtin, protagonista del secondo romanzo, il commissario Maigret deduce che “è pazzo o è innocente” (Georges Simenon 1957:37,38), decidendo di voler dimostrare la sua estraneità al duplice omicidio per il quale è stato condannato. Ma la prigione ha ormai trasformato Heurtin, come tutti gli altri condannati a morte, in un numero: “Venivano a prendere il numero 9 – si legge - per condurlo al patibolo. L’indomani Heurtin, divenuto il numero 11, singhiozzava. Ma non parlò. Steso sul lettuccio, il viso volto verso il muro, si limitava a battere i denti” (Georges Simenon 1957:37). L’unico orizzonte che la prigione schiude per Heurtin è quello della morte, per questo quando verrà liberato a sorpresa affinché conduca al vero assassino, il giovane, nascosto nella casa paterna, viene ritrovato impiccato. Il suicidio è la forma estrema che assume la distruzione del soggetto recluso a fronte dell’impossibilità della riabilitazione, come avviene anche in un altro romanzo dedicato all’errore giudiziario: Il caso Maurizius di Jakob Wassermann, pubblicato nel 1928, ispirato ad un fatto di cronaca e da cui il regista Julien Duvivier trasse nel 1954 il film L’Affaire Maurizius. Anche in questo romanzo ritroviamo la dicotomia tra grazia e riabilitazione: dopo 19 anni Maurizius esce di prigione essendo stato graziato, ma ne prova una profonda insoddisfazione, poiché la libertà, così ottenuta, non può restituirgli l’innocenza. Il carcere ha ormai irreversibilmente ucciso in lui la vita: “Ma no, non esiste conforto. Anche il sesso è stato ucciso, in lui. Ora è evidente: lui non fa più parte del mondo. Anche il sesso è morto” (Jakob Wassermann 2001:490). Mentre i personaggi dei romanzi popolari venivano reintegrati nel tessuto sociale, per Maurizius l’unica verità è la sua totale esclusione: “lui non fa più parte del mondo”. Nella vicenda Maurizius, il carcere si rivela il luogo di un pervasivo annientamento. Emblematico, in tal senso, il dialogo tra il carcerato e il secondino: alla domanda se lo crede innocente o colpevole, la guardia risponde che all’indomani avrebbe avuto la risposta, facendosi poi trovare impiccato, perché se si credesse nell’innocenza di un detenuto “e poi si deve stare a vedere come si rodono il fegato, dico io, se si sapesse per certo, allora… […] Be’, allora, disse lui, a rigore non si potrebbe più continuare a vivere” (Jakob Wassermann 2001:435). Nei romanzi popolari ottocenteschi analizzati è evidente come la trama avventurosa porti alla creazione di personaggi nel complesso stereotipati, senza spessore psicologico, proprio perché funzionali alla dimostrazione della tesi contenuta nel binomio dannazione/redenzione. Nei romanzi novecenteschi che abbiamo evocato, invece, la presentazione dei personaggi è innanzitutto introspettiva. Vengono descritte le reazioni e le sensazioni che la reclusione, subita ingiustamente, suscita in loro. Maurizius, condannato all’ergastolo, attraversa tutte le fasi della discesa all’inferno: la perdita del sonno, le ruminazioni mentali, “la tortura del «se avessi»” (Jakob Wassermann 2001:412), rimorsi, rimpianti e il senno di poi. Ma la prova più difficile si rivela “l’imprigionamento della volontà […]. Si continua a volere sempre, sì, la volontà non è morta, ma non c’è più nulla da volere e questo finisce per fare impazzire” (Jakob Wassermann 2001:413). Laddove la rappresentazione romantica della reclusione prevedeva come compensazione alla perdita della libertà la creazione letteraria e artistica, rifugio privilegiato del prigioniero affetto da claustrofilia, significativamente la caduta di Maurizius trasforma anche l’atto della lettura e della scrittura in un’operazione meccanica, nonché in una recita apatica. Schiacciato dal peso di questa messa in scena, Maurizius decide di non scrivere più: “Mi alzai e buttai la penna nel secchio delle immondizie, dicendo: basta, basta! E mi sentii così male che vomitai” (Jakob Wassermann 2001:423). La discontinuità con la tradizione romantica non potrebbe essere più completa, sino ad approdare al genere del legal thriller che trova in John Grisham l’interprete attualmente maggiormente riconosciuto. Se nel romanzo Io confesso (2010) la riabilitazione post mortem può servire a tutelare la memoria di Donté Brumm, vittima innocente condannata all’iniezione letale e, ancor più, a stemperare la sofferenza della famiglia, di fatto essa nulla concede al condannato.

Innocenti in cella, assolti e archiviati. Ecco l’esercito (potenziale) del Cav, scrive Maurizio Gallo su “Il Tempo”.

ERRORI GIUDIZIARI. Se l'annuncio di Berlusconi di fondare un partito a loro dedicato si trasformerà in realtà, potrebbero entrarci in migliaia. C’è chi non ha fatto neanche un giorno di prigione. Ma per anni, prima di essere assolto, ha dovuto lottare, soffrire e pagare per dimostrare la sua innocenza. È accaduto a Raniero Busco, accusato dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. C’è chi ha trascorso quasi ventidue anni in una cella e ha rivisto la luce solo grazie a una revisione del processo, come Giuseppe Gullotta. Chi ha ottenuto solo una giustizia postuma, come Giovanni Mandalà, accusato assieme a Gullotta della strage di Alcamo del 1976, condannato all’ergastolo nell’81 e riconosciuto del tutto estraneo ai fatti all’inizio del 2012, quando era già defunto. C’è chi si è visto archiviare ogni accusa senza neanche dover entrare in un tribunale e chi è stato prosciolto prima del dibattimento, ma è stato costretto a spendere soldi e tempo per difendersi, ha trascorso notti in bianco, ha perso il lavoro, è stato lasciato dalla moglie, è finito sul lastrico. Sotto tutte vittime di un sistema giudiziario che non funziona. Sono tante e, se l’annuncio di Berlusconi di fondare un partito a loro «dedicato» si trasformasse in realtà, nella nuova formazione potrebbero entrare a migliaia. A loro si aggiungono i cittadini italiani che devono subire i ritardi di procedimenti civili, pendenze pari a otto processi ogni cento abitanti. In questo caso, per ottenere una sentenza di primo grado ci vogliono 600 giorni e una media di quattro anni per arrivare a un verdetto definitivo. Ma torniamo al penale. A settembre, nell’inchiesta pubblicata da «Il Tempo», abbiamo parlato di ingiusta detenzione e di errori giudiziari. Il dato-base, raccolto dal Censis, è che nella storia della Repubblica circa quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. È una stima, certo. Solo dal 1989, infatti, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, esistono statistiche precise e attendibili. E sono numeri che fanno venire i brividi. In ventitrè anni, fino al 2012, quasi 25 mila italiani e stranieri sono stati incarcerati ingiustamente. Lo Stato ha speso per risarcirli quasi 550 milioni di euro. Se a questi sommiamo altri 30 milioni rimborsati per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni di euro. Ma non basta. Perché ai 25 mila ne dobbiamo aggiungere altrettanti. Secondo Eurispes e Unione delle camere penali, infatti, ogni anno vengono inoltrate 2500 domande di rimborso per ingiusta detenzione, ma solo 800 (meno di un terzo) vengono accolte a causa di alcuni cavilli. Le cifre più recenti (raccolte dal sito specializzato «Errori giudiziari.com») confermano la tendenza: nel 2013 il totale dei casi di ingiusta detenzione è stato di 1368, quello dei casi di errore giudiziario 25; la spesa dei risarcimenti per ingiusta detenzione in un solo anno arriva a 35.853.732,58 euro, quella per i rimborsi per errori giudiziari a 852.922,57 euro. Il distretto di Corte d'appello che ha speso di più per ingiusta detenzione è stato quello di Napoli (251 casi, 8.381.158,49 euro) e quello che ha sborsato più soldi per errori giudiziari, quello di Lecce (2 casi, 325.029,60 euro). Secondo il rapporto annuale del National Registry of Exoneration statunitense (il registro degli errori di giustizia) nel Belpaese si sbaglia dodici volte più che negli Usa. Non solo. Le ingiuste detenzioni in America sono state «appena» 1304 contro le nostre venticinquemila. Mettendocene altrettante che non hanno ottenuto denaro in cambio del tempo trascorso dietro le sbarre, arriviamo a quasi 40 volte il totale degli Stati Uniti. Ma, come dicevamo, anche chi è stato assolto ha dovuto subire il calvario delle accuse, utilizzare i servizi di un legale e sopportare le relative ansie. La direzione generale di statistica del Ministero della Giustizia fa sapere (dati aggiornati al novembre 2011) che nel 2009 nel tribunali tricolori sono state 46.656 le persone assolte durante un giudizio ordinario che ne aveva coinvolte 152.601, quindi parliamo del 30,6%; 5.217 lo sono state dopo un giudizio immediato o in seguito all’opposizione a un decreto penale (su 14.645,); 1749 dopo un direttissimo; 3.889 dopo un abbreviato in sede di direttissimo e 7.379 dopo un abbreviato in sede di ordinario. Il totale sfiora le 65 mila unità. Nel 2010 la situazione è addirittura peggiorata: siamo a 72.467 assolti, cioè 7.578 in più dei dodici mesi precedenti. Questo senza contare i giudici di pace, che hanno totalizzato 7.657 «assoluzioni» nel 2009 (10,9%) e 8.856 nel 2010 (11%). Poi ci sono gli imputati condannati in primo grado e riconosciuti innocenti in secondo o in terzo. Qualche anno fa il presidente di Corte d’appello di Roma disse che la metà circa delle sentenze del tribunale veniva riformata in seconda istanza. Anche se non esistono informazioni ufficiali, la stima del magistrato dovrebbe bastare a farsi un’idea (e il caso via Poma docet) di quanti vengono considerati colpevoli nel primo processo, magari finiscono in prigione (se vengono riconosciuti i «pericoli» previsti dal codice: reiterazione del reato, fuga e inquinamento delle prove) per essere riconosciuti estranei ai fatti mesi o, più probabilmente, anni dopo. Un esercito che ingrossa le sue file con chi è stato prosciolto senza dover entrare in un’aula di giustizia e con quanti sono stati indagati ed esposti alla gogna mediatica per vedere, più tardi, la propria posizione archiviata su richiesta dello stesso pubblico ministero o in base alla decisione del giudice per l’udienza preliminare. Nella sua recente relazione in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte d’appello romana Catello Pandolfi ha sottolineato come, dal primo luglio 2012 al 30 giugno 2013, nella Capitale ci sono state 19.235 archiviazioni su un totale di 23.002 procedimenti avviati. Capita, infine, che nel corso del procedimento penale intervenga la prescrizione, che non vuol dire incolpevolezza ma soltanto che non si è riusciti a raggiungere una decisione in tempo utile. Anche così, comunque, le vite degli imputati restano «appese» alla loro sorte giudiziaria. E non sono poche, visto che in nove anni, dal 2001 al 2010 sono state la bellezza di un milione e 694.827, per una media annua di quasi 170 mila. Insomma, sono tanti quelli che hanno subito un ingiustizia dalla Giustizia. E alcuni magistrati, da questo punto di vista, rappresentano un record. Sono talmente tanti, ad esempio, i «mostri» sbattuti in prima pagina per le inchieste dell’attuale sindaco di Napoli (poi scarcerati con tanto di scuse e risarcimenti a carico dello Stato) che, alcuni cittadini esasperati hanno fondato «l’associazione vittime di De Magistris», nata nel 2008. Associazione che lega tra loro alcuni degli indagati delle inchieste dell’ex pm di Catanzaro, molte delle quali finite nel nulla. Vite distrutte per errori che rimangono puntualmente impuniti.

In ventidue anni l’Italia ha pagato 600 milioni di euro per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, scrive Chiara Rizzo “Tempi”. I dati del ministero dell’Economia raccontano il disastro della nostra giustizia. Ma dal 1988 al 2011, solo quattro magistrati sono stati civilmente riconosciuti responsabili. Circa cinquanta mila persone sono state vittime di errori giudiziari, solo dal 1988 ad oggi: e lo Stato ha versato come risarcimento in questi 22 anni quasi 600 milioni di euro. Le cifre stanno lì, ben chiare e visibili a tutti, in un documento dell’Ufficio IX del ministero dell’Economia e delle Finanze che per primo ha consultato, e divulgato, il sito errorigiudiziari.com.

L’INGIUSTA DETENZIONE. La riparazione per ingiusta detenzione è stata istituita in Italia con il codice di procedura penale Vassalli nel 1988, insieme a quella per errore giudiziario. Nel primo caso, la riparazione è prevista per chi ha subìto custodia cautelare ma poi si vede assolto con sentenza irrevocabile, nel secondo per chi è stato condannato alla pena detentiva con sentenza definitiva e poi si vede assolto dopo un processo di revisione. Secondo i dati del ministero dell’Economia per questi motivi, dal 1991 quando si sono verificati i primi cinque risarcimenti, lo Stato ha versato per l’esattezza la bellezza di 575 milioni 698 mila euro, di cui 30 milioni per gli errori giudiziari (545 milioni 460 mila solo per le ingiuste detenzioni: oggi in Italia il 40 per cento dei detenuti è in custodia cautelare). In media, ogni anno, lo Stato versa circa 30 milioni di euro per indennizzi e in particolare nel 2004 è arrivato al picco di 56 milioni, nel 2002 di 49 milioni, nel 2001 ha superato i 47 milioni di euro.

GLI ERRORI GIUDIZIARI. Per gli errori giudiziari invece il picco si è avuto nel 2012, con ben 7 milioni di euro. Tempi.it ha ulteriormente spulciato il web, e scoperto che nel 2013 al momento è presentato un conto, nelle voci del Bilancio, con la richiesta di 16 milioni 782 euro per entrambe le voci (sono cumulate sia le ingiuste detenzioni che gli errori), mentre ulteriori 35 milioni di euro sono da corrispondere per la violazione del termine ragionevole del processo e per il mancato rispetto della convenzione europea dei diritti dell’uomo. E proprio quest’anno l’Italia ha ricevuto una sentenza definitiva di condanna dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per le condizioni delle carceri, fuori dalle leggi, e per il sovraffollamento «sistemico e strutturale», che impone al nostro Paese di trovare una soluzione entro tre anni, anche con un maggiore ricorso alle misure alternative e ad una riduzione della custodia cautelare.

MAXI RISARCIMENTO E IMPUNITA’. Prima di diventare ministro della Giustizia, l’allora avvocato penalista Paola Severino, nel 2010 raccontava che «ci sono statistiche ufficiali secondo cui tra il 2003 e il 2007 ci sono stati 20mila errori giudiziari». Un numero impressionante, considerato il breve lasso di tempo di soli 4 anni. Tra i casi di maxirisarcimento sicuramente il più celebre è rimasto quello di Daniele Barillà, imprenditore che nel 1992 venne arrestato, poi condannato, perché scambiato per un trafficante di droga, salvo poi essere definitivamente assolto da un processo di revisione e risarcito con una cifra record, di 4,6 milioni di euro. Ha richiesto – giustamente – un risarcimento ancora più elevato nel gennaio 2013 Giuseppe Gulotta, l’uomo che ha trascorso 22 anni in carcere prima di essere definitivamente dichiarato innocente con formula piena. Oggi Gulotta chiede 69 milioni di euro, ma ancora non si sa se la sua causa verrà accolta. Errorigiudiziari calcola che tra uno e due terzi delle domande inoltrate per i risarcimenti (non esistono statistiche ufficiali e i dati sono variabili in base alle fonti) vengono accolte. Di fronte a questi numeri che mostra allo specchio lo stato mostruoso della giustizia italiana, fa riflettere un altro significativo dato. Nel 1988 venne introdotto anche l’istituto della responsabilità civile dei magistrati per errori giudiziari. Dal 1988 fino al 2011 solo 400 cause hanno superato il filtro preliminare, ma poi il 63 per cento sono state dichiarate inammissibili. Di queste sono giunte a sentenza 18, e con condanna del magistrato solo 4.

Quegli errori giudiziari che costano come una manovra, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. Indagini approssimative. Magistrati (e legali) che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. Ma qualcosa adesso dovrebbe cambiare. Lo ha detto anche il ministro Severino. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni. Nei prossimi mesi, se i giudici della Corte d'appello crederanno alla "verità" riscritta dalle perizie, sarà assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990.  Se così dovesse accadere, il caso di Busco rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Parola di Guardasigilli, messa nero su bianco dal neoministro Paola Severino nella sua relazione sullo stato della Giustizia in Italia, presentata alla Camera a gennaio: "Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari". I condannati della strage di via D'Amelio. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno scorso, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali   insegnava   anche   a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole".  Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà". Proprio questo aveva dichiarato, nel dicembre del 2010, l'allora l'avvocato e docente universitario Paola Severino, commentando la pista falsa che, durante le indagini sul rapimento della piccola Yara Gambirasio, aveva portato in carcere il cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero quattro milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. "Nell'ultimo decennio ci sono state 8 mila richieste l'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro" afferma l'avvocato Gabriele Magno, bolognese, fondatore dell'Associazione nazionale vittime errori giudiziari. "Noi chiediamo l'abolizione di questo tetto, così come chiediamo che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall'assoluzione". 213 milioni di risarcimento nel triennio 2004-2007. Senza considerare che ogni detenuto costa allo Stato 235 euro al giorno (la metà se è ai domiciliari): quanto pesano in termini di soldi gli errori giudiziari? I dati per i periodo 2004- 2007, forniti dal ministero dell'Economia, in quanto ufficiale pagatore parlano di 213 milioni di euro. I risarciti sono 3.600, per il 90 per cento italiani, per il resto stranieri. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario, c'era il problema dell'ingiusta detenzione: cinque anni e mezzo, nel suo caso. "La vera novità è che per la prima volta, per lui, è stato accolto il concetto di risarcire il danno esistenziale" dice l'avvocato Magno. "Un danno che va ad aggiungersi a quello morale, biologico ed economico". Ma è sempre dei magistrati la colpa? No: l'avvocato Magno se la prende anche con i suoi colleghi: "In base alla mia esperienza, la responsabilità è dei giudici nella metà dei casi, per il resto è di noi avvocati: per i ricorsi presentati in ritardo, le scelte difensive sbagliate o gli errori procedurali. I magistrati possono sbagliare, come tutti: non ci interessa punirli, ma vogliamo venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. E di fronte al rischio indennizzo, il giudice si autolimiterebbe e farebbe molta attenzione nell'adottare certi provvedimenti. Senza nulla togliere alla sua autonomia". L'attuale normativa sull'ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari  -  secondo Magno  -  non sarebbe sufficiente per compensare chi ha subito danni quasi irreparabili. Così, la sua associazione ha già indicato alcune proposte di riforma: "La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione e proprio il fatto che la richiesta di indennizzo è sottoposta a un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima che incide sull'efficacia reale della tutela di chi ha subito una simile ingiustizia. Vogliamo che quel limite di due anni sia sostituito con la clausola in ogni tempo, per dare modo a chiunque di rivalersi. Altra proposta: creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro. Penso ai concorsi pubblici, dove la condizione di chi ha subito malagiustizia dovrebbe essere equiparata a quella dei portatori di handicap". Napoli, Le statistiche confermano che, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato. In base ai dati disponibili, non proprio recentissimi, però, errori giudiziari o ingiuste detenzioni si registrano soprattutto al Sud. La Corte d'appello di Napoli guida questa classifica avendo riconosciuto il maggior numero di casi: 449 risarcimenti concessi nel 1999 (e 152 nel 2000), pari al 9,53 per cento del totale nazionale. In seconda posizione, la Corte di Reggio Calabria che, sempre nel 1999, ha dato al via libera a 420 autorizzazioni. Seguono Catanzaro e Palermo, con 412 e 406 sentenze nello stesso anno. Fino al 1999, oltre la metà dei risarcimenti sono stati riconosciuti da giudici del Sud, un quarto al Nord e un quinto al Centro. Ma altri indennizzi milionari, ben più consistenti di quello di Barillà, sono in arrivo. Se infatti, per i suoi cinque anni di prigione, lo Stato ha risarcito 4,6 milioni di euro, quanto dovrà rifondere agli ex ergastolani della strage Borsellino?

Troppi sbagli Ognuno di noi rischia la cella, scrive Valerio Spigarelli, Presidente dell’Unione Camere Penali, su “Il Tempo”.  Gli errori giudiziari ci saranno sempre. Il giudizio, infatti, come tutte le attività intellettuali, è fallibile per definizione ma, come dimostra l'inchiesta che Il Tempo... Gli errori giudiziari ci saranno sempre. Il giudizio, infatti, come tutte le attività intellettuali, è fallibile per definizione ma, come dimostra l'inchiesta che Il Tempo sta pubblicando in questi giorni, il grado e la diffusività degli errori e le modalità della loro riparazione testimoniano lo stato di salute di un sistema giudiziario. In Italia da tempo abbiamo accolto l'idea che la miglior ricostruzione dei fatti sia assicurata dal confronto tra le parti processuali, accusa e difesa, dinanzi ad un giudice terzo, equidistante tra i contendenti. Una condizione che ancora non si verifica, però, posto che pm e giudici fanno parte di un unico corpo giudiziario e dunque l'assetto è sicuramente sbilanciato a favore dell'accusa. Ebbene, una delle cause che alimentano la possibilità di errore giudiziario, è proprio l'appiattimento dei giudici rispetto alle richieste dei colleghi pm. Un effetto esiziale in un sistema accusatorio, sia in tema di custodia cautelare, sia nella conduzione del pubblico dibattimento. Quanto al carcere inflitto prima della condanna definitiva a chi, per precisa scelta costituzionale, si deve la qualifica di non colpevole, i numeri dimostrano questo squilibrio: oltre il 40 per cento dei detenuti italiani è in attesa di giudizio. Secondo il codice questo dovrebbe essere un avvenimento eccezionale ma è del tutto evidente che i giudici interpretano le regole in maniera assai largheggiante perché sono troppo sensibili alle richieste dei pm. Anche la riparazione dell'errore giudiziario soffre del medesimo problema: per stampellare le ragioni dello Stato la giurisprudenza è di manica stretta, tanto da imporre condizioni rigidissime, non previste dalle legge, per l'ottenimento degli indennizzi per ingiusta detenzione. Insomma, quando si finisce in cella per sbaglio, specie durante le indagini, si rischia di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano quando si chiede il conto dell'errore, e sempre per lo stesso motivo: la troppa vicinanza dei giudici agli interessi dello Stato. Una scelta sbagliata, che altera la ricostruzione dei fatti, aumenta il rischio di errore giudiziario, e frustra le aspettative di una riparazione equa. Per questo ci vuole la separazione delle carriere.

Scaglia e gli altri. I 10 errori giudiziari più clamorosi del 2013, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Dieci vicende che coinvolgono personaggi noti e non, con alcuni aspetti in comune: l’insistenza dell’accusa anche davanti a prove di innocenza. Arresti cautelari seguiti da assoluzioni piene, condanne e scambi di persona, malfunzionamenti della burocrazia. I casi di errori giudiziari sono stati numerosi purtroppo anche in questo 2013, e spesso hanno in comune l’accanirsi dell’accusatore per anni, e malgrado vistose prove di innocenza. Qui una rassegna delle dieci vicende più clamorose del 2013, che coinvolgono personaggi noti e non, che con il loro pesante bilancio lasciano aperta la riflessione sul nostro sistema giustizia.

1. L’AFFAIRE SCAGLIA. Per il clamore suscitato, quello di Silvio Scaglia può essere definito sicuramente il caso giudiziario dell’anno. Scaglia, fondatore di Fastweb, nel 2010 è stato nominato da Forbes “13mo uomo più ricco d’Italia”, con un patrimonio di 1 miliardo di dollari Usa. Il 23 febbraio di quello stesso 2010, è stato arrestato in via cautelare dal Gip di Roma, accusato di associazione a delinquere per evasione fiscale. Si è sempre proclamato innocente, ma è stato ugualmente trasferito a Rebibbia, poi, dopo tre mesi, è stato messo agli arresti domiciliari. È stato scarcerato dopo un anno, il 24 febbraio 2011, ma solo il 17 ottobre del 2013 è stato assolto in primo grado da tutte le accuse, con formula piena.

2. IL MAXI RISARCIMENTO DI GULOTTA. Il 2013 si è aperto con la richiesta di maxi risarcimento più alta mai rivolta allo Stato italiano, 69 milioni di euro. La domanda è stata presentata da Giuseppe Gulotta, protagonista di una kafkiana vicenda. Arrestato quando aveva 19 anni, nel 1976, ha trascorso 22 anni dietro le sbarre, ed è stato condannato in via definitiva nel 1990 per omicidio e strage. Si è sempre proclamato innocente ma solo nel 2012, grazie alla testimonianza di un maresciallo dei carabinieri (che ha ammesso che le accuse contro Gulotta erano state ottenute con la tortura), si è celebrato il processo di revisione: a 36 anni dall’arresto, Gulotta è stato assolto da tutte le accuse con formula piena.

3. IL CASO D’AMICO. Il 12 aprile è morto, con il suicidio assistito in Svizzera, Pietro D’Amico, ex procuratore generale di Catanzaro. A spingerlo al gesto, sarebbe stata anche la forte depressione che lo accompagnava dal 2007, quando D’Amico è finito coinvolto negli “accertamenti tecnici” di Gioacchino Genchi e in un’indagine condotta dalla procura di Salerno. D’Amico è stato accusato di presunte fughe di notizie sull’inchiesta Poseidone, condotta dall’allora pm Luigi de Magistris. Nel 2011 la stessa procura di Salerno, non trovando alcun riscontro alle accuse, ha ottenuto l’archiviazione per D’Amico, ma il pg, amareggiato, aveva già abbandonato la toga.

4. FALLITO, MA ASSOLTO. Il 20 maggio a Salerno, prima ancora della conclusione del processo, il Tribunale su richiesta della procura ha assolto con formula piena l’imprenditore Lorenzo Maiolica e il padre 81enne Antonio, accusati di lottizzazione abusiva di un terreno industriale. Fino al 2003 i Maiolica sono stati proprietari di un’azienda leader nel territorio, con 30 punti vendita e 300 dipendenti: ma sono stati costretti a dichiarare il fallimento, perché coinvolti nell’indagine e perché in via cautelare la procura ha chiesto due volte il sequestro dei loro terreni, impedendo l’attività produttiva. Per due volte la Cassazione ha annullato i decreti di sequestro, ma ciò non è servito a evitare la bancarotta prima del giudizio di assoluzione dei Maiolica in tribunale.

5. QUATTRO ARRESTI PREVENTIVI. A luglio la corte d’Appello dell’Aquila ha riconosciuto un risarcimento di 55 mila euro per ingiusta detenzione a Antonio Lattanzi, ex assessore all’urbanistica di Martinsicuro (Te). Lattanzi è stato accusato di concussione nel corso di una “tangentopoli” locale, e arrestato in via cautelare nel 2002. Per quattro volte, in 83 giorni, la procura dell’Aquila ha chiesto e ottenuto dal Gip l’arresto cautelare, e per quattro volte il tribunale del Riesame ha annullato le ordinanze, per la mancanza di gravi indizi di colpevolezza e delle esigenze cautelari. Lattanzi in seguito è stato assolto in tutti i gradi di giudizio, fino a quello definitivo, con formula piena.

6. DIECI ANNI IN CARCERE PER SCAMBIO DI PERSONA. A settembre si è aperto a Napoli il processo di revisione di Giovanni De Luise, 32 anni: da dieci anni in carcere, con una condanna definitiva per un omicidio di camorra, per il quale l’uomo si è sempre professato innocente. Solo nel 2013 la Procura di Napoli ha dato parere positivo alla revisione del processo, dopo che un pentito si è autoaccusato dell’omicidio, versione confermata anche da altri due ex camorristi. De Luise era stato scambiato per l’assassino solo perché come lui aveva «la faccia tonda».

7. ERRORE GIUDIZIARIO POST MORTEM. Il 7 ottobre, la Corte d’appello di Perugia ha riconosciuto il risarcimento di 6.800 euro per ingiusta detenzione cautelare a Fabrizio Reali Roscini: l’uomo nel 2007 è stato arrestato per 20 giorni, perché la procura di Perugia lo accusava di essere un anarco-insurrezionalista (i reati erano di banda armata, detenzione di armi e munizioni, danneggiamenti). Si è trattato di un clamoroso errore investigativo e prima della conclusione del processo la stessa procura ha chiesto il proscioglimento per Reali Roscini. L’errore giudiziario è stato riconosciuto, ma Reali Roscini non avrà mai il risarcimento: è morto nel 2010 per problemi di salute, amplificati dalla sofferenza psicologica per l’ingiustizia subìta.

8. INNOCENTE IN CARCERE. Vittorio Luigi Colitti, a 23 anni di Ugento (Le) ha già sulle spalle un drammatico errore giudiziario, e lo scorso 22 novembre ha chiesto un risarcimento da oltre 500 mila euro per 14 mesi di ingiusta detenzione. Colitti è stato accusato, a nemmeno 18 anni, di omicidio, in complicità con il nonno. Si è sempre proclamato innocente ed è stato assolto per ben due gradi di giudizio: l’ultima assoluzione, quella in appello nel 2012, è diventata definitiva. Per i mesi trascorsi ingiustamente carcere ha sviluppato, come ha accertato una perizia medica, «un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica».

9. BUFALA GIUDIZIARIA. Il 27 novembre il Giudice per l’udienza preliminare di Roma ha assolto con formula piena Ottavio Stefanini, commerciante di Selci, arrestato in via cautelare per spaccio di stupefacenti. Stefanini è stato riconosciuto innocente dopo 4 giorni in carcere e due mesi agli arresti domiciliari: è stato accusato per l’intercettazione di una telefonata in cui un uomo (in seguito condannato per spaccio) gli chiedeva «una treccia di bufala da 20 euro». La procura aveva pensato ad una frase in codice per indicare una partita di cocaina. Invece Stefanini effettivamente è un commerciante di mozzarelle di bufala, e non ha mai spacciato.

10. ASSOLTO, MA LO STATO GLI CHIEDE IL RISARCIMENTO. Vittorio Raffaele Gallo è un ex impiegato delle poste, ingiustamente accusato di essere stato il basista di una rapina a Roma. Dopo 13 anni di indagini e processi, un arresto in via cautelare e una condanna in primo grado, nel 2011 Gallo è stato assolto per non aver commesso il fatto, con sentenza definitiva, dalla corte d’Appello di Roma. Nel 2012, la stessa corte d’Appello gli ha riconosciuto un risarcimento di 75 mila euro per il drammatico errore giudiziario. Lo scorso 19 settembre la Corte dei conti ha emesso una sentenza con cui intima però all’ex impiegato delle poste di risarcire la rapina (557 mila euro) che non ha mai commesso: la sentenza della Corte dei conti è scattata in automatico dopo la condanna in primo grado, e non è stata mai aggiornata all’assoluzione definitiva.

Serena Grandi risarcita con 60mila euro, scrive “Il Tempo”. Serena Grandi ha ricevuto dalla Corte d'Appello di Roma un risarcimento di 60 mila euro per ingiusta detenzione. L'attrice era finita ai domiciliari per cinque mesi, dal novembre 2003 all'aprile 2004, con l'accusa di acquisto e spaccio di cocaina. A sei anni dall'apertura dell'inchiesta la sua posizione è stata definitivamente archiviata e alla Grandi, al secolo Serena Faggioli, è stato disposto un risarcimento. Lo hanno deciso i giudici della IV sezione penale della Corte d'appello di Roma, che hanno accolto l'istanza presentata dal difensore della star, l'avvocato Valerio Spigarelli. Nell'istanza del penalista si poneva in rilievo come anche la detenzione ai domiciliari avesse prodotto nell'attrice danni morali e materiali ingenti. In particolare, "danni psicofisici, costituiti da uno scompenso ormonale di rilevante gravità e da uno stato di depressione acuta; danni conseguenti alla lesione dell'immagine della rispettabilità sociale; e danni sul piano professionale, con riferimento particolare al mancato perfezionamento di numerose trattative in corso tramite l'agente Lele Mora, tra cui quella relativa alla partecipazione all'Isola dei famosi". La difesa della Grandi aveva per questo quantificato in poco meno di cinquecentomila euro l'ammontare del risarcimento. Per i giudici"le intercettazioni telefoniche, su cui unicamente si fondavano le accuse a carico di Serena Grandi, hanno un contenuto inidoneo a supportare quel quadro indiziario necessario per l'emissione della misura cautelare". La corte ha ritenuto che "appaiono rilevanti i danni morali onseguenti all'ingiusta detenzione, avuto soprattutto riguardo alla assoluta incensuratezza della Faggioli e alla gravità delle accuse e altrettanto rilevanti i danni conseguiti alla lesione dell'immagine e della rispettabilità sociale, anche per la notorietà acquisita dalla vicenda finita sugli organi di informazione".

Fratellini di Gravina 65mila euro al papà, scrive Michele De Feudis, su “Il Tempo”. Pagati i danni a Pappalardi in cella per errore. Un risarcimento per ingiusta detenzione, dal forte valore simbolico, è stato riconosciuto a Filippo Pappalardi, il papà dei fratellini di Gravina, Ciccio e Tore. La seconda sezione penale della Corte di Appello di Bari ha emesso una sentenza che indica in 65.500 euro l'indennità che gli spetta per aver subito una pesante privazione della libertà personale (100 giorni tra arresti domiciliari e detenzione in carcere) oltre a «gravissimi danni morali» legati all’attenzione dei media che ha accompagnato la vicenda della scomparsa dei due piccoli. Pappalardi, accusato di aver sequestrato i figli e di averli uccisi (poi scagionato da ogni addebito), per le misure cautelari non ebbe la possibilità di assistere al ritrovamento dei due bambini, morti in una cisterna, mentre partecipò, il 9 aprile 2008, ai funerali. Il legale dell'autotrasportatore barese, l'avvocato Angela Aliani, ha curato la richiesta di risarcimento danni: il Tribunale, smontando la strategia investigativa dell'accusa nelle dodici pagine del provvedimento di accoglimento, ha riconosciuto 20.500 euro per l'ingiusta detenzione (235 euro per 75 giorni in carcere e 117 euro per 25 giorni agli arresti domiciliari), e ben 45mila euro per danni morali, per danni «personali per non aver potuto vedere almeno per un’ultima volta i corpi dei figli», per i danni fisici conseguenti alla depressione generata da carcere e lutto. Nella cifra è compreso anche un risarcimento per i danni economici subiti, dal momento che fu allontanato dal lavoro. La vicenda giudiziaria di Pappalardi è emblematica di come indagini rivelatesi poi errate possano arrecare gravi danni ad un innocente: Pappalardi fu arrestato nel novembre 2007 per sequestro di persona, omicidio volontario e occultamento di cadavere, e solo dopo il ritrovamento dei figli (marzo 2008) il gip gli concesse i domiciliari. La libertà, dopo un autentico calvario mediatico e giudiziario, l'ha riacquistata quando le autopsie hanno certificato che i due bambini erano deceduti in seguito alla caduta accidentale in una voragine-pozzo a Gravina.

Ambrogio Crespi: «200 giorni in cella per colpa di un matto», scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Arrestato con l’accusa d’aver procacciato voti alla ’ndrangheta scopre da una perizia che il suo accusatore soffriva di gravissimi disturbi psichici. Ha trascorso 200 giorni in carcere, Ambrogio Crespi, 65 dei quali in isolamento. L’accusa? Aver procacciato 2500 voti in ambienti ’ndranghetisti milanesi per farli confluire sull’assessore lombardo Domenico Zambetti. L’inchiesta è quella che nell’ottobre del 2012 ha «terremotato» la Regione Lombardia. Ma a tirare in mezzo Ambrogio Crespi, fratello di Luigi, ex sondaggista di Berlusconi, è Eugenio Costantino, un millantatore reo confesso e compulsivo che ora una perizia psichiatrica descrive come affetto da «disturbi istrionici e narcisistici«. Un uomo instabile, dunque, capace d’inventarsi di tutto, anche di avere ottime conoscenze fra i malavitosi calabresi trapiantati a Milano. E di farlo solo perché, come disse in un interrogatorio, «è il mio modo d’essere». Un «modo d’essere» a cui i magistrati hanno però prestato più di un orecchio e che è costato a Crespi sette mesi di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa.

Crespi, forse è l’inizio della fine di un «incubo giudiziario»?

«Lo spero. La perizia psichiatrica del Tribunale dovrebbe fare finalmente chiarezza. Spero che i magistrati prendano atto degli errori commessi. L’8 maggio dovrebbe iniziare il processo. Vedremo cosa accadrà».

Il suo accusatore, già dopo il suo arresto, aveva confessato di essere un millantatore. Eppure nulla cambiava.

«Ho sempre detto di non conoscere né Zambetti né Costantino. Le mie presunte colpe si basano su un’intercettazione ambientale in cui Costantino afferma che io, controllando interi condomini milanesi, avrei procurato a Zambetti 2500 voti. Questo è del tutto falso. E Costantino lo disse subito che millantava. Non conosco i risvolti complessi di questa indagine, ma io ho detto e ridetto che non avevo nulla a che fare con questa vicenda. Eppure sono rimasto in carcere per sette mesi».

Le accuse dei magistrati, dunque, fanno acqua?

«Si basano sulle parole di Costantino, cioè sulle parole di un uomo giudicato instabile. Tutte le altre accuse sono state smontate dai miei avvocati già durante la detenzione».

Anche Zambetti, intercettato in carcere, la scagiona?

«Esatto. Afferma che non gli ho portato neanche un voto. Ma non solo, dice anche di non avermi mai conosciuto, com’è stato poi riscontrato. Io Zambetti l’ho conosciuto in carcere, se proprio dobbiamo dirla tutta».

Roberto D’Alimonte, studioso di flussi elettorali, ha “provato” che nelle zone che lei controllerebbe, Zambetti non ha avuto nessuno expolit elettorale.

«Zambetti ha preso meno voti proprio nelle sezioni sospette. Io sono cresciuto nel quartiere Baggio di Milano. Ma sa quante preferenze ha avuto Zambetti lì? Nove».

Sette mesi in carcere. Sarebbe dovuto uscire molto prima.

«Ho chiesto tre volte di essere scarcerato e per tre volte il Tribunal della Libertà di Milano mi ha detto di no. Anche in Cassazione è stata respinta la mia richiesta di scarcerazione. Mi ha colpito vedere nei filmati e nelle interviste, quando sono tornato in libertà, i miei due avvocati, Giuseppe Rossodivita e Marcello Elia, con le lacrime agli occhi dopo la decisione di farmi rimanere in galera.

Francesco Storace le aveva proposto la candidatura in parlamento.

«Quella richiesta, fatta pubblicamente da Storace, mi scaldò il cuore e mi diede molto coraggio. Ho rifiutato perché volevo uscire dal carcere senza nessun escamotage. Sono stato arrestato da normale cittadino e ho voluto essere liberato da normale cittadino».

Pensa di essere stata vittima di accanimento giudiziario?

«No, non lo credo, e spero di non dover annoverare il mio caso in quello di malagiustizia. Siamo ancora in tempo. Ho persino giustificato l’errore del mio arresto. Quello che faccio fatica a giustificare è il tempo che ancora corre in attesa di dichiararmi estraneo a questa vicenda».

Duecento giorni di carcere non sono già malagiustizia?

«Il carcere preventivo è un atto barbarico. Stare dentro da innocente è terribile. Adesso capisco perché le persone innocenti si ammalano, perché il carcere da innocente è insopportabile. Hai paura non di morire ma di vivere. Là dentro o ti ammali o ti uccidi».

Assolto dopo il suicidio, scrive Lorenzo Verrocchio su “Il Tempo”. Donato Ricci era accusato di aver truffato la Regione La moglie: «Vittima delle inchieste-spettacolo». Poco più di 24 ore di carcere bastarono ad insinuare nel cuore e nel cervello di un uomo disperato la lucida determinazione a farla finita. La sera di quel 9 febbraio del 1994 Donato Ricci portò una camomilla alla moglie, che si era già coricata, e scese in garage per mettere in atto la risoluta decisione di togliersi la vita utilizzando i gas di scarico dell’auto collegata con un tubo all’abitacolo. Ma chi era Donato Ricci e perché si tolse la vita? Oggi è solo un nome, uno dei tanti della sterminata schiera delle vittime della giustizia italiana (che abbiamo "scovato" negli archivi del Ministero dov’è rimasta per vent’anni), pagò un prezzo altissimo ad un clamoroso errore giudiziario, uno dei più intollerabili che si ricordino in Abruzzo; per la sua famiglia, per la moglie Loredana e i tre figli Marco, Stefano e Pieranna quel nome e quell’uomo hanno rappresentato invece un vuoto incolmabile, un’assenza dolorosa con la quale convivere per tutto questo tempo. «Mio marito - ci dice oggi al telefono la vedova Loredana Di Stefano - era un uomo solare e un marito devoto, desideroso di vivere, altruista e molto intelligente. Qualità che saltava subito agli occhi, tanto che in molti a Lanciano ancora oggi lo ricordano». Donato Ricci, insegnante all’istituto industriale di Chieti e ingegnere chimico laureatosi alla Sapienza, all’epoca presidente regionale dell’ente di formazione Enfap-Uil, era uno dei 23 arrestati, il 3 febbraio del 1994, nell’ambito dell’inchiesta Trafor (Trasporti e Formazione) della procura di Pescara sui fondi di formazione professionale impiegati per presunti corsi "fantasma". Si era nel pieno della tangentopoli abruzzese e la vicenda ebbe un grande risalto sui media locali e nazionali. Il sostituto Pietro Mennini, lavorando gomito a gomito col capo della Procura Enrico Di Nicola, aveva chiesto 23 misure cautelari in carcere per due filoni paralleli d’inchiesta, quello sui «pullman d’oro» e quello sui corsi fantasma di formazione professionale. Le manette scattarono ai polsi di ex assessori regionali, funzionari della Regione, imprenditori e, appunto, Donato Ricci. Il suo ruolo nell’organizzazione dei tre corsi "fantasma" risultò, per ammissione dello stesso Di Nicola, marginale; negli atti del procedimento l’ipotesi di reato riferiva che il Ricci «avrebbe procurato ad altri illecito beneficio». Per poter avviare le attività formative sull’uso delle nuove tecnologie occorreva però che un ente di formazione riconosciuto a livello nazionale facesse da garante. I corsi si dovevano tenere presso la società di trasporti Mazziotti, all’Assoform e alla Elea-Olivetti. Corsi che in gran parte, secondo i magistrati, restarono sulla carta ma per i quali le società interessate percepirono comunque i finanziamenti. Parte delle somme, secondo il duo Di Nicola-Mennini sarebbe andato anche al sindacato e allo stesso Ricci. «Una ricostruzione fantasiosa - continua Loredana, che lavorava allo stesso Enfap-Uil - In realtà due dei corsi erano stati unificati e, commettendo un gravissimo errore, si ritenne quindi che il 50 per cento del finanziamento fosse stato così indebitamente sottratto. Vi lascio immaginare che per l’intero insegnamento, pagato ai docenti centomila lire a ora per non più di dieci ore, parlare di "mazzette" appare quanto meno risibile, soprattutto per chi come noi aveva una consistente posizione economica». E allora, perché accadde tutto questo? «Di Nicola ha semplicemente sparato nel mucchio, alla cieca. Il suo obiettivo era quello di far emergere il marcio che in Abruzzo c’era, secondo lui, nel mondo della formazione professionale e in mezzo a tanta spazzatura sono rimaste anche le perle. Le indagini divennero uno spettacolo per l’opinione pubblica e mio marito è stato come altri una vittima di un sistema e di un determinato momento storico. Io non ce l’ho comunque con Di Nicola, nè conosco il sentimento dell’odio, come non lo conosceva mio marito. Non ho il diritto di giudicare, certo, ma oggi chiederei però a quel magistrato se abbia la coscienza a posto». Cosa ricorda di quel 9 febbraio, aveva sospettato che suo marito potesse arrivare a tanto? «Più che sospettare lo temevo. Ricordo di quella sera soprattutto le urla disperate dei nostri figli, il più grande aveva solo 16 anni. E rammento di essermi sentita offesa quando il capo della Procura dichiarò che non ci si può togliere la vita dopo un giorno in cella». Perché crede che Donato lo abbia fatto? «Mio marito amava la vita, per lui vivere significava gioire. Non avrebbe mai sopportato dopo tanto fango di leggere il dubbio negli occhi degli altri. Anche se la Corte d’Appello lo ha assolto nel Duemila "con formula piena" - e l’assoluzione post-mortem ha fatto giurisprudenza - non so se Donato sia mai stato del tutto riabilitato agli occhi della gente». Per l’ingiusta detenzione la famiglia Ricci ha avuto un risarcimento di 10 milioni di lire, donati alle famiglie bisognose di Lanciano.

Falso stupro, risarcito Ciavardini, scrive “Clemente Pistilli su “Il Tempo”. Un incubo l'esperienza vissuta quattro anni fa da Oscar Ciavardini, noto titolare di un'autoscuola con sede in via Fabio Filzi, e che ha portato ora la IV sezione della Corte d'Appello di Roma a riconoscere all'imprenditore 96.300 euro di risarcimento per l'ingiusta detenzione. Ciavardini era finito in manette, insieme al barista Douglas Molinari, a fine settembre 2005. Una 23enne di Latina, che lavorava nel bar di Molinari, aveva raccontato agli inquirenti di essere stata attirata in trappola, tre mesi prima, nella villetta del titolare dell'autoscuola, in via del Lido, e di essere stata vittima di abusi sessuali. I due passarono quindici giorni in carcere e otto mesi ai domiciliari e, fino alla conclusione del processo, furono sottoposti all'obbligo di firma. In aula, però, le difese iniziarono subito a battere su una serie di telefonate e di messaggi scritti dalla 23enne agli imputati, sulla cui autenticità si pronunciò poi un perito. Emerse così che lo stupro non era altro che un'invenzione della ragazza e, il 30 giugno 2006, fu lo stesso pubblico ministero, Raffaella De Pasquale, a chiedere l'assoluzione dei due latinensi. Quando la sentenza assolutoria pronunciata dal Tribunale di Latina divenne definitiva, Ciavardini e Molinari presentarono quindi ricorso per ingiusta detenzione e, dopo l'accoglimento di quello del barista, ora la Corte d'Appello ha riconosciuto l'indennizzo anche al titolare dell'autoscuola. Il difensore di Ciavardini, l'avvocato Oreste Palmieri, aveva presentato ai giudici romani un'articolata e lunga memoria. Il legale aveva evidenziato il forte danno subìto dall'imprenditore, sia morale che economico. «Quale padre manderebbe la propria figlia in un'autoscuola il cui titolare è stato arrestato per stupro?», aveva sottolineato l'avvocato. E, riconoscendo appunto quanto l'immagine di un uomo possa essere offuscata da accuse del genere in un centro di medio-piccole dimensioni come Latina, la Corte d'Appello ha riconosciuto a Ciavardini, un incensurato, un risarcimento notevole, 96.300 euro. A distanza di tre anni e mezzo dal blitz della Polizia sulla vicenda sembra chiuso definitivamente il sipario.

Galeotta fu la lettera «r». In cella 6 mesi senza colpa, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Il soprannome di Giancarlo era «Callo». Scambiato per il trafficante Carlo Elsa, barista considerata anarchica. Angelo, poliziotto arrestato per sbaglio. Sei mesi in carcere, tre ai domiciliari e altrettanti in libertà vigilata. E tutto per colpa di una «r» che nelle intercettazioni storpia il suo soprannome «Callo» nel nome di un trafficante di droga, Carlo. Gianfranco Callisti, dieci anni dopo, ha ottenuto l'assoluzione, le scuse del Tribunale di Bari e 50mila euro. Lo ammanettarono alle 5,30 del mattino i carabinieri spacciandosi per vigili del fuoco. La sua sfortuna è stata conoscere uno degli indagati nella maxi-inchiesta «Operazione fiume». Ci ha parlato un paio di volte al telefono ed è finito nel tritacarne. A Bologna, Elsa Caroli, si ritrova in manette nel blitz contro i bombaroli anarco-insurrezionalisti senza un perché. Resta in galera due settimane. Lo Stato le riconosce un indennizzo di 4mila euro. Ma, nel frattempo, è stata licenziata. Franco Moceri si fa sei mesi per aver costruito un muro che, tempo dopo, sarà utilizzato come «protezione» per una piantagione di cannabis. Ha preso 41mila euro. Per una (inesistente) mazzetta di 50 milioni di lire un (realissimo) indennizzo della stessa cifra per Baldassarre Furnari. Il pover’uomo «soggiornò» dietro le sbarre per venti giorni dopo essere stato ingiustamente accusato di concussione da un imprenditore. E che dire dell’ex comandante della polizia provinciale di Lodi, Angelo Ugoni, oltre due mesi e mezzo in carcere per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio senza aver fatto nulla? È stato risarcito con 50mila euro. Ma la sua carriera è stata polverizzata.

50.000 VITTIME, scrive “Il Tempo”. Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento. Arben Kola, 1996, viene arrestato con...

Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento . Arben Kola , 1996, viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona; resta 210 giorni di carcere: riceverà dallo Stato 120 milioni di lire di risarcimento. Dritain Peculi , 1996, sempre per sequestro di persona e sempre con una detenzione che arriva a 210 giorni di carcere, ottiene un assegno di 120 milioni di lire. Ardian Buzzani , 1999, lo fermano per prostituzione; trascorre 21 giorni in un penitenziario: il risarcimento per ingiusta detenzione ammonta a 12 milioni di lire. Anna Iacono , 1992, è indagata per associazione camorristica; in galera ci rimane 270 giorni, l'indennizzo è di appena 12 milioni. Roberto Salmoiraghi , 2006, viene accusato di corruzione dai pm; assolto, ottiene 11mila euro di risarcimento. Gino Protto , 1994, indagato per falso e truffa, sconta 14 giorni di carcere preventivo a fronte dei quali ottiene 11mila euro di risarcimento. Enzo Sindoni , 2012, deve rispondere di truffa: per 22 giorni di carcere, gli riconoscono appena 11mila euro. Gianluigi Centofanti , 2002, finisce dentro per omicidio preterintenzionale; ci resta 120 giorni e alla fine lo Stato lo rimborsa con 112mila euro. Norberto Molini , 1999, è accusato di spaccio di droga; sconta 180 giorni di carcere e viene rimborsato, dalla Corte d'appello, con un assegno da 110mila euro. Klaus Rainer , 1999, viene anche lui sottoposto a fermo per droga; il gip lo lascia 180 giornicarc di ere: alla fine, otterrà 110mila euro. Salvatore Pangallo , 1999, per i pm è un picciotto, un uomo d'onore: per 479 giorni di carcere, viene liquidato con 110mila euro. Karl Schweigkofler , 1999, lo mettono sott'inchiesta per droga; passa 160 giorni in stato di detenzione, alla fine, l'assegno è di 110mila euro. Francesco Adesso , 2013, è accusato di violenza; la sua detenzione dura 17 giorni, a fronte dei quali ottiene 10mila euro come "scuse" da parte dello Stato italiano. Claudio Pedicone , 2002, viene indagato per sfruttamento della prostituzione; accusa che gli costa 90 giorni di carcere e che lo Stato quantifica in appena 10mila euro di indennizzo. Luca Delli , 2002, è indagato per reati da paura: omicidio e soppressione di cadavere; si fa 38 giorni di carcere e si ritrova, dopo l'assoluzione, senza scusa e con una "mancia" da 10mila euro. Salvatore Cacace , 2004, lo ritengono colpevole di tentata violenza sessuale; 27 giorni di detenzione valgono 10mila euro. Walter Di Clemente , 2012, finisce in un fascicolo giudiziario per droga con un "soggiorno" detentivo di 12 giorni che vale 10mila euro tondi tondi. Daniele Perrucci , 2012, trascorre 2 giorni di carcere per l'accusa di omicidio, per lui, l'assegno sarà di 10mila euro. Z.C., 1999, un bel giorno si scopre mafioso: trascorre 365 giorni di carcere: dopo la sentenza di assoluzione, passa all'incasso dei 107mila euro di indennizzo. Sergio Marcello Gregorat , 1996, finisce nei guai con l'accusa di violenza sessuale; tutto falso, otterrà 100mila euro di "buonauscita". Ben Mansour , 2002, lo mettono in galera per terrorismo; dopo 540 giorni di custodia cautelare, ritirerà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro: 100mila euro. Così il suo presunto complice, Mohamed Ikbal , 2003, anche lui accusato di terrorismo e anche lui per 540 giorni ospite delle patrie galere: il risarcimento è lo stesso, 100mila euro. Ottavio Zirilli , 2003, è indagato per corruzione; la custodia cautelare si ferma a 80 giorni per 100mila euro di indennizzo per ingiusta detenzione. Pino Torielli , 1993, lo ritengono addirittura un omicida; il suo incubo dura 131 giorni di carcere: il ministero gli riconoscere 100 milioni di lire di indennizzo. Giovanni Martelli , 1993, accusato di spaccio di droga, trascorre 165 giorni di detenzione preventiva: alla fine del processo in Cassazione, chiederà e otterrà 100 milioni di lire. Clelio Darida , 1993, finito nel mirino dei pm con l'accusa di corruzione, trascorre 54 giorni in custodia cautelare: i magistrati gli riconoscono il danno subito e lo liquidano in 100 milioni di lire. Altin Leka , 1997, è sottoposto a fermo con l'accusa di rapina; viene privato della libertà per 450 giorni: il risarcimento è di 100 milioni di lire. Vincenzo Deaglio , 1992, per il reato di abuso ufficio trascorre 25 giorni in stato di detenzione: l'indennizzo? Quasi da ridere: 10 milioni di lire. Ottavio Berardo , 1993, è indagato per rapina; così, trascorre 90 giorni in regime di custodia cautelare: l'errore della giustizia vale, per lui, 10 milioni di lire. Donato Ricci , 1994, viene travolto da una storia di tangenti e passa 7 giorni in carcere: i giudici gli riconosceranno 10 milioni di lire di indennizzo. Vincenzo Campana , 1994, trascorre 75 giorni di custodia cautelare per omicidio: 10 milioni di lire. Dario Ruggiero , 1994, è considerato un armiere dai pm, che lo spediscono 4 giorni in carcere; ricostruzione errata, risarcimento tocca quota 10 milioni di lire. Maurizio Corleone , 1994, è accusato di tentata estorsione; la misura cautelare sfonda il tetto dei 100 giorni (107 in realtà) ma per i giudici sono sufficienti 10 milioni di lire per ristorarlo. Leonard Zaimi , 1999, per i pubblici ministeri sarebbe uno dei capi di un giro di prostituzione; gli fanno fare 76 giorni di carcere, ma poi davanti all'assoluzione, il ministero dell'Economia gli deve 10 milioni di lire di risarcimento. Rudi Poli , 1999, secondo i magistrati, sarebbe un camorrista: le assoluzioni a raffica non gli fanno ottenere più di 10 milioni di lire. Francesco Sossi , 1992, deve rispondere di traffico di armi e ricettazione; 4 giorni di carcere gli "fruttano" 1 milione di lire. Vito Sacconi , 1992, viene ritenuto colpevole di truffa ed estorsione, e per questo sottoposto a una misura cautelare che dura 80 giorni, il risarcimento è tra i più alti mai pagati dal ministero del Tesoro: 1 miliardo di lire. Nicola Siccardi , 2003, finisce sott'inchiesta per corruzione; scattano le manette e una detenzione lunga 180 giorni: sarà risarcito. Naim Stafa , 1998, si ritrova davanti al giudice per violenza sessuale; in totale, trascorre 720 giorni di detenzione: sarà assolto e risarcito. Ines Pagnozzi , 2000, è processata per appartenenza a un clan di camorra; 91 giorni di detenzione, ottiene il risarcimento dopo l'ennesima assoluzione. Terenzio Mué , 2002, deve rispondere di ricettazione, corruzione e truffa; la detenzione è assai lunga: 900 giorni: anche lui, otterrà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro. Turi Lombardo , 1994, lo mettono ai ceppi per corruzione e lo lasciano in custodia cautelare per 130 giorni: 210mila euro è l'entità del risarcimento che riesce ad ottenere. Adriana Iacob , 2013, passa 900 giorni di detenzione per l'accusa di omicidio: l'assegno porta questa cifra: 210mila euro. Anastasia Montanariello , 2000, finisce sott'inchiesta per corruzione di minori; sopporta la custodia cautelare, e alla fine le riconoscono 20mila euro; Calogero Giordano , 2004, è imputato per turbativa d'asta, passa 180 giorni di detenzione, e alla fine incassa 20mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Gheorghe Florin , 2007, per l'accusa di violenza sessuale "soggiorna" 90 giorni in regime di custodia cautelare: otterrà solo 20mila euro. Donato Privitell i, 2012, sarebbe secondo i pm un corriere della droga: il gip lo lascia 101 giorni in custodia cautelare, salvo poi essere assolto e risarcito con 20mila euro per ingiusta detenzione. Vincenzo Fragapane , 2012, i giudici sono convinti che faccia parte della mafia siciliana: "dona" alla malagiustizia 500 giorni della sua vita, e la magistratura gli restituisce 204mila euro. Antonio Gava , 1993, è l'unico ex ministro dell'Interno finito in un'inchiesta per associazione camorristica: 180 giorni di detenzione domiciliare: assolto, e risarcito da quello stesso Stato che aveva rappresentato per tanti anni con un assegno da 200mila euro, Vincenzo Guarneri , 2004, lo tirano in ballo per una storiaccia di mafia; 780 giorni di detenzione non sono facili da smaltire, ma per i magistrati un assegno da 200mila euro può andar più che bene. Roberto Giannoni , 1992, anche lui è indagato per mafia; la sua detenzione cautelare dura giusto la metà: 365 giorni ma ottiene 200 milioni di lire. Piero Pizzi , 1993, agli occhi dei sostituti procuratori che lo ammanettano sarebbe un tangentista: gli unici soldi che incassa, invece, sono i 200 milioni di lire di risarcimento danni, dopo le assoluzioni. Adriatik Goga , 1994, è indagato per droga e un bel po' di reati minori: la custodia cautelare arriva a 440 giorni ma il risarcimento per ingiusta detenzione si ferma a 200 milioni di lire. Salvatore Giambrone , 1993, finisce in galera in un’inchiesta assai complessa: assai facile, invece, è la procedura per ottenere il risarcimento che tocca 20 milioni di lire. Filippo Portaro , 1995, droga, 27 milioni di lire; Filippo Portaro , 1999, droga, 1020 giorni di detenzione, 52 milioni di lire;  Claudio Sanna, continua “Il Tempo” , 1991, per i pm che gli mettono i ceppi ai polsi è un trafficante di droga; per questo, resta 130 giorni in stato di fermo: risarcimento? Appena 3 milioni di lire. Anche Fausto Giunta , 1993, accusato di corruzione, ottiene 3 milioni di lire di risarcimento. Daniele De Santis , 1994, per danneggiamento, passa 50 giorni di custodia cautelare, ma il suo risarcimento si ferma anche per lui a 3 milioni. Domenico Di Domenico , 2011, viene arrestato per guida in stato di ebbrezza; trascorre 10 ore in una camera di sicurezza e ottiene 2mila euro. L’ex manager di Stato Vito Gamberale , 1993, finisce in manette per concorso in tentata concussione; dopo 126 giorni di detenzione, ottiene 290 milioni di lire. Francesco Nangano , 1995, per mafia trascorre la “bellezza” (per modo di dire) di 1740 giorni di custodia cautelare: ottiene 270mila euro di risarcimento. Antonio Turia no , 1992, è accusato anche lui di mafia; 240 di detenzione e 27 milioni di lire di “buonauscita”. Salvatore Muroni , 2012, sotto processo per violenza sessuale, dopo 121 giorni di detenzione, ottiene 26mila euro. Domenico Frustagli , 1991, è sott’inchiesta per mafia; 13 giorni di detenzione, 26 milioni di lire di risarcimento. Antonio Commoda ri , 1991, è pure lui indagato per mafia, ma nel suo caso la custodia cautelare dura soltanto 13 giorni; ottiene, 26 milioni di lire. Il prefetto Ennio Blasco , 2001, viene ingiustamente arrestato per truffa e abuso d'ufficio; 16 giorni di detenzione domiciliare e appena 25mila euro per una carriera distrutta. Bortolo Mainardi , 1995, sott’inchiesta per estorsione e concussione; passa 18 giorni di custodia cautelare, ottiene in cambio 25mila euro di risarcimento. Paolo Garbano, 1998, per rapina, passa un solo (orribile) giorno di detenzione; gli riconoscono i giudici un indennizzo di 2500 euro. Nicolò Nicolosi , 1993, è accusato di voto di scambio, 63 giorni di detenzione e 250 milioni di lire. Bruno De Santis, 1991, viene ingiustamente arrestato per omicidio e, dopo 310 giorni di detenzione, rimborsato con 25 milioni di lire. Mario Mirko Barison , 1996, è colpevole di rapina secondo i giudici, che lo lasciano in arresto per 48 giorni, salvo poi rimborsarlo con 25 milioni di lire. Adrian Florian , 2007, è imputato per violenza sessuale; 90 giorni di custodia cautelare e 24mila euro di risarcimento. Edmondo Arapi , 2012, è coinvolto in un fascicolo per omicidio, e l’arresto ingiusto che ne consegue viene indennizzato con appena 24mila euro. Remo Molteni , 1993, sarebbe un traf ficante di droga secondo il capo di imputazione; dopo 164 giorni di detenzione, ottiene 24 milioni di lire. Gigi Sabani , 1995, viene arrestato per truffa e induzione alla prostituzione, passa 13 giorni di custodia cautelare: una carriera polverizzata “ripagata” con 24 milioni di lire. Duran Castillo , 2013, finisce in manette nove giorni per droga: indennizzo deciso dai giudizi? Appena 2250 euro. Valentino Tavolazzi , 1995, è per i pm il cervello di un giro di tangenti; 25 giorni di custodia cautelare e 22 milioni di lire di risarcimento. Antonio Cimino , 1994, per corruzione, passa in stato di arresto un bel po’ di tempo: l’assegno per ingiusta detenzione è di 21mila euro. Tanti quanti ne prende Emanuele Zanoncini , 2008, accusato di rapina che trascorre 120 giorni di detenzione. Angelo Ugoni ; 2007; è accusato di corruzione in atti giudiziari; passa 78 giorni in stato di detenzione; 50mila euro è il risarcimento che il suo avvocato riesce a ottenere dalla Corte d'appello. Antonio Di Nicola , 2011, viene ammanettato nell'ambito di una maxi-operazione per droga; resta quasi un anno in stato di fermo (210 giorni di detenzione) e ottiene, anche lui, 50mila euro. Gianfranco Callisti , 2013, viene anche lui indagato per reati legati al mondo della droga; i giorni di detenzione, nel suo caso, sono addirittura maggiori: 270, ma identico l'indennizzo liquidato dal ministero del Tesoro: 50mila euro. Serafino Generoso , 1992, è imputato per tentata concussione; per i 10 giorni trascorsi in stato di detenzione, ottiene 50 milioni di lire. Luigi Petrini, 1993, si ritrova al centro di un maxi-scandalo con ricatti e tangenti; trascorre 13 giorni di detenzione, e alla fine lo Stato lo "rimborsa" con 50 milioni di lire; Stefano Pala , 1993, accusato di rapina, passa 50 giorni di detenzione; la Corte d'appello lo "ripaga" con un rimborso di un milione al giorno: in totale, 50 milioni di lire. Ettore Scarfò, 1993, finisce in manette addirittura per omicidio; i giorni di detenzione sono 368 a fronte di un indennizzo di 50 milioni di lire. Giovanni Franzoso , 1994, finisce sott'inchiesta per falso in bilancio; dopo 6 giorni di detenzione, si ritrova tra le mani un assegno da 50 milioni di lire. Stessa cifra che arriva anche a Piero Bava , 1994, accusato ingiustamente di falso in bilancio e detenuto per 6 giorni. Carmelo Nista , 1994, processato e assolto per omicidio, viene liquidato con 50 milioni di lire. Anche Baldassarre Furnari , 1994, arrestato ingiustamente con l'accusa di concussione e "ospite" per 20 giorni dello Stato, ottiene la stessa cifra. Kuze Radulovic , 1992, 32 per giorni di detenzione, incassa la miseria di 5 milioni di lire. Così Giovanni Andreoni , 1993, trascinato in una storiaccia di reati contro la Pubblica amministrazione con appendice di 14 giorni di detenzione. E così anche Giuseppe Iannone , 1995, accusato di essere un usuraio; 30 giorni di detenzione, e 5 milioni di lire di risarcimento. Elsa Caroli , 2012, trascorre 14 giorni di detenzione con l'accusa (rivelatasi infondata) di associazione sovversiva; 4mila euro appena l'indennizzo. A Joy Idugbor , 2012, arrestato in un'indagine per riduzione in schiavitù, dopo 180 giorni di detenzione e assoluzioni a raffica, vanno 48mila euro. A Gianni Mastarone , 1996, accusato di omicidio, dopo 210 giorni di detenzione, vanno 47 milioni di lire. Giuseppe Pecorilli , 1999, viene arrestato per violenza sessuale; per 180 giorni di detenzione, 45mila euro. Carlo Iacovelli , 2010, messo sott'inchiesta per corruzione e abuso d'ufficio, dopo 90 giorni di detenzione, gli vengono riconosciuti 45mila euro. Adnan Peculi , 1996, accusato di sequestro di persona, dopo 60 giorni di detenzione, ottiene 45 milioni di lire. Francesco Lauria , 1996, finisce coi ceppi ai polsi per omicidio per 210 giorni: l'assegno? Appena 45 milioni di lire. Mohamed Hamzaoui, 2002, arrestato per droga, dopo 190 giorni di detenzione incassa 44mila euro. Vincenzo Federico , 1999, accusato di traffico di droga, dopo 240 giorni di detenzione, si ritrova con un assegno di appena 42mila euro. Hassan Issa , 2011, anche lui ammanettato con l'accusa di traffico di droga, per 150 giorni di detenzione, ottiene 42mila euro. Franco Moceri , 2013, arrestato sempre per droga, per 180 giorni di detenzione, ottiene un riconoscimento per ingiusta detenzione di 41mila euro. Vincenzo Daglio, 1992, sott'inchiesta per abuso d'ufficio, trascorre una custodia cautelare di 10 giorni in "cambio" di un indennizzo di 10 milioni di lire. Giuseppe Andronico, 2001, viene messo sotto processo per omicidio, dopo 1000 giorni di detenzione, ottiene un risarcimento pari a 150mila euro. Gianfranco Crenna, 1983, accusato ingiustamente di corruzione, dopo 11 giorni di detenzione, viene indennizzato con 15 milioni di lire. Ernesto Cavallero, 1983, anche lui indagato per corruzione, dopo una detenzione lunga 11 giorni, riceve la stessa cifra: 15 milioni di lire. Vita La Mari, 1993, mafia, per 480 giorni di detenzione, incassa 32 milioni di lire. Samuel Balou, 2006, accusato di violenza sessuale, passa 163 giorni in stato di fermo; la Corte d’appello non va oltre un indennizzo da 5810 euro. A Franco Covello , 1996, coinvolto in un processo per tangenti, dopo una detenzione carcere/domiciliari lunga, in totale, 285 giorni, vanno 100 milioni di lire.

HANNO CHIESTO IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE

Leke Prebibaj, 730 giorni in cella, Salvatore Natalino, 93 giorni, Emanuele M., 368, Giuseppe Valentini, 870, Giuseppe Gulotta, 7.920, Davide Matzeu, 26, Samuel Gino Apogeo, 26, Samuel Caforio, ergastolo (in attesa revisione processo), Giovanni Pedone, 2.520, Francesco Aiello, 2.520, Cosimo Bello, 2.520, Salvatore Donadei, 12, Yili Muca, 15, Mario Stracqualursi, 58, Carmine Torella, 10, Mauro Scatolini, due giorni, Abdelhamid Chaar, 17, F. G., 13, N. T., 13, Settimio Passalaqua, Paolino Di Marco, Fabrizio Barone, 21, Renato Bertozzi, 180, Giuseppe Acciaro, 1.440, Egidio Rangone, cinque giorni, Mario La Mari, 1.825, Flavia Verardi Pignanelli, 28, Florenc Seferi, 1.260, Sergio Ferrandino, dieci giorni, Maria Carella, dieci giorni, Giovanni De Luise, 2.920 giorni in carcere.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

Le Brigate nere del voyeurismo giudiziario. La Corte d’appello di Milano ha smontato il processo Ruby-Berlusconi, una fiction contrabbandata per processo penale, mentre un manipolo di giornalisti guardoni insiste nel tentativo di lapidazione pubblicando intercettazioni irrilevanti, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”.  Lo dico con assoluta certezza: sono stati anni di piombo. Anni putridi, in cui nel nome della superiore necessità di distruggere quel nemico personale e politico chiamato Silvio Berlusconi, s’è sparato ad alzo zero come negli anni più bui della Repubblica. Non abbiamo sentito il rimbombo dei colpi di P38 ma abbiamo sulla nostra pelle le cicatrici di micidiali pallottole di carta mentre le molotov sono state sostituite da vergognose serpentine televisive. E d’altronde l’humus quello era. Quello, cioè, di un gruppo di reduci del ’68 che occhieggiavano alla lotta armata senza impugnare una pistola perché tanto a fare il lavoro sporco ci pensavano i poveracci della classe proletaria. È il loro «stile», che inizia col lurido manifesto contro il commissario Calabresi dopo la morte di Giuseppe Pinelli. Venne pubblicato per tre settimane di fila dal settimanale L’Espresso nel giugno del 1971, meno di un anno dopo Luigi Calabresi veniva ucciso dalla manovalanza di Lotta continua su incarico dell’ideologo del gruppo Adriano Sofri. Quel manifesto agghiacciante che «ricusava» la legge e bollava come «torturatore» il commissario lo firmarono in 757 (andatevi a leggere chi lo sottoscrisse e vi sembrerà di partecipare a una riunione di redazione del gruppo L’Espresso). Non è stato perciò sorprendente, per me, leggere la scorsa settimana su L’Espresso un articolo che dava conto di una intercettazione telefonica del luglio 2013 tra me e Marina Berlusconi della quale ignoravo l’esistenza non essendomi mai stata consegnata dai signori magistrati. Ma all’Espresso, ribadisco, lo stile impunito della casa è questo. Che permette, nonostante una diffida legale, la pubblicazione di un atto penalmente irrilevante qual è questa conversazione tra il direttore e il suo editore, non indagato, in un procedimento comunque archiviato ben quattro mesi fa. Una barbarie assoluta. La cui presunta rilevanza pubblica viene giustificata meschinamente ai propri lettori con il bla bla politico che vuole Marina Berlusconi prossimo leader del centrodestra. Quell’intercettazione, tra l’altro, rappresenta uno dei punti più bassi nella storia giudiziaria italiana. Per settimane, infatti, sull’onda di un’ipotesi di reato offensiva e palesemente farlocca (si presumeva che io avessi corrotto qualcuno per avere uno scoop) vennero ascoltate migliaia di telefonate su 24 utenze in uso al sottoscritto, al vicedirettore esecutivo, al capo della redazione romana, a un giornalista e a un collaboratore. Una gigantesca operazione degna della peggiore Stasi. Un anno fa, appena seppi di questa enorme infamia mascherata da investigazione, misi in guardia dal fatto che «conversazioni personalissime» sarebbero potute finire «nelle mani di giornalisti guardoni» e invocai l’intervento del presidente della Repubblica in qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di garante della Costituzione laddove è contemplata la libertà di stampa. Il presidente Napolitano, che ha dimostrato anche recentemente di saper far sentire (eccome!) la sua voce al Csm, non ha mosso un dito. Non l’hanno fatto, se è per questo, neppure i miei colleghi conigli che rappresentano la categoria. Il risultato è che, certamente dall’interno di un ufficio giudiziario, è stata consegnata all’Espresso la telefonata numero 831 (vi rendete conto quante migliaia ne hanno ascoltate!) tra me e Marina Berlusconi. Invocare non un intervento, ma anche una sola parola di condanna da parte di Matteo Renzi sarebbe inutile: il ragazzino deve essere così atterrito dai signori in toga che – pensate in che mani siamo – ha smesso di mandare sms o rispondere ai miei da quando il 30 maggio scorso ho scritto che i nostri scambi sarebbero stati letti anche da «qualche pubblico ministero che controlla le mie comunicazioni».  Il silente ministro della Giustizia, che un giorno sì e l’altro pure corre a confessarsi con Repubblica, potrebbe trovare la favella visto che è alle prese con la riforma anche delle intercettazioni telefoniche. Faccia il seguente esercizio per sentire scorrere un brivido: provi a pensare se una sua conversazione intercettata in cui magari si sfoga e, che so io, dà dello stronzo a Renzi potrebbe finire sui giornali. Brutta roba, eh? Però, vedete, questa è ahimè l’Italia che negli anni di piombo ha lapidato Berlusconi e chiunque gli stesse vicino. È l’Italia che ha additato come «guardie armate» di Berlusconi facenti parte di un’orrida Struttura Delta alcuni direttori del gruppo Mondadori, Mediaset e del Giornale colpevoli, Repubblica dixit, di «propiziare “atti sediziosi” e inquinare fatti incontrovertibili» come l’indagine su Ruby. È l’Italia che ha calpestato la dignità di ragazze che frequentavano Arcore dandogli lo stigma di puttane a vita. È l’Italia dei maître-à-penser che nel 2011 sputavano sul proprio Paese scrivendo sul New York Times articolesse per spiegare «Why have italians, especially the women, tolerated Mr. Berlusconi for so long?». È l’Italia che ha criminalizzato chi si riconosceva in una parte politica e che si è bevuta, nel 2011, un colpo di Stato morbidissimo consumato sull’onda del voyeurismo giudiziario e sull’imbroglio dello spread. Adesso che la Corte d’appello di Milano ha smontato questa fiction agghiacciante contrabbandata per processo penale è il caso di ricordare ciò che Marina Berlusconi disse a Panorama, non intercettata ma in un’intervista, nel maggio del 2013 a proposito della vicenda Ruby: «Finirà tutto in una bolla di sapone, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?». Vedremo adesso che cosa succederà nell’Italia del 2014 che si dice coraggiosa e che, finora a parole, vuol cambiare verso.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista. Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. In quale altro Paese - Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Imbarazzi - Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

Ruby, rissa in procura a Milano: Armando Spataro contro Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. L'assoluzione di Silvio Berlusconi nel secondo grado del processo Ruby ha gettato nello sconforto la procura di Milano. O almeno parte della procura, che sulla vittoria del Cav ufficialmente non commenta, anche se tra i corridoi di palazzo di Giustizia si parla soltanto di quello. E se ne parla anche nella mailing list di categoria, con toni molto, molto accesi. Infatti il fronte uscito con le ossa rotte dalla sentenza, ossia quello che fa riferimento alla grande accusatrice Ilda Boccassini e al suo "capo", Edmondo Bruti Liberati, è partito un missile diretto contro il Consiglio superiore della magistratura. L'accusa rivolta all'organo di autocontrollo delle toghe è quella di aver indebolito il pool di Milano alla vigilia della sentenza, avviando il procedimento disciplinare contro Boccassini e Bruti in seguito agli esposti presentati da Alfredo Robledo. Botta e risposta - Un'accusa che viene accolta con sdegno dal fronte opposto. Portavoce dei malumori è Armando Spataro, nuovo procuratore di Torino, da sempre in aspra antitesi con Ilda la rossa. Ad innescare la sua rabbia non solo la mailing list, ma anche un articolo comparso su Repubblica in cui, citando fonti anonime, si scriveva della tesi complottista: "Chi sta con Bruti e Boccassini - scriveva il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata (la sanzione disciplinare, ndr) se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby". Durissimo il commento di Spataro: "Penso che quell'affermazione sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm sia ai componenti della Corte di Milano che hanno emesso la sentenza". Orecchie che soffiano - Una dura replica, quella di Spataro, palesemente rivolta all'entourage-Boccassini, se non a Ilda la rossa stessa. La giornalista di Repubblica - che, come detto, citava fonti anonime - chiamata in causa da Spataro non ha però voluto rivelare da chi arrivasse la soffiata complottista. Una circostanza che ha fatto ulteriormente inalberare Spataro, che ha messo nuovamente nel mirino la parte della Procura che getta fango sul Csm: "Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi, diversi da loro, possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!", chiosa Spataro. E alla Boccassini, che vive probabilmente il momento più difficile della sua carriera, soffiano le orecchie...

Effetto Ruby: in Procura volano gli stracci tra pm. Violento scambio di mail al vetriolo, Spataro contro la Boccassini e Repubblica, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Inevitabilmente, la «botta» della sentenza Ruby fa sentire i suoi effetti anche all'interno della magistratura. Nessuna dichiarazione ufficiale: ma nei corridoi degli uffici giudiziari (a Milano, e non solo) le toghe non parlano che della clamorosa assoluzione in appello di Berlusconi. E se ne parla con franchezza quasi brutale anche all'interno delle mailing list interne alla categoria. Dal fronte uscito sconfitto dal processo (l'asse tra Ilda Boccassini e il capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati) parte un siluro contro il Consiglio superiore della magistratura, che viene accusato di avere indebolito - avviando il procedimento disciplinare contro la Boccassini e Bruti poco prima della sentenza Ruby -la procura milanese, per rendere possibile l'assoluzione del Cavaliere. Accusa pesante. Dal fronte opposto si risponde con altrettanta asprezza. Insomma: volano gli stracci. A lanciare l'attacco è il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, che da sempre mal sopporta la Boccassini. Il giorno dopo della sentenza, legge su Repubblica un articolo che citando fonti anonime ma immaginabili della Procura di Milano lancia la tesi del complotto: «Chi sta con Bruti e Boccassini - scrive il quotidiano - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata - gli atti per entrambi ai titolari dell'azione disciplinare - se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby». Spataro si infuria, scrive all'autrice che «già la tecnica dell'anonimo è fortemente criticabile specie in relazione a fatti così importanti», e poi attacca: «Autorizzo a girare questo mio commento all'anonimo o agli anonimi: penso che quell'affermazione (che tra l'altro allude alla permeabilità dei componenti il collegio che ha assolto B.) sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm (comunque abbiano votato) sia ai componenti della Corte d'appello di Milano che ha emesso la sentenza».Chiamata in causa da Spataro, la giornalista di Repubblica rifiuta di indicare le sue fonti: «Rivendico il diritto, soprattutto in tempi di azioni disciplinari facili, di riprodurre un virgolettato anonimo in un articolo». Spataro si arrabbia ancora di più: ed è chiaro che nel mirino più di Repubblica sono i suoi contatti all'interno della Procura di Milano. «Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi - diversi da loro - possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!». Accanto a Spataro scende in campo uno dei membri del Csm che ha deciso l'esito del «caso Milano», Paolo Carfì: che pure fu giudice del processo intentato dalla Boccassini a Cesare Previti, e accolse in pieno le sue tesi. Ma stavolta prende di petto la faccenda: spiega di sperare che la ricostruzione di Repubblica sia frutto di «una qualche incomprensione tra l'articolista e gli anonimi magistrati della Procura di Milano», ma poi aggiunge che in caso contrario «bisognerebbe concludere che c'è negli uffici giudiziari di Milano chi ritiene che la sentenza di assoluzione di Berlusconi non sia stata assunta in piena libertà dal collegio giudicante e che tra il Csm e la Corte d'appello di Milano sarebbe intercorso un filo rosso avente per fine ultimo la normalizzazione degli uffici giudiziari milanesi, in primis la Procura della Repubblica. Il che prima che offensivo è incredibilmente ridicolo». Dopodiché Carfì si spinge ancora più in là, e se la prende anche con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel pieno della discussione al Csm del «caso Milano» era intervenuto con una lettera in aperta difesa di Bruti Liberati: «Certo non ha aiutato il tutto sommato inutile (rispetto alla materia del contendere) messaggio del presidente della Repubblica e la gestione che del medesimo se n'è fatta». A togliersi un sassolino contro la Boccassini è anche Ferdinando Pomarici, grande vecchio della procura milanese: che affronta direttamente il tema per cui la Boccassini è finita sotto procedimento disciplinare, ovvero il pervicace rifiuto di fare circolare le notizie all'interno del pool antimafia e di comunicare le indagini alla Dna, la Procura nazionale antimafia. Il magistrato della Dna che aveva accusato la Boccassini, Filippo Spiezia, ha dovuto lasciare il posto dopo la furibonda reazione della dottoressa. E al suo posto a tenere i rapporti con Milano è arrivata Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica e buona amica di Ilda. Al Csm, la Canepa, la Boccassini e Bruti Liberati hanno cercato di spiegare che a Milano va tutto bene, e che comunque una certa riservatezza fa parte delle tradizioni del pool antimafia meneghino. Ma Pomarici, che era capo dell'antimafia appena prima della Boccassini, insorge con una mail: «Per debito di verità, essendomi già doluto con Anna Canepa della rappresentazione non corretta della situazione, contesto assolutamente che sotto la mia gestione ci fossero delle criticità nell'inserimento dei dati per quanto concerne la Dda di Milano. Ignoro, e non mi interessa sapere, quale sia la situazione attuale, ma le mie disposizioni puntualmente attuate erano univoche: tutte le informative della polizia giudiziaria con i relativi seguiti, tutte le richieste di misure cautelari, tutte le relative ordinanze, tutte le sentenze di primo grado sono state inserite in banca dati e in tempo reale e trasmesse alla Dna. Chi riferisce di cose diverse afferma il falso, e viene da chiedersi il motivo. Ed eguale circolazione di informazioni è stata ovviamente assicurata all'interno della dea i cui magistrati ricevevano semestralmente relazione completa su tutte le indagini assegnate agli altri colleghi sul loro sviluppo e su tutti i nomi delle persone sottoposte a indagini». Esattamente ciò che la Boccassini è accusata ora di non avere fatto, e perciò rischia il procedimento disciplinare.

Il Cav? Critico condanna e assoluzione”, scrive Antonio Di Pietro (Già magistrato ed ora contadino) su “Il Garantista”. Le sentenze si rispettano sempre, sia quando piacciono che quando non piacciono, e a me francamente non piace né la sentenza di Appello che ha assolto Berlusconi per la vicenda Ruby, né la sentenza di primo grado che invece per gli stessi fatti lo aveva condannato a 7 anni di carcere. Ripeto, le sentenze vanno sempre rispettate e anche io stavolta mi atterrò a questo sacro principio. Le sentenze però possono essere serenamente commentate (pur rispettando i giudici, gli accusati e gli accusatori). Ciò premesso, a me pare che ci siano state due forzature di troppo: in primo grado aver condannato Berlusconi anche per “concussione per costrizione” ed in Appello averlo assolto anche per il reato di “prostituzione minorile”. Ma andiamo con ordine ed innanzitutto riassumiamo la vicenda. La procura della Repubblica di Milano, in relazione alla vicenda Ruby, aveva accusato Berlusconi di due specifici reati: quello di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Karima-Ruby El Marhouh (Ruby Rubacuori, appunto) punito dall’art. 600 bis del codice penale con la pena da uno a sei anni di reclusione e quello di concussione per costrizione punito dall’art. 317 del codice penale con la pena da sei a dodici anni di reclusione, per avere egli – nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di presidente del Consiglio in carica – abusato di tale sua qualità per “costringere” il capo di Gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, a far rilasciare la predetta Ruby (che, nel frattempo, era stata portata in questura dagli agenti di polizia ed ivi trattenuta per accertamenti) sostenendo che, altrimenti, sarebbe successa una diatriba internazionale in quanto la predetta era imparentata con l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak (mentre invece, nella realtà era ed è una cittadina marocchina che nulla aveva a che vedere con l’Egitto). Ebbene, i giudici di primo grado hanno riconosciuto Berlusconi colpevole di entrambi i reati, ritenendo provato sia che Berlusconi fosse perfettamente al corrente che la signorina Ruby fosse minorenne (e quindi aveva il dovere di non avere rapporti sessuali con lei perché appunto la legge vieta ai maggiorenni di avere rapporti sessuali con minorenni) sia che il funzionario della questura, Ostuni, fosse stato costretto ad assecondare le richieste del presidente del Consiglio di far uscire dalla questura la signorina Ruby. I giudici di Appello, invece, hanno assolto Berlusconi da entrambi i reati, sebbene con motivazioni diverse. Egli infatti è stato assolto dall’accusa di concussione “perché il fatto non sussiste” e dall’accusa di prostituzione minorile “perché il fatto non costituisce reato”. Assoluzione che ho così tradotto “in dipietrese” a mia sorella Concetta che – qui a Montenero dove mi trovo – me ne ha appena chiesto spiegazione: i giudici di Appello hanno assolto Berlusconi dall’accusa di concussione perché Ostuni non era e non può essere considerato alla stregua di un “povero Cristo” che – siccome gli telefona il presidente del Consiglio – si impaurisce a tal punto da non potergli “resistere” e quindi da non potergli dire che Ruby non era e non poteva essere affatto parente di Mubarak e soprattutto che non poteva essere rilasciata nell’immediatezza in quanto anche nei suoi confronti dovevano essere effettuati gli accertamenti di rito che ogni ufficio stranieri di ogni questura d’Italia ha l’obbligo di svolgere in casi del genere. Insomma, ai giudici di Appello potrebbe essere sembrato più plausibile che il dottor Ostuni si sia volontariamente adeguato alle richieste di Berlusconi, pur essendo le stesse improprie e fuori luogo. Attenzione però: per capire meglio le ragioni per cui i giudici di Appello si sono determinati ad assolvere Berlusconi dobbiamo attendere la pubblicazione delle motivazioni perché non dobbiamo dimenticarci che nel frattempo è intervenuta le legge n. 190 del 6 novembre 2012 con cui è stato di fatto abolito il reato di “concussione per induzione”, reato tipico di chi vuole convincere spintaneamente – si ho scritto “spintaneamente” e non spontaneamente – un pubblico ufficiale a favorirlo, abolizione che è comunque intervenuta a fagiolo per risolvere anche questo caso (come anche il “caso Penati”, in verità). Quindi, e in conclusione, per la Corte di Appello di Milano – mancando un elemento essenziale per la commissione del reato (ovvero la “costrizione”) – il fatto-reato “non sussiste”, vale a dire che è come se non si fosse mai verificato. Berlusconi, però, è stato assolto dall’accusa di prostituzione minorile ma in questo caso non perché “il fatto non sussiste” bensì perché “il fatto non costituisce reato”, vale a dire che – sempre secondo i giudici di Appello – il “fatto” c’è o ci potrebbe essere stato ma non è reato in quanto Berlusconi non aveva avuto la percezione di avere a che fare con una minorenne (anche in questo caso, comunque è bene attendere la pubblicazione della sentenza per capire meglio su quali elementi di fatto i giudici sono arrivati a tale conclusione). Così stando le cose, e tornando all’inizio del mio discorso, ribadisco che a me – pur dovendo rispettare, come rispetto, entrambe le sentenze – nessuna delle due mi convince. Già non mi aveva convinto la sentenza di primo grado e cioè quella che aveva condannato Berlusconi per “concussione per costrizione” ai danni di Ostuni e ciò in quanto a me è sembrato sin dal primo momento più plausibile che tale funzionario della questura di Milano possa aver deciso di sua sponte di assecondare Berlusconi o quanto meno possa esservi stato “indotto” dal fatto che stava parlando con il presidente del Consiglio in persona ma in tal caso – come abbiamo sopra precisato – tale tipo di reato era stato nel frattempo abolito dalle legge n. 190 del 2012 (che fortunata coincidenza, eh!!!). Comunque per me – per come sono fatto io e per come mi sono sempre comportato – avrei preferito che il funzionario della questura avesse reagito come dovrebbe reagire sempre un pubblico ufficiale “con le palle” (scusate il termine), resistendo a qualsiasi pressione esterna, fosse pure del presidente del Consiglio!!! Bene quindi hanno fatto i giudici di Appello a rivedere questo passaggio della sentenza di primo grado, anche se, forse poteva essere meglio esplorata la figura processuale del nuovo reato pure introdotto dalla legge n. 190/12 (istigazione alla corruzione) e comunque attendiamo di leggere come si esprimeranno in relazione all’abolito reato di “concussione per induzione”. Parimenti non mi convince neanche l’assoluzione che in Appello i giudici hanno riconosciuto a Berlusconi per il reato di prostituzione minorile e ciò perché non vedo la ragione per cui costui si sia dato tanto da fare quella notte per far uscire dalla Questura la ragazzina Ruby Rubacuori e farla affidare addirittura alle cure della nota Nicole Minetti se non perché poteva sapere che la ragazza era minorenne e quindi poteva metterlo nei guai. Ma comunque, ripeto, le sentenze si rispettano ed io ho voluto esprimere le mie riserve, solo per far sapere come la penso e non già per pretendere di giudicare gli altri. Per il resto chi vivrà vedrà!!!

L’arresto di Galan è la fulminea rivincita del partito dei magistrati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista” E così ne hanno spedito in prigione un altro. Bravi. Violando la legge, lo spirito della Costituzione, il codice di procedura penale. Prima i magistrati e poi la Camera dei deputati hanno commesso un atto illegale violando i principi della democrazia politica, le leggi della Repubblica e lo Stato di diritto. Non esiste nessuna autorità democratica in grado di mettere un argine a questo sopruso. Ed è esattamente questo che fa impazzire di rabbia. Anche un po’ di paura. La consapevolezza che le istituzioni non si possono opporre a una violenza illegale, perché le istituzione, tutte o in parte, sono le autrici di questa violenza. La magistratura ha deciso consapevolmente di chiedere l’arresto di una persona, in spregio dell’articolo 275 del codice di procedura. I magistrati sono pienamente consci dell’illegalità che compiono, ma sanno che nessuna autorità potrà contestargliela, o perché non ha le competenze o semplicemente per viltà. La Camera dei deputati ha mostrato senza neppure cercare di mascherarsi la sua viltà. Il Csm non interverrà. Né interverrà il ministro della Giustizia, che anzi ha votato a favore del sopruso. Diceva Manzoni che se uno il coraggio non ce l’ha non può darselo. Galan, seppure in gravi condizioni di salute, andrà in carcere, in barella, e questo atto sarà simbolicamente il grido d’accusa contro la vigliaccheria e l’ignoranza del nostro sistema politico. E il nostro sistema politico resterà schiacciato dall’atto di sottomissione, dall’umiliazione accettata con spirito lieve, ieri, nei confronti e da parte della magistratura, anzi – per essere più precisi – della corporazione dei Pm. E adesso? Ricomincia la partita che ha per posta la riforma della giustizia. Ma ricomincia in condizioni del tutto rovesciate rispetto a due giorni fa. L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi, nel processo Ruby, e la conseguente delegittimazione del partito dei Pm appoggiato dalla grande stampa legalitaria (Repubblica, Il Fatto e tanti altri) poteva aprire uno spiraglio e rendere più sereno il clima nel quale ci si apprestava ad affrontare lo scoglio della riforma della giustizia. Ma il partito dei Pm, bisogna riconoscerlo, ha dimostrato di avere forza morale, coraggio e intelligenza infinitamente superiori rispetto al mondo politico. In due giorni è riuscito ad annullare gli effetti politici della sentenza Ruby e a ristabilire una posizione nettissimamente di forza. Prima con l’attacco feroce alla politica e alla democrazia del Pm di Palermo Di Matteo, che ha chiamato i giudici ad una azione compatta e sovversiva – la famosa sovversione delle classi dirigenti: vi ricordate Gramsci? Però ora non sono più classi, come immaginava lui, sono corporazioni, o caste, o gruppi di potere – una azione di sbarramento che impedisca la riforma e che avvii anzi una controriforma, per permettere una ulteriore riduzione dello Stato di diritto. Il partito dei Pm questo vuole, e lo dichiara: niente separazione delle carriere, niente responsabilità e punibilità dei giudici, niente revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, niente riduzione del carcere preventivo e delle intercettazioni, ma invece due drastiche misure: abolizione dell’appello e allungamento sine die della prescrizione. Di conseguenza aumento smisurato del potere dei magistrati, e soprattutto dell’accusa, riduzione degli spazi della difesa e quasi annullamento dei diritti del sospettato e poi dell’imputato. Ci spiace dirlo, senza lasciare neppure una lucetta accesa: i giudici ieri hanno vinto la partita.

Divisioni e sconfitte. L'anno terribile della Procura di Milano. La guerra intestina tra Robledo e Bruti, i difficili rapporti tra Ilda Boccassini e la Dna.  Così si è rotto un equilibrio che sembrava perfetto, scrive Giuseppe Vespo su “L’Unità”. Un anno fa oggi la procura di Milano incassava la seconda sentenza di condanna sul caso Ruby, quella a carico del trio Fede, Mora, Minetti. Un anno fa oggi nessuno avrebbe immaginato che il 2014 sarebbe stato così travagliato per i pm guidati da Edmondo Bruti Liberati. Invece l’equilibrio si è rotto, e alcuni dei commenti all’assoluzione Berlusconi lo ricordano senza appello. «La disfatta della procura», come si è affrettato a titolare l’ex fedelissimo Fabrizio Cicchitto, è solo l’ultimo di una serie di risultati negativi per i pm milanesi. Non certo dal punto di vista della produttività investigativa - basti ricordare i colpi inflitti alla corruzione, alla criminalità organizzata e le inchieste su Expo - quanto da quello dell’immagine. E non è poco in un Paese che da oltre venti anni si trova spesso diviso in due fazioni, pro e contro i magistrati. In questi mesi agli attacchi esterni si sono aggiunti i veleni interni all’ufficio. Alle notizie sulle indagini si sono affiancate quelle su chi le indagini le conduceva: esposti, lettere, audizioni al Csm e comportamenti affidati al vaglio dei cosiddetti titolari delle azioni disciplinari nei confronti dei togati. La «guerra» intestina è scoppiata a marzo con il primo esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo nei confronti del procuratore Capo Bruti Liberati. Il titolare del pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione attacca il suo capo per i metodi usati nell’assegnazione dei fascicoli d’indagine. Bruti Liberati, in sostanza, avrebbe preferito affidare ad altri pm inchieste che per competenza spetterebbero a Robledo. La notizia svela le frizioni interne all’ufficio e scatena una serie di reazioni a catena che hanno quasi messo a rischio alcune inchieste. L’ultima è arrivata con la bocciatura da parte del Consiglio Giudiziario milanese della «area omogenea Expo», l’unità organizzativa con la quale il procuratore capo si assegna l’esclusivo e diretto coordinamento di tutte le indagini che riguardano l’evento. Mentre gli atti sulla «scarsa collaborazione» tra Ilda Boccasini, capo della Dda, e la Direzione nazionale antimafia, finiscono al pg di Cassazione e al ministro della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare. La sentenza di assoluzione di Berlusconi dal caso Ruby arriva dunque in un momento poco felice per la procura, che aspetta di sapere se sarà ancora guidata dallo stesso capo o se ne arriverà uno nuovo. Il procuratore è in scadenza e si è candidato per un nuovo mandato. A questo proposito, dieci giorni fa Bruti Liberati ha scritto una lettera ai suoi pm: «A dispetto di qualche piccola, circoscritta polemica degli ultimissimi mesi - si legge - l’apprezzamento per l’opera della procura di Milano nel quadriennio corso è stato ampio e condiviso e il prestigio indiscusso». «Ma ciò che rileva - continua - sono i riscontri ottenuti a livello di giudizio, in termini di accoglimento delle richieste e dei tempi di definizione». Spetterà al Csm decidere sulla riconferma. una vittoria ai mondiali Ma intanto chi paga i danni subiti da Berlusconi per quella che adesso viene definita «un’autentica operazione non solo giudiziaria ma anche politica e mediatica»? Dietro questa domanda si ricompatta non solo Forza Italia, ma tutto il centro destra. L’attacco ai magistrati ritorna con «la disfatta della Procura di Milano e in primo luogo - aggiunge Cicchitto - sia di Bruti Liberati che della Boccassini, che hanno gestito questo processo in una chiave addirittura unilaterale ed esclusiva». Brunetta, capo gruppo di Fi alla Camera, vuole una commissione parlamentare d’inchiesta sulla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, causata «anche grazie a questo fango». Mentre Micaela Biancofiore chiede che «i pm e i giudici di primo grado che hanno diffamato Berlusconi, a quel tempo presidente del Consiglio e dunque gettato fango internazionalmente sull’Italia intera, dovrebbero dimettersi spontaneamente lasciando spazio alla maggioranza della magistratura italiana, quella maggioritaria, indipendente, autonoma e terza». E così via, nelle parole degli altri parlamentari di centro destra è tutto un susseguirsi di bordate contro il quarto piano del palazzo di Giustizia di Milano: «Verità e giustizia», fine di «un accanimento senza precedenti», «milioni di euro spesi per il processo». Sollecitato sulla «sconfitta della procura di Milano», uno dei legali di Silvio Berlusconi, il professor Franco Coppi - che insieme all’avvocato Filippo Dinacci ha difeso l’ex premier nel processo d’Appello - dice: «Non ho mai considerato il processo penale come una specie di gara sportiva tra chi vince e chi perde». In molti invece lo considerano proprio così. C’è addirittura chi esulta, come il senatore siciliano e forzista Vincenzo Gibiino, «come se l’Italia avesse vinto i mondiali».

La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

Riina: "Borsellino era intercettato". Il Capo dei capi parla in carcere: "Sapevamo doveva andare perché le ha detto 'domani mamma vengo'", scrive “La Repubblica”. Riina e il boss Lorusso ripresi in carcere Cosa nostra teneva sotto controllo il telefono del giudice Paolo Borsellino o dei suoi familiari. E' lo stesso Totò Riina, in una conversazione intercettata, a rivelarlo a un compagno di carcere. "Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: 'domani mamma vengo'", racconta il boss, riferendo le parole dette dal magistrato alla madre. "Questa del campanello però è un fenomeno...Questa una volta il Signore l'ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto". E' un pezzo della conversazione intercettata in cui il boss Totò Riina, racconta all'uomo con cui trascorre l'ora d'aria in carcere, Alberto Lorusso, che a innescare l'esplosione che uccise Paolo Borsellino fu lo stesso magistrato, suonando al citofono in cui era stato piazzato un telecomando. La conversazione - il cui contenuto era noto, ma non il testo - è stata depositata al processo sulla "trattativa". "Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla... Ma lui l'attiva lo stesso", commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Il boss detenuto racconta di avere cercato di uccidere Borsellino per anni. "Una vita ci ho combattuto - dice - una vita... Là a Marsala (il magistrato lavorava a Marsala ndr)".  "Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?" si chiede Riina. "Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre", aggiunge confermando che a innescare l'esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre del magistrato in via D'Amelio. "Minchia - racconta - lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E' troppo forte questa". Secondo gli inquirenti Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell'autobomba, l'impulso che avrebbe innescato l'esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l'attentato al rapido 904 per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell'esplosione.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.

L'associazione per delinquere di tipo mafioso è una fattispecie di reato prevista dal Codice Penale italiano, all'art. 416 bis e all'art. 416 ter, e quindi all'interno del V Titolo della Seconda Parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i Delitti contro l’ordine pubblico. Fino al 1982 per far fronte ai delitti di mafia si faceva ricorso all'art. 416 (associazione per delinquere), ma tale fattispecie è ben presto risultata inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafia. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve ne erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all'applicazione dell'art. 416. Il 19 settembre 1982 l’uccisione del Generale Dalla Chiesa e la immediatamente successiva reazione di sdegno da parte dell’opinione pubblica, portò lo Stato, nel giro di 20 giorni, a formulare l'art. 416 bis, dando così la propria risposta al grave fatto di sangue e perseguendo l'obiettivo di porre freno al problema mafia. La nuova fattispecie prevede l'individuazione dei mezzi e degli obbiettivi in presenza dei quali siamo di fronte ad una associazione di tipo mafioso. Il legislatore per la prima volta nel 1982 dà una definizione del concetto di mafia. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa una associazione è la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di che ne deriva. Gli obiettivi sono:

il compimento di delitti;

acquisire il controllo o la gestione di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti o altri servizi pubblici;

procurare profitto o vantaggio a se o a altri;

limitare il libero esercizio del diritto di voto;

procurare a se o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.

Gli ultimi due obiettivi sono stati inseriti nel 1992 nell'ambito delle misure adottate a seguito delle stragi di Capaci (attentato a Giovanni Falcone) e di Via D’Amelio (attentato a Paolo Borsellino). Il 416 bis dispone inoltre la confisca dei beni, nonché l'applicabilità di tale fattispecie anche nell'ipotesi di Camorra o di altre associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate, tipo “la Ndrangheta” o “la Sacra Corona Unita”. Ad un’attenta lettura della legge, essa non discrimina le pari attività devianti di lobby, caste e sodalizi istituzionali, ma per questi soggetti, detentori del potere, scatta l’impunità e l’immunità. Al contrario, quando un soggetto al loro interno viene emarginato, per il medesimo scatta il reato che non è reato. Il Concorso esterno in associazione di tipo mafioso o Concorso esterno in associazione mafiosa, sono delle espressioni per indicare un particolare comportamento delittuoso non definito in sede legislativa. Alla carenza di definizione in sede legislativa formale è stato supplito con elementi di prassi giudiziaria. Ossia: la Magistratura si sostituisce al Parlamento.

Citazioni di Leonardo Sciascia, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo all’acqua di rose: «…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961). «.. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961). «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966). «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia ?» (Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia, da Il Corriere della Sera, del 10 gennaio 1987).

“Persecuzioni che vanno evitate” scriveva Lino Iannuzzi sul “Tempo” del 23 ottobre 2008. riferendosi all’assoluzione di Calogero Mannino. “Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un pentito, il primo grande pentito della politica. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia dei grandi processi di mafia ai politici darebbe stata diversa, i professionisti dell'antimafia non ne sarebbero usciti così clamorosamente sconfitti.” Il processo a Mannino è stato il più "caselliano" dei processi per mafia, quello che più ha risentito dei teoremi, del climax e del metodo della procura diretta da Gian Carlo Caselli, più dello stesso processo a Andreotti. Ma ha avuto un protagonista eccezionale che ha oscurato la fama dei suoi colleghi più autorevoli e più famosi, dei Lo Forte, dei Natoli, degli Scarpinato, dello stesso Caselli. I processi a Mannino sono durati più di 14 anni, il solo processo di primo grado è stato il più lungo processo per mafia celebrato a Palermo, è durato più di 5 anni e mezzo, 300 udienze, 400 testimoni, 25 "pentiti",oltre 50mila pagine di atti processuali: fino all'assoluzione con formula piena "per non aver commesso il fatto". E tre anni dopo il primo processo d'appello, la condanna a 5 anni e 4 mesi, l'annullamento della Cassazione, il secondo processo d'appello, la sospensione per attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale (che ha bocciata la legge che prevedeva che bastasse l'assoluzione in primo grado per chiudere la partita), e il secondo processo d'appello, fino alla definitiva assoluzione. Ebbene, per i due anni dell'inchiesta iniziale, per i cinque anni e mezzo del processo di primo grado, per i due anni del primo processo d'appello, per i due anni di attesa per l'annullamento della Cassazione, per la sospensione, per tutto il tempo del secondo processo d'appello, l'accusa contro Mannino è stata sostenuta sempre dallo stesso magistrato, il pm Vittorio Teresi, che ha fatto in tempo a fare le indagini preliminari, il processo di primo grado, il primo processo d'appello dopo tre anni, e si è trovato persino pronto, dopo altri tre anni, a sostenere l'accusa nel secondo processo d'appello, dopo l'annullamento e la sospensione. Il processo a Mannino ha avuto un unico inquisitore, che è diventato anche requirente in primo e in secondo grado, e persino nel secondo grado: Vittorio Teresi ha praticamente dedicato la vita, la parte più importante della sua vita, a inquisire e ad accusare Mannino. Più dello Stato, più della procura di Palermo, è stato Teresi a processare Mannino. E che cosa ha detto e ripetuto Teresi contro Mannino per 14 anni l'aveva già detto il Procuratore generale della Cassazione Vincenzo Siniscalchi nella requisitoria con cui ha chiesto e ottenuto l'annullamento della sentenza di condanna di Mannino, che aveva fatto proprie e trascritte testualmente le accuse pronunciate da Teresi: "Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla, mi sono trovato di fronte al nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici. Nulla che indichi un patto elettorale con la mafia, favori in cambio di voti, un patto così serio, preciso e concreto che la sua sola esistenza, con l'impegno e la coscienza da parte del politico, possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe mai essere scritta…". Ma Vittorio Teresi non è né un folle, né un caso isolato. Quando il Procuratore generale Siniscalchi ha bollato con parole di fuoco il sistema accusatorio di Teresi, e i giudici della Corte d'Appello che le avevano fatte proprie, è insorta tutta la giunta esecutiva dell'Associazione magistrati di Palermo e prima ancora che la Cassazione si pronunciasse sulle richieste di Siniscalchi. "Le espressioni pronunciate dal Procuratore generale - è scritto nel comunicato della giunta - hanno gettata una ingiusta e infondata ombra sulla professionalità dei colleghi che hanno emesso la sentenza di condanna di Mannino in netto contrasto con i doveri sanciti dal codice etico adottato dall'Associazione nazionale dei magistrati, e in particolare con il dovere sancito dall'articolo 13 comma III, che prescrive che il pubblico ministero debba astenersi da critiche e apprezzamenti sulla professionalità dei giudici". E i magistrati di Palermo attraverso la loro giunta esecutiva chiedevano "l'intervento dell'Associazione nazionale e del Consiglio superiore della magistratura per quanto eventualmente di loro competenza: l'Anm e il Csm dovevano processare e punire il procuratore generale della Cassazione che si era permesso di criticare il pm e i giudici che avevano condannato Mannino (e di conseguenza la Cassazione che, con le stesse motivazioni del Pg annullerà la sentenza di condanna a Mannino). Forse nessun altro processo come quello a Mannino serve a raccontare e a spiegare che cosa è successo a Palermo (Italia) negli ultimi quindici anni e che cosa sono stati i processi di mafia ai politici. Secondo Jannuzzi il caso Teresi è solo più evidente, più scoperto e più sfacciato: “il pm è sempre lo stesso, i pm dei processi politici sono sempre gli stessi, sempre gli stessi sono i "pentiti", stessa è la tecnica con cui si predispongono certe Corti d'Appello, veri e propri plotoni d'esecuzione, che devono annullare in fretta le assoluzioni conquistate in primo grado (straordinaria la somiglianza con la storia dei processi a Mannino il metodo con cui fu costituita la Corte d'Appello che annullò l'assoluzione in primo grado di Corrado Carnevale, e quella con cui la Corte d'Appello sporcò con la storia della prescrizione l'assoluzione in primo grado di Andreotti), gli stessi sono i teoremi di certe sentenze che, come disse Siniscalchi, sono un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, sentenze che non avrebbero mai dovuto essere scritte”.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

Bruno Contrada non andava condannato perché il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era giuridicamente definito all’epoca dei fatti a lui contestati. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo condannando l’Italia a una multa di diecimila euro per danni morali e al pagamento di 2.500 euro per spese processuali. La fattispecie di reato in questione, scrive la Corte, è il risultato di un iter giurisprudenziale avviato verso la fine degli anni 80 e consolidato nel 1994. E Contrada, incriminato per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 1979 e il 1988, non poteva ragionevolmente prevedere di compiere il reato. Si tratta, fa sapere il tribunale di Strasburgo, di una violazione dell’articolo 7 della convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Nulla poena sine lege”), quella per cui “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che al momento in cui è stata commessa non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”.

Mafia, 14 aprile 2015, Strasburgo su Contrada: «Non andava condannato». Bruno Contrada non doveva essere condannato secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. "Dispiace che l'abbia fatto così tardi", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera, difensore dell'ex 007 riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. "E' un reato che non esiste nel codice penale tutt'ora vigente, se lo sono inventati certi magistrati", afferma il legale. All’epoca dei fatti (1979-1988), reato non «era sufficientemente chiaro». Lo Stato deve versare a ex 007 10 mila euro per danni morali. Lui: «Sentenza sconvolgente», scrive "Il Corriere della Sera”. Bruno Contrada, ex poliziotto, ex capo della mobile di Palermo, non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all’ex numero tre del Sisde (l’ex servizio segreto civile, oggi Aisi) 10 mila euro per danni morali. A caldo, l’ex 007 dice: «Sentenza sconvolgente, dopo una vita devastata». Per la Corte, più in dettaglio, l’Italia ha violato l’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti umani che stabilisce che non ci può essere condanna senza che il reato sia chiaramente identificato dai codici di giustizia. Nel caso della fattispecie di reato contestata a Contrada, il concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte nota che essa «non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione», e quindi ha riconosciuto la violazione, in quanto le pene non possono essere applicate in modo retroattivo. L’ex funzionario del Sisde (tornato in libertà dopo avere scontato la pena) era stato condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le accuse di diversi collaboratori di giustizia di passare informazioni a Cosa nostra e di avere consentito la fuga di pericolosi latitanti, come il boss Totò Riina, ricevendo la «copertura» di non identificati vertici istituzionali. Contrada è stato arrestato la prima volta il 24 dicembre 1992 e detenuto in carcere fino al 31 luglio 1995. Dal 10 maggio 2007 al 24 luglio 2008 è stato nel carcere militare a Santa Maria Capua Vetere, dal 24 luglio 2008 è agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Palermo per il suo stato di salute. A giugno 2012 la Cassazione, ancora una volta, aveva detto «no» alla richiesta di revisione del processo. Contrada negli anni è stato un investigatore di punta dell’antimafia, a più riprese è stato capo della squadra mobile di Palermo negli anni 70, poi dirigente della Criminalpol, capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia e, infine, «numero tre» del Sisde. La condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa risale al maggio del 2007. «Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più». Così Bruno Contrada parla della decisione della Corte di Strasburgo. Raggiunto al telefono dall’Agi, Contrada dice: «Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d’animo in questo momento. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l’ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso». «Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo a Bruno Contrada e la Corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l’udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna». Lo dice l’avvocato Giuseppe Lipera, legale dell’ex agente Sisde. «Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest’uomo a 84 anni continui a vivere», conclude Lipera che ha telefonato subito a Contrada per comunicargli la notizia.

Mafia, la Corte di Strasburgo: "Contrada non andava condannato". Lui: "La mia vita è distrutta". Il reato contestato "non era sufficientemente chiaro". Stato italiano condannato a versare 10 mila euro per i danni morali. L'ex agente del Sisde: "Sentenza sconvolgente", scrive “La Repubblica”. Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali. Già nel 2014 la corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per la detenzione dell'ex funzionario del Sisde. Secondo i giudici le condizioni di salute di Contrada, tra il 2007 e il 2008, non erano compatibili con il regime carcerario. Adesso i suoi legali puntano alla revisione del processo. "Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione e la corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l'udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera legale dell'ex numero 2 del Sisde dopo al decisione della Corte europea dei diritti umani. "Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest'uomo a 84 anni continui a vivere", conclude Lipera. "Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più", commenta a caldo Bruno Contrada. "Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d'animo in questo momento. Poco fa ho sentito il mio avvocato che mi ha comunicato la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo. Aspetto di leggere la sentenza - conclude l'ex numero tre del Sisde - per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso". Da 23 anni la sua vicenda giudiziaria tiene banco non solo nelle aule di giustizia italiane ed europee ma anche nel dibattito politico e giudiziario perchè Bruno Contrada, 84 anni, napoletano ma palermitano d'adozione, quando fu arrestato era ai vertici degli apparati investigativi italiani, numero tre del Sisde, dopo aver percorso tutte le tappe dell'investigatore da dirigente di polizia ad alto funzionario dei servizi segreti nell' arco di un trentennio. Arrestato, la vigilia del Natale '92, l'anno delle stragi palermitane, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile '96. Sentenza ribaltata in Corte d'appello il 4 maggio 2001: assolto. La Cassazione ha rinviato gli atti a Palermo. Poi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d'appello palermitana, e la conferma della Cassazione l'anno successivo. Quindi il carcere, i domiciliari e poi la fine pena nell'ottobre 2012. Sono poi cominciati i tentativi di revisione del processo e gli appelli alla corte di Strasburgo per i diritti umani. Italia condannata due volte: nel febbraio 2014 perché il detenuto non doveva stare in carcere quando chiese i domiciliari per le sue condizioni di salute e oggi perchè l'ex poliziotto non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Contrada in questi anni ha sempre combattuto per "salvaguardare - diceva - l'onore di un uomo delle istituzioni". "Voglio l'onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato" ripeteva. Ha parlato dei tanti collaboratori di Giustizia che lo accusavano, con disprezzo, ricordando quando lui e i suoi uomini della questura di Palermo li arrestavano trattandoli come delinquenti e presentavano ai magistrati dossier corposi sulla mafia. E si è sfogato, in questi anni, con gli amici su quella nebbia che nel processo è sembrata calare sul suo rapporto col capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, assassinato nel luglio '79 da Leoluca Bagarella mentre prendeva un caffè da solo al bar. "Eravamo due fratelli - ha detto - lavoravamo fianco a fianco. Non mi sono mai fermato nelle indagini sul suo omicidio". Sono stati scritti almeno quattro libri sulla sua vicenda giudiziaria e migliaia di articoli di giornale che hanno aperto dibattiti nel mondo politico e che hanno diviso l' opinione pubblica italiana.

Perché Contrada ha vinto a Strasburgo. Il Tribunale dei diritti dell'uomo: per l'ex numero 3 del Sisde, condannato per concorso esterno mafioso, il reato non era "sufficientemente chiaro", scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. All'epoca dei fatti contestati a Bruno Contrada, e cioè tra il 1979 e il 1988, "il reato in questione non era sufficientemente chiaro. Il ricorrente non poteva quindi conoscere in particolare che i fatti da lui compiuti potessero configurare una qualche responsabilità penale. Questi elementi bastano all Corte per concludere che c'è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo". È tutta in queste righe la grande vittoria di Bruno Contrada, l'ex numero 3 del Sisde accusato di "intelligenza con Cosa nostra" e condannato definitivamente nel 2007 a dieci anni di reclusione. L'ha stabilita oggi la Corte europea dei diritti dell'uomo, condannando con quelle parole lo Stato italiano a risarcire l'imputato con 10 mila euro più 2.500 di spese legali. Per i giudici di Strasburgo, il controverso utilizzo combinato dei due articoli del codice penale, il 416 bis (associazione mafiosa) e il  100 (concorso esterno) non è stato configurato dalla Corte di cassazione italiana, se non "dopo il 5 ottobre 1994, con la sentenza Demitry". Scrivono i giudici: "È solo a partire da quella sentenza che viene fornita per la prima volta un'elaborazione della materia in oggetto (...) e viene ammessa in maniera esplicita l'esistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nell'ordinamento giuridico italiano". Magra consolazione, per Contrada, la cui vita è stata distrutta. Ma un formidabile assist giudiziario per quanti, condannati prima di quella data da giudici che abbiano incastrato i due reati, potranno utilizzare la sentenza per cercare non solo un risarcimento, ma forse anche una revisione del processo.

Concorso esterno in associazione mafiosa. L'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni, sotto le quali si può avere conoscenza scientifica, e dei metodi per raggiungere tale conoscenza, come suggerisce peraltro l'etimologia del termine, il quale deriva dall'unione delle parole greche Epistema ("conoscenza certa", ossia "scienza") e logos (discorso). In un'accezione più ristretta l'epistemologia può essere identificata con la filosofia della scienza, la disciplina che si occupa dei fondamenti delle diverse discipline scientifiche. In epistemologia, un assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento. Il termine dogma (o domma) è utilizzato generalmente per indicare un princìpio fondamentale di una religione, o una convinzione formulate da filosofi e poste alla base delle loro dottrine, da considerarsi e credere per vero da chi si reputa loro seguace o fedele. Il termine può essere applicato in senso estensivo a discipline diverse da quelle religiose. Bene, anzi male. In tema di mafia vi è un assioma elevato a dogma per il quale chi non è comunista, o comunque chi non è di sinistra, è per forza di cose un mafioso, un para mafioso o un sostenitore della mafia. Questo si evince dalle tante inchieste emerse in tutta Italia e dalla piega che ha assunto la cosiddetta lotta "Antimafia": lotta di parte o di facciata. E’ difficile trovare degli esponenti politici di sinistra che siano stato colpiti da inchieste di mafia, specialmente quanto i titolari delle indagini siano Pubblici Ministeri di una certa area politica. Di contro vi sono evidenti ed ostinati tentativi giudiziari di coinvolgere esponenti politici governativi del centro-destra, nonostante tutti gli schieramenti siano stati investiti di responsabilità governativa, dimostrando nei fatti di essere tutti uguali. Hanno cercato di colpire Andreotti e Berlusconi e i loro referenti istituzionali locali. Molti deputati, ma anche uomini servitori dello Stato. Come Giovanni Falcone, Bruno Contrada, Mario Mori, colpevoli di essere stati promossi a ranghi istituzionali al posto di chi altri aspirava ad occuparli: Falcone e Contrada nominati dall’area Adreottiana-craxiana; Mori da Berlusconi.

Giovanni Falcone, medaglia d’oro al valor civile. Palermo 5 agosto 1992. «Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale componente del 'pool antimafia', dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Proseguiva poi tale opera lucida, attenta e decisa come Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio delle Istituzioni

Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello"), ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente ad Orlando, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati". La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte del giudice Falcone. In particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico "Mixer" ha accusato Leoluca Orlando di aver infangato suo fratello, « hai infangato il nome, la dignità e l'onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia[...]lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». In un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone. In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera il Presidente emerito Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato: «i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia.» La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero. In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da buona parte del mondo politico. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte dei partiti di centro sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo». In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti. Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."

Bruno Contrada. Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l’Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo. Nel 1982 transitò nei ruoli del SISDE con l’incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. Il 24 dicembre 1992, venne arrestato perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivo fino al 31 luglio 1995. Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, quando, al termine di una requisitoria protrattasi per ventidue udienze, il pubblico ministero Antonio Ingroia chiese la condanna a dodici anni. Il 5 aprile 1996 i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse con formula piena. Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo. Il 26 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali. Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ha ammesso la revisione del processo in cui Bruno Contrada è stato condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di revisione comincerà davanti alla Corte d'appello di Caltanissetta. Due richieste analoghe, presentate dal difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera, erano state rigettate.

SENATO: PRESENTAZIONE LIBRO "GIUSTIZIA ASSISTITA" DI PIERO MILIO. Roma, 06 giugno 2011 - Sala Conferenze ex Hotel Bologna in via di Santa Chiara 5, presentazione di "Giustizia assistita", volume che raccoglie scritti e interventi dell'avvocato Piero Milio, ex senatore radicale e storico avvocato difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, deceduto nel 2010 a Palermo. (relatori: Pierluigi Winkler, presidente della Koiné Nuove Edizioni, avv. Basilio Milio, sen. Emanuele Macaluso, direttore de "Il Riformista", sen. Luigi Compagna, dott. Massimo Bordin, giornalista di "Radio Radicale". Moderatore dott. Massimo Martinelli, giornalista de "Il Messaggero". Saluto di Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo Pdl al Senato. Tra i presenti, l'ex ministro Interni Nicola Mancino, il gen.le Mario Mori, Ida e Pupa, sorelle del generale Bruno Contrada, Marina Salvadore del Comitato Bruno Contrada Napoli, la quale dà un dettagliato resoconto.

«Dall’umido esilio di Liternum marciava, ieri, verso il Senato di Roma imperiale un manipolo sgangherato dei “bona fides” di Scipione Bruno Contrada. Accadeva che in contemporanea con l’ennesima archiviazione della Procura dell’ennesimo esposto del generale contro i calunniatori ed i mistificatori, la contraddizione palese della sua piena riabilitazione morale e professionale sarebbe fiorita, per contro, sulle bocche dei più alti rappresentanti istituzionali, ripresi anche dalle telecamere. Il Camel Trophey degli impavidi invecchiati accanto al generale, arrancava motivato alle porte di Roma Sud, riannusandone la grandezza e la potenza. La speranza! Provenienti dalla bidonville del Mezzogiorno reietto, oltre la Porta romana li confondeva in quel caos urbanistico l’assenza totale di pattume, creando in loro la suggestione d’essere proiettati in un'altra realtà, in un altro mondo, in un’altra vita. Troppo era durato l’esilio da Roma, da non riconoscerla più! L’occasione propizia, utile a riaccendere ceri votivi per evocare la luce nel lungo tunnel buio dell’oblio ed a rigenerare gli esuli in un’istantanea reincarnazione, come esperienza mistica, esoterica, si doveva alla generosità biodinamica, ancora attiva, di chi della Verità, nel Senato di Roma, s’era fatto testimone e maestro, l’avvocato Piero Milio che – ancora – dalla quarta dimensione faceva udire distintamente la sua voce, consentendo alla platea di visualizzarlo con la toga gettata in spalla, l’indice puntato ai calunniatori ed il braccio sinistro – quello del cuore – a cingere le spalle di Bruno Contrada e Mario Mori! L’eredità di un suo libro di memorie, rinvenuto tra i files del computer dal suo degno figliolo, il giovane e capace avvocato Basilio, veniva così, ieri, equamente divisa a vittime e carnefici: ad ognuno onori ed oneri, a seconda del ruolo da loro rivestito nella italica “Giustizia Assistita”. Parole come sassi levigati dal mare, memorie del 2001 attualissime, dacché niente è cambiato nel “sistema” ma ad oggi, in progressione geometrica, lievitando l’una sull’altra, pagine di Mafia e Giustizia incombono come la nuvolaglia nera che ingrossa sempre più il diluvio delle iniquità! L’Italia del Diritto, dalla culla alla bara. La circostanza della presentazione del libro, voleva essere il giusto tributo al ricordo di Piero Milio, scomparso da un anno; invece, si è tradotto nel tributo del grande avvocato alla Giustizia Giusta, come per un’ultima appassionata arringa, a perenne monito. Sentire risuonare in quella sede prestigiosa di nuovo il nome di Bruno Contrada, il racconto delle sue eroiche imprese, é stato emozionante fino alla lacrime, seppure una strana rabbia formicolasse nel palmo della mano che avrebbe voluto levarsi per chiedere d’essere auditi, per dire la propria, partecipando di DIRITTO, come in un agorà o in un sacro conclave e non solo quale muto spettatore. Diciotto anni di persecuzione ambivano a trovare riscatto almeno in un fotogramma di umana rivendicazione… ma il prodigio era già tutto racchiuso, avaro, nel privilegio unico della condivisione spartana dell’evento: vietate le repliche e il contraddittorio, il dibattito ed addirittura non previsto un opportuno banchetto promozionale dei libri all’editrice Koinè, tanto che il nostro canuto manipolo di reduci della Silva Gallinaria, mostrava in quel consesso, ad uso di reliquia trasportata lungo la via Capuana e la via Appia fino in Roma imperiale, una copia del libro; come Saul, noto come san Paolo di Tarsia, che da Pozzuoli a Roma recò seco le sue lettere da spedire ai Corinzi. Prescelti, nevvero? Pochi ma buoni gli invitati al rito di ufficiosa riabilitazione, quasi che gli anfitrioni istituzionali provassero ancora ancestrale imbarazzo a trattare di certe vergogne nazionali, seppure nel pieno possesso, ora, dei più ampi poteri conferiti loro dal Governo della Nazione. Pertanto, l’evento è stato di portata eccezionale, con la maggioranza assoluta di relatori insigni ed augusti ospiti, da ridurre in minoranza la sorpresissima platea, oltremodo zittita nel disagio di “eccesso di grazia” non previsto. Il senatore Macaluso, autentico istrione, bene ci appassionava alla sua Lectio Magistralis sulla degenerazione della sinistra storica in sinistra complottista, rendendo onore ai servitori dello Stato ingiustamente intrappolati nel ruolo di capri espiatori, ricordando con estrema lucidità l’uso consapevole e riservato che dei “pentiti” di mafia il giudice Falcone intendeva, fino all’abominio odierno dell’abuso mirato e relative strumentalizzazione di questi, da parte di certe procure, con i risultati che ridondano nelle cronache giustiziere quotidiane. Riferendosi al vergognoso processo Contrada, Macaluso evidenziava come il ruolo degli investigatori dei “servizi” non abbia mai goduto delle opportune protezioni dovute ai professionisti di rango che, necessariamente, nel loro pericoloso ed esclusivo lavoro, al pari dei militari cosiddetti “infiltrati” devono impattarsi e relazionarsi con criminali pericolosissimi; questa assenza di misure speciali a tutela di uomini coraggiosi mandati allo sbaraglio dallo Stato medesimo, si è rivelata un’arma a doppio taglio, finendo col conferire autorevolezza più ai criminali che agli esponenti delle forze dell’ordine e allargando ancor più il solco tra lo Stato e “certe” Procure innegabilmente politicizzate, col risultato che i migliori uomini impegnati nella lotta alla Mafia e al Terrorismo si sono trovati, come Contrada e Mori, esposti al pubblico ludibrio e messi alla sbarra quando non ristretti nelle galere di quello Stato che sarebbe stato in dovere solo di ringraziarli e di premiarne l’audacia. A Macaluso faceva eco il senatore Compagna sul ruolo giocato da Ciancimino junior in due anni di pubbliche audizioni quasi quotidianamente divulgate con evangelici titoli sensazionali e che lo trasformavano in star televisiva da reality-show, salvo, poi, il sancire da altra procura concorrente l’inidoneità e l’inadeguatezza di questi al ruolo di “collaboratore di giustizia”. Come non sottolineare che ad un comune delinquente era stata posta sul capo l’aureola di “eroe romantico” e che ai Ciancimino, agli Spatuzza, ai Brusca e compagnia, lanciatori di coltello, si offrivano addirittura spade affilate per esercitare il ricatto, volgarmente ostentato quale riscatto. Emblematico il riferimento al micidiale quantitativo di esplosivo rinvenuto nel giardino di casa del finto fesso Ciancimino che… chissà perché, per cosa e da quando lo deteneva… e che solo un mese dopo il suo casuale rinvenimento è stato regolarmente denunciato quale reato, laddove ad un comune mortale non celebre quanto il fighetto in questione, le porte del carcere si sarebbero spalancate per direttissima. Ebbene, ad un soggetto di tal tipo si è consentito, per anni, di infamare ignobilmente, con racconti fantastici persone come il generale Mori, presente anch’egli al convegno e signorilmente premuroso con la non vedente signora Ida, sorella di Bruno Contrada delle cui condizioni si informava, pregandola di portargli un solidale saluto. L’intervento di Compagna non poteva non scivolare sulla necessità di una riforma della Giustizia, sulle dolenti note della separazione delle carriere e dei controversi rapporti tra polizia giudiziaria e magistrati. A quel punto, avremmo voluto urlare la necessità dell’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Pentitificio di Stato e ricordare anche che gli italiani, molti anni fa, con referendum votarono già a favore della responsabilità civile dei magistrati e sull’onda del breve intervento di rito di Maurizio Gasparri in ordine alla necessità di trattare le responsabilità di chi accusa e di chi giudica, tanto noialtri profughi del litorale domitio quanto l’inossidabile senatore Mauro Mellini sussultavamo sulla sedia, pensando al trasferimento, al momento inopportuno, del ministro Alfano dalla Giustizia alla segreteria del partito, con guizzi di riforma congelati sul nascere ed un futuro – eccetto i soliti imprevisti – di soli due anni per consentire al suo successore di realizzare appieno la riforma medesima. Poteva mancare all’illustre consesso che godeva dell’armonia perfetta di quegli illustri uomini di sinistra, di destra… di sopra e di sotto l’inquietante convitato di pietra? L’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, seduto in prima fila, immobile come un animale a sangue freddo nell’autunno avanzato, ascoltava, senza emettere suono, senza battere ciglio… e ripensando, noialtri, alla recente riesumazione del primo patto Stato-Mafia, ripescato dagli annali occulti dell’annus orribilis 1992, un brivido lungo la schiena ci coglieva nonostante l’afa insopportabile della inoltrata primavera romana. Un brivido di paura, sì, al solo pensare – stante le cronache politiche alquanto bizzose; anzi, bislacche – ad una più violenta e perniciosa riedizione di quel fallito golpe sinistro del ’92. Tuttavia, la rassicurante presenza del senatore Milio aleggiava nell’aula, percepibile ancora attraverso l’umiltà e l’eleganza cortese di suo figlio Basilio che serenamente blandiva relatori, ospiti e spettatori, rammentando senza ostentazione il coraggio della dignità messo nelle numerose ed impegnative lotte civili da suo padre, in tempi e su territorio pericolosissimi. Di lui, proprio nel ’92, Giovanni Falcone disse: “L’avvocato Milio fa parte di quella eletta schiera, in verità abbastanza esigua, di avvocati palermitani che sono pronti anche ad addossarsi questo sacrificio e i pericoli non lievi che comporta l’assunzione di certe difese”; Falcone, occorrerebbe sempre ricordarlo, aveva precedentemente gratificato con un encomio scritto anche Bruno Contrada e il risultato dell’equazione è che – certamente – tutti coloro che ora sfruttano ideologicamente la memoria di Falcone (e di Borsellino) sono gli stessi che – in puro stile mafioso – se ne liberarono. Non a caso in “Giustizia assistita” Milio, come su un Golgota ideale, ricompone una trinità di martiri: Falcone, Contrada e Mori… ed il suo libro, pronto da anni ed ostacolato per anni nella debita divulgazione è quantomai attuale. Qualcuno, tra i relatori, faceva anche un rapido accenno alla denuncia fatta a Borsellino, dopo la morte di Falcone, degli intrallazzi tra partecipazioni statali e mafie… ah! se avessimo avuto l’opportunità di intervenire avremmo chiesto ai senatori della Repubblica perché allo sfortunato ex sindacalista UIL della Fincantieri Palermo, Gioacchino Basile, che da anni chiede inutilmente di essere audito dalla Commissione Antimafia, non gli si riconosce un briciolo solo dell’autorevolezza che permea i brutti ceffi “pentiti” nell’immaginario collettivo di certi PM rampanti… La ricca performance volgeva alla fine. Il senatore Gasparri, spariva veloce dietro una porta, per impegni di rango o perché tormentato al pensiero delle domande che leggeva sulle labbra di noialtri cafoni della Silva Gallinaria. Gradevolmente, l’aristocratica e gentile direttrice editoriale della Koiné, Madrilena Lioi e gli altri relatori si attardavano cordialmente con noi, prestandosi anche al rito delle foto-ricordo. Ida Contrada, affetta da cecità, percepiva più intensamente i sentimenti di chi la circondava e rideva felice. Di ritorno al paesello, mi confidava d’essersi divertita molto al pensiero che tutti quei politici importanti s’erano lasciati fotografare con una dei “Contrada”, richiamando alla memoria, sorniona, l’episodio degli scatti fotografici di Di Pietro alla medesima mensa di Bruno Contrada, nella prenatalizia del ’92… e tutto il casino che ne scaturì!... In realtà era felice per aver di nuovo, dopo tanto tanto tempo, sentito dire così bene ed in un contesto così importante, del suo adorato fratello, il generale Bruno Contrada.»

Mario Mori è un generale e prefetto italiano. È stato comandante del ROS e direttore del SISDE.

Quel che pensa davvero del gip che l’ha rinviato a giudizio d’imperio nonostante la richiesta d’archiviazione del pm, l’ormai ex ministro all’Agricoltura, Saverio Romano, lo rende noto nel libro-intervista La Mafia addosso (il Borghese editore). Prima, però, fa una premessa a buon intenditor: dal 1991 al 2000 ho fatto di tutto, dal consigliere provinciale al presidente di banca, ero conosciutissimo e mai è girata una chiacchiera. Dal 2001 sono diventato tre volte deputato e parlamentare europeo. A un certo punto, però, arrivano le «delazioni» del pentito Campanella che - sostiene Romano - si annullano coi riscontri in atti, con alcune sentenze e con le delazioni di un altro pentito di Villabate, Mario Cusimano. «Insomma, fino a settembre dell’anno scorso (2010) ero un parlamentare dell’opposizione. Il 29 settembre ho votato la fiducia e a novembre è stato riesumato il mio caso giudiziario, che ormai era un cadavere nel quale non si poteva che chiedere l’archiviazione». Aver fatto da salvagente al governo Berlusconi - dice - è la causa di tutto. Nel libro Romano non va a caccia di colpevoli, ma riserva critiche al gip che ha proceduto con l’imputazione coatta: «In generale, i magistrati non ce l’hanno con me, ma con Berlusconi. La cosa grave è che qualcuno vorrebbe alimentare lo scandalo nei confronti di questo (ex) governo dopo otto anni di indagine e due richieste di archiviazione del mio caso, rimasto tre anni in un cassetto senza che nessuno se ne curasse più. Un caso ormai chiuso, riesumato da un’ordinanza illogico-deduttiva». Proprio così: illogico-deduttiva. «Un’ordinanza che gli esami di magistratura avrebbe provocato la bocciatura del candidato perché è frutto di personalissime convinzioni, legate a una realtà virtuale, che solo questo giudice è riuscito a partorire». E giù con gli esempi, a cominciare dalle frequentazioni con mafiosi, tipo Guttadauro, «che le carte dei pm dimostrano non esserci mai state (...)». L’unico «persuaso dell’incontro con Guttadauro è il gip, ma solo sulla base di un suo convincimento personale formato su mere illazioni e smentito da tutti gli elementi acquisiti». L’ex ministro non parla di malafede del gip Castiglia. Però non può far a meno di notare che «è stato iscritto ai Verdi e Md, dove non hanno una buona opinione di Berlusconi. Non lo dico io, ma è lui stesso a dirlo. Basta andare su alcuni blog e leggere come si è espresso nei confronti del governo e dei suoi provvedimenti». In un intervento pubblico in materia di intercettazioni, il 10 giugno 2008, su toghe.blogspot.com Castiglia «osanna un post» dove si dice che «il terrore delle intercettazioni è un problema che hanno solo i potenti e i corrotti» e poi che la legge «è la prima vera legge vergogna che riguarda i processi di Berlusconi». In un altro blog, il 15 novembre 2009, il gip loda uno studente che prende di petto l’allora Guardasigilli Alfano («complimenti, complimenti, complimenti») poi sottoscrive un duro «appello per la giustizia civile» di Md contro la riforma dell’ordinamento giudiziario. «Non voglio dimostrare la sua acrimonia verso di me - chiosa Romano - però poi leggo un’altra sua ordinanza su tizio che inequivocabilmente partecipa a un vertice di Cosa nostra, e ne archivia il caso perché partecipare a un summit mafioso non equivale a essere mafioso. Per me, invece, pur non avendo uno straccio di prova di un mio semplice contatto con la mafia, ha chiesto l’imputazione coatta».

Corte di Strasburgo, dopo Contrada adesso spera anche Dell'Utri, scrive “Libero Quotidiano”. Si scrive Contrada ma si legge Dell'Utri. La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, che ieri ha stabilito l'illegittimità della condanna dell'ex funzionario del Sisde visto che ai tempi (1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era ancora stato configurato, apre la strada alla revisione della condanna dell'ex senatore di Forza Italia. Scrive infatti il quotidiano Il Giornale che i fatti per cui Dell'Utri è stato condannato in via definitiva per concorso esterno arrivano fino al 1992. Cioè prima di quel 1994 che nell'interpretazione di Strasburgo diventa l'anno chiave per una effettiva definizione del reato, che non è previsto da alcuna legge ma è nasce dall'incrocio delle norme studiate dai magistrati. La Corte europea, in pratica, dice che il concorso esterno si consolidò per effetto di quelle sentenze  tra la fine degli anni '80 e il '94. Dunque, non può essere apprilcato retroattivamente per giudicare fatti commessi in precedenza. Per questo, secondo quanto riporta Il Giornale, dovrebbe essere rivista anche la posizione di Dell'Utri per quel che riguarda la nascita di Forza Italia nel '93-'94. L'avvocato Pietro Federico, storico legale di Dell'Utri, si dice "cauto" , ma sottolinea come "le due storie sono in gran parte sovrapponibili, almeno a livello cronologico visto che per Dell'Utri  la condanna poggia addirittura su un summit del 1974 tra i vertici di Cosa nostra e il futuro parlamentare. Ebbene - prosegue il legale - nel '74 non solo non era configurato il concorso esterno ma non c'era nemmeno il 416bis che nel nostro codice penale configura l'associazione di stampo mafioso, che è stata introdotta solo nel 1982".

Dell'Utri indagato per ricettazione: gli sequestrano 20 mila libri antichi, scrive Sandro Iacometti su “Libero Quotidiano”. Per una volta invece di ascoltare noiosissime e incomprensibili telefonate gli ufficiali di polizia giudiziaria si sono dati alla lettura. Non si tratta di un corso di aggiornamento professionale, ma di una delicatissima inchiesta stile Dan Brown dove gli inquirenti sono a caccia di manoscritti rubati. Il ladro, manco a dirlo, risponderebbe al nome di Marcello Dell’Utri, che alla lunga lista di accuse (tra cui quella di concorso esterno in associazione mafiosa per cui è stato condannato in via definitiva a sette anni) stilata dai magistrati di mezza Italia da quando, nel 1994, decise di entrare in politica al fianco di Silvio Berlusconi, ora aggiunge anche la ricettazione e l’esportazione illecita all’estero di opere d’arte. I pm di Milano, che coordinano l’inchiesta, sostengono di avere accertato la presenza «di opere asportate, in epoca e con modalità ancora ignote, da biblioteche pubbliche ed ecclesiastiche insistenti sull’intero territorio nazionale». Ancora, però, mancherebbe la pistola fumante. Le indagini partono dal saccheggio della storica biblioteca dei Girolamini di Napoli, dalla quale furono sottratti migliaia di libri, molti dei quali di inestimabile valore. Vicenda che risale al 2012 e nell’ambito della quale sono stati effettuati una decina di arresti, anche oltreconfine. Il sospetto della procura partenopea era che l’allora senatore del Pdl, indagato per concorso in peculato, avesse ottenuto alcuni libri antichi da Massimo De Caro, ex direttore della biblioteca dei Girolamini finito in carcere. Da qui la decisione, presa circa un anno e mezzo fa, del pmdi Milano Luigi Luzi di sequestrare 20mila volumi di Dell’Utri, in parte tenuti nella biblioteca della sua Fondazione, in via Senato, e in parte in un magazzino di deposito, l’Opencare in via Piranesi, e di affidare al Nucleo tutela patrimonio artistico di Monza gli opportuni accertamenti. La procura, che indaga anche sui due responsabili della Sala Campanella della Fondazione in Via Senato, avrebbe chiesto una valutazione meticolosa libro per libro di tutti i 20mila titoli, tra cui ci sarebbero pure i 3mila volumi della collezione privata di Dell’Utri. Sembra, però, che dalle attente e scrupolose letture dei carabinieri non sia ancora emerso alcun nesso tra i volumi dell’ex manager di Publitalia, attualmente detenuto a Parma dopo l’estradizione dal Libano, e il materiale trafugato alla Girolamini. Il lavoro del Nucleo operativo di Monza non si è comunque ancora concluso. Alla fine degli accertamenti letterari i carabinieri consegneranno una relazione al pm Luzi da cui potrebbe risultare l’eventuale provenienza illecita di alcuni libri. Anche in quel caso, però, l’incriminazione non sarà automatica. L’autorità giudiziaria dovrà dimostrare l’elemento soggettivo del reato di ricettazione. Ovvero che i libri non siano stati regalati a Dell’Utri e che lui fosse a conoscenza dell’origine irregolare degli stessi. Cosa già avvenuta nell’inchiesta napoletana, dove l’ex senatore, la cui posizione è stata stralciata, ha precisato di aver avuto alcuni volumi in dono e li ha restituiti. All’appello mancava, però, un’edizione cinquecentesca dell’Utopia di Tommaso Moro. Che Dell’Utri disse di aver perso e che i pm, a quanto pare, sembrano ora convinti di poter ritrovare in un pagliaio di 20mila libri.

Dell'Utri e la balla dei libri rubati. L'ex senatore, in carcere a Parma, viene accusato dai mass media di avere "ricettato decine di migliaia di libri antichi". Ma non è vero, scrive Maurizio Tortorella su "Panorama". Ancor più che nel salto sul carro del vincitore, uno sport nel quale eccellono a livello mondiale, gli italiani sono campioni olimpionici nel tiro allo sconfitto. Prendiamo Marcello Dell’Utri: già senatore di Forza Italia e del Pdl, dal 13 giugno 2014 Dell’Utri è recluso nel carcere di Parma a causa di una controversa condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. L’uomo è atterrato, vinto. Anche se negli anni Novanta ha già dato prova di una grande tempra, durante una lunga custodia cautelare nel carcere di Torino, dove aveva trascorso il tempo leggendo I pensieri di Sant’Agostino. Per qualche tempo sui giornali si scrive del disagio del condannato per la sua impossibilità di tenere più di un libro per volta in cella: del resto, la passione di bibliofilo dell’ex numero uno di Publitalia è nota. Poi su di lui cala il silenzio. Ma la gogna non può accontentarsi, deve insistere. E allora che cosa accade, improvvisamente, il 31 marzo scorso? Accade che su più giornali, contemporaneamente, escono articoli nei quali si racconta che Dell’Utri è nuovamente nei guai. E che guai. Titoli e articoli sono a dir poco disastrosi, e non solo perché lo colpiscono nella sua grande passione: “Indagine su Dell’Utri per ricettazione: 10 mila libri da chiese e biblioteche” scrive il Corriere della Sera. Aggiunge il Fatto quotidiano: “L’ex senatore è accusato di ricettazione e di esportazione illecita di opere d’arte che per gli inquirenti valgono milioni di euro”. La Repubblica insiste: “Volumi stimati milioni di euro trafugati a enti pubblici e religiosi”. “Sequestrati a Dell’Utri 20 mila libri antichi rubati da biblioteche”, spara il Messaggero. Nessuno si sottrae all’attacco. Si parla di una rete di complici, attiva nella fornitura di libri rubati. Emerge la figura di un Dell'Utri, se possibile, ancor più abominevole di quella che lo vuole "amico dei mafiosi": espone un potente e ricco razziatore di chiese e di biblioteche, alla continua ricerca di libri antichi e ovviamente preziosissimi. Così che anche un'altra tra le caratteristiche positive dell'uomo, la sua cultura e l'amore per la pagina scritta, venga devastata. A nulla serve che Giuseppe Di Peri, l'avvocato che di Dell'Utri è lo storico difensore, controbatta quello stesso giorno con un comunicato stampa nel quale ricorda che “l’indagine è partita dalla Procura di Napoli nei confronti di Massimo De Caro”, già direttore della biblioteca nazionale dei Girolamini, a Napoli, e accusato di avervi sottratto numerosi libri, e aggiunge che Dell’Utri in realtà "ha collaborato con l’autorità giudiziaria mettendo spontaneamente a disposizione e consegnando tutti i volumi ricevuti in dono da De Caro”. Dal comunicato si capisce inoltre che il sequestro non è un fatto nuovo, né pertanto una notizia, perché in realtà risale al 12 aprile 2014. E a nulla probabilmente servirà il comunicato inviato oggi dallo stesso Dell'Utri in cui si dice che "Ancora una volta, partendo da notizie su indagini in corso, è stata posta in essere una campagna denigratoria e diffamatoria a mio danno. Sulla base di mere supposizioni investigative sono stato indicato come un ricettatore e un ladro, al cui confronto impallidisce la mitica figura di Guglielmo Libri. Quest’accusa è per me inaccettabile e mi ferisce più della stessa detenzione. Ho acquisito e raccolto uno per uno i volumi attraverso librerie antiquarie italiane ed internazionali, aste, mostre, bancarelle e privati collezionisti in un arco di tempo di oltre quarant’anni. E se anche, quindi, su decine di migliaia di testi si dovesse rinvenire qualche volume di cui è sospettabile la provenienza, sarebbe assurdo ritenermene responsabile. A testimonianza della mia buona fede, basta considerare che i libri in questione sono stati dettagliatamente descritti, catalogati e messi a disposizione del pubblico nella biblioteca milanese di Via Senato; pubblicati nel bollettino mensile della stessa ed esposti in numerose mostre tematiche. Ciò a riprova del fatto che mai ho dubitato della origine lecita degli stessi. La diffusione delle infamanti notizie mi ha colto nell’impossibilità di rispondere tempestivamente, data la condizione di prigioniero, limitativa della mia possibilità di difesa. Per quanto detto, e viste la superficialità e la scorrettezza con cui i “media” – e chi li ha informati – hanno trattato la vicenda, intendo rivolgermi all’Autorità Giudiziaria per ristabilire la verità dei fatti a tutela della mia dignità". Tutto, è inoltre avvenuto dopo che Dell'Utri ha catalogato ed esposto al pubblico i suoi libri nei locali della biblioteca di via Senato, a Milano. Se mai l'ex senatore avesse avuto la certezza che alcuni di quei volumi erano frutto di un furto, di certo non si sarebbe esposto a quel rischio. Aggiunge Di Peri: "Il sequestro è servito solo a consentire l'esame dei volumi in un luogo diverso rispetto a quello dove erano custoditi,tenuto conto sia del loro numero, sia del tempo necessario per il loro esame". Per di più, il legale spiega che i libri "sospetti" non sono 10 o 20 mila, ma sono pochi, alcune unità. E quindi se anche su decine di migliaia di testi si dovesse sospettare della legittima provenienza di qualche volume, sarebbe assurdo ritenerne in qualche modo responsabile l'ex senatore. Tutt'al più potrebbe trattarsi di un "incauto acquisto". Conclude il penalista: "Ipotizzare, come hanno fatto alcuni media, che vi sia una rete di complici in grado di fornire illegalmente volumi antichi e preziosi a Dell'Utri è una congettura, neppure suffragata dall'esito di indagini". Tutte balle, insomma, Ma intanto la gogna , ancora una volta, ha colpito nel segno.

Tre ore di camera di consiglio poi il verdetto: la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello di condanna a sette anni di reclusione per il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di secondo grado dovrà essere rifatto a Palermo davanti ad altri giudici. La conclusione era già apparsa probabile durante l'udienza. Perché anche il sostituto procuratore generale presso la Cassazione Francesco Iacoviello aveva chiesto l'annullamento con rinvio o in alternativa che la vicenda fosse trattata dalle sezioni unite penali. Il procuratore Iacoviello ha parlato di «gravi lacune» giuridiche della sentenza d'appello per mancanza di motivazione e mancanza di specificazione della condotta contestata a Dell'Utri, che a suo avviso deve essere chiarita. Il pg inoltre ha voluto dare atto alla V sezione della Cassazione di essere di «grandissimo e indiscusso profilo professionale». Rispondendo in modo esplicito alle critiche di quanti avevano indicato il presidente Aldo Grassi come un fedelissimo di Corrado Carnevale detto «ammazzasentenze». «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». Ha aggiunto Iacoviello nella sua requisitoria. E ancora a suo dire «l'accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza 'Mannino della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere». Per questo ha chiesto l'inammissibilità del ricorso della procura di Palermo che aveva chiesto addirittura un inasprimento della pena. «Il concorso esterno è ormai diventato un reato autonomo, un reato indefinito al quale, ormai, non ci crede più nessuno! - da detto inoltre Iacoviello rivolto ai giudici- Spetta a voi il compito di smentirmi».

Secondo Marco Ventura su “Panorama” In Italia non c’è Stato di diritto. Un Paese nel quale un cittadino accusato di un reato gravissimo come il concorso esterno in associazione mafiosa deve attendere 17 anni solo per sentirsi dire che il processo va rifatto, che bisogna ripartire da zero, è un Paese ingiusto, incivile, inaffidabile. Uno Stato incapace di garantire la giustizia in tempi ragionevoli appartiene alla fascia dei sistemi non democratici, quelli che finiscono a ragione nella lista nera della violazione dei diritti fondamentali. Nel girone del Terzo mondo. Un Paese che non sa dare garanzie alle vittime né agli imputati non può avere l’ambizione di figurare degnamente in Europa. Tempi della giustizia dilatati fino al paradosso attraversano la vita delle persone (siano vittime o presunti innocenti) devastandole e accompagnandole verso la depressione e la morte.

L’Italia è un Paese che non ha rispetto per se stesso: nega la giustizia alle vittime non riuscendo a riconoscere un colpevole e punirlo, ma anche agli imputati perché non garantisce in tutte le fasi il diritto alla difesa e il rispetto equilibrato delle regole. E non si dica che l’Italia è così garantista che alla fine la Cassazione ha tirato un colpo di spugna. Se ci sono voluti 17 anni per questo, la giustizia ha comunque fallito.

Oggi il presunto innocente si chiama Marcello Dell’Utri. Le indagini su di lui sono cominciate nel 1994. Nell’ottobre 1996 il rinvio a giudizio. L’11 dicembre 2004, sette anni dopo, la prima condanna. A 9 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici (per un parlamentare che ha dato un contributo fondamentale alla nascita del primo partito italiano). In appello la condanna viene confermata, ma gli anni di carcere ridotti a sette. E sette anni dopo la prima condanna, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza d’appello. Tutto da rifare.

Il Procuratore generale dell’Alta Corte, Francesco Iacoviello (l’accusa, non la difesa), ha sostenuto che “nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio”. E ancora: “Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto”.

Argomentazioni accolte dalla sezione della Cassazione presieduta da Aldo Grassi. La difesa di Dell’Utri aveva indicato da parte sua ben 20 motivi di nullità del verdetto d’appello. Ma lo scandalo vero sono i tempi, soprattutto se valutati in proporzione a quello che agli occhi di molti appare come un vero e proprio accanimento. Che non produce, alla fine, condanne. Ma la loro cancellazione. La stessa economia italiana soffre oggi non tanto degli effetti dell’articolo 18, ma di quelli di una giustizia negata e davvero troppo lenta. Gli investitori non torneranno in Italia, se non potranno contare su un sistema giudiziario che abbia regole certe e tempi ragionevoli.

Una giustizia rapida ed efficiente è notoriamente uno dei pilastri della competitività. La sentenza di Dell’Utri prova una volta di più che l’Italia non è civile, né competitiva. E che l’amministrazione fallimentare della giustizia, indipendentemente da una singola sentenza, a fronte dello strapotere di un nucleo di intoccabili protetti dalla loro casta/corporazione, è la tragica cartina di tornasole di un Paese incapace di crescere. In giustizia, democrazia e forza economica.

Il resoconto di “Libero quotidiano”. Una storia lunga e complicata, dal 1994 al 2012. Sedici anni di accuse, di condanne, per poi scoprire che è tutto da rifare. E' il calvario giudiziario di Marcello Dell'Utri, bibliofilo, grande organizzatore politico, senatore Pdl e braccio destro di Silvio Berlusconi, di cui ha condiviso avventure e disavventure. E parallelamente al quale è passato dalle forche caudine della magistratura italiana. Il procuratore generale Iacoviello lo ha definito un "perseguitato" perché la condanna in Appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa non era supportata da prove concrete. La Cassazione lo ha confermato: l'Appello deve ripartire da zero. A Dell'Utri non è mai mancata l'autoironia. Lui stesso spiegava di essere "un politico per legittima difesa". Palermitano, del '41, Dell’Utri dal '61 è a Milano e lì conosce Berlusconi, del quale diventa via via sempre più stretto collaboratore. La transazione sulla tenuta e la presenza di Vittorio Mangano legano a Dell'Utri l'ormai famosa casa di Arcore, quartier generale di Berlusconi, e la figura dello 'stalliere' considerato vicino alla mafia. La vicenda esploderà più avanti. Prima, nell'82, è presidente e ad di Publitalia, la concessionaria di pubblicità Fininvest, gruppo del quale diventa ad nell'84. Nel '93 l'ingresso in politica, con la discesa in campo di Berlusconi, ed è per unanime riconoscimento che la mente organizzativa dell’operazione Forza Italia sia proprio Dell’Utri. Escogita per primo l'uso dei manifesti 6x3 che faranno la fortuna delle campagne elettorali del Cavaliere. L'esordio quando ancora Forza Italia non esiste e Tangentopoli infuria. "Fozza Itaia", dicono una serie di bambini con le mani alzate in segno di vittoria. E' l'annuncio della discesa in campo e del successo del 27 marzo 1994. Berlusconi se lo porta in parlamento e lo elogia in pubblico. Vicende parallele, quelle di Dell'Utri e Berlusconi. E, caso della sorte, nel giro di poche settimane entrambi sono usciti dall'incubo delle toghe. Prima Berlusconi prosciolto per prescrizione dall'accusa di corruzione al processo milanese incentrato sulla figura dell'avvocato inglese David Mills. Ora, in Sicilia, Dell'Utri e il suo diritto riconosciuto ad un processo più equo, con prove provate. Vince il garantismo, perdono i pm contro Berlusconi e i suoi uomini, anche a costo di ignorare l'evidenza.

Marcello Dell’Utri non è un mafioso. Lo sfogo de "Il Giornale". La sentenza di condanna a 7 anni di galera è annullata. Via a un nuovo processo. Perché tutto è sbagliato, e dunque, tutto è da rifare. Di fronte agli obbrobri investigativi e alle carenze processuali la Quinta sezione penale della Cassazione dispone un altro processo per il senatore del Pdl. Poco dopo le 20 del 9 marzo 2012 i giudici con l’ermellino annullano con rinvio la sentenza di due anni prima accogliendo il ricorso della difesa sull’onda di una clamorosa requisitoria del procuratore generale che ha fatto letteralmente a pezzi anni di antimafia col paraocchi, senza prove, con meno diritti agli imputati e più credibilità per i pentiti. Ai giacobini in servizio permanente effettivo era già venuto un colpo ascoltando, nel pomeriggio, le parole di Francesco Iacoviello, che no, non è il presidente della Corte Aldo Grassi, additato carinamente nei giorni scorsi come l’amico dell’ex giudice «ammazza-sentenze» Corrado Carnevale con in più qualche vecchio problemino giudiziario (poi superato). Il pg Iacoviello aveva spiazzato i presenti chiedendo un nuovo processo d’appello o in subordine che se ne occupasse la Cassazione a Sezioni riunite. Nel sollecitarlo definiva inammissibile il ricorso della procura di Palermo (che chiedeva una pena maggiore rispetto ai 7 anni inflitti in appello) e a proposito della sentenza di condanna, oltre a gravissime lacune, evidenziava come apparisse poco motivata perché non precisava il «contributo specifico dato dal senatore al sistema mafioso». Per il procuratore Iacoviello, considerato una sorte di «faro giurisprudenziale» della Suprema Corte, il processo non solo non ha fornito uno straccio di prova sulla colpevolezza dell’imputato ma ha consacrato la violazione, palese, dei diritti di Dell’Utri: «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». E questo è solo l’antipasto: «Al processo per concorso esterno - continua - l’accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza “Mannino” della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere» perché mette paletti certi alla contestazione del reato. Di più: «La sentenza impugnata - insiste il Pg - sostiene l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione semplice fino al 1982, poi parla di concorso esterno in associazione mafiosa fino al ’92. Nessuno ha mai sostenuto una tesi del genere, e voi, giudici della Corte, sareste i primi». E poi giù mazzate sul concorso esterno mafioso «che è diventato un reato autonomo in cui nessuno crede. Io ne faccio una questione non a favore dell’imputato, ma a favore del diritto». Descrivere il senatore siciliano come il «referente o il terminale politico della mafia», non significa nulla per Iacoviello: «Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto». Sempre lui critica l’appiattimento delle toghe sulle dichiarazioni dei pentiti non corroborate da riscontri, e già che c’è se la prende col collaboratore Di Carlo a proposito del fantasmagorico incontro fra il boss Bontade e Berlusconi. Chiede inoltre alla Corte di mettere per sempre la parola fine a indagini basate su «referenti» e «terminali». Se alla sentenza su Dell’Utri «togliamo tutte le frequentazioni e le conoscenze, non rimane niente, e la Cassazione, con la sentenza Mannino ha detto che queste cose sono irrilevanti (...) Vi invito a rileggere la sentenza Mannino nella quale le frequentazioni di persone mafiose o contigue ai clan sono molte di più di quelle che ricorrono nella vicenda di Dell’Utri, e vi esorto a ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fatto piazza pulita dell’importanza attribuita dai giudici di merito a questi elementi». Alla lettura della sentenza esulta la difesa con gli avvocati Krogh, Federico e Di Peri che sin lì aveva parlato di «sentenze acrobatiche» su fatti mai commessi. La prescrizione non scatterà prima del 30 giugno 2014 «ma non è tra i nostri obiettivi» assicura Di Peri. Dell’Utri vuole giustizia. L’ha avuta alla faccia dei professionisti dell’antimafia. Lassù, ne siamo certi, pure Sciascia è contento.

''La sentenza della Corte di Cassazione sul senatore Dell'Utri riveste una grandissima importanza per molteplici ragioni. In primo luogo essa ha evidentemente condiviso le osservazioni del sostituto procuratore generale Iacoviello a proposito di indagini superficiali nelle quali 'l'accusa non viene descritta, il dolo non e' provato'. In secondo luogo, essa ha contestato alla radice questo falso reato del concorso esterno in associazione mafiosa che ha dato una incredibile discrezionalità a magistrati giudicanti e a pubblici ministeri faziosi di fare il bello e cattivo tempo''. E' quanto afferma Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, che aggiunge: ''In terzo luogo, essa mette in evidenza che la Procura di Palermo è un serio problema perchè è il luogo giudiziario dove a occuparsi dei più delicati rapporti fra la mafia e la politica sono dei militanti politici che ostentano il loro impegno politico a tempo pieno. In quarto luogo però, come è stato già rilevato dal senatore Quagliariello, essa impedisce a magistrati e a giornalisti faziosi di riscrivere la storia di questo Paese a loro piacimento, magari utilizzando un falso pentito come Ciancimino jr''.

In questa diatriba non può mancare l’intervista rilasciata da Ingroia a “La Repubblica” che spiega a suo modo in che mani il povero cristo potrebbe andare a parare. "Ho la sensazione che l'ultima sentenza della Corte di Cassazione su Marcello Dell'Utri e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino". Non usa mezzi termini Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che fu tra i pubblici ministeri del primo processo al senatore Dell'Utri. Questo a Repubblica.it è il suo primo commento ufficiale sulla decisione della Cassazione che venerdì sera del 9 marzo 2012 ha annullato la condanna per il parlamentare Pdl e ha disposto un nuovo processo d'appello.

Il migliore avvocato del senatore Dell'Utri sembra essere stato il procuratore generale, che ha criticato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Come commenta la ricostruzione di Iacoviello?

«A tutti quelli che cantano vittoria come se fosse stata dichiarata l'innocenza di Dell'Utri, dico: non è affatto così. I giudici hanno deciso infatti per un annullamento con rinvio della sentenza d'appello. Solo un annullamento senza rinvio sarebbe equivalso a un riconoscimento di non colpevolezza dell'imputato. Attendiamo comunque di leggere le motivazioni. Per quanto riguarda il procuratore generale, ho letto le sue conclusioni. Lui stesso dice che chiedere l'annullamento con rinvio non significa che l'imputato sia innocente. Significa solo che la motivazione della sentenza d'appello è viziata ed è illogica. E per la verità lo sosteneva anche il pubblico ministero, che aveva fatto ricorso. Le illogicità di quella motivazione riguardavano soprattutto l'assoluzione di Dell'Utri dopo il 1992».

Il procuratore generale ha espresso però pesanti perplessità sul reato di concorso esterno contestato a Dell'Utri.

«Curioso che l'abbia detto, ed è anche incoerente con le sue conclusioni. E' la stessa Cassazione a credere al concorso esterno, visto che più volte a sezioni unite, sia con la sentenza Carnevale che con la sentenza Mannino, ha ribadito la configurabilità di questo reato e ha fissato i presupposti per l'applicazione. Sarebbe triste che proprio nel ventennale della strage Falcone e Borsellino si debba mettere una pietra tombale su una delle più importanti e innovative idee giurisprudenziali che proprio Falcone e Borsellino hanno fondato».

Vogliamo spiegare in quali occasioni Falcone e Borsellino parlarono del concorso esterno?

«Nella sentenza ordinanza del maxiprocesso ter ci sono delle frasi chiarissime. Falcone e Borsellino scrivono che la figura del concorso esterno è la figura più idonea per colpire l'area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa. Dunque, il concorso esterno non è un'invenzione della Procura di Palermo, è un insegnamento di Falcone e Borsellino su cui si è continuato a lavorare in questi vent'anni, producendo sentenze di condanna definitive, piccole e grandi. Ora, che si voglia con un colpo di spugna tornare indietro mi pare davvero enorme».

Si aspettava questa decisione della Cassazione?

«Non posso dirmi sorpreso, conoscendo la cultura della prova dimostrata dal presidente Grassi. E' una decisione coerente con la sua impostazione di sempre. C'è chi ha avuto come maestri Corrado Carnevale, chi invece Falcone e Borsellino. E mi sembra pure normale che all'interno della magistratura convivano culture della giurisdizione e della prova diverse. Insomma, c'è una dialettica in corso. Però, sono preoccupato».

Perché?

«La mia sensazione è che questa sentenza e poi il dibattito che strumentalmente ne è scaturito possano rientrare in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che fu del pool di Falcone e Borsellino. E' triste che ciò avvenga nel ventennale della loro morte, e soprattutto in un periodo così delicato in cui si scoprono e si confermano delle coperture e dei depistaggi che a lungo hanno impedito l'accertamento della verità su quelle stragi vent'anni fa».

Si farà dunque un nuovo processo a Marcello Dell'Utri. Pensa che le accuse reggeranno ancora?

«Mi spiace che il procuratore generale abbia liquidato l'impianto probatorio nei confronti di Dell'Utri come un insieme di amicizie e frequentazioni, come se la contestazione principale a Dell'Utri fosse di essere stato amico di mafiosi. Basta conoscere il processo per trovare una miriade di fatti specifici e di contributi concreti che Dell'Utri ha portato negli anni al consolidamento e al potenziamento di Cosa nostra».

Il procuratore generale ha parlato anche di violazione dei diritti dell'imputato.

«Mi pare davvero paradossale che si voglia ergere Dell'Utri a vittima di violazioni di diritti o chissà che, quando tutti i diritti di garanzia dell'imputato Dell'Utri sono stati rispettati. Questo è stato un processo pieno di prove e fatti specifici. In assoluto, uno dei processi per concorso esterno con più prove rispetto a quelli che si sono fatti in questi ultimi vent'anni».

Secondo “Il Giornale” Iacoviello, la toga rossa, fa infuriare i forcaioli.

Il giudice indipendente ha ottenuto l’annullamento del processo al senatore Pdl. Da magistrato modello è diventato il nuovo nemico di sinistra e giustizialisti.

Libertà di pensiero, correttezza, preparazione: secondo i suoi colleghi sono queste qualità che fanno di Francesco Iacoviello un «grande» magistrato. Il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha chiesto e ottenuto dai supremi giudici l’annullamento del processo Dell’Utri è una delle toghe più stimate. Per la sua indipendenza di giudizio, prima ancora che per i suoi studi e le sue battaglie in difesa dei diritti dell’uomo e delle regole del «giusto processo». Non può certo essere sospettato di favoritismi politici, perché viene da una militanza nelle fila del «Movimento per la giustizia» e quattro anni prima fu candidato senza successo da «Area», la lista che riunisce le due correnti di sinistra, al Consiglio direttivo della Cassazione (l’organismo di autogoverno dei magistrati della Suprema Corte). Oggi che è diventato scomodo per la sinistra, liquidando 15 anni di inchieste e di giudizi e ottenendo un nuovo processo d’Appello per Marcello dell’Utri, è diventato un bersaglio.

Il Fatto lo critica aspramente, definendolo «estroso» per le sue posizioni personali, il «Pg smonta-prove» che mina la lotta alla mafia. In tanti agitano contro di lui il fantasma di Giovanni Falcone, che ideò il concorso esterno in associazione mafiosa, definito da Iacoviello «un reato autonomo, indefinito, al quale non crede più nessuno». E Nando Dalla Chiesa parla di «una vendetta postuma» nei confronti del magistrato ucciso dalla mafia. Il leader di Magistratura Democratica, Piergiorgio Morosini, definisce «sorprendenti» le parole del Pg sul concorso esterno: «Ci credono tre sentenze delle Sezioni unite della Cassazione e molti procedimenti si basano su questo istituto».

Ma solo 15 giorni prima, al Csm, era tutto un peana su di lui. Dalla Terza Commissione è arrivata in plenum la proposta appoggiata da molti di sceglierlo come rappresentante della Procura generale della Cassazione nel «Comitato dei saggi» che deve valutare la professionalità, le capacità scientifiche e di interpretazione delle norme dei nuovi magistrati che vogliono accedere alla Suprema Corte. Togati delle diverse correnti, laici di centrodestra e centrosinistra, per una volta hanno concordato sulle qualità di equilibrio e preparazione di Iacoviello. «È senza alcuna ombra di dubbio - disse allora all’assemblea il procuratore generale Vitaliano Esposito - uno dei migliori magistrati che ho conosciuto nella mia lunga carriera». Una frase condivisa a larghissima maggioranza. La proposta è passata e il 15 marzo 2012 Iacoviello sarà a Palazzo de’ Marescialli per la prima riunione della Commissione tecnica (composta da 3 toghe, un avvocato e un docente universitario) che incontrerà la Terza Commissione del Csm per avviare i lavori. Meno di 60 anni, nato a Giugliano di Campania, per anni sostituto procuratore a Ravenna, moglie consigliere di Cassazione nel settore civile e due figlie, giovanile e sportivo, di Iacoviello raccontano che per rilassarsi e tenersi in forma ama fare footing appena può. Di processi delicati e controversi nella sua carriera ne ha seguiti molti. E ogni volta si è attirato lodi e critiche, ma sempre accompagnate dal riconoscimento della sua statura professionale. Iacoviello è quello che ha ottenuto l’annullamento delle condanne del giudice Renato Squillante nel processo Imi-Sir e del capo della polizia Gianni De Gennaro per la vicenda della scuola Diaz al G8 di Genova. È quello che ha voluto la conferma dell’assoluzione di Calogero Mannino e ha bocciato il ricorso dei magistrati di Milano contro il proscioglimento di Silvio Berlusconi per il Lodo Mondadori. Convinto della mancanza di prove sui rapporti tra Giulio Andreotti e la mafia, ha chiesto la conferma dell’assoluzione con prescrizione per i fatti ante 1980 e ha bollato come «indagine sociologica» la sentenza della Corte d’appello. Posizioni in cui si può seguire il filo logico di una coerenza non minata da pregiudizi ma fondata su solide convinzioni. Un filo che spiega la sua posizione anche nel caso Dell’Utri. Uomo di cultura dai molti interessi, Iacoviello è anche professore all’Università di Cassino, relatore di conferenze e convegni, autore di molte pubblicazioni scientifiche di alto livello e studioso soprattutto di procedura penale e delle regole del «giusto processo». La sua passione sono i diritti umani e l’approfondimento di tutti gli aspetti giuridici che li riguardano. Infatti, segue in modo particolare la Corte europea di Strasburgo e ha pubblicato degli studi sulla sua giurisprudenza. «Nessun imputato - ha detto nella sua requisitoria in Cassazione - deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri e nel caso di dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio».

Già. Si spera che questo assioma valga per tutti, anche per i poveri cristi, che non si chiamino Dell'Utri. Questo valga per tutti, anche per coloro i quali non hanno le loro mogli colleghe in magistratura. 

Da Andreotti a Berlusconi i 101 politici nel tritacarne per il reato che non c’è. Ecco l’elenco stilato da Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. Il «virus giudiziario» creato in laboratorio ne ha fatti di danni. Nell’ultimo quarto di secolo, il concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che «non esiste» (Giuliano Pisapia, novembre 1996), è servito solo a stroncare carriere e isolare uomini politici (Emanuele Macaluso, giugno 2000). Percentualmente più nel centrodestra, ma anche a sinistra non mancano casi eclatanti. Quelli censiti sono 101, ma la lista è interminabile.Tra i big Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino, Antonio Gava (pure risarcito per ingiusta detenzione), Carmelo Conte, Nicola Cosentino, Corrado Carnevale, Bruno Contrada, Mario Mori e decine e decine di altri sono passati per le forche caudine di una legge «bastarda» da cui sembra quasi impossibile sfuggire. E dentro ci sono caduti tutti: politici, giudici, magistrati, prefetti, sbirri. Qualche esempio: oltre al Cavaliere c’è la nota vicenda del Divo Giulio a cui è andata pure peggio: a processo addirittura per associazione mafiosa, dopo l’iniziale contestazione di concorrente esterno. Com’è finita, lo sanno tutti. Un altro dc: Calogero Mannino. Sbattuto in galera e, dopo un tira e molla tra appello e Cassazione, arriva la sentenza che lo scagiona. Un verdetto che fa scuola sul tema dei rapporti tra politica e mafia. Totò Cuffaro è invece in galera per favoreggiamento aggravato, dopo una condanna a sette anni, anche se l’iniziale accusa di concorso esterno è caduta. E don Antonio Gava? Dopo 12 anni di processi, i giudici ammettono: i pentiti Alfieri e Galasso hanno detto il falso. Idem per Carmelo Conte, ex potente ministro socialista delle Aree urbane. Il suo compagno di partito, Giuseppe Demitry, ex sottosegretario negli anni Ottanta e Novanta, s’è visto annullare senza rinvio la condanna dalla Cassazione solo nel 2003. Incappati incidentalmente nel concorso esterno anche l’ex senatore Pietro Fuda e Nino Strano. La lista delle assoluzioni e dei proscioglimenti è infinita: l’ex sottosegretario Santino Pagano, l’ex leader del Garofano Giacomo Mancini, l’ex presidente della Calabria Agazio Loiero, l’ex europarlamentare Francesco Musotto, Pino Giammarinaro, David Costa, Filiberto Scalone, Gaspare Giudice, l’ex sottosegretario alla Giustizia Salvatore Frasca, Sisinio Zito, Paolo Del Mese, l’ex sindaco di Pignataro Maggiore Giorgio Magliocca, il senatore Pdl Sergio De Gregorio, gli ex deputati regionali siciliani Nino Dina, Salvatore Cintola, Nino Amendolia, l’ex vicepresidente della Sicilia Bartolo Pellegrino. Peggio è andata al defunto ex senatore Francesco Patriarca (9 anni), a Gianfranco Occhipinti (4 anni), a Franz Gorgone (7 anni, è in carcere), a Giancarlo Cito (4 anni), a Roberto Conte (4 anni) e a Vincenzo Inzerillo (5 anni e 4 mesi) e tantissimi altri consiglieri comunali, provinciali, regionali. Posti in piedi nell’affollato limbo dove si aggirano quelli ancora indagati: si va dall’ex ministro Saverio Romano all’ex sottosegretario Nicola Cosentino, al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (con fratello), al senatore Antonio D’Alì (caso folle, più unico che raro: dopo ben due richieste di archiviazione i pm hanno cambiato idea, chiedendo il rinvio a giudizio!), all’avvocato Nino Mormino (storico difensore di Marcello Dell’Utri, già archiviato nel 1995), all’ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli (che attende un nuovo processo d’Appello). Che dire, poi, del presidente del Senato Renato Schifani indagato secondo il settimanale l’Espresso ma non per la procura di Palermo che ha smentito l’iscrizione sul registro degli indagati. E, nel mare magnum del reato che non esiste, finirono nel 1994 pure Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo – all’epoca deputati – prosciolti in un’inchiesta partita dalle sballate dichiarazioni del pentito ’ndranghetista Franco Pino. A finire nel tritacarne, molto spesso, sono state anche le toghe: di Corrado Carnevale si sa di tutto e di più. Il giudice ammazza-sentenze s’è ripreso la sua personale rivincita dopo un decennio di fango. Ma chi ricorda Ciro Demma, Giuseppe Prinzivalli, Pasquale Barreca, Carlo Aiello, Mario Pappa, Giacomo Foti, Antonio Pelaggi, Giovanni Lembo? Tutta gente indagata e, in alcuni casi, finanche arrestata per concorso esterno. Pure il pm di Brescia Fabio Salamone, l’anti-Di Pietro, si ritrovò tra le mani un avviso di garanzia per lo stesso genere di accuse. E che dire degli sbirri e dei carabinieri che, dopo aver lottato contro la Piovra, come ricompensa si sono ritrovati alla sbarra? La bastonata più dura è andata a un poliziotto esemplare come Bruno Contrada in tandem con quel galantuomo di vicequestore di Ignazio D’Antone. Condannato il primo sulla base delle parole (mai, dicasi mai, riscontrate) dei pentiti, detenuto a lungo il secondo a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono poi Mario Mori e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Ai tempi fu processato e assolto il tenente Carmelo Canale, collaboratore di Borsellino, cognato del maresciallo Lombardo morto suicida per le vigliacche e false insinuazioni sul suo conto mentre stava per riportare in Italia il boss Badalamenti. Le eccellenze dell’Arma dei carabinieri sotto processo come i mafiosi cui davano la caccia. E tutto per un reato autonomo, a cui non crede più nessuno (pg Francesco Iacoviello, marzo 2011). Va detto che il concorso esterno è stato contestato anche a Massimo Ciancimino, figlio di Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo jr. Il che è tutto dire. Il Pm “partigiano” di Palermo, Antonio Ingroia a citato Falcone e Borsellino per esternare la sua disapprovazione alla sentenza “Dell’Utri”. Vediamo come stanno veramente le cose. Il reato di cui è accusato Dell’Utri è da anni al centro delle polemiche per colpa di pentiti strumentalizzati, testimonianze dubbie, prove ambigue. In realtà, il codice penale prevede soltanto il reato di «associazione mafiosa» all’articolo 416 bis, introdotto nel 1982. Ma dalla fine degli anni Ottanta «l’associazione esterna» è una consuetudine nei processi e una specie d’intoccabile reliquia, proprio perché è considerata un’invenzione di Falcone.

Effettivamente fu lui, nel rinvio a giudizio del maxiprocesso ter del 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere le condotte che definiva «fiancheggiamento, collusione, contiguità». È in base a questa logica che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il «concorso esterno in associazione mafiosa». Ma nel 1992, pochi mesi prima di morire, ecco che cosa sosteneva lo stesso Falcone: «Col nuovo codice di procedura penale (introdotto alla fine del 1989), non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione (mafiosa) in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici (cioè omicidi, riciclaggi, estorsioni). Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata nel corso del pubblico dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa (…). C’è il rischio, con il nuovo rito, che non si riesca a provare nemmeno l’esistenza di Cosa nostra!». Ecco perché, da vivo, Falcone era osteggiato: più chiaro di così… Purtroppo, ha avuto ragione anche in una delle sue ultime frasi, amaramente profetica: «Per essere credibili, in questo Paese bisogna essere morti». Ancora meglio se falsificati.

E che dire di Totò Cuffaro. Rebibbia, un pomeriggio nella redazione del gr con il “collega” Totò Cuffaro, scrive Dina Lauricella su “Il Fatto Quotidiano”. «Dicono che hai passato centinaia dei tuoi voti al Pd siciliano». «E chi lo scrive? Li querelo, i voti sono decine di migliaia!». Salvatore Cuffaro finisce di scontare la pena a dicembre. E’ a Rebibbia da gennaio 2011 e lo hanno appena autorizzato a partecipare alla riunione della redazione del radio giornale carcere (messa su da Giorgio Poidomani con il supporto del gruppo Antigone). Una rubrica scritta, letta e montata dai detenuti e trasmessa da Radio Popolare Network, Radio Articolo 1 e Radio Città Aperta. «Mi scuso del ritardo, oggi avevo un esame. Ho preso 30 in diritto ecclesiastico, ancora quattro materie e mi laureo in giurisprudenza». In qualche modo qua dentro il tempo va occupato e la tesi vuole assolutamente discuterla in carcere «perché è qui che ha senso». Titolo: “Corte Europea dei diritti dell’uomo e decreti svuota carceri”, niente meno che con il preside della facoltà di giurisprudenza della Sapienza, il professore di procedura penale Giorgio Spangher. Uno che ha sempre sostenuto l’illegalità del reato in concorso esterno per associazione mafiosa. «La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento», dice il luminare nel libro Giustiziopoli di Antonio Giangrande. Abbastanza per comprendere la stima che nutre Totò Vasa Vasa nei confronti del suo Prof. Immaginavo sarebbe diventato una star fra “noi colleghi” in riunione di redazione e invece Cuffaro mantiene la sobrietà e la dignità che ha dimostrato in questi anni di carcere. Gli do in pasto l’editoriale di Ilvo Diamanti sulla fiducia (persa) degli italiani nei magistrati, mentre con i suoi compagni (rei di omicidi, spaccio e truffe) si discute di carcere, di diritti, di pene e di temi da elaborare per il prossimo GRD. Fra i redattori c’è anche Federico, un ragazzone mulatto che in galera si è scoperto poeta e ha pubblicato il suo primo libro: “Sentimento prigioniero”. Sconta una condanna per omicidio. La sua è una storia kafkiana, il giudice gli ha ordinato di tornare al suo Paese. Ma come emerge dalle carte giudiziarie, Federico non conosce il suo Paese d’origine, sa soltanto di essere stato adottato e fa molta fatica a rispettare l’ordine del giudice! Te la racconta d’un fiato, fermandosi su un sorriso che non ha nulla d’ironico. “Avresti dovuto sentire quegli uccelli di galera fulminati cantare”, suonava Elvis Presley in Jailhouse Rock, ed è questo il nome del programma che ospita il GRC. L’unico computer presente è privo di connessione internet ed è custodito dagli agenti, ma basta quello, un microfono e un programma di editing per confezionare un prodotto di grande qualità e soprattutto in piena libertà. Condizione spesso auspicata anche dai giornalisti “oltre le sbarre”. Dopo due ore di confronti, dibattiti e suddivisione dei compiti ci lasciamo. Poidomani tornerà fra due giorni con una pen drive nella quale viene inciso il pezzo per le radio. Io li ascolterò on air. «Mi fido di voi perché siete comunisti, mica post-comunisti o peggio Renziani!». Ci dice il “collega Totò” quando ci lasciamo. Gli faccio notare che si era appena vantato di aver passato al pd decine di migliaia di voti e allora si corregge: «Mica glieli ho dati io quei voti, se li sono presi loro».

La regione degli onnipotenti scrive Domenico Tempio su “La Sicilia”. La pace non è di casa in Sicilia. A cominciare dalla Regione, la quale sprofonda sempre più in un girone infernale. Dove i peccatori si annidano tra noi. Addirittura, riescono a conquistare i posti di comando. Infettati come sono da un putrescente odore di mafia. Colpevoli o innocenti (ma le condanne ci sono), conta la macchia quasi indelebile che continua a essere gettata addosso alla Sicilia. Raffaele Lombardo dopo Totò Cuffaro, un unico destino. Concorso esterno nell'associazione mafiosa per il primo, favoreggiamento all'organizzazione mafiosa per il secondo. Lombardo ha ancora due gradi di giudizio. L'augurio è che riesca a togliersi di dosso questa accusa infamante. Non solo per lui, ma per quei siciliani che lo hanno votato. Per cancellare anche quello che un leghista di recente ha scritto: «Come mai tra tanta gente perbene giù in Sicilia, si va ad eleggere proprio chi è colluso con i mafiosi?». Difficile la difesa. Quando sembra spirare un vento di cambiamento, c'è chi fa di tutto per ammorbare l'aria. Persino i grillini, nati dalla rabbia della gente, giocano al tanto peggio. Basta guardare il loro leader, Beppe Grillo, è diventato un fenomeno da baraccone. Ieri nell'incontro con Renzi ha dato il massimo. Chi gli scrive i testi? Casaleggio? Roba da piazza. Utile solo alle Tv per fare ascolto. Quello che oggi sta accadendo alla Regione è emblematico del tempo in cui viviamo. Magari in alcune cose non ci sarà di mezzo la mafia (almeno si spera), ma di sicuro c'è una combriccola di saltimbanchi in preda a orgasmi di potere. Come in un'orgia si stracciano le vesti gli uni con gli altri, cercando di arraffare il più possibile. Vi sembra plausibile che la maggioranza di Crocetta, anche se in verità è variabile come il tempo, dopo avere raggiunto un difficile accordo sulla tanto decantata riforma delle Province, la boccia nel segreto dell'urna? Direte è storia antica. Ecco perché poi la mafia si insinua. Il disegno di legge varato da Crocetta poteva servire almeno a dare una prima potatura al carrozzone degli enti intermedi. Certo, alcune cose vanno specificate meglio, come l'estensione delle aree metropolitane o la creazione dei cosiddetti consorzi di liberi Comuni, però la legge si poteva considerare un primo passo verso un diverso assetto del territorio siciliano. Sia per trovare nuove sinergie nei servizi; sia per sfoltire la burocrazia; sia per i finanziamenti che solo uniti si possono ottenere; sia, consentiteci di dirlo, per selezionare meglio la classe amministrativa. Si perdono poltrone? Pazienza. I politici se ne facciano una ragione. I primi colpevoli sono loro. Hanno ridotto la Regione, pomposamente chiamata autonoma, a una palude dalla quale loro stessi non riescono a tirarsi fuori e dove, scavando, trovi una lunga lista di scandali milionari. Se Crocetta ha un merito è proprio questo: aver scoperchiato il malaffare. Per il resto, ci dispiace dirlo, il governatore ha lasciato immobile la macchina amministrativa. Non solo alla Regione, ma in quasi tutti gli enti. Li ha paralizzati con commissariamenti in serie. La sanità, ad esempio, è quella che soffre di più. Da tempo ormai attende i suoi vertici. Persino i teatri, vedi il Bellini di Catania, sono congelati. Tanto da temere che li si voglia azzerare. Si tratta di incapacità? Non crediamo. Forse è un metodo. Una onnipotenza di potere pericolosa per sé (Crocetta) e per gli altri (i siciliani). Anche i Cuffaro e i Lombardo hanno peccato, oltre ai presunti legami con la mafia, di onnipotenza. Comincia sempre così la caduta degli dei.

La Sicilia come metafora, scrive Mauro Mellini su “Giustizia Giusta”. Riandare col pensiero a Leonardo Sciascia è sempre utile, anzi, talvolta, è addirittura indispensabile, per capire le cose di Sicilia e non solo di Sicilia e d’Italia. Ne abbiamo la prova in questi giorni. Poco assai si parla, nel resto d’Italia, di quel che sta accadendo in Sicilia. Il governo regionale di Crocetta e tutta la politica siciliana hanno raggiunto limiti inimmaginabili, grotteschi di degrado. La Regione Sicilia, che dovrebbe essere una delle più forti per le condizioni finanziarie che le assicura lo Statuto Speciale, è praticamente al collasso, al fallimento, con un bilancio allo sbando, specie dopo gli interventi del Commissario dello Stato che hanno “rottamato” per illegittimità e per sostanziale falsità buona parte di quello raffazzonato dalla Giunta. Crocetta è “rientrato” nel P.D., dopo avere per qualche tempo navigato sotto le insegne di un suo personale gruppo, “Il Megafono”, che ora pare sia diventato una corrente del P.D. Che nell’Isola è, di colpo, diventato “renziano”, perché le correnti che si sono scannate in una lotta senza esclusioni di colpi, hanno fatto a gara per correre in soccorso del vincitore. Crocetta si regge alla presidenza grazie alla norma, oggi in vigore per regioni e comuni, per la quale Presidente e Sindaci possono essere abbattuti solo da Consigli kamikaze: chi li sfiducia e li manda a casa, automaticamente, perde il posto e va a casa con lo “sfiduciato”. Un sistema che sembra inventato dalla fantasia di un autore di spettacoli comici. In pratica i Presidenti della Regione Sicilia possono essere mandati a casa (o in prigione) solo dai magistrati. Gli ultimi due predecessori di Crocetta, Cuffaro e Lombardo hanno avuto questa sorte. Crocetta pare che da quel lato sia abbastanza ben protetto. Al suo fianco c’è un vecchio “professionista dell’Antimafia”, Lumia, che fu anche Presidente della Commissione Antimafia Parlamentare. Quando il partito provò ad escluderlo dalle liste per il Parlamento Nazionale, intervenne scopertamente e pesantemente la Magistratura a “censurare” quel tentativo di metterlo da parte. Fu subito “reintegrato”. Finché dura, naturalmente. Quelli che se ne intendono dicono che in Sicilia anche il Partito dei Magistrati è piuttosto ondivago al suo interno e tendenzialmente sospettoso e inaffidabile nei rapporti, per così dire, esterni. Ora Crocetta sembra tornato in grembo al P.D., ma non sembra che la sua Giunta rispecchi una tale posizione. D’altro canto se il P.D. sembra oramai ben allineato con l’ortodossia del “rottamatore”, i veri padroni della Sicilia sono i “monnezzari” (mestiere che, con quello dei rottamatori, cioè degli “sfasciacarrozze” ha una certa attinenza). Padroni di Sicindustria (la Confindustria dell’Isola) tre o quattro gestori di discariche, hanno in pugno la Regione, Crocetta, la Giunta e, per quel che conta, il Parlamento Siciliano. Sono “industriali antimafia” perché hanno rifiutato il pizzo (dopo, magari, essersi pentiti di averlo in un primo tempo pagato). In quanto antimafia sono in condizioni di mettere al bando chi non può vantarsi di essere tale o che essi stessi tale non considerano. Sono forti delle loro concessioni che non sempre (ad esser ottimisti) coincidono con l’optimum delle prospettive del gravissimo problema dei rifiuti (in una delle discariche siciliane pare che sia arrivata, in qualche momento, anche della “monnezza” di Napoli). Certo è che mettersi di traverso al loro “sistema” può essere pericoloso. Lo sostiene e lo proclama, ad esempio, il Sindaco di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, che si era messo in testa di far funzionare la raccolta differenziata e si è trovato prima indagato per mafia e poi con l’Amministrazione sciolta per “infiltrazioni mafiose”. E molte altre e gravi sono le storie che si sentono in giro. Intanto Crocetta ha “sistemato” il Procuratore super antimafia Ingroia che non era riuscito a riciclarsi come uomo politico (si era candidato addirittura alla Presidenza de Consiglio). Farà il presidente di un ente per l’esazione. Una volta c’erano i famosi “Cavalieri”. E prima ancora i baroni ed i loro gabellotti e campieri. Intanto la magistratura mette sotto processo ministri (e c’è mancato poco che s la prendesse anche col Presidente della Repubblica) perché “hanno abusato del diritto di fare la politici dello Stato”, “abbassando la guardia” ed entrando in trattative con la mafia. Nel processo di Palermo se ne stanno vedendo di tutte e di più. Trionfa il concetto che è la giurisdizione che “legittima” il diritto. Si applica così il principio che la Cassazione ha inventato per le questioni tributarie: il diritto è il diritto ma la magistratura può stabilire che se ne è abusato. Intanto diverse categorie di dipendenti pubblici lavorano, ma hanno cominciato a non ricevere lo stipendio. Non si sa se c’è un bilancio della Regione, se, dopo la prima bocciatura di buona parte di esso, le “toppe” che l’Ars ci ha messo reggeranno ad un altro esame di legittimità. Incombe il fallimento. E Crocetta, che aveva annunziato che a settembre l’abolizione delle Provincie sarebbe stata cosa fatta con la costituzione dei “liberi consorzi” di Comuni, è ancora alle prese con questa storia grottesca. Qualcuno ha cominciato ad accorgersi che una differenza tra Provincie e ”liberi consorzi” c’è sicuramente: questi ultimi saranno molti di più. Che malgrado ciò costino di meno e funzionano meglio ha il sapore dell’utopia. O della truffa. Un “libero consorzio” si farà sicuramente: quello di Gela, il paese di Crocetta. Gela non era riuscita a “diventare provincia” (benché “regionale”). Concludendo. Questa è la Sicilia di cui la stampa nazionale sembra far di tutto perché poco se ne parli. Questa è la Sicilia: sì, “come metafora” d’Italia, come diceva Sciascia, che scrisse anche un libro con questo titolo.

La Sicilia come metafora dell’Italia del Rottamatore, termine freddo e burocratico (la “rottamazione” delle armi di guerra confiscate era prevista dalla legge). Meglio dire “lo Sfasciacarrozze” termine sonante e chiaro del gergo e del dialetto romano. Sciascia ci ha fatto capire molte cose. A chi, naturalmente ha voglia di capire.

Il paese dove due presidenti di regione sono condannati per mafia: il primo (Cuffaro) con sentenza definitiva per favoreggiamento, il secondo (Lombardo) per concorso esterno. Ancora una condanna che ferisce la Sicilia, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dopo Cuffaro, un altro presidente condannato. La sentenza non è definitiva, ma l'immagine della Sicilia ne viene comunque colpita. E chi governa oggi la Regione ha un solo modo per risollevarla Un altro presidente della Regione, il secondo in pochi anni, ritenuto responsabile dai magistrati di una condotta che sottende legami con Cosa nostra. Il secondo dopo Totò Cuffaro, e ancora peggio, poiché per il politico di Raffadali il reato era quello di favoreggiamento aggravato, mentre l'ex leader dell'Mpa è stato giudicato responsabile di concorso esterno in mafia. Per Lombardo, è bene precisarlo da subito, si tratta ancora di un pronunciamento di primo grado, che potrà anche mutare negli altri livelli di giudizio, e che quindi ovviamente non cancella la presunzione di innocenza che per lui come per chiunque resta in piedi fino alla eventuale condanna passata in giudicato. Ma pur nella sua provvisorietà, la sentenza di condanna di Catania è una ferita, un'altra, per la Sicilia. L'onta di un pronunciamento nel nome del popolo italiano per fatti di mafia macchia ancora una volta la più alta istituzione siciliana e con essa travolge la Sicilia e la sua immagine martoriata. Lombardo avrà modo di difendersi nel secondo grado di giudizio e di dimostrare in quella sede di essere innocente, come ha protestato fino a questo pomeriggio. Se così è, e continueremo a presumerlo fino alla fine, glielo auguriamo. Il peso di questa sentenza sulla storia recente della politica siciliana, però, non si può ignorare. E impone alla classe dirigente chiamata oggi a governare la Regione, in questi tempi così difficili e oscuri, uno sforzo ulteriore, per aiutare l'Isola a scrollarsi di dosso il fardello di un marchio così sordido e infamante. Per farlo, i proclami e gli slogan servono poco. Le denunce in procura forse un po'. Ma quello che davvero occorre, perché la politica riappropri dell'onore perduto, è il buon governo. È la buona politica. Vogliamo aspettarla con un po' di speranza, malgrado tutto.

Mafia, condannato Lombardo. È la maledizione della Sicilia, scrive  Mariateresa Conti  su “Il Giornale”. Aveva perorato la sua innocenza, disobbedendo anche ai suoi avvocati, con una dichiarazione spontanea ieri mattina, nell'ultima udienza. E si era detto certo che no, non poteva essere condannato. Ma alla fine, per Raffaele Lombardo, ex governatore di Sicilia, è andata nel peggiore dei modi: sei anni e otto mesi, col rito abbreviato, per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Appena quattro mesi in meno del suo ex amico e predecessore alla presidenza della Regione siciliana, Totò Cuffaro, che per favoreggiamento aggravato alla mafia sta scontando sette anni. Una botta durissima. La decisione del Gup Marina Rizza è arrivata ieri pomeriggio, intorno alle 18 e 10. Lombardo, accompagnato dalla moglie, era presente e trattenendo a stento l'emozione ha commentato: «È l'epilogo naturale di questo processo. Me lo aspettavo, l'avevo detto a mia moglie». E presente, a sostegno dei suoi pm, era anche il capo della Procura di Catania, Giovanni Salvi. Il Gup ha pronunciato un doppio verdetto: da un lato la condanna dell'ex governatore, sei anni e otto mesi (i pm ne avevano chiesti dieci, ma il giudice ha ritenuto il voto di scambio assorbito dal reato più grave, il concorso esterno) più interdizione dai pubblici uffici e un anno di libertà vigilata, anche se è caduto uno dei capi d'accusa, la collusione con il clan Cappello; dall'altro il rinvio a giudizio del fratello di Lombardo, Angelo, ex deputato Mpa, che aveva optato per il rito ordinario e che sarà alla sbarra dal prossimo 4 giugno. Il Gup ha inoltre stabilito di trasmettere alla procura gli atti relativi alla posizione dell'editore del quotidiano La Sicilia ed ex presidente della Fieg Mario Ciancio Sanfilippo. La Procura esulta: «Il nostro castello - dice Salvi- ha retto. Oggi è avvenuto un fatto storico, si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana». Un iter travagliato, quello di questo processo. Inizialmente ai fratelli Lombardo viene contestato solo il reato elettorale (per voto di scambio l'ex governatore ha in corso un'altra inchiesta che coinvolge anche il figlio Toti, deputato regionale, ndr). Per le collusioni con la mafia la Procura aveva chiesto l'archiviazione. Poi è arrivata l'imputazione coatta, l'aggravante mafia. Adesso la sentenza. L'ex governatore, comunque, promette battaglia: «Sono di una serenità infinita - ha detto annunciando ricorso in appello - mi aspettavo questa sentenza. Non pensavo, infatti, che il giudice potesse avere il coraggio sovrumano di schierarsi con una sentenza di assoluzione, che pure sarebbe stata aderente ai fatti, contro la Procura che per il 50 per cento dei suoi componenti è venuta anche plasticamente a dimostrare la mia posizione nel processo». Lombardo ha attaccato la «grande stampa» e il sistema di interessi che, a suo dire, ha intaccato. Quindi, citando Sciascia, ha concluso: «Conosco il contesto. Ma affermeremo la verità».

Raffaele Lombardo è stato condannato a sei anni e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive “Il Corriere della Sera”. L'ex governatore della Sicilia era imputato anche per voto di scambio con il clan Cappello, accusa dalla quale è stato però prosciolto. La Procura aveva chiesto per Lombardo una condanna a 10 anni. L'ex governatore, su sua stessa richiesta, è stato giudicato con il rito abbreviato. Il gup di Catania, Marina Rizza ha anche rinviato a giudizio suo fratello Angelo Lombardo, ex deputato nazionale del Mpa e ha disposto la trasmissione alla Procura degli atti che la stessa Dda aveva prodotto di un'intercettazione nella sede del direttore e editore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo. «Me l'aspettavo, è l'epilogo naturale del primo grado di giudizio, ma non finisce qui: seguiremo tutte le strade legali per dimostrare la mia innocenza», ha commentato a caldo Raffaele Lombardo. L'inchiesta sui fratelli Lombardo è nata da uno stralcio dell'indagine Iblis dei carabinieri del Ros di Catania su presunti rapporti tra Cosa nostra, politica e imprenditori. Per l'ex governatore Lombardo, che si è sempre proclamato innocente, la Procura di Catania, in sede di requisitoria, aveva chiesto la condanna a dieci anni di reclusione. «Abbiamo fatto un lavoro importante», con una «procura unita», ha commentato il capo dei pm di Catania, Giovanni Salvi, dopo la condanna di Lombardo. «Oggi è avvenuto un fatto storico», ha aggiunto il magistrato, «si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana. Frutto di un lavoro importante che ha avuto anche collaboratori importanti a sostegno dell'accusa».  L'altro ex governatore siciliano, Totò Cuffaro, è stato invece condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Da gennaio 2011 sta scontando la pena nel carcere romano di Rebibbia. «Sono momenti importanti e delicati», aveva detto stamattina l'ex governatore, attendendo il verdetto, «Sentiremo la sentenza, che accoglieremo con assoluto rispetto», aveva aggiunto, evidentemente commosso, a conclusione dell'ultima udienza del processo. In aula con lui c'era la moglie, Saveria Grosso. Lombardo, prima della conclusione dell'udienza, che si è svolta a porte chiuse, ha reso spontanee dichiarazioni davanti al Gup: «Ho detto alla Corte le mie ragioni - ha spiegato l'ex presidente della Regione - quello che sentivo di dire, non con l'approvazione piena dei miei legali che sono terrorizzati da quello che può dire contro se stesso l'imputato».

Il viaggio del ras autonomista fra ombre di mafia e tradimenti politici. Raffaele Lombardo fu eletto nel 2008 e mollò quasi subito l'ex amico Cuffaro e il centrodestra. Nel 2010 l'abbraccio con il Pd. Spiazzato dall'inchiesta catanese sulle collusioni del governatore con Cosa Nostra, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. "Io non ho concorrenti, perché sono l'Autonomia e sto su un pianeta diverso". Era il 12 aprile del 2008, e dal quartier generale di via Pola, a Catania, Raffaele Lombardo lanciava il suo proclama ai siciliani. Sullo schermo del suo studio, in quel preciso momento, compariva il volto di Anna Finocchiaro, chiamata affettuosamente "Annuzza", con l'elegante distacco di chi, a due giorni dal voto, già sapeva che avrebbe surclassato la concorrente del Pd. E così sarebbe andata: trentacinque punti percentuali, un milione di voti di differenza. C'era già tutto, in quella frase. C'era il governatore spavaldo e inafferrabile, insofferente ai diktat dei partiti e ai recinti delle alleanze. C'era il più formidabile distruttore di maggioranze che la storia della Sicilia abbia conosciuto. Ne ha cambiate cinque come i suoi esecutivi, Lombardo, rendendo i quattro anni della sua esperienza a Palazzo d'Orleans un'epopea profondamente controversa. "Raffaele-Raffaele". La convention di Acireale, il 24 febbraio del 2008, ospita 6 mila tifosi, accorsi per il lancio ufficiale della candidatura di Lombardo. Fra le bandiere della Trinacria, e persino dell'Evis (l'esercito di volontari per l'indipendenza della Sicilia), fanno capolino i big impettiti del nascente Pdl: in prima fila ecco Renato Schifani e Angelino Alfano, gli sponsor presso Berlusconi della nomination dell'alieno Lombardo, preferito al compagno di partito Gianfranco Micciché. Il leader dell'Mpa ricambierà il favore, un mese dopo, presentandosi sul palco della Fiera accanto al Cavaliere e cantando con lui e i suoi colonnelli il refrain di "Meno male che Silvio c'è". Quei tempi sembreranno ben presto lontanissimi. A tutti. Incassata l'elezione, Lombardo decide di smarcarsi repentinamente dalla coalizione con la quale ha governato la Sicilia negli anni precedenti. E il primo colpo lo assesta a fine maggio, al momento di formare la giunta. Il presidente non ascolta i consigli del suo amico e predecessore Totò Cuffaro e, al posto dell'udc Nino Dina, manda alla Sanità il magistrato Massimo Russo. Cuffaro stacca il telefono e non si fa più trovare. Si rompe un lungo sodalizio umano, quello politico fra l'Mpa e l'Udc cuffariana resisterà ancora qualche mese. E i primi mesi della sua gestione Lombardo li trascorre segnando il solco con il recente passato: dispone il blocco delle assunzioni e avvia un piano di ridimensionamento delle società partecipate che rimarrà per gran parte incompiuto. Nel frattempo esercita uno spoils-system con il quale manda a casa i "fedelissimi" di Totò. Fra questi la super-burocrate della Programmazione, Gabriella Palocci, congedata solo con una lettera, che sbotterà in lacrime: "Sono stata trattata peggio di una cameriera". Cuffaro, il 6 novembre 2008, ha capito l'antifona: "Raffaele? È in preda a una furia sostitutrice: sta colpendo sistematicamente tutti i miei uomini". È già nato, d'altronde, l'asse con Gianfranco Micciché, il sottosegretario da tempo divenuto nemico numero uno di Cuffaro e già in traiettoria di uscita dal Pdl. Lombardo, nella prima delle sue frasi celebri, comincia a parlare di "geometrie variabili" e in Parlamento, con l'aiuto del Pd, vede la luce la riforma della Sanità osteggiata dai berlusconiani. Le Europee del 2009 si svolgono in un clima caldissimo all'interno della maggioranza. Da battaglia. Anzi, da "guerra termonucleare" per dirla con le parole del presidente dell'Ars, Francesco Cascio, che di suo pugno mette alcune definizioni non proprio lusinghiere, come quella che vuole il governo Lombardo "il peggio degli ultimi quindici anni". Alle Europee trionfa l'astensionismo, ma l'Mpa di Lombardo- in una non memorabile alleanza con la Destra di Storace - tiene mentre il Pdl perde 600 mila voti rispetto alle Politiche dell'anno precedente. Il Popolo della Libertà - alla cui guida in Sicilia sono andati Giuseppe Castiglione e Domenico Nania - conosce in Sicilia l'inizio della sua crisi. E il primo rimpasto di Lombardo, nel luglio del 2009, fotografa lo strappo: al governo vanno - o rimangono - gli uomini vicini a Fini e Micciché, il gruppo che di lì a poco formerà il Pdl Sicilia. Fra loro Gaetano Armao, avvocato di grido che - attaccato dal Pd per una serie di conflitti d'interesse- sarà costretto a lasciare tutti gli incarichi in aula prima di essere rinominato nel Lombardo-ter. Con il Pdl i rapporti di Lombardo sono sempre più tesi. Da Roma, dal governo Berlusconi, non arrivano gli oltre quattro miliardi del Fas e quando, nell'ottobre del 2009, i deputati "lealisti" del Popolo della Libertà, non votano il Dpef, il presidente decide la rottura. Di lì a pochi mesi salteranno i due assessori pidiellini superstiti - Beninati e Milione - mentre con il Pd comincia il "fidanzamento" voluto in particolare dal capogruppo Antonello Cracolici. A novembre la cena fra Lombardo e Massimo D'Alema che darà vita al "patto dell'orata". Le feste di Natale fanno nascere il Lombardo-ter, che vede l'ingresso di due tecnici in quota Pd quali Mario Centorrino e Pier Carmelo Russo. Eccole, le geometrie variabili: Lombardo conosce alcune defaillances a livello amministrativo (come le nomine di nove dirigenti esterni che sarà costretto in gran parte a ritirare), prosegue nella sua opera di occupazione del sottogoverno guadagnandosi da l'appellativo di "Arraffaele", ma in aula riesce miracolosamente a condurre in porto alcune riforme: rifiuti, semplificazione burocratica. Grazie, appunto, alle geometrie variabili. E alla generosità del Pd. La svolta il 27 marzo del 2010, con la notizia - pubblicata da Repubblica - dell'indagine per mafia che riguarda il governatore. Lui, Lombardo, reagisce a muso duro, annuncia urbi et orbi che dirà in aula i nomi dei politici che, davvero, sono collusi con Cosa nostra. I nomi che Lombardo poi pronuncia, nella seduta del 13 aprile, sono quello - atteso - del senatore Pino Firrarello e del deputato Salvo Torrisi, entrambi del Pdl, entrambi additati per interessi nella realizzazione del termovalorizzatore di Paternò. Fioccano minacce di querela, finirà tutto in un polverone dentro il quale Lombardo prosegue la sua marcia a fari spenti, con improvvise accelerazioni, preceduto da una fama che riguarda sempre più i suoi vezzi: l'abitudine di mangiare la carta, la leggenda che vuole che la segretaria assaggi prima i suoi pasti, e poi quell'incredibile collezione di fucili - quaranta, tutti funzionanti - custoditi in una stanza di Palazzo d'Orleans. A settembre ecco il Lombardo-quater. Con Micciché, che fonda Forza del Sud, il legame è consunto anche per i contrasti su un mai nato comune partito meridionale. Entra al governo la nuova Udc di Gianpiero D'Alia. Lombardo diventa uno dei leader del Terzo Polo ma la sua storia è sempre più segnata dalla vicenda giudiziaria che, nel dedalo della Procura catanese, si dipana in un susseguirsi di colpi di scena. Sotto la scure di un processo incombente che dovrà chiarire i rapporti con i boss ma con una giunta in cui sono presenti magistrati, ex prefetti, esponenti degli industriali schierati contro il racket, Lombardo continua a dare una doppia immagine di sé. A confondersi è soprattutto il Pd, che diventa protagonista di un interminabile dibattito interno sull'opportunità di garantire ancora il sostegno al governatore. Il referendum interno al partito non si farà mai. E il dibattito spingerà i democratici all'opzione del ritiro dell'appoggio solo di recente, all'inizio di giugno del 2012, quando il governatore ha già deciso di lasciare anzitempo l'incarico. Il Lombardo-quinquies è in realtà uno stillicidio - via un assessore alla volta, ecco il sostituto - che caratterizza l'ultima scoppiettante fase politica della "volpe di Grammichele" sostenuta ormai da una minoranza composta da Fli, Api e Mps: Lombardo riesce a firmare 130 nomine di sottogoverno in tre mesi, inducendo l'Ars a varare una norma per imbrigliare il suo potere di assegnare incarichi. Mentre Bruxelles sospende trasferimenti per 600 milioni di euro, chiedendo chiarimenti sulle procedure degli appalti, a Roma crescono i timori per un default in stile greco della Regione che spingono persino il premier Monti a intervenire: la lettera di Palazzo Chigi a Lombardo provoca polemiche e ha una cassa di risonanza internazionale. Le società di rating, preoccupate, sospendono il giudizio o declassano l'amministrazione isolana. La saga di Raffaele finisce in una Sicilia messa sotto tutela dallo Stato. Una dura legge del contrappasso, per il presidente autonomista.

La Giustizia pallosa, scrive Massimo Zamarion su “Giornalettismo”. Milano, vicenda Maugeri: la procura: «processate Formigoni». Roma, vicenda polizza vita: la procura: «processate Gasparri». Napoli, vicenda compravendita senatori: nuovo filone di indagini (mentre è già iniziato il processo contro il Berlusca, quello col Senato che si è costituito parte civile). Napoli, vicenda rimborsi facili: arrestato l’ex braccio destro del governatore Caldoro. Verona, l’accusa è corruzione: arrestato Vito Giacino, ex vice-sindaco della giunta Tosi. Palermo, trattativa stato-mafia: il pm Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio. Piemonte, elezioni regionali 2010: il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Cota contro la sentenza del Tar che le aveva annullate. Sant’Agata di Militello (Messina), associazione a delinquere: indagato l’ex sindaco e attuale senatore di Ncd Bruno Mancuso. E’ tutta roba degli ultimi giorni. Ma non pensate anche voi che sia venuto il momento di chiedere alla magistratura di bastonare con calda passione, feroce determinazione, per davvero e non per finta, come fa da vent’anni, pure i sinistrorsi? Non per amor di giustizia, che ci è antropologicamente estranea, ma così, per capriccio, per il gusto del nuovo, per puro estetismo, e soprattutto per non farci morire di noia?

Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”. L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi.

"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere". Il presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”.  «Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.

«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».

Il giudice parteggia?

«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell'imputato».

Partito preso?

«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».

Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?

«Non penso proprio. Poi è ben assistito».

Intanto è in galera e non si intravede la fine.

«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».

Maramaldeggiano?

«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».

Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi...

«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».

Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?

«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».

In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l'incolpevole.

«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in cui sono ammesse».

Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.

«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».

Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?

«Questo reato è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».

Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?

«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece gli umori della piazza».

E le toghe sono dilagate.

«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».

Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?

«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).

Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.

«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».

Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).

«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».

Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?

«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».

La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?

«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».

Come se ne esce?

«Con la ventilazione della magistratura».

Frullarla via?

«Aprire ad altri l'accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».

E?

«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».

"I magistrati forzano le leggi. Ormai è scontro con lo Stato". Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti, nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario, perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che, oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale, come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio, quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato, direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete dunque l'intervista con queste lenti.

Il giudice è più vicino al pm che ai diritti della difesa?

«Sostanzialmente vero. Il grande problema del processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».

Equilibrio che manca.

«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».

Cioè?

«Quello tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato (trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».

C'è abuso del carcere prima del processo?

«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare, semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».

C'è abuso di intercettazioni?

«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge per farle».

I giudici violano le leggi?

«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato, che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».

Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in piazza.

«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è sensibilissimo a questi umori».

È tollerabile la legislazione speciale per i mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?

«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno impiccato i terroristi in carcere».

Con la scusa dei mafiosi si è finito per colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno. Costituzionale?

«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il caso Contrada».

Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa per concorso esterno.

«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».

L'Università come si schiera di fronte a queste bestiali forzature?

«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista. Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i principi di garanzia della Convenzione Ue».

La magistratura dilaga dalla politica industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?

«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe solo applicare la legge».

Le colpe della politica per le invasioni di campo?

«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie. Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».

L'ultimo Guardasigilli degno del nome?

«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di procedura penale».

Separazione delle carriere tra giudici e pm?

«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri. Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».

Pensiero finale.

«Grande confusione sotto il cielo».

Siamo lo Stato dei Gattopardi? Non c'è niente da fare, deve ripartire tutto dalla legalità, scrive Camilla Doninelli su “L’Indro”. In un periodo storico dove sembra che il concetto di legalità abbia lasciato spazio al ‘malaffare’ e non solo, è il caso di riaprire le pagine della storia per ricordare che ci sono uomini che hanno dato la loro vita per difendere ciò che è giusto. In teoria dovrebbe venire spontaneo il collegamento diretto al 1992, anno in cui Falcone prima, Borsellino poi, persero la vita per portare alla luce verità scomode, per smantellare le organizzazioni criminali usando l’arma della giustizia, della legge e della perseveranza. A distanza di ventitré anni come è cambiata la percezione della legalità e della lotta alla mafia da parte della cittadinanza? Sicuramente qualcosa è cambiato. La paura ha lasciato il posto alla denuncia, da una parte, dall’altra c’è stata, purtroppo, una perdita di fiducia nelle istituzioni che ha portato ad uno smarrimento. Siamo ancora agli inizi di un processo lungo, ciò su cui si deve far leva maggiormente è la cultura della legalità, o meglio educare alla legalità. Vivendo in uno Stato di diritto, il rispetto delle leggi e delle regole dovrebbe essere una consuetudine affermata e radicata (soprattutto nella mentalità e nella cultura di ogni singolo individuo), però molte volte siamo sopraffatti da amnesie. La legalità è sempre sulle prime pagine, anche perché la cronaca ci sta mostrando l’anima nera della società, della politica, delle istituzioni, delle associazioni mafiose che continuano a padroneggiare. La vogliamo chiamare mafia, malaffare, illegalità? Anche se usiamo nomi differenti il risultato rimane sempre lo stesso: reato contro la civiltà, contro il singolo, contro tutti. Parlarne, unicamente, non è sufficiente, agire e pungolare il nostro senso di giustizia (vera e non farlocca o raffazzonata) è la leva giusta per cambiare. “E’ necessario che si faccia strada, in parti più avvertite della società civile, la convinzione che la strategia di contrasto alla criminalità mafiosa non sarà mai vincente se sarà incentrata solo sul terreno investigativo e non su quello socio,politico e culturale. E’ bene che si tenga presente che la mafia non è un fenomeno criminale circoscritto alla Sicilia, ma purtroppo ha scavalcato i confini per espandersi dove ha trovato terreno fertile, là dove ha potuto contare su reti di continuità, di connivenze ma anche di collusioni e complicità”. Come dar torto a Leonardo Guarnotta, ex magistrato del pool antimafia. “Ritengo che tutto parta dal significato del termine legalità. Ciò significa conformità alle prescrizioni legali, e prescrizione significa norma di legge e comando – continua Guarnita – Allora la legalità, e anche il suo sinonimo la legittimità, significa rispetto delle regole, acquiescenza alla norma, obbedienza al comando della legge; significa rispettare le regole della convivenza, uniformare la propria condotta alla legalità. Fare in modo che la forza del diritto abbia sempre la meglio sul diritto della forza. In altri termini per legalità si intende quel complesso di diritti e doveri, di ogni cittadino, che gli permetta una vita serena all’interno di una società Purtroppo, sempre più stesso, anche negli ultimi tempi, gli interessi personali e individuali hanno la meglio su quelli che sono i bisogni collettivi, denaro e potere continuano ad accentrarsi sempre nelle mani di soliti pochi. Parte tutto dal concetto di legalità”.

A che punto siamo nella pratica? Dovremmo essere più solerti. Nonostante ci sia, sicuramente, una maggiore coscienza e un malessere palpabile, come abbiamo ribadito c’è parecchio lavoro da fare. Non possiamo addossare la colpa unicamente alle Istituzione e allo Stato (c’è chi aggiungerebbe “lo Stato siamo noi”), “ma un esame di coscienza non guasterebbe. Abbiamo il difetto di inquadrare “il problema sempre in maniera individuale, non in generale. Dobbiamo pensare alla collettività. Tutti lottano e protestano per un loro problema, ma devono capire che il problema è di tutti. Purtroppo dobbiamo smantellare il nostro egoismo”. Antonio Giangrande, studioso di mafie e presidente dell’associazione CONTROTUTTELEMAFIE, ci mette davanti allo specchio.“Siamo lo Stato dei Gattopardi, tendiamo a mantenere lo status quo - spiega Giangrande – In Italia nulla è come appare. Noi, come cittadini, quando parliamo di legalità, cioè un comportamento conforme alla legge, dobbiamo fare un’esame di coscienza, analizzare tutto quello che facciamo chiedendoci se le nostre azioni si sono svolte conformemente alla legalità. Dobbiamo innanzitutto cambiare la nostra cultura. Non si possono fare le leggi contro qualcuno e non contro qualcosa, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Lo Stato ha perso fiducia, basta vedere i risultati elettorali”. E’ fondamentale “l’impegno della società civile, perché giochiamo una partita: la lotta alla mafia e quindi la lotta all’illegalità, che noi non possiamo assolutamente perdere. E’ una partita che si gioca nella quotidianità delle relazioni umane, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, negli ospedali, negli uffici pubblici, nelle imprese commerciali, negli istituti di credito ma anche nelle scelte individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali -  afferma Leonardo Guarnotta - Le scelte che vengono fatte dai segretari dei partiti nel selezionare i candidati da  inserire nelle liste. In mancanza di sanzioni, ma soprattutto nella più completa assenza di un’autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica (e c’è ne è molta in questi ultimi tempi) rimarrà impunita. Sarà solo un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare ed ad eleggere a Palermo Marcello Dell’Utri. Ciò che non va bene, anche, è che in questo contesto temporale si è palesata una forte contrapposizione tra potere politico e magistratura che certamente non ha fatto bene né all’una istituzione né all’altra”. Però in ambito sociale bisogna riconoscere il ruolo fondamentale delle Associazioni, che in questo momento rappresentano la parte coscienziosa della nostra società. Lotta alla mafia a viso aperto. O anche come, appunto, l’attività svolta da Giangrande (a livello associazionistico). “Ogni associazione, non solo antimafia, ha il compito di assistere, di far avvicinare le vittime all’autorità pubblica”. Ma ha anche sottolineato il problema che in alcuni casi il lavoro svolto diventa quasi un business, “in Italia l’antimafia è diventato un business, e sicuramente questo non lo volevano né Falcone né Borsellino”. Business o no, comunque, il nostro alleato di maggioranza dovrebbe essere lo Stato, le Istituzioni. Ma questa non è una rivelazione, meglio un appello. Siamo consapevoli che dal 1992 qualcosa è cambiato, “nulla sarà come prima - giustamente afferma Guarnotta – è stato un punto di non ritorno. La società civile è stata allertata da questi fatti, ha capito che era successo qualcosa di veramente importante, qualcosa che ha cambiato e contribuirà a cambiare lo status quo ante. Ci fu “la costituzione di parte civile in processi di mafia da parte di associazioni di volontariato, anche da parte di associazioni come Confcommercio e Confartigianato e altre, hanno segnato una svolta perché mai era successo una cosa di simile in precedenza”.  

G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.

7 aprile 2015. G8 Genova, Corte Strasburgo condanna l'Italia: "Alla Diaz fu tortura, ma colpevoli impuniti. La polizia non collaborò per identificare gli agenti". La censura al nostro paese per non aver promulgato una legge sul reato specifico, la cui assenza dall'ordinamento ha consentito ai responsabili del pestaggio di evitare qualsiasi sanzione. Il sindacato Siap: "Verdetto esagerato", scrive “La Repubblica. Quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per il pestaggio subìto da uno dei manifestanti (l'autore del ricorso) durante il G8 di Genova , ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. "Questo risultato - scrivono i giudici - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". All'origine del procedimento c'era il ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto che all'epoca aveva 62 anni e che rimase vittima del violento pestaggio da parte della polizia durante l'irruzione nella sede del Genova Social Forum. L'uomo, il 21 luglio 2001, era il più anziano dei manifestanti presenti nella scuola Diaz a Genova. Gli agenti lo sorpresero mentre dormiva, gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole durante i pestaggi. Nel ricorso, portato avanti dagli avvocati Nicolò e Natalia Paoletti, Joachim Lau e Dario Rossi, Cestaro afferma che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell'ordine tanto da dover essere operato e subire ancora oggi le conseguenze delle percosse subite. Sostiene inoltre che le persone colpevoli di quanto ha subìto avrebbero dovuto essere punite adeguatamente, ma che questo non è mai accaduto perché le leggi italiane non prevedono il reato di tortura o reati altrettanto gravi. I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo dove recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La Corte di Strasburgo ha stabilito dunque che il trattamento che è stato inflitto al ricorrente deve essere considerato come "tortura". Ma nella sentenza i giudici sono andati oltre, affermando che se i responsabili non sono mai stati puniti è soprattutto a causa dell'inadeguatezza delle leggi italiane, che quindi devono essere cambiate. La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti è dipesa, accusano poi i giudici, "in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia". Nella sentenza si sottolinea quindi che la mancata considerazione di determinati fatti come reati non permette, anche in prospettiva, allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell'ordine. In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, "aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello", la Corte parla di "assenza di ogni nesso di causalità" fra la condotta dell'uomo e l'utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell'irruzione nella scuola e di maltrattamenti "inflitti in maniera totalmente gratuita" e qualificabili come "tortura"; reato per il quale non può essere prevista quella prescrizione che ha salvato anche i pochi responsabili delle violenze di quei giorni finiti sotto processo. L'azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti. L'Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro. "I soldi non risarciscono il male che è stato fatto. E' vero, è un primo passo quello di oggi, ma mi sentirò davvero risarcito solo quando lo Stato introdurrà il reato di tortura", è stato il commento di Cestaro dopo la lettura della sentenza. "Oggi ho 75 anni, ma non cancellerò mai l'orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l'orrore con il volto dello Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi. Il reato di tortura deve essere introdotto nel nostro ordinamento". La proposta di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura è all'esame del Parlamento da quasi due anni: approvata dal senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla camera dove il 23 marzo scorso è approdata in aula per la discussione generale. L'esame dovrebbe riprendere in settimana, dopo l'ok alla riforma del terzo settore, con i tempi contingentati e quindi certi e rapidi. Ma il testo, già modificato dalla Commissione giustizia di Montecitorio, dovrà tornare al Senato. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani sui fatti avvenuti a Genova dopo il G8 non sono ancora finite. Davanti ai giudici di Strasburgo pendono altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto. La Corte non ha ancora deciso ufficialmente quando emetterà le sentenze, ma fonti di Strasburgo affermano che non tarderanno molto ad arrivare.

Giuliani: ''Condanna positiva ma anche rabbia: la Corte bocciò nostro ricorso''.

Secondo il Sap, il Sindacato autonomo di polizia, "Diaz non è stata sicuramente una bella parentesi, ma parlare di tortura mi sembra eccessivo". Il segretario nazionale del Sap, Gianni Tonell, ha poi aggiunto: "In Italia la normativa c'è già ed è ampiamente presente ha aggiunto -  il problema è che non è stata ancora qualificata come tale perché si cerca di far passare un manifesto ideologico contro le forze dell'ordine".

La sentenza di Strasburgo è stata commentata anche da Patrizio Gonnella, presidente dell'Associazione Antigone : "C'è una giustizia a Strasburgo. L'Italia condannata per le brutalità e le torture della Diaz che, finalmente in Europa e solo in Europa, possono essere chiamate tortura. In Italia questo non si può fare perché manca il reato nel codice penale. Un fatto vergognoso e gravissimo, lo avevamo detto più volte. Fra l'altro c'è un nostro ricorso analogo pendente a Strasburgo per le violenze nel carcere di Asti dove, ugualmente, la Corte ha rinunciato a punire in mancanza del reato. Speriamo che questa sentenza renda rapida la discussione parlamentare e ci porti ad una legge che sia fatta presto e bene, cioè in coerenza con il testo delle Nazioni Unite".

Secondo Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova, l'associazione che riunisce i familiari delle vittime dei pestaggi durante il G8, la sentenza rappresenta un "risarcimento morale":  "Si tratta di un precedente ottimo. Un precedente che ci dà una risarcimento morale per le torture avvenute".

Diaz, il pm: "ci presero per pazzi". Il sindaco: "impuniti i colpevoli". Giuliano Giuliani: "Confermate le brutture dello stato italiano", scrive “la Repubblica”. "Quando abbiamo detto che c'erano stati casi di tortura siamo stati presi per pazzi e noi avevamo solo citato i principi della corte europea di giustizia". Lo ha detto Enrico Zucca che sostenne l'accusa nei processi per i fatti della Diaz. "Questi fatti sono gravissimi per l'Italia perchè hanno visto coinvolti i vertici delle forze di polizia che hanno ricevuto in questi anni attestazioni di stima e solidarietà come se non fossero stati coinvolti da questi fatti e mi rifiuto di credere che non abbiano funzionari migliori di quelli che sono stati condannati", ha aggiunto. Il sostituto procuratore generale Enrico Zucca ha proseguito: "Il quadro è molto desolante perché la gran parte dei fatti degli abusi non è stata perseguita. Bisogna riuscire a prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all'interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni fatte dopo la sentenza definitiva dall'allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Lui fece delle scuse, ma parlando di pochi errori di singoli senza riflettere sulla vastità del fenomeno". "La tortura - ha detto Zucca - è l'abuso di autorità di chi la commette. L'ha detto la Cassazione, lo dice la Corte di Strasburgo". "La notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 abbiamo tutti vissuto una pagina oscura nella recente storia italiana. Non posso non esprimere il mio rammarico per gli eventi accaduti presso la scuola Diaz-Pertini di Genova, eventi che oggi la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha espressamente qualificato come atti di tortura. Il mio primo pensiero va al signor Cestaro e a tutti coloro che come lui quella notte furono torturati.". L'ha dichiarato all'Ansa Nicolò Paoletti, l'avvocato che ha rappresentato Arnaldo Cestaro alla Corte di Strasburgo. Il legale sottolinea anche l'altro motivo che rende così importante la sentenza Cestaro. "La Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia anche per non aver previsto nel proprio ordinamento disposizioni penali adeguate a sanzionare efficacemente gli atti di tortura commessi nel caso di specie e a fungere da deterrente necessario per prevenire simili violazioni in futuro" afferma Paoletti. "L'assenza del reato di tortura in Italia nonostante gli obblighi internazionali assunti, in particolare con la ratifica della Convenzione di New York del 1984, è assolutamente deplorevole", conclude il legale di Cestaro. "La sentenza della Corte di Strasburgo riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e per questa ragione lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli". Lo ha detto il sindaco di Genova, Marco Doria, secondo il quale si tratta di una "sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente. La Città di Genova, che è stato teatro di quelle violenze, la accoglie come fatto di verità e di giustizia"."Uno stato democratico non può ignorare il reato di tortura e non deve mai tollerare  che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell'uomo", ha osservato Doria secondo il quale "questa è una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello stato secondo i principi della Costituzione". "Finalmente la Corte europea ha determinato ancora una volta le brutture commesse dallo Stato italiano. Già la sentenza di Cassazione su Bolzaneto aveva stabilito che lì c'erano state torture ma questo povero paese non ha una legge sulla tortura come gli altri paesi civili e quindi non si è fatto nulla". Lo ha detto all'ANSA Giuliano Giuliani, papà di Carlo, ucciso da un carabiniere durante gli scontri in piazza a Genova durante il G8 del 2001."Per anni la Diaz era stata considerata una perquisizione legittima e a Bolzaneto si distribuivano cioccolatini e caramelle" ha aggiunto Giuliano Giuliani. "Fu la sentenza di secondo grado che diede un giudizio negativo, ma fino al 2010 il giudizio che veniva fuori dalle aule di tribunale, dal potere politico e dalla grande informazione era che si trattava di una perquisizione, non di una macelleria messicana, come un poliziotto che vi partecipò alla fine ammise". "Chissà se l'attuale governo troverà il tempo di occuparsi di queste cose che riguardano la dignità del Paese" ha detto ancora Giuliano Giuliani. "La Diaz fu tra l'altro un effetto delle pressioni dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro - ha aggiunto Giuliani - come scrive anche la Cassazione. Le sue pressioni per fare recuperare credibilità alla polizia dopo la morte di Carlo e gli scontri portarono alla Diaz". Giuliani ricorda: "la condanna in Italia per la Diaz non è tanto per la macelleria in sé ma per il falso che venne commesso inducendo l'ispettore e l'agente a introdurre le due bottiglie molotov nella scuola. I poveretti che presero le botte rischiarono anche 14 anni di carcere per terrorismo per le due molotov che i poliziotti misero nella scuola di nascosto". "Mi indigna una cosa - ha concluso Giuliani -: che la prova regina di quel falso è un filmato di 5,5 secondi che li fa vedere fuori dalla scuola con il sacchetto con le due molotov. 5,5 secondi di video sono serviti per condannare i più alti capi della polizia ma ore di video sulla morte di Carlo non sono serviti a smentire l'imbroglio sullo sparo deviato". "La sentenza di oggi descrive quello che tutti sapevano e tutti sanno in tutto il mondo, cioè che in quei giorni c'è stata una gravissima violazione dei diritti umani con l'irruzione alla Diaz e le torture" ma "a 15 anni di distanza da quei fatti non c'è ancora una legge sulle torture in Italia, non è stato messo il numero identificativo sui caschi dei poliziotti come avviene in altri paesi europei e soprattutto lo stato, le istituzioni non hanno neanche chiesto scusa ai giovani che sono stati massacrati e alle loro famiglie". Lo ha dichiarato Antonio Bruno, capogruppo della federazione della sinistra nel consiglio comunale di Genova e membro del Comitato Verità e giustizia per Genova. "Purtroppo -ha sottolineato Bruno- sono passati quasi 15 anni e con queste battaglie siamo invecchiati ma vedere riconosciuto ad un livello così alto quello che tutti sapevano è sicuramente un fatto positivo. Noi non vogliamo vedere la gente in carcere ma i responsabili di fatto -ha ricordato l'esponente del Comitato - non hanno avuto al momento nessun tipo di misura cautelativa, anzi molti sono stati anche promossi. Questo -ha concluso- dice molto su come la democrazia in Italia abbia avuto un decadimento".

Tortura, 30 anni di omissioni e ritardi. La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale. Come prevede una Convenzione Onu del 1984. Ma finora il Parlamento ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni. E il provvedimento ora all'esame della Camera è assai lontano dal testo delle Nazioni Unite, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. La “macelleria messicana”, come il vice questore aggiunto Michelangelo Fournier definì l’irruzione alla scuola Diaz, “deve essere qualificata come tortura”. E l’Italia dev’essere condannata non solo per le lesioni subite da Arnaldo Cestaro, che quella notte del 21 luglio 2001 riportò la rottura di dieci costole, un braccio e una gamba. Ma anche perché, a trent’anni di distanza, il nostro Paese non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale, contrariamente a quanto prevede un’apposita Convenzione dell’Onu. Una “omissione” che di fatto non esclude la possibilità che casi del genere possano ripetersi. Nessuna divergenza di vedute: è una pronuncia all’unanimità quella con cui la Corte di giustizia europea ha previsto 45 mila euro di risarcimento nei confronti di Cestaro, il più anziano delle vittime di violenze alla Diaz nei giorni caldi del G8 di Genova. Un calvario che - fra le numerose operazioni subite e gli strascichi che le manganellate della polizia hanno lasciato - ancora fa sentire i suoi effetti su quest’uomo che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Una sentenza che crea un precedente e spalanca le porte agli altri ricorsi pendenti davanti alla Corte di Strasburgo (solo per la Diaz sono 30 in tutto). Ma che colpisce soprattutto per le sue motivazioni. Nel mirino dei giudici finisce infatti anche l’inadeguatezza della nostra legislazione: nel 1984 l’Italia firmò la Convenzione di New York, che fu ratificata dal Parlamento quattro anni dopo con l’impegno a introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento. Solo che da allora ogni tentativo è miseramente fallito. Così Giuliano Giuliani, il papà di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso il 21 luglio del 2001 in piazza Alimonda durante gli scontri di piazza tra manifestanti e forze dell'ordine nell'ambito del G8 di Genova, commenta la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo che oggi ha condannato l'Italia stabilendo che quanto compiuto dalle forze dell'ordine durante l'irruzione nella scuola Diaz il 21 luglio del 2001 "deve essere qualificato come tortura"intervista di Lucia Tironi. In tempi recenti anche l’Universal periodical review - ovvero l’esame periodico della situazione dei diritti umani negli Stati membri dell’Onu, effettuato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite - è tornato alla carica con l’ennesima “raccomandazione”. Ma non è cambiato nulla. E anche la proposta di legge approvata dal Senato oltre un anno fa (attualmente all’esame della Camera) è lontana rispetto al testo della Convenzione. A ripercorrere la storia di questi tentativi fallimentari, in filigrana si leggono tutte le resistenze con cui ampi settori della classe politica italiana hanno sempre affrontato questo tema. Come se punire un agente che si spinge troppo in là non fosse anche nell'interesse delle stesse forze dell'ordine. La prima proposta per introdurre il reato di tortura risale al lontano 1989. Ma non se ne fa nulla. Tre anni dopo, nel 1992, è il governo Amato a prendere in mano la situazione con un disegno di legge relativamente light: la tortura è prevista come semplice aggravante dei reati colposi contro la persona commessi da un pubblico ufficiale. Eppure il Parlamento non inizia nemmeno l’esame del provvedimento. E la storia si ripete a ogni legislatura: dal 1996 a oggi l'Espresso ha censito ben 66 proposte di legge sulla tortura, ma la maggior parte non ha neppure iniziato l'iter parlamentare. Nel 2006 la svolta sembra arrivare davvero: a fine anno la Camera approva in prima lettura un testo unificato ma al Senato la risicata maggioranza che sostiene il secondo governo Prodi non ha i numeri per l'approvazione e la norma naufraga pochi mesi dopo a Palazzo Madama. Scena identica nel 2012, col governo Monti: dopo anni di inerzia stavolta è il Senato ad approvare  un ddl (in gran parte analogo a quello attualmente in Parlamento) solo che la legislatura finisce e alla fine il provvedimento non viene approvato nemmeno in prima lettura. Salvo imprevisti, ora potrebbe essere la volta buona per mettere la parola fine a questa querelle decennale. Almeno formalmente, perché l’ennesimo disegno di legge approvato al Senato e adesso all’esame di Montecitorio introduce sì il reato di tortura ma lo fa restare un reato comune. Insomma, è imputabile a qualunque cittadino (che può essere punito da 4 a 10 anni). Inoltre, diversamente da vari altri Paesi europei, le pene previste per le forze dell’ordine sono relativamente blande: in Italia si va da 5 a 12 anni, contro i 15 della Francia. Nel Regno Unito - dove la legge esiste dal 1988 - è addirittura previsto l’ergastolo. Nella prima versione, poi modificata alla Camera, il testo prevedeva perfino la reiterazione di “violenze o minacce gravi” per qualificare il reato di tortura. Come dire, essere picchiati brutalmente una sola volta non era ritenuto sufficiente. E pensare che per arrivare a questo mezzo risultato le resistenze sono state comunque durissime. Il disegno di legge, nato dalla fusione di sei diverse proposte dei partiti (Pd, Pdl, M5S, Sel e Gal) è rimasto fermo quasi un anno e mezzo prima di essere discusso: a ottobre 2013, in appena tre mesi, la commissione Giustizia aveva sfornato il testo, che però è arrivato in Aula solo a gennaio 2014 perché il governo Letta per evitare spaccature aveva deciso di accantonare tutti i temi “divisivi”. Come sui diritti civili. E la stessa scena si è ripetuta alla Camera, dove ci sono voluti altri dieci mesi prima che la commissione Giustizia desse al testo il via libera. Adesso il provvedimento è all'esame dell’Aula di Montecitorio. Si è iniziato ad affrontare il tema lo scorso 23 marzo, poi più nulla. Ma l’introduzione del reato di tortura non è l’unica battaglia interminabile. Un destino assai simile lo può vantare infatti anche l’introduzione del codice identificativo sui caschi delle forze dell'ordine, pensato per sanzionare gli agenti che si rendono protagonisti di episodi di violenze nelle manifestazioni come avviene in molti altri Paesi europei. Dopo un lungo e travagliato iter il disegno di legge (risultato di una mediazione fra tre ddl presentati da Pd e Sel), doveva arrivare in discussione al Senato proprio in questi giorni. Ma un paio di settimane fa il ministro dell’Interno Angelino Alfano - su pressing dei sindacati di polizia, che vedono l’identificazione come una sorta di misura punitiva - ha chiesto in commissione Affari costituzionali di rinviare. Questa la spiegazione fornita: non serve parlarne adesso, perché il governo a breve presenterà un progetto di legge sulla sicurezza urbana e il tema sarà affrontato in quella sede. La proposta di Alfano, grazie anche ai voti determinanti del Pd, è stata approvata. E adesso il rischio è di rimandare tutto alle calende greche, come ha detto esplicitamente il forzista Maurizio Gasparri: «Di fatto il governo ha archiviato il provvedimento».

Perché in Italia chi tortura, sia un agente o un privato cittadino, non può essere giudicato per tortura. La sentenza di Strasburgo sulla Diaz ci condanna a quel che sapevamo già: il reato di tortura (invocato, evocato e promesso dai politici) non esiste ancora, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. L’ultima volta che se n’è parlato davvero fu alla fine di febbraio del 2008. Per forza di cose, non si poteva fare altrimenti. Anche solo per associazione di idee. Quella era tortura. «Riguardo alle giornate del 20 e 21 luglio 2001 citeremo in particolare il taglio di capelli imposto con la forza a Taline Ender, il capo spinto nella tazza del water a Ester Percivati, lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, le ustioni multiple con sigaretta sul dorso del piede a Carlos Balado, picchiato ripetutamente sui genitali, il terribile pestaggio di Mohamed Tabbach, persona con arto artificiale, l’etichettatura sulla guancia, come un marchio, per i ragazzi arrestati della Diaz al momento del loro arrivo, la sofferenza di Anna Kutschau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella subìta all’interno della scuola non è neppure in grado di deglutire...». La requisitoria del pubblico ministero al termine del processo sulle violenze avvenute alla caserma di Bolzaneto, che fu il luogo dove vennero portati i ragazzi arrestati durante l’irruzione alla scuola Diaz, ebbe l’effetto di una secchiata di acqua gelida. Vittorio Ranieri Miniati, un magistrato timido, poco incline alla ribalta, quasi piangeva nel leggere quell’elenco di atrocità. Fece una lista della spesa di esseri umani ai quali era stata negata ogni dignità. Picchiati, malmenati, seviziati. Costretti a strisciare per la caserma gridando che Che Guevara era un bastardo comunista, viva il Duce, viva Hitler. Con le ragazze minacciate di stupro “Entro stasera con voi faremo come in Kosovo”, come le foto dei figli piccoli stracciate davanti alle madre, “Tanto non li rivedrai più”. Quel lungo elenco ebbe l’effetto temporaneo di smuovere qualcosa nella pancia del Paese, almeno nella sua opinione pubblica. Se all’indignazione del momento fossero seguiti i fatti, forse oggi non saremmo additati dalla Corte di Strasburgo alla stregua di un Paese sub-sahariano. Ci saremmo risparmiati l’ennesima brutta figura. Fino a quel momento i processi sui fatti del G8 del 2001 erano stati seguiti in una sorta di sbadiglio collettivo. Interessavano a pochi, soltanto alle vittime, a chi c’era, una parte importante della generazione dei ventenni-trentenni di allora che di quelle giornate ha fatto lo spartiacque della propria esistenza, e agli addetti ai lavori. La ragione non andava cercata soltanto nella lunghezza dei processi, che a sette anni da quei giorni tragici ancora navigavano al primo grado di giudizio. Forse c’era dell’altro, c’è sempre stato dell’altro. C’era quella lista della spesa, dettagliata, verificata in ogni possibile modo. Gli abomini compiuti alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto da uomini in divisa sono sempre risultati disturbanti, indigeribili per una democrazia che voglia dirsi tale. Provocavano disagio al solo pensiero. Meglio tenerli lontani, dividersi in fazioni invece che affrontare quel che era accaduto. La realtà dei fatti echeggiata in un’aula di tribunale ebbe se non altro l’effetto di svegliare una classe politica, di indurre a un moto di indignazione. Quel processo era come un film del quale si conosceva il finale. E non era certo un happy end. I difensori degli imputati ostentavano una certa disinvoltura, perché sapevano che per i loro assistiti sarebbe stata una passeggiata. Ogni fatto era stato confermato nella sua gravità. Peccato mancasse il reato giusto. L’ordinamento giuridico italiano non prevedeva di chiamare le cose con il loro nome: tortura. Al suo posto i pubblici ministeri si dovettero arrampicare su decine e decine di ipotesi alternative, quasi tutte destinate alla prescrizione. Certo, abbiamo l’articolo 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile, ogni violenza fisica e morale “sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” deve essere punita. Ma non c’è scritto come, in che modo. Non c’è mai quella parola. Nel 1988 l’Italia ratificò la Convenzione dei diritti umani contro la tortura, ma si dimenticò di adeguare il codice penale. Da noi chi tortura, sia un funzionario di Polizia che un privato cittadino, non può essere giudicato per tortura. Bisogna farci intorno un lungo giro di parole e di codicilli. Ma dopo quelle requisitorie, sembrò quasi che finalmente qualcosa di stesse per muovere, dopo sette diversi disegni di legge che negli ultimi vent’anni avrebbero dovuto adeguare l’Italia agli standard internazionali. In un profluvio di promesse, l’approvazione del reato di tortura sembrava all’ordine del giorno, oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuro. E infatti eccoci qui. Anche il sentimento comune su un argomento discusso e lacerante come il G8 di Genova è andato più veloce. A tanti anni di distanza, sulla Diaz esiste una memoria ormai condivisa, a prescindere da come una la pensa su quei giorni del 2001. Fu una schifezza, una macelleria messicana, per dirla con le parole di uno degli ufficiali di Polizia condannati. «Non c’è emergenza che possa giustificare quel che è accaduto» scrissero i giudici che pure furono costretti a dichiarare prescritti i reati. «L’offesa alla dignità di uomini, la compromissione dei diritti delle persone, quasi sempre spaventate e terrorizzate, a prescindere dal loro comportamento precedente». Nell’anno di grazia 2015 il reato di tortura, invocato, evocato, promesso a ogni battito di cronaca, in Italia non esiste ancora. La sentenza di Strasburgo ci condanna a quel che sapevamo già. Abbiamo una classe politica che si costerna, si indigna, si impegna, cavalca l’onda dell’emotività, e poi non appena quest’ultima è passata, torna subito a fare finta di niente.

Torture alla Diaz. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia, scrive Patrizio Gonella su “L’Espresso”. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia. A quattordici anni dalle brutalità della Diaz è arrivata la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Come già aveva scritto nero su bianco la Corte di Cassazione in Italia non si può punire per tortura in quanto manca il crimine. Così i giudici di Strasburgo ci hanno condannato per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante ma anche perché a causa dell’assenza del delitto nel nostro codice in Italia vi è l’impunità per torturatori. Nei prossimi giorni la Camera discuterà la proposta di legge approvata oramai molti mesi fa al Senato. Non è il migliore dei testi. E’ incoerente rispetto al dettato Onu, eppure bastava tradurre dieci righe dall’inglese in italiano. Alla scuola Diaz e al carcere illegale di Bolzaneto si è ritenuto che si potesse instaurare uno stato di eccezione. Il film Diaz di Daniele Vicari ha il merito di avere fatto conoscere a molti giovani di oggi, che nel 2001 erano poco più che bambini, cosa accadde a Genova in quei giorni. Una vergogna nazionale. Uno Stato che non si è costituito parte civile nei procedimenti penali a Genova nei casi Diaz e Bolzaneto, ad Asti per le violenze in carcere, a Roma nel caso della morte di Stefano Cucchi, a Ferrara nel caso Aldrovandi, a Lecce nel caso Saturno etc. etc.. Non solo. Gli imputati in questi procedimenti penali hanno spesso fatto passi in avanti nella carriera nel corso del processo, o quanto meno non hanno subito alcuna sanzione disciplinare. Il messaggio è in questi casi devastante. E’ un messaggio inequivocabile di legittimazione e incentivazione alla perpetrazione di pratiche illegali di tortura. Un messaggio che serve a segnare la forza del potere punitivo incontenibile rispetto a ogni anelito illusorio e ingenuo di legalità democratica. Se queste sono le reazioni dei vertici istituzionali – solidarietà pubblica oppure impunità per i torturatori – di conseguenza non si può ragionevolmente e correttamente sostenere che la tortura sia una questione di mele marce. La tortura non è mai una questione di mele marce salvo non venga incrinato quello spirito di corpo che dal basso arriva sino all’alto e che si propaga dal singolo poliziotto sino alle più alte cariche istituzionali. La tortura e i torturatori si insinuano là dove trovano spazio e terreno fertile, là dove il sistema consenta che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato imprescrittibile che la punisca, anche una amministrazione dello Stato disposta a sanzionare in tutte le sedi i presunti torturatori. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non sia ispirato al machismo ma alla prevenzione sociale. Richiede infine la rinuncia allo spirito di corpo e la dismissione  di squadre e corpi speciali. Il crimine, anche quello più spietato, lo si deve sconfiggere nella legalità e con gli strumenti ordinari del diritto.

Morti di botte, il filo rosso. Da Stefano Cucchi a Giuseppe Uva, fino ad Aldo Bianzino: le difficilissime inchieste per stabilire la verità sulle persone che in Italia vengono arrestate e non escono vive dagli interrogatori, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”. Luigi Manconi insegna sociologia dei fenomeni politici presso l'Università Iulm di Milano. È stato senatore e sottosegretario alla giustizia e garante per i diritti delle persone private della libertà per il Comune di Roma. È presidente dell'associazione 'A Buon Diritto'. Ha scritto, con Valentina Calderone, 'Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri' (Il Saggiatore 2011). Cucchi, lo ricordiamo tutti, era un ragazzo romano morto il 22 ottobre del 2009, dopo essere finito in carcere per alcuni grammi di hashish. Ma il suo, purtroppo, non è stato un caso isolato. Manconi si occupa anche della vicenda di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato fermato e interrogato dai carabinieri a Varese; e di Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, trovato morto il 14 ottobre in una cella di isolamento del carcere di Perugia.

Cucchi, Uva, Bianzino. Tre morti misteriose accomunate dal fatto di essere avvenute in seguito ad arresti da parte delle forze dell'ordine, tre vicende ancora non chiarite. Ci sono novità?

«Ce ne sono, di positive e di negative, in tutti e tre i casi».

Da dove cominciamo?

«Cominciamo da una notizia positiva in relazione alla vicenda di Giuseppe Uva, morto a giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato in stato di ebbrezza dai carabinieri. Lo scorso 23 aprile il Tribunale di Varese ha assolto il medico che fino a oggi era l'unico incriminato per la morte di Uva».

Perché questa è una novità positiva?

«Il pubblico ministero aveva accusato due medici del reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese di aver somministrato ad Uva degli psicofarmaci incompatibili con il suo stato etilico: il primo era stato prosciolto, e con l'assoluzione del secondo il giudice ha disposto l'invio degli atti alla Procura affinché le responsabilità di quella morte vengano cercate altrove».

Dove, precisamente?

«Nella caserma dei carabinieri, nel corso di quella notte, nel tempo intercorso tra il fermo e il trasferimento al pronto soccorso dell'ospedale. In quella caserma, dalle tre del mattino fino all'alba, erano presenti non solo i carabinieri, ma anche alcuni appartenenti alla Polizia di Stato lì convenuti».

Necessità di ulteriori approfondimenti, insomma.

«Assolutamente sì. Del resto secondo i familiari e secondo noi non ha avuto luogo alcuna indagine seria, al punto che Alberto Biggiogero, l'altro fermato insieme a Uva che afferma di aver sentito dalla sala d'attesa in cui si trovava le urla strazianti dell'amico, e che presentò a tale proposito un circostanziato esposto in Procura, non è mai stato sentito in quattro anni».

Mai?

«Neanche una volta. Si tratta quindi di una novità positiva, perché l'invio degli atti alla Procura affinché svolga le opportune indagini vale a sancire - secondo il mio punto di vista - il fatto che fino a ora quelle indagini non sono state svolte, e che il fascicolo contro ignoti aperto all'epoca dei fatti non è stato seguito in alcun modo».

Con quale caso andiamo avanti?

«Con quello di Stefano Cucchi, per cui la Corte d'Assise di Roma ha chiesto una nuova perizia».

Per stabilire cosa?

«Per rispondere all'interrogativo che, da parte dei familiari di Stefano e da parte nostra, si continua a porre e al quale finora la Procura ha dato risposta negativa: c'è una relazione tra le lesioni per cui sono stati imputati tre agenti della Polizia Penitenziaria e la morte di Stefano? Perché fino ad oggi ci si è occupati soltanto delle circostanze immediatamente precedenti il decesso: l'abbandono, la mancata assistenza, l'insufficienza delle terapie? Ma è di tutta evidenza che senza le percosse Stefano Cucchi non sarebbe stato trasferito all'ospedale Sandro Pertini, non si sarebbe trovato in quello stato di prostrazione fisica e psichica e non sarebbe stato sottoposto all'isolamento che ha dovuto subire».

La richiesta di nuova perizia, quindi, è senz'altro una novità positiva.

«Sì, ma ce n'è anche un'altra di segno opposto. Il funzionario responsabile del trasferimento di Stefano Cucchi al Sandro Pertini, che aveva scelto il rito abbreviato e che era stato condannato in primo grado per abuso d'ufficio e favoreggiamento, è stato assolto in appello perché il fatto non sussiste».

E questo cosa significa?

«Significa che a vari livelli viene smontato il circuito che noi avevamo pazientemente ricostruito: avvenuto il pestaggio e constatata la grave condizione fisica di Cucchi, scatta un meccanismo finalizzato ad allontanarlo ed isolarlo attraverso una serie di mosse convergenti. Lo spostamento al Sandro Pertini, l'isolamento dai familiari che cercano per sei giorni di vederlo e di parlare con lui senza riuscirci: vengono rinviati di ufficio in ufficio, finché il padre ottiene il permesso di accedere al Pertini quando Stefano è già morto da qualche ora».

Uno scenario agghiacciante…

«Che si protrae anche nelle ore successive: basti dire che la prima informazione sulla morte di Cucchi giunta alla famiglia consiste in una visita dei carabinieri alla madre: la invitano a porre nel girello la nipotina che ha in braccio, la fanno sedere e le chiedono di firmare dei fogli su cui c'è la comunicazione dell'orario in cui avverrà l'autopsia. L'autopsia di una persona, il figlio, che fino a quel momento lei riteneva ancora viva».

E sulla vicenda di Aldo Bianzino?

«Solo novità negative, purtroppo. Anche se, nonostante la totale iniquità dell'esito finale, dalle udienze a cui è seguita la condanna di un agente della Polizia Penitenziaria per omesso soccorso emerge che certamente quella notte le cose andarono in modo contrario alla legge. Con particolari addirittura inquietanti».

Ad esempio?

«In una delle ultime udienze un consulente di parte ha dimostrato che per anni nell'attribuire la morte di Bianzino a cause naturali si è partiti da un falso: l'aneurisma cui è stata attribuita la causa del decesso è stato evidenziato, per tutto questo tempo, da un cerchio rosso tracciato su una foto della lastra del cervello di Bianzino. In quella lastra, però, non c'era alcuna traccia dell'aneurisma».

Sembra incredibile.

«Eppure è documentato in modo incontrovertibile, ma non ha cambiato l'iter del processo perché in quella sede si giudicava solo l'omissione di soccorso».

Facendo un passo indietro, cosa unisce queste tre storie, al di là dei particolari che caratterizzano ognuna di esse?

«Certamente il fatto che uomini e apparati dello Stato che avevano in custodia dei cittadini, e che avrebbero dovuto considerare sacra la loro incolumità, hanno violato l'habeas corpus e il principio fondamentale della tutela dell'integrità fisica dell'individuo nelle loro mani. Come del resto avviene per altre decine, per non dire centinaia, di casi dei quali si parla molto poco».

Uno per tutti?

«La vicenda di Luciano Isidoro Diaz, che nel 2009 viene fermato per un controllo stradale e, a seguito del pestaggio subito, perde la vista totalmente ad un occhio e parzialmente all'altro. Un mese fa un carabiniere viene condannato a due anni e tre mesi per lesioni gravi, con l'aggravante di averle commesse nella sua qualità di esponente delle forze dell'ordine: ma altri carabinieri sono sotto processo con l'accusa di aver falsificato atti e verbali per insabbiare la vicenda. Inoltre la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere per altri militari, che dunque dovranno rispondere delle violenze di quella notte».

Anche in questo caso le violenza sarebbero avvenute in caserma?

«Sia in caserma che fuori. Diaz ha avuto la forza di denunciare l'accaduto e di andare avanti, anche lui con il sostegno dell'associazione 'A buon diritto' e degli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa».

Un percorso difficile?

«Sì, perché c'è sempre una spessa cortina di nebbia che si oppone all'accertamento della verità quando in fatti del genere sono coinvolti rappresentanti delle forze dell'ordine: mentre sarebbe interesse di tutti mettere in luce quei comportamenti e sanzionarli. Perché il disonore di un certo numero di elementi, non così irrisorio, non finisca per ricadere in modo indiscriminato sull'intera categoria».

AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.

Amanda e Raffaele assolti per non aver commesso il fatto. Buona Giustizia Atto uno, scrive “Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. La Cassazione ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher e tutti i media salgono sulla barca del vincitore. Solo l'opinione pubblica, che ancora non ha capito come funziona il pregiudizio mediatico e quanto siano pronti i giornalisti a cambiare rotta pur di navigare in favore di vento, ha il dente avvelenato e chiede ancora la forca per i due ragazzi. Alle casalinghe di Voghera questa assoluzione resterà in gola, perché convinte dai guaiti di quei cagnolini che si accucciano sugli zerbini della procura in attesa di notizie colpevoliste da abbaiare sui video. E pensare che bastava fare due più due per capire che tutto era sbagliato, che tutto era solo l'enorme bluff di una procura che senza attendere gli esiti delle analisi tecniche aveva appoggiato troppo presto la sua lunga mano su due studenti che cercavano di aiutarli. Dopo sette anni e mezzo finalmente si chiude in maniera seria uno dei tanti capitoli di giustizia ridicola che sta infestando il nostro Paese, dove troppi magistrati pescano un colpevole e gli costruiscono addosso una gabbia di cartone, dipinta di color ferro, e usufruendo dell'aiuto mediatico convincono il popolo che la loro logica scadente è la migliore. Ma non è così, non può essere che la verità sia illogica e questa sarà una sentenza che servirà a mettere in riga i troppi magistrati che si sentono potenti e invincibili. Da ora in avanti, dice la Cassazione con questa assoluzione, chi inventerà storielle senza avere in mano nulla di serio, pur di mandare in carcere l'imputato preferito, non verrà coperto, ma lasciato solo a gestire il dopo sentenza. In quel frangente sarebbe il caso che qualche giornalista pubblicizzasse gli errori dei magistrati, così da non permettere che possano far carriera nonostante abbiano dimostrato di sbagliare grossolanamente... perché ancora il sistema non è pronto a decidere cosa farne della sua costola che si incrina. Infatti in questo caso, se non ci saranno giornalisti a criticare, il dopo cosa prevede? Nulla di nulla. E' chiaro che Rudy Guede è l'unico plausibile assassino, anche se è stato condannato perché ha partecipato all'omicidio e non per averlo commesso. Fra pochi mesi, alla faccia di tutti, sarà ugualmente libero di girare fra noi perché nessuna giustizia potrà cambiare le carte ormai cristallizzate. I procuratori non avranno conseguenze perché, come gli oncologi, sono liberi di seguire il loro istinto investigativo e, quindi, di sbagliare a discapito della vita altrui. I tecnici che hanno periziato non contano più niente, nessuno andrà da loro a chiedere il motivo per cui hanno lavorato in maniera scadente o scritto cose poco vere. I poliziotti presenti all'interrogatorio della Knox, che hanno anche visto una sensitiva assistere agli interrogatori, non dovranno neppure giustificarsi. Hanno fatto il loro lavoro. Sono militari: qualcuno più alto in grado ordina e loro ubbidiscono senza fiatare. Questa è la regola. Chi della sentenza si lamenterà è la parte civile che, purtroppo in questo caso come in altri, invece di restare al centro o cercare di fare indagini proprie senza lasciarsi influenzare dalle carte di chi vuole arrivare a una condanna, si adagia a corpo morto alla procura che mai le fornirà notizie o informative contrarie alla propria tesi colpevolista. La procura ha detto che più persone hanno ucciso Meredith, quindi la famiglia Kercher si aspetta che più persone vengano condannate. Poco importa come e con quali motivazioni. Poco importa se per un gioco erotico o perché Guede non ha voluto pulire il bagno. La condanna è ciò che vuole l'accusa e, di conseguenza, ciò che vuole la parte civile. Che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema è facile da capire, che ci sia da lavorare per dividere le carriere dei magistrati e per modificare certe congiunture (parte civile-procura) che ora lavorano in coppia anche. Perché le teste se lavorano in gruppo non ragionano in maniera autonoma... e la giustizia per funzionare al meglio ha bisogno di poca amicizia fra le parti.

Sotto a chi tocca. Oggi in carcere ci sono Veronica, Sabrina, Massimo e tanti altri, ma se il sistema giustizia non cambia domani l'inferno potrebbe toccare anche a noi... Il dottor Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, durante la "stagione storica" che tutti conosciamo col nome "mani pulite" - usò lo strumento che ancora utilizzano tanti procuratori per intimorire gli indagati e ottenere confessioni: la custodia cautelare in carcere. Detto questo, però, tempo dopo fu lui uno dei magistrati che, nonostante la legge gli consenta l'uso di tale strumento di tortura, fece autocritica dicendo che non sempre quanto dallo Stato è considerato legittimo è anche necessario e opportuno. Onore a lui, anche per quanto ha dichiarato dopo la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Non ha peli sulla lingua il dottor Norbio e non si è fatto scrupolo di dire che: "Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare, dev'essere buttato fuori dalla magistratura". Fatta questa premessa, parliamo di chi ha spedito in carcere persone che si proclamano innocenti nonostante gli indizi non siano sufficienti a suffragare un sequestro di stato. Ne parliamo perché troppo spesso capita di trovare persone mandate in carcere da magistrati che sbandierano una ricostruzione ad hoc, ma poco credibile, basata su indizi e perizie che solo all'apparenza sembrano concordare. Massimo Bossetti, ad esempio, è in carcere esclusivamente per colpa di uno strano Dna che non solo non doveva trovarsi su un cadavere esposto alle intemperie nei tre mesi invernali, ma che contiene anche stranezze non propriamente spiegabili. Il resto, gli indizi a contorno che escono dalla procura e tanto vengono pubblicizzati ogni volta che la difesa cala una buona carta o ha un appuntamento con un giudice, sono fronzoli sistemati a modo e adattati in un secondo tempo. D'altronde, la nuova moda adottata da molte procure moderne consiste nell'arrestare il colpevole predestinato prima di svolgere indagini. Indagini che si portano avanti ad personam in un secondo tempo, quando è facile adattarle al predestinato di turno (ma anche a qualsiasi altra persona). E' indagando a posteriori che si può smazzare il mazzo e cambiare in corso d'opera le carte già sistemate sul tavolo. Come si è fatto con Sabrina Misseri, arrestata perché coinvolta da suo padre in un delitto colposo avvenuto in garage mentre lui dormiva sulla sdraio in cucina. Questa ricostruzione "convincente" è stata avallata da un Gip e cristallizzata dai giudici in un incidente probatorio durato dieci ore. Peccato per la giustizia con la G maiuscola che tanti mesi dopo Sabrina Misseri sia stata rinviata a giudizio e processata per un assassinio avvenuto in cucina mentre il padre, che nella nuova ricostruzione non dormiva più sulla sdraio, si trovava in garage. Ma come? E la ricostruzione convincente avvallata da tanti giudici? Chissà che fine ha fatto. E non è l'unica anomalia, visto che per confermare la ricostruzione accusatoria si è usato il sogno che chi frequentava il fiorista conosceva da ottobre 2010. Sogno che è entrato in scena - e diventato irreale realtà - solo ad aprile 2011 quando Anna Pisanò - che girava per Avetrana col registratore fornitole dai carabinieri autorizzati dalla procura - decise finalmente di firmare un verbale con tanto di nome e cognome del sognatore. In poche parole, pare che le procure abbiano imparato bene quel gioco di prestigio in cui i fazzoletti colorati entrano nel cilindro per poi uscirne trasformati in mazzi di fiori. L'ultima vittima di questa nuova procedura è senza dubbio Veronica Panarello, probabilmente arrestata e spedita in carcere perché convinti di ottenere una rapida confessione (così da chiudere in velocità un caso mediatico troppo invadente). Contro di lei non c'è un Dna degradato, ci sono una serie di filmati, alcuni degradati, che riportano orari sballati. Solo quelli, nulla di più. Eppure son bastati per convincere un procuratore a far arrestare la madre di Loris e a far scrivere ai giudici che si tratta di una assassina immonda, altamente pericolosa che potrebbe reiterare il reato, scappare dall'Italia o inquinare le indagini. Cappero che filmati esaustivi hanno in procura! Che abbiano filmato l'assassinio? Ad Avetrana nei tre mesi successivi all'arresto di Sabrina Misseri si modificarono le testimonianze della prima ora. Testimonianze concordanti. Ad esempio, si spinse sulla coppia di fidanzati che videro Sarah per strada alle 14.30 - e cronologicamente questo era un orario molto compatibile con quello da subito fornito dalla famiglia Scazzi e dalla badante rumena che avevano parlato, e firmato a verbale, di un'uscita da casa a ridosso proprio delle 14.30 - affinché cambiassero l'ora dell'avvistamento. E lo stesso trattamento si riservò ad altri. Cosicché le indagini postume all'arresto di Sabrina Misseri riuscirono nel miracolo di limare quella mezzora che impediva la ricostruzione colpevolista. Tutti sappiamo che gli aggiustamenti ci furono, perché fu proprio un testimone a dichiarare in televisione che i nuovi orari li aveva ricostruiti assieme e grazie ai procuratori. E su questa affermazione è meglio stendere un velo pietoso. A Santa Croce Camerina si sta cercando di fare la stessa cosa? Probabile, dato che un agente della municipale aveva da subito dichiarato di aver visto Veronica Pannarello e la sua auto passare a pochi metri dalla scuola sulle otto e trenta o poco più. La sua testimonianza era concordante al 100% con quanto dichiarato dalla stessa Panarello, ma già nella richiesta d'arresto i procuratori scrissero che al secondo e terzo interrogatorio la persona in questione aveva modificato la sua versione non mostrandosi più sicura come all'inizio. Però il motivo di quella insicurezza è facile da capire, dato che di certo chi l'ha interrogata le ha sbandierato in faccia una nuova verità fatta di telecamere e filmati che parevano smentirla. Ma, c'è da chiedersi, quei filmati saranno davvero sicuri o saranno sicuri come quel testimone che inizialmente alla procura di Palermo non volevano vedere neppure in fotografia e finì per essere utilizzato dalla procura di Caltanisetta? Quello che Ilda Bocassini e altri bollarono a bugiardo cronico e che invece, grazie anche al procuratore Petralia, che ora segue in prima persona il caso dell'omicidio di Loris Stival ma che al tempo lavorava a Caltanisetta, diventò la bocca della verità in grado di far condannare delle persone all'ergastolo (dopo 16 anni di carcere liberate con tante scuse nel 2011) e di depistare tutta l'indagine sulla strage di via D'Amelio? Il pentito non pentito ma pentito si chiama Vincenzo Scarantino e per tutti era un criminaletto da strapazzo a cui piaceva violentare commesse (e aveva una moglie e tre fidanzati trans) che poco ci azzeccava con la mafia. Per tutti... ma non per alcuni procuratori e per chi si occupava delle indagini. Procuratori, uno proprio Carmelo Petralia, che si avvalsero delle indagini di un pool di poliziotti che a causa del loro modo di indagare stanno subendo un processo che li vede accusati di aver costruito prove false (ancora il processo non è concluso, ma vedrete che saranno tutti assolti) e costretto il pentito non pentito (e i suoi amici) a fare dichiarazioni false. Fra questi, certamente lo ricorderete perché venticinque giorni prima della scomparsa di Yara Gambirasio divenne Questore di Bergamo e fu lui a seguire le indagini sulla scomparsa e sulla morte della ragazzina di Brembate Sopra, un giovane Vincenzo Ricciardi affiancato, al tempo, da un altrettanto giovane Mario Bo. Quest'ultimo, diventato poi dirigente della squadra mobile in quel di Gorizia, è finito a processo per "falso". Processo che in questi giorni è alle ultime battute e che ha posto fine alla sua carriera. C'è da dire che anche la carriera di Vicenzo Ricciardi poteva interrompersi pochi mesi fa, quando fu indagato e rischiò di finire a processo. Insomma, come la giri la giri siamo sempre alle solite. Sempre a chiederci a cosa e a chi dobbiamo credere. A chiederci se le indagini sono sempre genuine oppure...Dobbiamo quindi credere ad occhi chiusi a un procuratore che fa di tutto per chiudere velocemente un "caso spinoso" (d'altronde lo ha fatto anche quando si è fidato del pool investigativo di La Barbera e delle parole estorte a Vincenzo Scarantino), o dobbiamo credere a una madre a cui hanno ucciso un figlio e che nonostante i mesi trascorsi in carcere continua a proclamarsi innocente? Veronica potrebbe essere colpevole? Se qualcuno porterà prove "genuine" tutti ci crederemo. Per il momento continuiamo a chiederci il motivo per cui sia in carcere. Esiste davvero un motivo... oppure è reclusa a causa di un sistema giustizia che si avvolge e si chiude in se stesso e invece di vagliare al meglio gli indizi, a favore e contro, si protegge isolando la difesa e adeguandosi alle conclusioni di chi ha indagato e della procura? La domanda è logica, perché gli esempi che portano a questa conclusione sono tanti dato che in tanti casi i Gip e i giudici si sono appiattiti alle procure. Inseriamo la mano nel sacchetto degli errori giudiziari e prendiamone uno a caso. Parliamo del grossolano sbaglio di valutazione di uno stimato magistrato che tante importanti inchieste sta portando avanti negli ultimi anni. La dottoressa Assunta Cocomello che opera in stimate istituzioni romane. Fu lei nel 2011 a chiedere il rinvio a giudizio di Josè Alberto Cadena Ruiz per aver ucciso, nel dicembre 2008 - secondo la sua procura durante un rapporto sessuale estremo - Graciela Carbo Flores. Lo chiese nonostante José avesse un alibi. Mentre Graciela moriva lui era dall'altra parte di Roma, a trenta chilometri da lei, con tre amiche che inizialmente testimoniarono in suo favore. Poi due ebbero paura e si defilarono. Ne restò una che ribadì sempre la stessa storia...Ma, ormai s'è capito, poco importano i testimoni che forniscono alibi quando una procura ha un disegno chiaro in mente (come dimostrano le condanne di tanti testimoni della difesa). Così la sua amica da testimone a favore diventò parte attiva del crimine e fu incriminata per favoreggiamento. José era già in carcere al momento della richiesta di rinvio a giudizio, nonostante la logica non volesse un'incriminazione perché la situazione che aveva generato la morte, il rapporto sessuale estremo ipotizzato dalla procura, non esisteva proprio. Infatti gli accertamenti provarono che Graciela non aveva avuto alcun rapporto sessuale prima di morire. E questa sicurezza toglieva valore alla ricostruzione della procura e avrebbe dovuto impedire un qualsiasi arresto. Così si cambiò leggermente il movente, e si insinuò che ci fossero screzi fra José e Graciela. Ma Graciela aveva una malattia cronica che l'obbligava a recarsi spesso in ospedale, e in fondo non era difficile capire che la povera donna era morta di morte naturale a causa del complicarsi della malattia e che i leggeri segni sul collo erano riferibili al foulard che sempre indossava aderente (come testimoniato da quelli che la conoscevano). Infatti, "morte naturale" fu la diagnosi che si fece al ritrovamento del cadavere (constatata anche dalla Polizia Scientifica). Il problema nacque dopo, quando un perito incaricato dalla dottoressa, unico fra tanti, sbagliando clamorosamente scrisse che la donna era stata strangolata. Vabbé, dirà il lettore, una svista del genere sarebbe stata semplice da smontare per la difesa. Quando uno sbaglio è clamoroso è facile da smentire. Per cui, se nonostante tutte le garanzie che esistono in Italia l'imputato non fu scarcerato, significa che in fondo in fondo qualcosa di criminale aveva fatto. Che la difesa non aveva nulla (che servisse a scagionarlo) da portare a discolpa ai giudici. Nessun magistrato metterebbe in carcere una persona incensurata senza averne motivo. Ecco il ragionamento che fa la gente quando viene a sapere di un arresto. Il luogo comune vuole che chi finisce in carcere qualcosa abbia commesso di sicuro. E' un ragionamento che a priori non è sbagliato perché si fonda sul fatto che le indagini e gli accertamenti non sono in mano a una sola persona o una sola istituzione. Infatti, la giustizia pretende che a indagare siano le forze dell'ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza ecc...) che poi devono riferire a un procuratore  (quello di turno al momento del crimine) che ordina nuove indagini e si affida a suoi periti (anche esterni) e dopo aver trovato e vagliato prove o indizi ipotizza una ricostruzione del crimine e presenta una richiesta di arresto al Gip - che solo dopo aver a sua volta verificato la logicità del quadro accusatorio e delle prove portate dal procuratore decide se arrestare oppure no. Insomma, un indagato non va mai in carcere per colpa di un singolo. E se ad andare in carcere è un innocente, significa che c'è stato un concorso di colpa che ha coinvolto molte "persone perbene e stimate". Compreso quel giudice che alle persone stimate ha creduto a prescindere dalla logica che hanno usato nelle indagini e nelle ricostruzioni. Per questo sui media si può leggere, a fronte di un omicidio che non c'è stato, che una coppia di amanti diabolici è stata finalmente arrestata. Per tornare al povero José Alberto, anche in quell'occasione il Gip si adeguò alle conclusioni colpevoliste della procura. E a lui si adeguarono i giudici del tribunale del riesame, cui il difensore portò tutto ciò che serviva per scarcerare il proprio assistito. Tribunale del riesame che invece di scarcerare José - perché come dicevano tanti periti non c'era alcun omicidio ma si trattava di una morte naturale - si complimentò per il lavoro certosino svolto sia dalla procura che dal Gip e decise che l'imputato era un essere immondo, un assassino altamente pericoloso che avrebbe potuto sia inquinare le prove, sia reiterare il reato, sia fuggire all'estero. Solo nel 2013 - nel frattempo l'imputato aveva trascorso due anni e mezzo in carcere - un giudice si attivò per scarcerarlo in quanto, scrisse nelle motivazioni, "il fatto non sussiste dato che non ci fu alcun omicidio". E la Procura, che nel frattempo aveva cambiato i procuratori, neppure impugnò la sentenza tanto era pacifico e chiaro che José Alberto non fosse un assassino. E tutto finì così, senza neppure le scuse di chi aveva imbastito un quadro accusatorio immaginario né quelle di chi quel quadro ridicolo lo aveva accettato chiudendo un innocente in cella per due anni e mezzo. No problem José, chiedi (un rimborso milionario allo stato italiano) e ti sarà dato... tanto i sudditi del Bel Paese pagano volentieri per gli errori dei loro magistrati e dopo aver pagato continuano ad essere contenti e a sproloquiare contro chiunque venga arrestato e contro chiunque chieda siano rispettate le giuste regole. Lo fanno quando leggono i giornali, quando ascoltano gli opinionisti e gli pseudo criminologi televisivi lavorare pro' procura e di fronte a milioni di telespettatori accusare di omicidio, senza avere alcuna prova in mano, chi si dichiara innocente. In fondo José, il tuo è solo uno dei tanti errori giudiziari che capitano giornalmente in Italia a causa di "qualche persona stimabile". In fondo tu alla fin fine hai trovato un giudice capace e grazie a lui sei restato in carcere "solo" trenta mesi... tu dall'inferno ne sei fuori José, pensa a chi ci è appena entrato o a chi ci vive da anni e non sa se mai ne uscirà...

RAFFAELE E' STATO AIUTATO DAL SIGNORE IDDIO!

Raffaele Sollecito in chiesa in attesa della sentenza: le mani giunte e gli occhi al cielo. Delle immagini inedite che mostrano Raffaele Sollecito poco prima della sentenza con cui la Cassazione lo ha definitivamente assolto, insieme ad Amanda Knox, per l'omicidio di Meredith Kercher. Dopo un'odissea durata otto anni, di cui quattro spesi in carcere, Raffaele può riprendere la sua vita da uomo libero. E poco prima di scoprire quale sarebbe stato il suo destino, come mostrano questi scatti proposti da Diva e Donna, Raffaele si era rifugiato in una chiesa, a Roma, per pregare in attesa della sentenza. In una delle immagini lo si vede pregare, solo, su una panca. L'espressione del volto è tesissima: da lì a poche ore Sollecito sarebbe potuto finire in carcere. Rischiava una condanna pesantissima, che lo avrebbe costretto al carcere fino a 56 anni. Ma le sue preghiere, con gli occhi al cielo e le mani giunte, sono state esaudite. Assolto.

OSSESSIONE AMANDA.

Ossessione Amanda. È sospettata di aver ucciso Meredith. Eppure ha scatenato la fantasia e la morbosità mediatica. Con schiere di fan. Il parere di uno psichiatra, scrive Enrico Arosio su “L’Espresso”. L'Angelo Demone e l'Uomo Nero. Il truce feuilleton multimediale di Perugia si semplifica e si complica al tempo stesso. L'Uomo Nero ora è il secondo, il Rudy Hermann Guede, 21 anni, ivoriano, arrestato in Germania; mentre il primo, Diya 'Patrick' Lumumba, nelle stesse ore ha ottenuto la scarcerazione dal magistrato. Ma l'omicidio di Perugia, il crudo omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, è ancora tutto da chiarire. E Amanda Knox (ma il cognome pochi lo ricordano), la sospettata principale (finora) non ha finito di stupire, turbare, emozionare tanti giovani italiani. Addirittura di affascinarli. Lo testimoniano i messaggi di simpatia e ammirazione per lei, l'americanina bionda dal viso angelico, ma anche bugiarda ed esibizionista, che girano da giorni nell'immenso frullatore di Internet. E pensiamo allo strano delitto di Parigi compiuto pochi giorni dopo da una ragazza inglese di buona famiglia, che ravviserebbe elementi di emulazione della vicenda di Perugia. È normale o abnorme il fascino di Amanda presso quella parte di pubblico che ne segue la vicenda giorno dopo giorno, come ipnotizzato? Lo abbiamo chiesto a uno psicoanalista e psichiatra molto navigato, Giorgio Abraham, che vive ed esercita a Ginevra.

Dottor Abraham, da dove scaturisce questo fascino ambiguo di Amanda?

"Per rispondere vorrei partire dal concetto di dipendenza. Emotional addiction, dipendenza dalle emozioni. O anche: le emozioni come droga. Questa è una chiave per provare a capire".

Le emozioni come droga?

"Di droga classica a Perugia ne è circolata parecchia, tra i protagonisti della vicenda. La droga viene assunta per provare sensazioni. Ma qui entra in campo qualcos'altro, la droga da emozioni: è una ricerca sempre più diffusa, nel sesso, nel gioco d'azzardo, negli sport estremi. Ho avuto in terapia non solo soggetti con varie forme di dipendenza sessuale, ma anche patiti del bungee-jumping che mi dicevano che la botta di adrenalina del salto nel vuoto è molto più forte della miglior pratica sessuale. Ecco, anche a Perugia è in gioco la droga da emozioni. Emozioni negative: paura, violenza. Ma anche la colpevolezza è una droga potente. Molto più dell'euforia".

La colpevolezza una droga? Per i protagonisti o per il pubblico che segue?

"Buona domanda. Intanto dico questo: Amanda che dà la colpa al Lumumba, che mente alla polizia, che cambia versione, confonde le acque, non è così distante dall'infanticida che si mette alla ricerca del cadavere insieme ai soccorritori. Amanda sembra giocare con la colpevolezza: vera o presunta, o solo complicità. È qualcosa che ricorda il delitto di Cogne, o la scomparsa della bambina inglese in Portogallo. E il pubblico italiano, in parte, partecipa a questo gioco eccitante. C'è forte ambiguità, in Amanda, in come si contraddice. E poi i vent'anni, la droga, gli amici, le notti. Il tutto tiene viva l'attenzione".

Il fascino del male? È questo che ci turba?

"Il fascino del male, o la sua banalità".

Perché Amanda ha ammiratori? Viene in mente Pietro Maso, il ragazzo veronese che aveva ucciso i genitori e sin da subito ricevette lettere d'amore in carcere.

"I messaggi che le arrivano credo siano di due tipi. I primi dicono: povera Amanda, ti credo, sei un angelo, non puoi essere stata tu, sei vittima dell'errore giudiziario. I secondi: sei eroica, sei figlia del nostro tempo, hai la forza di sopportare la colpa, il male che hai inflitto. L'idea di colpevolezza è la droga emozionale che eccita chi le invia la sua solidarietà".

Non è aberrante?

"Forse. Ma meno raro di quanto si pensi, quando c'entra la sessualità".

Cioè?

"Se guardo alla mia pratica clinica, un quadro sessuologico frequente è la donna che si lamenta della propria scarsa reattività sessuale. E che a volte racconta che solo fantasie violente, come l'essere presa con forza da uno sconosciuto di notte e costretta a pratiche estreme, la portino a vera eccitazione. Al tempo stesso vive queste fantasie con disagio, ecco perché ricorre al terapeuta. La forte dose di paura, insieme alla rabbia di non poter reagire, è moneta corrente per un sessuologo. Questo per dire come fantasie e paure non siano rarità, né aberrazioni".

Qui parliamo di ragazzi di vent'anni appena. Vorremmo associarli alla freschezza, alla gioia, alla scoperta.

"Ma a vent'anni, l'età di Amanda, Meredith, Rudy, Raffaele, c'è molta confusione sessuale. Più di prima. Una volta c'era la proibizione a fungere da stimolante. Oggi il consumismo sessuale, l'apparente facilità di appagamento porta ad alzare sempre più l'asticella. Vale già per gli adolescenti, dove si registrano nuovi livelli di violenza e crudeltà, individuali e di gruppo".

Qual è l'archetipo, l'Angelo Demone? Un amico di Meredith, la vittima, ha definito così Amanda: "Sembrava una ragazza normale, ma sotto sotto si capiva che era una selvaggia".

"Eh, stiamo attenti, stiamo attenti agli angeli".

Che cosa vuole dire?

"Pensiamo alla Principessa Diana. Al suo culto post mortem. Ma ricordiamo che è morta insieme al suo amante in un incidente stradale; sul quale peraltro si sono espressi dubbi, l'omicidio, i servizi segreti, eccetera. C'è la testimonianza del soccorritore che le tenne la mano, le ultime parole, My God, my God. È per paura che invoca Dio, o per colpa?".

Tornando ad Amanda...

"Il viso d'angelo di Amanda è un po' il viso di Perugia, città graziosa, civile, città della gioventù, del dialogo, dell'amicizia. Ma è un viso che cela sottofondi tumultuosi. Amanda appare ambigua come l'Angelo Caduto, più che il Demone, e l'Angelo Caduto è Lucifero...".

Ed ecco servito il romanzo popolare, il noir postmoderno. C'è pure l'Uomo Nero, l'antagonista su cui scaricare la colpa. Prima Lumumba, poi Rudy.

"Dare la colpa all'Uomo Nero: facile, lei dice?".

Facile provarci. Erika e Omar, a Novi Ligure, diedero la colpa agli albanesi. La Franzoni, a Cogne, prima al matto del paese, poi alla vicina montanara.

"Certo anche l'Uomo Nero è un archetipo. Per noi. La conosciamo fin da bambini, la paura dell'Uomo Nero. Poi magari è peggio la donna bianca. Qui a Perugia lo vedremo. Prima sembrava lo zairese, ora tocca all'ivoriano. Cosa facevano tutti intorno ad Amanda quella notte, oltre alla povera vittima?".

Dottor Abraham, alla fine che giudizio dà del voyeurismo del pubblico in questo caso così spinoso?

"Penso che da un lato questo attaccamento sia una reazione, diciamo così, malsana: la partecipazione corale a un delitto, o addirittura l'attrazione per chi vi ha partecipato. Dall'altro può essere una reazione utile. Noi assistiamo alla crudeltà altrui, loro recitano, noi stiamo in platea. Ne siamo fuori, ne siamo salvaguardati, vediamo dove porta la cattiveria. È un dramma dell'Homo connectus, immerso in un flusso continuo di immagini. Un grande delitto è anche una forma di teatro pubblico. Un gioco collettivo".

I media esagerano? Hanno una colpa? O fanno solo il loro dovere, in quest'epoca dell'Homo connectus?

"Non vorrei rispondere con un giudizio morale, ma con un giudizio, come posso dire, estetico".

Davvero?

"Ma sì. Io dico che i media devono fare rumore, è nella loro natura. Cronache esagerate, troppo morbose possono infine rivelarsi grottesche, e quindi dannose per gli stessi media. Una cosa lenta, raffinata, raccontata anche a lungo, può intrattenere meglio, e dare un vantaggio".

Lei è un bel cinico, dottor Abraham.

"Forse sono solo realista".

L'attrice che interpreta Amanda Knox: "Io, solidale con Meredith". L'attrice Genevieve Gaunt: "Non sono un giudice per biasimare Amanda Knox, il personaggio che rappresento. Ma provo grande empatia per Meredith", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Amanda Knox contro Amanda Knox. L'attrice che interpreta la ragazza americana accusata dell'omicidio di Meredith Kercher nel film "The Face of an Angel" confessa di provare "grande empatia" nei confronti della famiglia della studentessa inglese massacrata a Perugia nel novembre di otto anni fa. La bella Genevieve Gaunt, nata nel 1991, è stata fra le protagoniste del film di Michael Winterbottom, uscito nelle sale l'anno scorso. L'attrice ha spiegato di aver accettato la parte nella speranza che il film possa ricordare agli spettatori la tragica fine di Meredith, dopo anni in cui i media si sono concentrati, a suo dire, solo sulle vicende giudiziarie di Amanda. "Questo è un film in memoria di Meredith. Penso che la gente dovrebbe ricordare la sua innocenza e la sua speranza - e dovrebbe evitare di essere attratta verso la violenza gratuita.Penso anche che le persone possano essere trascinate in un processo per omicidio per le ragioni sbagliate." La Gaunt, d'altro canto, ha puntualizzato di essere "un'attrice e non un giudice", aggiugendo di non avere intenzione di biasimare in alcun modo il personaggio che si è trovata ad interpretare. Eppure l'empatia, la solidarietà, della Gaunt è andata d'istinto a Metz.

LA VERSIONE DI AMANDA

La versione di Amanda, scrive Clizia Gurrado su “Il Giornale”. Può una recensione teatrale delineare il profilo psicologico di chi l’ha scritta? Quando possiamo parlare di  bocciatura premeditata? E’ opportuno cimentarsi in indagini preliminari e possedere mansioni specifiche di laboratorio per attestare l’onestà di chi stronca un attore o ne osanna un altro? Si possono fare comparazioni balistiche tra repliche e debutti? Tutto questo per introdurre lo scoop del giorno: ho scoperto una nuova firma nel vasto panorama dei critici e delle penne teatrali online e cartacee. Non so se indovinerete il suo nome facilmente perché oggi di teatro scrivono un po’ tutti. Ma in questo caso sto parlando di una collega che scrive senza sviste, lapsus ed errori grossolani e che per mia fortuna lo fa dall’altra parte del mondo, per la precisione nella lontana West Seattle. Così la temuta concorrenza è eliminata in partenza. Ci siete arrivati?  Non ancora? Coraggio, vi sollecito a rispondere in fretta.  Sto parlando di Amanda Knox. Sappiamo che oggi conduce una vita normale, è di nuovo innamorata, è una collaboratrice freelance del West Seattle Herald e ha frequentato una scuola di scrittura creativa a Washington. Non dimentichiamo che è anche l’autrice del best-seller Waiting to be heard, il memoir che ha visto le stampe nel 2013. Per me è stata una sorpresa, non sapevo che si occupasse di teatro. Così ho voluto leggere subito le sue recensioni. Non per niente sono una persona incredibilmente curiosa. Andate anche voi a questo indirizzo http://www.westseattleherald. com.  e nello spazio “search” digitate il nome e il cognome della fanciulla americana. Confesso di aver letto i testi di Amanda con un occhio particolare, come se fossi alla ricerca di un indizio, di una traccia di dna, di reperti  biologici. Ho iniziato controllando alcune prove organiche su un avverbio, su un sostantivo, poi ho notato un accento forse spostato dalla scena grammaticale originale. Ho controllato la data del decesso di un’interrogativa, campioni di virgole e di punti esclamativi. Devo dire che ho visto subito il buongiorno, già dalle prime righe. Amanda descrive con precisione scenografie e ambienti, si sofferma sui particolari, analizza con cura i testi, parla degli attori e dei personaggi con competenza, virgoletta dichiarazioni di interpreti e autori, non ritratta mai i giudizi, riesce a essere spiritosa e anche onesta (“durante una lezione puo’ capitare di addormentarsi…” scrive nella recensione dello spettacolo Chinglish che ha visto qualche settimana fa – “if you’re going to slip and fall, as we all inevitably do sometimes…….”), ma non so cosa scriverebbe di uno spettacolo annullato all’ultimo minuto senza rinvio. Adesso poi che è stata giudicata “not guilty” e che ha avuto una condannata solo per calunnia, sono sicura che le sue recensioni saranno giudicate ancora più autentiche e credibili: nessuno dubiterebbe della sua presenza alla replica di una commedia o di un monologo all’Arts West Theater, anche quando invece se ne sta pigramente sul divano di casa col fidanzato come, ahime, fanno molti nel nostro paese, che scrivono di teatro senza vedere gli spettacoli.  E senza avere un fidanzato o fidanzata. C’e solo un problema: se fossi uno spettatore congolese, a Seattle per lavoro o per turismo, non vorrei avere un posto in platea vicino alla Knox.

Amanda Knox dopo la sentenza: "Grido la mia innocenza da anni". In un'intervista a Chi ringrazia chi ha creduto in lei. "Non me l'aspettavo, ma ho atteso tanto questo momento", scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. La sentenza definitiva è arrivata pochi giorni fa: Amanda Knox non è colpevole per l'omicidio di Meredith Kercher, trovata morta a Perugia nel 2007. E la giovane americana, in una intervista a Chi, non nasconde di essere sollevata dalla decisione della corte. "Non me l'aspettavo - ammette -, ma l'ho sognato tante volte". E ringrazia chi ha creduto in lei, "quando tutti erano contro" e la pensavano colpevole dell'omicidio. Sul numero del settimanale anche un'intervista a Raffaele Sollecito, accusato come lei per la morte di Meredith. "La prima cosa che voglio fare è andare in questura a chiedere che mi restituiscano il passaporto", ha detto l'uomo. Il documento gli era stato ritirato quando si temeva che potesse darsi alla latitanza. Anche se lui ribadisce: "Io da Santo Domingo e dalla Svezia sono tornato per presentarmi al processo. Il sospetto che fuggissi faceva comodo".

RAFFAELE SOLLECITO: NON CHIAMATEMI MAI PIU' ASSASSINO.

Raffaele Sollecito ai giornalisti: «Non chiamatemi mai più assassino». La conferenza stampa con gli avvocati, a Roma: «Questa sentenza doveva finire così, ora ritorno alla vita normale». L’avvocato Bongiorno: «Valutiamo richiesta danni», scrive “Il Corriere della Sera”. «Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato: senza il loro supporto non avrei avuto la forza di arrivare fino a qui. Ringrazio in particolare mio padre, i miei avvocati e i miei familiari». Dopo l’assoluzione per il delitto di Meredith Kercher, Raffaele Sollecito ha parlato con i giornalisti durante una conferenza stampa a Roma. «Mi sento come un sequestrato tornato alla libertà», ha detto. «Il mio sequestro è stato insopportabile. Sono stato additato come un assassino senza uno straccio di prova. La mia famiglia è stata fatta a pezzi, sbriciolata. Non è vero che non mi aspettavo questa sentenza: questa vicenda doveva finire così». Adesso, ha detto il ragazzo, «Non accetterò più di essere definito “assassino” e sono pronto a tutelare la mia immagine nelle sedi opportune», ha avvertito, raccomandando ai cronisti: «Attenetevi ai fatti, massima cautela». «Ora valuteremo la richiesta di risarcimento». Nei prossimi giorni «valuteremo la richiesta di risarcimento» ha annunciato l’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno. «Non ci sono sentimenti di vendetta nel suo animo», ha aggiunto. «Aspetteremo le motivazioni. Non frusteremo chi ha sbagliato. Vedremo se ci sono stati degli errori e che iniziative intraprendere. La responsabilità civile - ha concluso - è un istituto serio, che non va esercitato con lo spirito di vendetta». «Il momento più bello che ha messo fine a un incubo è stata la chiamata di mia sorella dopo la lettura della sentenza. È stato veramente l’inizio di una nuova vita, il ritorno alla mia normale esistenza e alla possibilità di vivere come un ragazzo della mia età senza più questo fardello che mi impediva di fare progetti e sogni», ha detto Sollecito. «Ho una lista infinita di momenti brutti, sette anni e cinque mesi sono un tempo infinito», ha aggiunto Raffaele, ricordando come «il momento più brutto è stato il mio arresto». «Avevo dato l’allarme io», ha proseguito. «Per me è stato surreale essere incolpato di un delitto così atroce senza avere colpe. La certezza della mia innocenza mi ha consentito di sperare nella giustizia e che mi avrebbe dato ragione. Dopo questa conferenza stampa non voglio più parlare di atti processuali», ha aggiunto poi. Tra me e Amanda solo affetto: così Sollecito ha definito il rapporto che lo legava alla ragazza di Seattle cno lui accusata di aver ucciso la Kercher. «Anche lei ha festeggiato con la famiglia - ha raccontato ancora Raffaele durante la conferenza stampa - e la telefonata si è chiusa con tanti auguri reciproci per la nostra nuova vita». Sollecito ha poi concluso: «Non so se ci vedremo in futuro, ma non ho questo desiderio imperterrito di vederla. La nostra è rimasta un amicizia come tantissime altre e sulla nostra relazione non c’è alcun alone cupo, come è stato detto da molti». Domenica Raffaele e Amanda si sono sentiti brevemente al telefono, dopo un anno di silenzio. «Ci siamo parlati al telefono per qualche minuto», ha detto Sollecito al Sun. «È stato bello sentirla anche se per la maggior parte della telefonata abbiamo pianto. È stato un grande sollievo», ha ammesso ancora il giovane pugliese al tabloid londinese. «Perché tanto odio nei miei confronti?» «Non dimentico», ha detto Raffaele, «che nelle carte processuali ho trovato offese gravissime nei confronti dei miei familiari, ancora oggi mi chiedo il perché di tanto odio. Ho avuto paura perché ho percepito un fortissimo livore nei miei riguardi. Il disprezzo non me lo so spiegare. Ho percepito un sentimento di odio verso me e verso la mia famiglia». Parlando dell’unica persona condannata per il delitto, Sollecito ha detto: «Rudy Guede non lo conosco affatto e quindi non ho nulla da dire su di lui». «C’è una persona che sa come sono andate le cose, perché il delitto è avvenuto per mano di Rudy Guede che è stato condannato con una pena bassissima», ha aggiunto l’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori. «È giusto che faccia sapere cosa è successo, lo deve soprattutto alla famiglia di Meredith». E sulla famiglia di Meredith, SOllecito ha aggiunto: «Mi dispiace tantissimo che la famiglia di Meredith sia delusa e dispiaciuta da questa sentenza ma questa volta la verità processuale coincide con la verità dei fatti. Io non ho nulla a che fare con quel delitto, non avevo nessun motivo per nutrire astio verso Meredith e per rendermi partecipe di un delitto tanto orribile. Spero che loro riconoscano la verità dei fatti». Sollecito ha infine concluso: «Forse scriverò un libro, ora voglio dimenticare. Questa ferita non si rimarginerà mai purtroppo. Ringrazio i giudici che mi hanno risarcito di tante sofferenze, la ferita non smetterà mai di sanguinare, non si cicatrizzerà mai. Sono completamente estraneo a tutta questa vicenda».

Sollecito: «Voglio mezzo milione. Io Forrest Gump? Ha fatto grandi cose». La pm di Perugia: Raffaele e Amanda unici indiziati. I coniugi Kercher sotto choc: «Ma almeno è finita», scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Cinquecentosedicimila euro. È questa la somma che gli avvocati di Raffaele Sollecito chiederanno per l’«ingiusta detenzione». Il giorno dopo l’assoluzione disposta dalla Cassazione, Raffaele è a casa, in Puglia, e nel primo pomeriggio passeggia in riva al mare con la fidanzata Greta Menegaldo, che negli ultimi due anni gli è stata sempre vicina: «Quello che è accaduto a me non deve accadere più a nessuno - dice Raffaele - perché combattere contro una montagna di falsità è inimmaginabile dall’esterno. In questi otto anni ho combattuto senza mai arrendermi ma via via che abbattevo le accuse, altre ne nascevano... Un incubo». Venerdì ha lasciato Roma senza aspettare la sentenza: «Ma non stavo scappando, come si può anche solo pensarlo? Avevo dieci poliziotti con me e poi in questa storia ho sempre messo la faccia, non sono mai fuggito». Uno dei suoi legali, Giulia Bongiorno, l’ha paragonato a Forrest Gump: «È vero che era un ingenuo - sorride lui - ma di certo ha fatto grandi cose...». L’emozione per l’assoluzione è stata immensa: «Sono ancora disorientato, non è facile, sono stati anni duri». Ha sentito Amanda al telefono, in mattinata, ma preferisce non parlarne: adesso, per lui, c’è una nuova vita. Forse andrà all’estero a lavorare, in ogni caso da uomo libero. Sull’ipotesi del risarcimento, invece, si lavora allo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, dove infatti è già stato identificato «il tetto» stabilito per «i casi gravi come questo», oltre mezzo milione appunto. L’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori, sostiene però che la richiesta sarà più alta: «Non c’è solo l’ingiusta detenzione perché ci sono ben altri danni, qui c’è la vita spezzata a Raffaele e la distruzione di un’intera famiglia dal punto di vista morale, materiale e d’immagine. Sarà una cifra a molti zeri». La sentenza che a Raffaele ha «restituito la vita», ha lasciato «sotto choc» la famiglia Kercher. La sorella di Mez, Stephanie, al telefono con il legale Francesco Maresca spiega, almeno in parte, cos’hanno rappresentato gli ultimi otto anni: «Da un certo punto di vista il fatto che il processo si sia chiuso va bene, perché ogni udienza per noi era una ferita al cuore, ogni tappa processuale ha rappresentato per la nostra famiglia il riaprirsi di ferite dolorosissime, e in questo senso il giudizio finale, sia pure per noi con un esito devastante, rappresenta anche un punto fermo». Da Perugia, però, arriva l’incredulità di Manuela Comodi, che ha affiancato il pm Giuliano Mignini nel secondo grado: «Gli unici due indiziati rimangono Amanda e Raffaele perché sulla scena del delitto, oltre loro e Rudy, non c’è traccia di nessun altro. La Cassazione ha smentito se stessa...».

Greta, che ha creduto in Sollecito: «Chi critica non sa di cosa parla». La fidanzata di Raffaele: «Sul web mi attaccano, il mondo reale è molto diverso». Si sono incontrati in aereo, lei hostess lui passeggero. La famiglia la sostiene, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”.

L’amore, a volte, richiede coraggio.

«Per me il momento più difficile è stato sicuramente l’ultima settimana prima della sentenza, sono stata davvero molto in ansia».

Infatti venerdì, qualche ora prima della sentenza della Cassazione, lei Raffaele e la famiglia di lui siete andati via da Roma e siete tornati in Puglia.

«A proposito di momenti difficili, certo: le ultime ore prima della sentenza sono state le peggiori. Però io ci ho sempre creduto, ho sempre saputo che sarebbe finita così...».

Greta, scusi: però non deve essere stato facile. Ha conosciuto Raffaele Sollecito nel 2013 e da allora, per lei, ci sono state anche molte critiche.

«Ci sono tante persone che mi hanno criticata sui social network, ma dopo un po’ di tempo mi sono accorta che sono persone a cui piace vomitare veleno solo per il gusto di farlo».

Le hanno fatto male?

«No, queste persone non hanno alcuna idea delle cose di cui parlano, proprio non ne sanno niente: per questo, sinceramente, non ho mai dato loro alcun peso».

Si sono incontrati a diecimila metri d’altezza, Greta Menegaldo, 32 anni, e Raffaele Sollecito, assolto (definitivamente) venerdì dalla Corte di Cassazione dall’accusa di essere, insieme con l’americana Amanda Knox, l’assassino di Meredith Kercher, nel 2007 a Perugia: lei era in aereo per lavorare come hostess, lui era a bordo come passeggero. Una volta scesi a terra, Greta ha creduto in Raffaele - che da lì a pochi mesi sarebbe stato condannato a venticinque anni dalla Corte d’appello di Firenze, e sul quale pesava già la precedente sentenza della Cassazione - e l’ha fatto in un modo che, forse, ha poco a che vedere con la ragione: senza mai dubitare. I settimanali, per Greta, hanno usato quasi sempre tre aggettivi: «Bella, discreta, elegante». Di certo è una ragazza riservata, perché in questi anni di cupa notorietà non ha mai parlato. Se è finita nelle foto delle udienze, quindi, è per un motivo diverso dal protagonismo: semplicemente, era accanto a Raffaele. Lo è stata in ogni momento, quelli belli come la laurea in Ingegneria informatica e quelli drammatici come la condanna di Firenze a venticinque anni e, negli ultimi mesi, l’attesa della Cassazione. È una trevigiana di Ponte di Piave, con un diploma al liceo linguistico di Oderzo, un lavoro da hostess all’aeroporto di Venezia e, soprattutto, con una solida famiglia alle spalle. Che, in questo amore - per un ragazzo che, tecnicamente parlando, fino a venerdì è stato considerato «un assassino» - l’ha sempre difesa e sostenuta. Sia chiaro, lei non ha mai nascosto la sua storia con Raffaele: a Oderzo, dove lei vive, i due hanno sempre passeggiato mano nella mano. A testa alta, nonostante tutto. Anche se, soprattutto in Italia, il fronte «colpevolista» è stato di gran lunga più compatto di quello innocentista: anche perché, forse, Amanda Knox e Raffaele Sollecito prima di venerdì erano stati assolti una sola volta, nell’appello di Perugia del 2011. Per il resto, cioè per quasi otto anni, c’erano state solamente condanne.

Ha ragione chi dice che per amore di Raffaele lei abbia, in qualche modo, sfidato il mondo? Anche il mondo di una certa provincia italiana, dell’opinione pubblica e, appunto, dei social network...

«Non penso di averlo sfidato, ma semplicemente perché credo che il mondo sia molto diverso da quello che ho conosciuto con le critiche sui social network».

Lei cosa chiede, adesso, alla vita?

«Voglio solamente godermi questi momenti di felicità, di gioia e di vita nuova».

Come sta? E con Raffaele avete progetti per il futuro?

Non risponde, inizialmente. Poi invia un altro sms.

«Sono felicissima».

CHE RAZZA DI INDAGINI...

Le indagini in Italia non le sa fare più nessuno, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista. Edoardo Mori, magistrato in pensione dopo essere stato prima giudice istruttore, poi gip e infine al tribunale della libertà e che adesso gestisce il sito earmi.it dove raccoglie, fra l’altro, errori e orrori delle indagini scientifiche, dice: «I pm che chiedono una perizia alla Scientifica o al Ris sono come quelli che sulla salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino». Marco Morin, fra i maggiori esperti mondiali di balistica: «A volte sono più fondate le ipotesi investigative elaborate dai poliziotti della Digos delle perizie prodotte dai loro colleghi della Scientifica». Giuseppe Fortuni, docente di Medicina legale a Bologna con quattro decenni di esperienza sul campo: «Nonostante tutte le tecniche scientifiche d’indagine si trovano meno colpevoli di prima». Già. Il clamore suscitato dalla sentenza di assoluzione di Amanda e Raffaele non è solo un risvolto della canea giustizialista che vuole il sangue, a ogni costo. È, piuttosto, lo sgomento di lasciare impunito un delitto, di lasciare una vittima senza una qualche giustizia. È una sconfitta dell’accusa, più che una vittoria della difesa, e la differenza non è da poco: non sono innocenti, sono non condannabili. I giudici dichiarano che sulla base delle prove raccolte non sono in grado di accertare una verità. Ovviamente, hanno fatto bene, in questo caso, a scegliere di non condannare senza la certezza di un giudizio. E hanno fatto male a chiudere ogni possibilità di revisione del processo. Per deciderlo, tutto dev’essere ormai così compromesso da non lasciare speranza di accertare alcunché. Come è stato possibile che in otto anni di processi nessuno si fosse reso conto che le prove valevano meno di niente? Viene da pensare, a esempio, che la condanna di Alberto Stasi – anche lui in un’altalena di sentenze – per l’omicidio di Chiara Poggi sia basato su una raccolta di prove ancora più labili di quelle che non sono bastate a condannare Amanda e Raffaele. Viene da pensare che le polemiche su Bossetti e il caso Yara siano ben più che un pregiudizio innocentista o antimagistratura. Viene da pensare che l’aleatorietà del giudizio – «la Cassazione che smentisce se stessa», come è stato detto per Knox e Sollecito – dipenda troppo dalla casualità del giudice cui sei affidato. Dai caratteri del giudice cui sei affidato. Questa però non è la perfettibilità umana dell’indagare e del giudicare. Questo è un pasticcio. L’abilità e la competenza giuridica, la capacità e l’acume di un avvocato come di un pubblico ministero fanno certo la differenza: questo è il principio per cui si dovrebbe garantire a ogni cittadino di avere un’adeguata difesa e non consentirla solo a chi può permettersi di pagare i principi del Foro e i migliori periti. Ci eravamo convinti però – ci avevano convinti però – col nuovo processo e il dibattimento e queste cose qua che tutta la giurisprudenza del mondo, tutta la sapienza giuridica venisse sempre più ancorata al rigore della prova scientifica. Che non fossimo ancora al tempo del processo Bebawi, quando marito e moglie si accusarono l’uno contro l’altra di avere ucciso l’amante di lei e la giuria incapace di dire chi fosse stato davvero il colpevole – se lui, lei o insieme – li mandò assolti entrambi. Due colpevoli di troppo – scrisse Oriana Fallaci. Non ce la bevevamo più, pensavamo. Due colpevoli di troppo sono diventati pure Amanda e Raffaele – uno c’è, è Rudy Guede, nella nuova figura di reato del «concorso da solo». Un colpevole basta e avanza, evidentemente. Non c’entra niente l’abbuffata di telefilm e fiction in cui le squadre dei forensic, la polizia scientifica, con un capello ritrovato in un sifone di lavello o una scheggia d’un faro d’automobile, risalgono all’assassino e al complotto che sta preparando una strage. Fiction, certo. C’entra solo che dalla fisiognomica di Lombroso, che pure nella sua orribile deformazione puntava a rendere scientifica la criminologia, pensavamo di avere fatto dei passi avanti nella tecnologia e nelle tecniche, nell’analisi di una scena del crimine, nella raccolta delle prove. Invece, così non è. Le figure chiave nella soluzione dei delitti rimangono il pentito e l’intercettazione. Ma pentito e intercettazione sono figure ricorrenti nelle associazioni criminali, non nei delitti “qualunque”. Pentito e intercettazione sono elementi “passivi” di un’indagine, e non a caso estremamente problematici. Il pentito confessa le cose più turpi, che servono all’indagine del magistrato, per i suoi scopi, che possono essere una pena ridotta, un cambio di identità, la distruzione di un clan nemico, una qualche vendetta. L’intercettazione, a parte tutte le questioni legate alla loro legittimità e ai loro abusi, ha limiti evidenti: si conversa, si cazzeggia, uno può ingigantire una cosa, per mille motivi, per darsi peso, per pavoneggiarsi, per incutere timore o rispetto, oppure minimizzarli, uno può dire una cosa solo per vedere l’effetto che fa sull’interlocutore, e così via. L’intercettazione non prova un bel niente, proprio come un pentito non prova un bel niente. Non sono fatti inoppugnabili, incontrovertibili, anzi sono sempre reversibili. Nella lotta alle cosche e ai clan, spesso possono consentire chiavi di lettura, possono servire a incrociare dati, a sovrapporre cose apparentemente lontane, proprio perché ci si trova di fronte fenomeni complessi e segreti. Non è così per gli omicidi. Il carattere “passivo” degli elementi-chiave di questi anni – intercettazioni e pentiti – ha finito col produrre una sorta di pigrizia intellettuale nelle indagini, una sorta di “pigrizia investigativa”.

Se si ripercorrono alcuni dei casi più clamorosi e controversi della cronaca “nera” di questi anni, si rimane sconcertati dalla mole di errori nelle indagini. Ora sembra che il Dna risolva tutto, e investigatori e giudici si siano “impigriti”, convinti di avere in mano lo strumento risolutivo. Il Dna è uno straordinario strumento di indagine, ma solo se si seguono rigorose metodologie, dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile. A esempio, nel caso Anna Maria Franzoni e del delitto di Cogne si susseguirono oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto ma solo dopo che per casa c’era stato un gran viavai di persone. Ancora nel caso di Cogne, le indagini non hanno mai portato al ritrovamento dell’arma del delitto. Si è ipotizzato che si trattasse di un mestolo di rame, di una piccozza da montagna, di un pentolino del tipo usato per bollire il latte o di altri oggetti, ma non è mai stata raggiunta alcuna certezza. L’arma del delitto, malgrado le approfondite ricerche non è mai stata trovata. Il professor Carlo Torre, cui era stata affidata inizialmente dalla famiglia Lorenzi la consulenza medico-legale passò diversi giorni nel laboratorio dell’Istituto di Anatomia di Torino per studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue avessero potuto macchiare il pigiama azzurro ritrovato sul letto del piccolo Samuele. Per concludere, che – contrariamente a quanto sostenuto nelle indagini, che ipotizzavano se lo fosse sfilato dopo il delitto – l’assassino non poteva indossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell’indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. E così non era.

Nel caso di Marta Russo i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo.

Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l’ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l’assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c’è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l’ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero – tra i quali un capitano del Ris – espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l’azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l’autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia.

Garlasco: nel settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una “relazione preliminare” che contiene l’accertamento sui pedali di una bicicletta di Alberto Stasi: è stato individuato un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima, secondo il Ris di Parma. Su quei pedali c’è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche il Pubblico Ministero incaricato dell’indagine, che, sulla base di quella relazione, dispone il fermo di Stasi. È il 24 settembre del 2007, quaranta giorni dopo il delitto. Il giorno seguente, il reparto scientifico dell’Arma manda una “nota tecnica” sugli esami del giorno prima: i risultati sono stati comunicati «senza procedere a ulteriori accertamenti». Un giorno dopo la consegna della relazione tecnica la posizione del Ris si fa più sfumata: il profilo genetico relativo alla vittima è solo «con elevata probabilità riconducibile a sangue». Passano altri due giorni e il 27 settembre il consulente tecnico della difesa di Stasi invia le sue osservazioni alla Procura: le analisi del Ris non dimostrano la presenza di emoglobina, quindi non si può parlare di sangue. Il gip considera “insufficienti” gli indizi raccolti e scarcera Stasi. Come si sa, i vari processi hanno poi finito per condannare definitivamente Stasi, e la bicicletta e i suoi pedali – forse non quella, forse non quelli – sono risultati poi determinanti. Più sconcertante era stato il fatto che una settimana dopo il delitto la salma di Chiara Poggi fosse stata inaspettatamente riesumata. I tecnici della scientifica devono obbligatoriamente prendere le impronte digitali sul cadavere per effettuare l’esclusione con quelle raccolte sulla scena del crimine. Era però successo che nei momenti immediatamente successivi alla scoperta del delitto nessuno lo aveva fatto.

E parliamo adesso di uno dei casi più recenti e ancora aperti, l’uccisione di Yara Gambirasio e l’accusa nei confronti di Massimo Bossetti. Il Dna che ha portato in carcere Bossetti è stato estratto dal Ris da una traccia mista scoperta sugli slip di Yara. È una traccia mista, perciò va separata: da una parte Yara, dall’altra Ignoto 1. Gli esperti stimano che quella traccia sia composta per quattro quinti dal materiale biologico (forse sangue) di Ignoto 1 e solo per un quinto dal sangue di Yara. Succede però che il perito nominato dal pubblico ministero scopre e certifica che le proporzioni sono invertite: quella traccia sono per quattro quinti di Yara e solo per un quinto di Ignoto 1. Forse non cambia nulla per Bossetti. Il Ris ha proceduto con l’estrazione del Dna nucleare, quello che individua con la massima precisione solo un individuo nel mondo e quel Dna nucleare, estratto dagli slip di Yara, combacia con quello di Massimo Bossetti. È lui Ignoto 1. Viene però esaminato e riesaminato il Dna mitocondriale, quello cioè che trasmette all’individuo le informazioni genetiche da parte materna. E qui, misteriosamente, Bossetti scompare. Anzi, compare proprio un’altra persona, mai individuata. Chi è? Il problema vero è un’altra scoperta del perito del pubblico ministero: l’originaria traccia di Dna nucleare che ha portato all’identificazione di Massimo Bossetti sembra esaurita. Quindi, posto che Bossetti non compare nel Dna mitocondriale estratto dalla traccia degli slip, resta in piedi la prova del Dna nucleare. Se si volesse ripeterla in sede processuale non sarebbe però piùpossibile. E questo, per Bossetti, può cambiare le cose.

Non sono un esperto di giudiziaria, non ho mai letto una sola carta processuale dei casi riportati, e mi sono limitato a riprodurre quanto spulciato nelle cronache, il che andrebbe di sicuro tarato. Peraltro qui non si vuole dare la croce addosso a nessuno. Ci sono stati tanti casi in cui le perizie sono state determinanti per accertare la verità. Basta però qui riportare le parole dell’ex generale Luciano Garofano, a lungo responsabile del Ris di Parma, e “volto noto” di tante trasmissioni televisive: «La polizia giudiziaria ha fatto passi di gigante nella tecnica del sopralluogo e negli esami di laboratorio ma molto resta da fare. Sulla scena del crimine dovrebbero andare solo specialisti puri che non abbiamo». Suona come una responsabile constatazione, piuttosto che una voce dal sen fuggita. E allora perché non li rifondiamo questi laboratori, perché non li formiamo meglio questi esperti, questi tecnici, questi periti? Perché consideriamo ogni perizia come fosse una pistola fumante e non qualcosa che va analizzato, considerato, soppesato, riscontrato attraverso altri mezzi di investigazione? Perché si è talmente impigrita l’indagine, affidandosi esclusivamente a elementi tecnici la cui ponderabilità è quasi sempre controversa? Cosa fanno i pubblici ministeri, i passacarte dei laboratori scientifici? Cosa fanno i pubblici ministeri, per sapere della salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino? Io credo sia questo il vero problema. La sentenza Knox-Sollecito a me non dà alcun sollievo: qualcuno deve dare conto a Meredith Kercher.

PROCESSO AL PROCESSO!

Omicidio Meredith, processo al processo. Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l’assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. Meredith Kercher Per l’omicidio di Meredith Kercher c’è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui. Costoro non sono, e non potranno mai essere, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, assolti definitivamente qualche giorno fa dalla Cassazione. Conclusione che ha seminato sconcerto nell’opinione pubblica, come sempre più spesso accade quando ci si addentra nei meandri del sistema processuale italiano. Per la storia, Raffaele e Amanda sono due bei ragazzi dal volto pulito finalmente liberati da un’assurda persecuzione. Agli occhi di qualche commentatore la condanna di un giovane nero, e per di più “difficile”, ha avuto il sapore di una beffarda palingesi di quella che un tempo si chiamava “giustizia di classe”. Si rinnovano interrogativi ricorrenti: com’è possibile che gli stessi imputati siano due volte assolti e due condannati? Era necessario farlo, questo processo, visto l’esito? Torna a risuonare il mantra più diffuso nel contemporaneo: chi paga? Qualche precisazione, anche se impopolare, è doverosa, da parte del tecnico. Qui nessuno era stato colto in flagrante con la pistola fumante. Il processo era indiziario. Vale a dire che mancava la prova certa, ma c’erano argomenti da collegare insieme per arrivare alla ricostruzione del fatto. Elementi che la legge vuole “gravi, univoci e concordanti”, chiedendo al giudice di esaminarli e valutarli. In questa attività, tipicamente interpretativa, sono possibili esiti difformi. Prendiamo la prova scientifica, snodo ormai cruciale di ogni vicenda criminale. Inizialmente, consulenti e periti del pm e del giudice per le indagini preliminari non erano affatto certi che il delitto fosse stato commesso da più persone, ritenendo possibile l’esistenza di un solo assassino. Altri consulenti - e giudici - propenderanno per l’ipotesi del delitto collettivo, ma la prima considerazione resta agli atti. Ed è, come tutto, materia d’interpretazione. Materia scientifica d’interpretazione. Tocca rassegnarsi: è la scienza in sé a costituire materia opinabile, e la dialettica processuale sembra ideata da una mente perversa che gode ad amplificare i contrasti, lungi dal sanarli. Gli esperti possono comparire in un processo come consulenti di parte o del giudice. Nel primo caso, sono ontologicamente chiamati a portare acqua al mulino di una delle tesi contrapposte. In un processo accusatorio, dunque di parti che godono di eguali facoltà e diritti, non è ammissibile accordare - in ipotesi - maggior fiducia al poliziotto o al carabiniere in quanto “rappresentanti dello Stato”, ma ogni argomento scientifico, da chiunque sia portato, deve essere attentamente vagliato, sia esso accolto o confutato. Nel secondo caso, i periti rispondono direttamente al giudice. E questo, se offre una garanzia aggiuntiva, liberando il campo da ogni sospetto (per quanto tendenzioso) sulla qualità dell’analisi offerta, dall’altro non mette al riparo da altri pericoli. O, per meglio dire, dal multiforme atteggiarsi dell’esperienza umana, anche nel campo del sapere scientifico. Gli esperti sono spesso di provenienza accademica. Si dividono per l’adesione all’una o all’altra metodologia d’indagine, per il riconoscersi o meno in una determinata scuola di pensiero. Nel caso di Perugia, gran parte del contrasto sul Dna, momento decisivo della vicenda, dipendeva, in ultima analisi, dal confronto/scontro fra genetisti su alcuni temi specifici che da anni alimentano il dibattito della comunità scientifica. Quando il Dna è poco, lo si definisce “Low copy number”, e per sottoporlo all’analisi (la “corsa elettroforetica”), occorre amplificarne il volume mediante il ricorso a reagenti chimici. Ma l’amplificazione può indurre risultati artefatti: la comparsa di dati inesistenti, la scomparsa di dati esistenti. Sino a che punto il materiale genetico può essere “stressato” senza che ciò comporti risultati del tutto inattendibili? E un risultato dubbio, come va interpretato? Come “non c’è prova che il Dna sia di Tizio”, secondo una certa opinione, molto autorevole, o come “non si può escludere che quel Dna sia di Tizio, pur non potendolo dire provato”, secondo un’altra opinione, altrettanto autorevole? Quali procedure adottare per garantire che nelle fasi di prelevamento, custodia, esame dei reperti non si verifichino contaminazioni? Un risultato ottenuto in violazione dei protocolli è da scartare, o è comunque valido, perché i protocolli non sono legge, e l’esperienza del perito deve prevalere su astratte regole ideate per qualche caso-limite? I consulenti del primo processo svolto a Perugia sostengono di aver trovato Dna misto di Amanda e della vittima su un coltello sequestrato, e Dna di Sollecito sul reggiseno della vittima. I periti nominati dalla Corte, nel processo di appello, censurano l’errata conservazione dei reperti, giudicano inattendibile il materiale genetico trovato sul reggiseno, escludono il Dna della vittima dal coltello. Primo annullamento della Cassazione. Nuovo appello, nuovi periti. I quali non possono ripetere l’analisi sulle tracce già esaminate del coltello per carenza di materiali genetici, ma valutano un’altra traccia, ignorata perché ritenuta troppo esigua dai precedenti periti, e l’attribuiscono alla sola Amanda. I giudici degradano il Dna misto Amanda/Meredith a indizio (prima era una prova piena), ma nella loro valutazione complessiva il Dna della cui conservazione si dubitava è comunque valido. L’ultima Cassazione - vedremo le motivazioni quando saranno disponibili - evidentemente non ha condiviso il ragionamento. La prova scientifica, insomma, lungi dal fornire certezze, rischia di produrre nebbia ancora più fitta. Accade in continuazione: non a caso negli Stati Uniti si stanno studiano protocolli imperativi, nel senso dell’adozione di linee-guida da rendere obbligatorie per l’uso della scienza nel processo. Dovremmo fare qualcosa di simile anche noi. E farlo presto. E che dire del movente? Indicato in un primo momento nella violenza sessuale, viene ricondotto, dall’ultima sentenza di condanna (quella annullata per sempre dalla Cassazione) a una lite progressivamente degenerata. Inutile dire che il tecnico sa bene come l’individuazione del movente non sia necessaria, quando c’è la prova della colpevolezza: all’uomo della strada questa constatazione appare un sofisma del quale diffidare. Su un punto, però, senso comune e tecnica concordano. È irrazionale che tre individui coinvolti nella medesima vicenda siano processati in due diverse sedi e con regole processuali diverse. È qui, in questa diversità, che si annida un baco profondo: finché non vi si metterà mano, l’irrazionalità del sistema risulterà ineliminabile. Rudy Guede ha scelto il rito abbreviato, e in cambio ha ottenuto uno sconto sulla pena. Nel processo contro di lui sono stati utilizzati materiali investigativi che non potevano essere spesi contro Knox e Sollecito: perché il processo abbreviato si fa sulla base delle indagini del pm, mentre nel processo ordinario la prova si forma in dibattimento. All’imputato, in sostanza, si offre un patto: tu accetti di essere giudicato “allo stato degli atti”, e in caso di condanna prendi meno anni. Nessuno, tanto meno il pm, può opporsi. Per giunta, finché il processo abbreviato dura, chi vi è assoggettato ha facoltà di non rispondere in quello contro gli eventuali coimputati. Sono le nostre regole. Sul piano astratto hanno una sostanziale nobiltà. Su quello concreto, contribuiscono a rendere la giustizia un affare tendenzialmente gnostico. Siamo stati molto criticati, per la vicenda di Perugia, specialmente dagli americani: una loro cittadina accusava di brutalità le nostre forze dell’ordine, la sentenza contro Guede appariva incomprensibile, i membri della giuria popolare non erano sequestrati durante il dibattimento - come avviene negli States - ma vivevano come liberi cittadini, godendo persino del diritto di leggere il giornale o guardare la Tv. Sistemi diversissimi, chiaro. Da quelle parti, quando un imputato vuole uno sconto di pena, si mette d’accordo con il pm e si impegna, con un contratto formale, ad accusare i complici. Da quelle parti, l’imputato o parla, sotto giuramento, o tace, ma una volta che abbia parlato, le sue dichiarazioni sono eterne e incancellabili. Da noi l’imputato è il signore del processo: decide se e quando parlare, ritrattare, mentire. Senza pagare dazio. Non c’è da entusiasmarsi per la giustizia contrattualistica all’americana, ma il nostro processo, così com’è, è una sorta di surreale macchina celibe, un modello indecifrabile. È accaduto, insomma, in questo caso, quanto si verifica sovente nei processi indiziari: alcuni giudici li hanno ritenuti, questi indizi, sufficienti a condannare, altri sono stati di diverso avviso. Niente che si discosti dalla fisiologia del sistema. Esistono valide alternative? In un regime democratico no. In passato si usava la tortura, ma è lecito dubitare che persino il più scatenato colpevolista la rimpianga. Del resto, più gradi di giudizio sono previsti proprio per evitare le conseguenze disastrose a cui porterebbe una decisione errata, o controversa, se ci si attenesse solo ad essa, senza possibilità di riesame. Ma si poteva evitare un giudizio così difficile e scivoloso, il cui esito è letto da molti come una sconfitta per la giustizia? Premesso che non si può pensare di processare soltanto chi confessi immediatamente (di solito, l’accusato si difende, è così che funziona), nel nostro sistema il pm ha l’obbligo di procedere e non può “scegliere” chi processare e per quali reati. Insegue un’ipotesi accusatoria e spetta poi ai giudici vagliarla. Ogni processo è una partita aperta che ruota intorno a un interrogativo di fondo: gli elementi offerti dall’accusa sono o no sufficienti alla condanna? Anche se si introducesse la discrezionalità dell’azione penale, i termini della questione non cambierebbero. Ci sarebbero sempre un’accusa e una difesa, e possibili esiti contraddittori del giudizio, perché quando il giudice condivide le prospettazioni dell’accusa, condanna, quando le confuta, assolve. Ma, si dice, oggi una famiglia colpita a morte non ha avuto giustizia. Eppure, per il delitto c’è un sicuro colpevole. Gli altri devono necessariamente essere i due imputati? Anche se nei loro confronti le prove non sono sufficienti? La vicenda si è trascinata per otto lunghi anni. Il nostro sistema processuale presenta indubbie falle, alcune delle quali sono emerse proprio in occasione di questo caso. Ma l’accertamento della verità è un percorso accidentato, dialettico, difficile, e in qualche caso impossibile. Sui tempi si potrà e si dovrà lavorare, ma dovremo avere tutti l’onestà intellettuale di spiegare all’uomo della strada che un omicidio vero non accetterà mai di farsi comprimere nei cinquanta minuti di un format tipo Csi.

IL DELITTO DI PERUGIA E LE FIGURACCE DEI MAGISTRATI.

Nella roulette giudiziaria è uscita la sentenza di assoluzione, ma nella girandola delle pronunce emesse nulla ci impedisce di pensare che poteva uscirne qualcosa di diverso per gli imputati. E’ solo questione culo. In Italia sei fortunato se trovi un Giudice con la G maiuscola. Ancor più importante è avere tanti, tanti di quei soldi che ti permettano di cercarlo. Per questo stiamo qui a parlarne in un certo modo. Se la sorte fosse cambiata, il senso delle parole e dei reportage dei pennivendoli sarebbero diversi.

Che grama vita affidarsi alla fortuna!

La Bongiorno: "La Cassazione ha avuto il coraggio di affermare che Raffaele è innocente". L'avvocato difensore del giovane commenta la sentenza di assoluzione in via definitiva, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "E' stata una battaglia durissima, Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita". Fuori dal palazzaccio parla del suo assistito che ancora non riesce a credere alla fine dell'incubo, dei giudici "preparati, che hanno studiato a fondo le carte e per questo lo hanno assolto". L'avvocato Giulia Bongiorno nella notte più lunga scioglie la tensione e allarga un sorriso dopo anni di carte, di prove e perizie contestate. Ha vinto la sua linea, la sua costanza.

Se l'aspettava?

"Sì, avevamo consegnato seicento pagine per spiegare gli errori della sentenza, di una realtà frantumata nel corso di anni di processi e resa ormai irriconoscibile dal vero. Ho sempre detto che se si studiavano le carte si sarebbe capita la verità. E i giudici erano molto preparati, si vedeva, hanno fatto relazioni puntuali e rigorose. Hanno avuto coraggio".

Hanno avuto coraggio i magistrati?

"Sì, il coraggio di andare a fondo, di rileggere il materiale, in fondo c'era un'altra sentenza di Cassazione da valutare. Il coraggio di andare oltre l'apparenza e l'opinione pubblica. Il coraggio di essere indipendenti".

Raffaele e Amanda assolti per sempre?

"Si, i giudici potevano annullare la sentenza e decidere di approfondire, invece hanno deciso di annullare senza rinvio: è come dire basta indagini, non c'è alcun coinvolgimento di Sollecito".

Ha parlato con Raffaele?

"L'ho sentito, ha capito che è andata bene, non i passaggi tecnici. Mi è sempre piaciuto, mi è piaciuto il modo in cui ha affrontato a testa alta i momenti duri e sono stati tanti in questi otto anni di indagini, 4 dei quali passati in carcere. E in questo tempo non l'avete mai sentito imprecare, insultare i giudici o la giustizia. Sempre rispettoso, pacato, anche per il suo carattere mi sembrava impossibile l'accusa. Certo, ha avuto la fortuna di avere accanto un padre straordinario pronto a sostenerlo. Sempre".

Cosa le ha detto?

"È come se non riuscissi ancora a crederci. Dopo otto anni, dopo essermi svegliato tutte le mattine con questa spina nel cuore mi sembra impossibile sia finita. Invece, ora per Raffaele è il momento di riprendersi la sua vita".

Delitto Meredith, ecco ciò che non torna, scrive Angela Di Pietro su “Il Tempo”. Chi è complice di Rudy? Chi inscenò la rapina e lanciò il sasso dall’interno? A Seattle esplodono i fuochi d'artificio, a Bisceglie si ringrazia come dopo un avvenuto ed inatteso miracolo. Amanda Knox si commuove e lancia un pensiero affettuoso all'«amica» Meredith Kercher, aggiungendo di essere stata fortunata a conoscerla. A fatica riesce a muovere le labbra per ringraziare chiunque l'abbia aiutata, con la mano poggiata sul cuore come a trattenere l'emozione. È' il suo avvocato a trovarle, le parole: «Amanda chiederà i danni per l'ingiusta reclusione». Potrebbe arrivare ad intascare cinquecentomila euro dallo Stato Italiano. Festeggiano anche gli organi di comunicazione, soprattutto quelli americani e inglesi. The Indipendent sottolinea come in passato Amanda sia stata «vittima di un aborto spontaneo della Giustizia italiana», il New York Times riserva ampio spazio all'assoluzione senza trovare motivi per non promuovere il sistema giudiziario italiano, questa volta. Dal canto suo Candace Dempsey, autrice del libro «Murder in Italy», parla di una «brillante mossa» da parte dell'Italia che a suo parere ha evitato una crisi diplomatica con gli Stati Uniti. L'euforia collettiva coinvolge anche Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che nel 2011 fece assolvere Amanda e Raffaele all'accusa di aver ammazzato la studentessa inglese Meredith Kercher. «Evidentemente - risponde a chi gli chiede un commento sugli esiti della Cassazione - avevamo ragione noi». Svanisce in questa ricostruzione narrativa proprio «Mez», la ventiduenne vittima dell'omicidio, come dissolta dalle increspature di uno slalom giudiziario in cui è risultata una minaccia incombente più che la vittima di una notte di follia, uccisa senza un movente. La sentenza della Corte di Cassazione sembra aver accontentato tutti (imputati, legali, una nazione così amata dall'Italia come gli Stati Uniti) ma la verità risulta più complessa di come appaia. Intanto perché la Giustizia italiana si è dimostrata ancora una volta incerta fino in fondo, rivelando titubanze imbarazzanti. Cinque dibattimenti ed otto anni di inchiesta non hanno detto né mai lo diranno, presumibilmente, chi abbia ucciso Meredith Kercher la notte tra il primo ed il due novembre 2007. I buchi neri restano e rendono solforosa la ricostruzione di un omicidio solo parzialmente risolto. Si parta dalla dichiarazione dell'avvocato dell'affranta famiglia Kercher, pochi minuti dopo la sentenza di assoluzione definitiva: «Non è stata evidentemente raggiunta la prova che inchiodasse Raffaele Sollecito e Amanda Knox - ha affermato Francesco Maresca - ma di fatto restano sconosciute le persone insieme alle quali Rudy Guede ha compiuto il delitto. Ricordo che lui è stato condannato per concorso in omicidio». Se, come ha ribadito il procuratore generale Pinelli nella sua requisitoria di martedì scorso, ad infierire su Meredith sono state tre persone, l'inchiesta si chiude con un punto interrogativo. Anzi due. Improbabile che si approfondirà perché sotto questo profilo l'avvocato Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito con l'efficacia che le viene riconosciuta, ha ragione: l'aspetto scientifico dell'indagine è stato caratterizzato da lapsus, ritardi, incongruenze. C'è poco da esultare dunque, perché di fatto c'è ancora in giro un assassino che se la spassa. O due assassini, se la dinamica omicidiaria è quella che sembra essere. La camera da letto in cui morì Meredith Kercher fu messa a soqquadro come se qualcuno volesse inscenare una rapina. Di più: un sasso ha rotto una finestra del casolare, ma dall'interno verso l'esterno. In altro modo non sarebbe stato possibile a causa della presenza di una serranda incrostata. Guede non ha confessato di aver simulato l'azione di un malintenzionato entrato per rubare ed uscito con un omicidio da aggiungere ai suoi reati. Non aveva motivi per negare la circostanza. E allora chi è stato? Resterà ancorata al porto dei misteri l'accusa che Amanda Knox rivolse al suo datore di lavoro, Patrick Lumumba, titolare di un bar. Lei lo accostò al delitto e la calunnia le è costata tre anni di condanna, confermata due giorni fa dalla Cassazione. Le ragioni per le quali l'americana cercò di incastrarlo non trovano risposta. Non è stato finora possibile chiarire all'opinione pubblica neanche uno dei tanti enigmi legati a questa storia: gli esiti delle indagini sul coltello sequestrato a Sollecito nel quale erano stati individuati i dna di Amanda e di Meredith sono stati sconfessati dalla Difesa. Un duello di perizie che avrà convinto pure i giudici, ma non ha dimostrato in maniera elementare agli italiani perché si sia arrivati al primo risultato e poi ai successivi. La cronaca di questo delitto si chiude in maniera definitiva senza dirci granché insomma. Meredith Kercher riposa nel cimitero di Croydon, alla periferia di Londra. Una mamma piange la propria figlia senza aver potuto conoscere la verità sulla sua morte: se dall'altra parte dell'oceano si accendono i fuochi d'artificio, una famiglia inglese continua a chiedere giustizia. Senza poter contare su una buona quantità di misericordia. In un quieto realismo, ci si rassegni ora ai libri autobiografici, ai film, al foklore mediatico, probabilmente al business che incornicia gli eventi, anche quelli così spiacevoli come l'omicidio di una brava ragazza.

«Amanda Knox e Raffaele Sollecito, le prove erano insufficienti». I dubbi di Gennaro Marasca, il giudice napoletano che ha presieduto il collegio di Cassazione che ha assolto i due imputati dell’omicidio di Meredith a Perugia, scrive Gianluca Abate su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Il giudice Gennaro Marasca. Uno come lui, uno che ha speso una carriera intera a stigmatizzare «i magistrati che parlano con i giornalisti» (l’ultima volta l’ha fatto nel consiglio direttivo della Cassazione, criticando il collega Antonio Esposito per l’intervista rilasciata dopo la condanna di Silvio Berlusconi), uno così non è certo magistrato da lasciarsi andare ad interviste dopo la sentenza che ha spaccato l’Italia mandando definitivamente assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Eppure, nonostante la ritrosia, quel giudice non ha potuto evitare le di telefonate di colleghi e amici napoletani, tutti in cerca (vanamente) di qualche dettaglio. E già, ché il presidente della quinta sezione della Cassazione che ha emesso la sentenza due giorni fa è un magistrato di Napoli, Gennaro Marasca, una delle toghe più conosciute in città. Lui, con il garbo di sempre, s’è limitato a rispondere a tutti che parlerà la sentenza, ma che molte cose già può dire il dispositivo emesso al termine del processo. Quello che ha assolto Amanda e Raffaele nella stessa identica maniera con la quale fu assolto l’ex senatore a vita Giulio Andreotti, cioè applicando il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale. C’è, in questa spiegazione di Marasca, gran parte delle ragioni della sentenza, dal momento che la norma stabilisce che «il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso». E, non a caso, al Palazzaccio di piazza Cavour a Roma si fa notare che raramente un articolo di legge viene indicato (come in questo caso) in un dispositivo di sentenza della Corte di Cassazione. E dire che Marasca, in quelle aule, neppure doveva arrivarci. Non per demeriti, beninteso (è considerato uno dei migliori giudici napoletani, e non a caso il 25 gennaio 2014 il procuratore di Nola Paolo Mancuso lo citò tra le «eccellenze» accanto a Carlo Alemi, Giuseppe Fusco e Nino Vacca), ma perché la sua aspirazione — quattro anni fa — era quella di essere nominato procuratore generale di Napoli. Fece anche regolare domanda al Csm, ma fu bocciata. Il motivo? Accadde che, nel Paese in cui i magistrati si rimettono la toga dopo aver fatto politica, il Consiglio superiore della magistratura decise di non nominarlo perché «non va trascurato — si leggeva nelle motivazioni della relazione — che Marasca ha ricoperto per più anni, dopo il 1994, l’incarico di assessore presso il Comune» all’epoca della giunta di Antonio Bassolino. Quella parentesi, oggi, è dimenticata. Marasca ha più volte ribadito che «quello in Cassazione è il lavoro che mi piace», anche perché — ha confidato ad alcuni colleghi — è quella la sede dove «cerchiamo di applicare il diritto a volte dimenticato nelle sedi locali». E, da magistrato navigato, Marasca ha saputo governare anche l’improvvisa popolarità in un’Italia divisa tra chi ha esultato per l’assoluzione di Amanda e Raffaele e chi invece ha contestato la decisione. Lui, a chi gli domandava se giustizia era stata fatta, ha risposto che un giudice deve basare la sua decisione sugli elementi processuali, e che quindi «giustizia è stata fatta sol perché abbiamo fatto il nostro mestiere». Certo, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di annullare la sentenza d’appello disponendo un nuovo processo, ma la «insufficienza delle prove» è stata giudicata «non colmabile» neppure successivamente. E dunque — ha spiegato il presidente ai colleghi — se quelli sono gli elementi, «che bisogno c’è di fare un altro processo?».

Il giudice che assolse Knox e Sollecito: "Io linciato dai colleghi". Pratilllo Hellmann: "Fui costretto a lasciare la magistratura. Per me solo sdegno", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "L’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Lo afferma a Repubblica, Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d’Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione. Pratilllo Hellmann spiega come "praticamente fui costretto a lasciare la magistratura. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia". "Panzane, certo, ma - prosegue - quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto - prosegue - che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".

Claudio Pratillo Hellmann: "Per avere assolto Amanda e Raffaele venni linciato anche dai magistrati". Parla l'uomo che nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele; da allora è in pensione, scrive Meo Ponte su “La Repubblica”. "L'Assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione.

Come mai lasciò la magistratura proprio dopo quel verdetto?

"Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un'ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l'inchiesta, avevano avallato l'accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".

Che cosa la convinse dell'innocenza di Amanda e Raffaele?

"Il fatto che l'indagine era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall'inizio. Tanto è vero che in primo momento fu arrestato Patrick Lumumba che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa. Ricordo che il collega Massimo Zanetti che presiedeva la Corte con me aprì la sua relazione dicendo che di certo c'era solo la morte di Meredith Kercher. Ordinammo le perizie che non erano state fatte durante il processo di primo grado e la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza. Era palese che il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l'arma del delitto, la lama non combaciava con la ferita. In più mi sono sempre chiesto perché dovevano per forza essere state tre persone ad uccidere la povera Meredith e veniva invece scartata a priori la possibilità che potesse essere stato soltanto Rudy Guede".

L'unico ora ad essere condannato per l'omicidio...

"E soprattutto l'unico a sapere che cosa è davvero accaduto quella notte in via Della Pergola e chi c'era con lui, se c'era qualcuno. Abbiamo provato a farglielo dire ma quando venne nella nostra aula, alla precisa domanda se riconoscesse Amanda e Raffaele lui rispose fumosamente che aveva sempre pensato che gli assassini fossero loro. E mi ha sempre sorpreso il riguardo con cui era stato trattato nonostante fosse l'unico la cui presenza sulla scena del crimine fosse indiscutibile".

Che cosa provò quando la Corte di Cassazione annullò la sua sentenza di assoluzione?

"Sgomento, soprattutto. La mia corte aveva cercato di capire davvero chi avesse ucciso Meredith, senza lasciarsi intrappolare dai pregiudizi o da tesi precostituite. Avevamo assolto quei due ragazzi perché il dibattimento aveva dimostrato che non c'erano prove della loro partecipazione al delitto. Naturalmente quella decisione rinfocolò la campagna diffamatoria nei miei confronti e ritornarono in circolo le voci che fossi stato assoldato dagli Stati Uniti per liberare Amanda".

E quando il secondo processo di appello a Firenze li condannò entrambi nuovamente?

"Rimasi perplesso. Non riuscivo a capire come avessero potuto farlo dato che dal dibattimento non era emerso nulla di nuovo. Avevano cambiato il movente ma si trattava ancora di una supposizione e non di un dato di fatto. Avevano ordinato anche lì una perizia scientifica sul coltello che aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra. Mi chiedo ancora come fecero ad arrivare ad una condanna".

Bella lezione della Cassazione, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così la Corte di Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox dall’omicidio della giovane Meredith Kercher, dopo circa otto anni di processi e sentenze. Soltanto gli sprovveduti – cioè coloro che non son provvisti di senso del diritto – possono restarne sorpresi, immaginando chissà quali contorsionismi giuridici. In realtà, la Cassazione ci ha impartito una lezione di prudenza giuridica – la quale, peraltro, non fa male nel nostro tempo caratterizzato da una eccessiva disinvoltura – ricordando a tutti appunto che quando si tratta di giudicare essere umani per delitti così gravi, ciò che occorre è la “iuris-prudentia”, vale a dire il senso del limite. Infatti, la cosa più importante del diritto, ciò che lo fa essere indispensabile per la coesistenza umana, non è tanto il comando – ciò che va fatto – quanto il divieto – ciò che non può mai essere permesso, vale a dire, appunto, il limite: in linea teorica, un codice di soli divieti sarebbe preferibile ad uno di soli comandi, perché è più importante vietare l’omicidio o di passare con il rosso, che imporre di pagare la tassa di circolazione (indipendentemente da ciò che si comandi o si vieti). Ebbene, la Cassazione ha mostrato come si possa e in che senso si debba rispettare il senso del limite, proprio annullando la sentenza di condanna emessa a carico dei due giovani e, soprattutto, evitando di rinviare ad altro giudice per la prosecuzione del processo. È come se la Corte avesse implicitamente detto che non è giuridicamente possibile processare sei o sette volte gli stessi imputati per lo stesso fatto, provocando una girandola inesplicabile di assoluzioni e condanne che si susseguono l’una dopo l’altra, ma prive di un senso riconoscibile e fondato. Proprio così. Qualcosa del genere accadde anni or sono con Adriano Sofri, assolto, condannato, poi ancora assolto e poi condannato in una sorta di capriccioso giuoco dell’oca durato per una dozzina di processi e alla fine del quale c’era una sola certezza: che cioè nessuno ci capiva più nulla. Nel senso che non si capiva più che ci fossero prove reali per condannare o per assolvere e che perciò, come è necessario fare, bisognava assolvere: cosa che allora non fu fatta e ne ebbero rimorso tutti, perfino coloro che si battevano per una condanna. Prova ne sia che si premurarono a trovare il sistema di metterlo fuori, ma con poco costrutto umano e giuridico: poco del primo, perché comunque una condanna assai dura ne colpiva l’anima e l’immagine pubblica; poco del secondo, perché la sollecitudine per consentirgli di star fuori dalle mura del carcere strideva con la pesantezza della pena inflitta. Oggi, invece e per fortuna, la Cassazione ha saputo porre un freno ad una simile deriva processuale, annullando la condanna dei due giovani senza alcun rinvio, cioè senza che si possa ancora rimestare quella che in senso proprio è soltanto aria fritta. In questa prospettiva, si comprende bene perché anni fa il governo Berlusconi aveva sancito la non appellabilità, da parte delle Procure, della sentenza di assoluzione di primo grado: perché se un collegio di giudici – anche uno soltanto – dichiara l’imputato innocente, anche se un altro collegio lo ritenesse colpevole, non per questo il dubbio residuo ne permetterebbe la condanna. Tuttavia, urgono anche altre brevi riflessioni. Bisogna chiedersi come siano state svolte nel caso in esame le investigazioni tecnologiche dei primi momenti: probabilmente male, malissimo, tanto da far revocare in dubbio i risultati conseguiti. Non solo. Da qualche anno a questa parte, si diffonde l’idea che le indagini tecnologiche siano autosufficienti, bastevoli a sé, capaci di far tutto comprendere e tutto giudicare. Che non sia così è sotto gli occhi di tutti: anche se non tutti lo ammettono, spesso gli esiti delle indagini scientifiche si presentano ambigui, suscettibili di letture diverse o contrapposte. Non sarebbe male allora usare la sana logica induttiva e deduttiva, vale a dire la capacità di ragionare quale antidoto contro gli stalli delle prove scientifiche. Bene allora ha fatto la Cassazione. Non semplicemente perché ha assolto Sollecito e la Knox. Ma perché ha mostrato che non li si poteva in alcun modo condannare.

Omicidio Meredith: «Inutile un altro processo su Amanda e Raffaele». La decisione all’unanimità in camera di consiglio «Prove troppo contraddittorie così un altro processo è inutile», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo processo non avrebbe potuto accertare la verità sul delitto di Meredith Kercher. Il «complesso probatorio era talmente contraddittorio» da rendere impossibile il superamento dei dubbi e delle incongruità. Per questo, dopo otto ore di discussione, i giudici della quinta sezione della corte di Cassazione, sono stati tutti d’accordo sull’annullamento della condanna a 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e a 25 anni per Raffaele «senza rinvio». «Assurdo», questa la linea condivisa, sarebbe stato «disporre un nuovo dibattimento potendo contare su indizi così labili». Il collegio presieduto da Gennaro Marasca ha anche ritenuto «non vincolante» la precedente sentenza della Cassazione che nel marzo di due anni fa aveva ordinato un nuovo giudizio, nella convinzione che la propria pronuncia dovesse valutare esclusivamente il verdetto raggiunto in appello a Firenze il 30 gennaio di un anno fa, quello per cui Amanda e Raffaele erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Si chiude dunque per sempre la possibilità di scoprire che cosa accadde davvero nella villetta di via della Pergola il primo novembre del 2007. L’unico responsabile rimane Rudy Guede, condannato a sedici anni di carcere e - dopo averne scontati quasi la metà - già pronto a chiedere permessi per il lavoro esterno. Otto lunghi anni non sono stati sufficienti a fare luce sui lati oscuri di una storia che rimane tuttora segnata da troppi misteri. E sono almeno quattro gli interrogativi rimasti insoluti, ai quali sembra ormai impossibile trovare delle risposte convincenti.

La stanza. La sera di quel giovedì Meredith torna a casa e con lei c’è sicuramente Rudy. Ma che cosa accade dopo? Secondo la sentenza di condanna dell’ivoriano, ci sono almeno due «concorrenti». I giudici della Cassazione il 26 dicembre del 2013 chiedono alla Corte d’assise d’appello di Firenze di individuarli e scrivono: «Bisogna porre rimedio, nella più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa operando un esame globale e unitario degli indizi», specificando poi la necessità di «sommare e integrare ogni indizio con gli altri». Poi aggiungono: «L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati sul luogo del delitto, ma eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede». Un obiettivo che evidentemente non è stato raggiunto. La perizia medico legale ha accertato che Meredith ha subito molestie sessuale ed è morta, dopo essere stata ferita con alcune coltellate, per un fendente sferrato alla gola. Nessuno, a questo punto, può dire se Rudy Guede abbia fatto tutto da solo o se invece qualcuno l’abbia aiutato a immobilizzare la ragazza inglese e le abbia poi inferto il colpo fatale.

L’arma. È certamente uno degli aspetti più controversi. L’arma del delitto viene individuata dai pubblici ministeri in un coltello sequestrato nella cucina a casa di Raffaele Sollecito. Le indagini genetiche trovano tracce del Dna di Amanda sulla lama e questo convince l’accusa che la giovane americana l’abbia usato per uccidere la sua coinquilina. Motivando la sentenza di condanna i giudici fiorentini scrivono però che «la vittima fu colpita con due coltelli». Secondo loro «l’arma che produsse la ferita sulla parte sinistra del collo e provocò la morte era impugnata da Amanda e si tratta del coltello sequestrato a casa di Raffaele», mentre le ferite sulla parte destra furono provocate da un «coltello più piccolo impugnato da Raffaele», ma nulla dicono sull’origine dell’arma, su dove fosse stata presa e, soprattutto, dove sia finita.

Il movente. I primi a parlare di «gioco erotico degenerato» come movente del delitto furono i pubblici ministeri, confortati dai diversi giudici che avevano confermato le tesi dell’accusa. L’ipotesi nata dalla certezza che Rudy avesse avuto un rapporto sessuale con Meredith - come dimostrato dall’autopsia - non era però supportata da ulteriori elementi e questo ha portato i giudici di Firenze a disegnare un diverso scenario. Nella sentenza di condanna emessa un anno fa si parlava di «progressiva aggressività» innescata da una lite, sfociata in una violenza sessuale e conclusa con l’omicidio, perché la vittima, che era stata «umiliata e prevaricata», alla fine «doveva essere messa in condizione di non denunciare». Una ricostruzione che la Cassazione ha giudicato ora - evidentemente - non sostenuta da alcuna prova.

Il memoriale. Afferma Amanda nel memoriale scritto in questura, cinque giorni dopo il delitto, e poi ritrattato: «Io e Patrick Lumumba (arrestato, ma poi scarcerato e prosciolto ndr) ci siamo incontrati intorno alle ore 21 e siamo andati a casa mia. Non ricordo precisamente se la mia amica Meredith fosse già in casa o se è giunta dopo, quello che posso dire è che Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie. Poi non ricordo più nulla, ho una grande confusione nella testa. Non ricordo se Meredith gridava e se sentii anche dei tonfi perché ero sconvolta, ma immaginavo cosa potesse essere successo. Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera, ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell’appartamento aperta». Amanda descrive il delitto, ma al posto di Rudy pone sulla scena del delitto Lumumba, anche lui giovane, ugandese, quindi di colore. Come mai? Possibile fosse soltanto una coincidenza? Certamente è questo l’interrogativo al quale nessuno è mai riuscito a dare una risposta convincente.

LE TAPPE DELLA VICENDA.

La notte tra il primo e il due novembre 2007, la studentessa inglese, Meredith Kercher, venne barbaramente uccisa nella sua abitazione di via della Pergola, a due passi dall'Università per Stranieri di Perugia, dove si trovava per seguire il progetto Erasmus, mai terminato. Il suo corpo senza vita venne trovato in camera da letto, in una pozza di sangue, accoltellata alla gola e coperta con un piumone. Per lo stesso delitto il giovane ivoriano, Rudy Guede, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale.

2 NOV. 2007 - Meredith Kercher, studentessa inglese di 22 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto, nella casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trovava per il progetto Erasmus. Meredith viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia.

6 NOV 2007 - la polizia ferma per l'omicidio la coinquilina di Mez, Amanda Knox, il fidanzato di questa ultima, Raffaele Sollecito e il musicista congolese Patrick Lumumba Diya. Lumumba è il datore di lavoro di Amanda. E' lei a indicarlo come l'autore del delitto. Amanda, americana, di Seattle, all'epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all'Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell'ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all'omicidio.

9 NOV 2007 - Il gip convalida i fermi.

11 NOV 2007 - Un docente svizzero racconta alla polizia di essere stato nel pub di Lumumba la sera del delitto e conferma l'alibi del musicista congolese.

15 NOV 2007 - Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.

19 NOV 2007 - Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D'Avorio è indicato come il quarto uomo. La polizia spicca un mandato di cattura internazionale.

20 NOV 2007 -  Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l'impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa. Si dichiara innocente.

6 DIC 2007 - Rudy è trasferito in Italia.

27 MAG 2008 - Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.

19 GIU 2008 - I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Knox, Sollecito e Guede per futili motivi.

16 SET 2008 - Inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, Paolo Micheli. Il gup dispone di procedere con rito abbreviato per Guede e lo condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale e rinvia a giudizio Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.

18 OTT 2008 - I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all'ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.

28 OTT 2008 - Il gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.

16 GEN 2009 - Inizia davanti alla Corte d'assise di Perugia il processo a Raffaele e Amanda.

18 NOV 2009 - Si apre davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il processo d'appello nei confronti di Rudy Guede.

5 DIC 2009 -  La corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Knox a 26 anni di carcere e Sollecito a 25. La Corte di assise, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni di carcere.

22 DIC 2009 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riduce da 30 anni a 16 anni la pena inflitta a Guede. Concesse le attenuanti generiche.

4 MAR 2010 - Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente "erotico, sessuale, violento".

22 MAR 2010 - Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Guede: "concorse pienamente", scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello, all'omicidio Kercher.

15 APR 2010 - I difensori di Sollecito depositato l'appello contro la sentenza di primo grado. Anche la procura di Perugia presenta appello contro la concessione delle attenuanti generiche agli imputati e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi.

17 APR 2010 - La difesa di Amanda Knox deposita l'appello e chiede nuove perizie.

7 MAG 2010 -  la difesa di Guede presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza della corte d'assise di appello di Perugia. - 24 NOV 2010: Si apre il processo davanti alla Corte d'assise d'appello di Perugia a Raffaele Sollecito ed Amanda Knox.

24 NOV 2010 - Si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele.

16 DIC 2010 - La Cassazione conferma i sedici anni di reclusione inflitti a Guede dalla Corte di appello, che diventa così definitiva..

18 DIC 2010 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riapre il dibattimento del processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox e dispone una nuova perizia super partes per le tracce genetiche sul coltello e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima quando venne uccisa. La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l'arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della Corte, "non sono attendibili".

29 GIU 2011 - I periti della Corte di assise di appello bocciano il lavoro svolto dalla polizia scientifica, definendo gli accertamenti tecnici "non attendibili", per il Dna attribuito a Meredith sul coltello e a Raffaele Sollecito sul gancetto di reggiseno. Gli esperti, inoltre, non escludono che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.

24 SET 2011 - La Procura generale chiede la condanna all'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito.

3 OTT 2011 -  La Corte di assise di appello di Perugia assolve Amanda e Raffaele dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Amanda scoppia in un pianto liberatorio e subito dopo l'assoluzione torna in America con la sua famiglia.

15 DIC 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia deposita le motivazioni della sentenza di assoluzione e parlano di mancanza di prova di colpevolezza. Secondo i giudici di secondo grado i "mattoni" su cui si è basata la condanna "sono venuti meno": c'e' una "insussistenza materiale" degli indizi, dalle tracce di Dna all'arma del delitto.

14 FEB 2012 - La procura generale e la famiglia di Meredith Kercher depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione.

19 LUG 2012 - La Cassazione fissa per il 25 marzo 2013 l'udienza per l'esame del ricorso.

25 MAR 2013 - Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità".

26 MAR 2013 - La Cassazione annulla con rinvio la sentenza di assoluzione di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di appello di Perugia. Conferma la condanna per calunnia ad Amanda. La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo.

30 SET 2013 - Il processo bis riprende davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze e riparte da capo, con difese e accuse che rappresentano, a partire dalla scena del delitto, le proprie arringhe. Sollecito, la Knox, così come i familiari di Meredith non sono presenti in aula.

26 NOV. 2013 -Il sostituto procuratore generale di Firenze, Alessandro Crini, chiede 30 anni di carcere per Amanda Knox e 26 anni per Raffaele Sollecito.

30 Gen 2014 - La Corte d'Assise di Appello di Firenze condanna a 28 anni e mezzo di carcere Amanda Knox e a 25 anni Raffaele Sollecito per il quale viene anche disposto il divieto di espatrio. Ad Amanda viene riconosciuta l'aggravante per il reato di calunnia nei confronti di Lumumba.

31 GEN 2014 - la polizia ritira il passaporto a Raffaele Sollecito in un albergo tra Udine e Tarvisio.

29 APR 2014 - la Corte d'Appello di Firenze deposita le motivazioni della sentenza.

16 GIU 2014 - i difensori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito depositano i ricorsi in Cassazione contro la condanna nei confronti dei loro assistiti da parte della Corte d'assise d'appello di Firenze. Le difese chiedono l'annullamento della sentenza di appello bis e, quindi, l'assoluzione per i due ex fidanzatini.

30 SET 2014 - La Corte di Cassazione fissa per il 25 marzo 2015 il nuovo processo per Sollecito e la Knox.

25 MAR 2015 - Si apre il processo in Cassazione davanti alla quinta sezione penale. Il pg Mario Pinelli, nella sua requisitoria, chiede di confermare le condanne di Amanda e Raffaele per l'omicidio di Meredith.

27 MARZO 2015 . La Sentenza definitiva di assoluzione per gli imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito per e l'omicidio di Meredith. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. 

IL MONDO RIDE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.

Mario Giordano su “Libero Quotidiano”: "Raffaele e Amanda assolti. Ora tutto il mondo ride della giustizia italiana". Condannati. Assolti. Rinviati. Condannati. Assolti. Ora provate voi a spiegare al mondo il gioco dell’oca della giustizia italiana, il Monopoli di vicolo stretto e largo assassino, dove le leggi sono come i dadi, basta un tiro sbagliato per ricominciare dal via o trovarti in prigione. Probabilità e imprevisti: provate voi a spiegare al mondo che ci guarda con un po’ di stupore che in questo disgraziato Paese se una ragazza viene uccisa in casa, nella civile e internazionale Perugia, ci vogliono otto anni e cinque processi per non sapere chi è stato. O, meglio, per condannare un ivoriano per concorso in omicidio senza però che abbia concorso con nessuno. Questo, infatti, è stato deciso dopo otto anni di indagini e perizie e requisitorie e arringhe e sentenze, costate chissà quanto: Rudy Guedé ha aiutato alcune persone a uccidere Meredith Kercher però queste persone non esistono. In quella maledetta stanza dunque era con altri, ma nello stesso tempo era da solo. Nemmeno Houdini riuscirebbe a tanto…Provate voi a spiegare agli stranieri che qui c’è una Corte suprema che prima respinge un’assoluzione, poi respinge una condanna e la trasforma in quell’assoluzione che aveva da poco respinto. Provate a spiegare che si tratta sempre della stessa Cassazione. Provate, in generale, a spiegare la logica surreale che esce dalle nostre aule di giustizia, dove si ricostruiscono delitti giocando a «indovina quale» e si scambiano moventi come figurine Panini. E quando a un certo punto ci si accorge che l’accusa (delitto a scopo sessuale) non regge alla prova del tribunale si cambiano le carte in tavola: macché sesso, hanno ucciso per una lite sulla pulizia domestica. Come se uno stupro e lo Spic&Span fossero all’incirca la stessa roba, «spogliati nuda» vale quanto «perché non hai passato Mastrolindo?», «ti strappo le mutande» è uguale a «passami il Dixan». Provate voi a spiegare al mondo che in Italia indagini e accuse si fanno così, un po’ alla carlona, e poi, se sei fortunato, dalla ruota del superenalotto ti escono l’avvocato bravo e il giudice giusto. Altrimenti resti in galera il resto della tua vita. Sia chiaro: Amanda e Raffaele sono innocenti, non ci sono dubbi, la sentenza è definitiva, e non si può che essere felici per il fatto che il loro incubo è finito, e possono tornare a vivere. Hanno pagato fin troppo per una cosa che non hanno commesso. Ma, di fronte alla legittima esultanza e di fronte alle altrettanto legittime richieste di risarcimento dei due ragazzi, non si può non pensare che mentre Amanda e Raffaele vincevano la loro partita, la nostra giustizia perdeva la sua. E la perdeva clamorosamente, collezionando una figuraccia planetaria, una specie di Caporetto togata, roba che al confronto Waterloo fu una marcia trionfale. Per carità: ci sono anche molte persone che escono bene da questo percorso a ostacoli nell’assurdo: per esempio Raffaele Sollecito che ha affrontato il processo a testa alta e con serietà, o gli avvocati difensori (non quello del povero Guede, purtroppo), e anche alcuni giudici, come quelli del primo appello, a Perugia, che avevano capito già tutto, o come quelli della Cassazione di ieri, che hanno dimostrato di essere scrupolosi fino all’ultimo, e pure coraggiosi. Ma nel complesso, ecco, in questa vicenda il nostro sistema giudiziario ha dimostrato di essere quello che è: un malato grave. E stavolta purtroppo (o per fortuna) l’ha dimostrato in mondovisione. Il caso, infatti, ha avuto una dimensione inevitabilmente internazionale: l’altro giorno l’americana Amanda stava sulla copertina di People negli Stati Uniti, l’attesa della sentenza sull’inglese Kercher era la terza notizia nei telegiornali britannici. Dall’estero, in questi giorni, avevano gli occhi puntati sul nostro tribunale. E dunque ora provate voi a spiegare all’estero come funziona la giustizia italiana. Provate a convincerli, con tutto ciò, che si possono ancora fidare, se devono venire a investire, o anche solo a fare un viaggio, se vogliono portare qui la famiglia o la loro impresa, possono star tranquilli. Provate voi a rassicurarli, persuadeteli che se nasce un contenzioso potranno far valere rapidamente i loro diritti, che non ci vorranno otto anni, cinque processi e magari un po’ di galera per aver riconosciute le proprie ragioni. Anzi, già che ci siete, consigliate loro subito lo studio dell’avvocato Bongiorno. E se non possono permetterselo, beh, dite loro di stare attenti a varcare i nostri confini…E poi provate a spiegare tutti gli assurdi paradossi che abbiamo visto in questo processo, il ginepraio delle sentenze, l’inchiesta fallata. Soprattutto provate a spiegare che una ragazza inglese venuta in Italia per studiare non avrà mai giustizia, provate a dire ai suoi genitori che ad ucciderla è stata uno che stava insieme ad altri ma che nello stesso tempo era anche da solo. Provate a spiegare che Rudy Guede ha agito in concorso, sì, ma in concorso con il nulla, con l’aria, con la sua ombra o forse con qualche fantasma, può darsi, in fondo era la notte di Halloween. Provate a spiegarglielo a loro, al resto del mondo, perché noi in fondo ci siamo abituati, purtroppo ormai ogni mostruosità giudiziaria ci passa sopra quasi fosse normale. Compreso il fatto che non ci siano mai responsabili. Provate voi a spiegarlo agli stranieri, dunque, che per questo infernale guazzabuglio diventato vergogna internazionale, alla fine non pagherà nessuno. A parte, ovviamente, i soliti contribuenti italiani.

Amanda e Raffaele assolti: figuraccia dei magistrati in mondovisione, scrive Andrea Asole su Quelsi. Dopo otto anni, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la vicenda dell’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata in circostanze ancora non troppo chiare a Perugia il 1 novembre 2007: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati definitivamente assolti. Unico condannato, Rudi Guede. Tralasciando le singole opinioni sulla veridicità dell’innocenza, che fioccano da ogni parte quando casi di cronaca giudiziaria come questo finiscono sotto i riflettori, il percorso che ha portato entrambi all’assoluzione risulta alquanto contorto. Riassumendo: Amanda e Raffaele sono stati condannati in primo grado e assolti in Appello. Si va in Cassazione e qui i giudici della Suprema Corte decidono che il processo d’appello va rifatto: si tiene dunque un nuovo appello e stavolta Amanda e Raffaele vengono condannati, 28 anni e mezzo per la ragazza di Seattle, 25 anni per il pugliese. Finita qui? Chiaramente no, c’è bisogno della Cassazione affinché la sentenza passi in giudicato. E ieri si è assistito a un nuovo totale ribaltamento delle sentenze precedenti: stavolta, Amanda e Raffaele sono assolti per non aver commesso il fatto, e non viene neppure disposto un nuovo processo d’appello. La vicenda viene finalmente chiusa dopo un totale di cinque sentenze, ognuna di esse discordante da quella che l’ha preceduta. Difficile non notare la grossa anomalia: come è possibile che ci siano state cinque sentenze che si contraddicano l’una con l’altra? Saranno emersi nuovi elementi in fase dibattimentale, si potrebbe pensare, e invece no: tutte e cinque le sentenze sono state emesse con lo stesso materiale probatorio. Come è possibile che gli stessi elementi conducano a esiti così discordanti tra loro? Ma soprattutto, poniamo il caso che il materiale in mano all’accusa fosse insufficiente: come è possibile che con un una insufficienza di prove si sia arrivati a due condanne, una più pesante dell’altra? Poniamo anche il caso contrario, cioè che quelle prove fossero sufficientemente corpose: se quello che avevano in mano gli inquirenti era più che sufficiente, come è stato possibile arrivare a tre assoluzioni tra cui quella definitiva? Evidentemente le presunte tracce dei due sul reggiseno di Meredith non erano la prova certa e definitiva che invece avevano spacciato per tale. Altra cosa di cui tenere conto: Rudi Guede, l’unico condannato per la vicenda, non avrebbe mai fatto il nome di Amanda e Raffaele né durante gli interrogatori né durante il processo. La magistratura italiana, nel suo complesso, ha insomma rimediato una sonora figuraccia, e, quel che è peggio stavolta davanti al mondo. Non dimentichiamo infatti la grande eco mediatica anche negli Stati Uniti, paese di Amanda, e in Gran Bretagna, paese di Meredith. Davanti al mondo, la magistratura ha fatto una figuraccia perché ha dimostrato tutte le falle della giustizia penale italiana e anche l’assurdità delle sue contraddizioni. Un figuraccia anche di fronte agli italiani, poiché ora, forti di sentenze contraddittorie, saranno in molti a ipotizzare una qualche influenza statunitense nel verdetto di assoluzione: se ciò però fosse vero, non si spiegherebbe perché la Cassazione dispose un secondo processo d’appello dopo la prima assoluzione. Forse questo è l’unico lato positivo di tutta la vicenda: i giudici della Cassazione, dopo quattro processi diversi, hanno avuto il coraggio di smentire tutto e di ristabilire la certezza del diritto a costo di coprire di ridicolo i loro colleghi e tutta la magistratura. E non era facile. Alla fine il classico “giudice a Berlino” insomma si è trovato, ma di una giustizia che opera in questo modo mettendo le persone in un calvario per poi assolverle c’è da aver paura davvero. Nota finale: Amanda ha già fatto sapere che presenterà una richiesta di risarcimento danni all’Italia: indovinate chi dovrà pagare, se glielo concedessero? No, sbagliato, non pagheranno i magistrati.

Meredith, giustizia italiana sbertucciata in tutto il mondo. Il verdetto della Cassazione è la Waterloo della giustizia italiana: mostrata al mondo l'assurdità del nostro sistema. Adesso chi paga? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. Cinque gradi di giudizio, otto anni di indagini e processi, due ragazzi (Amanda e Raffaele) condannati e poi assolti: la Corte di Cassazione mette la parola fine a un processo, quello per l'omicidio di Meredith Kercher, che ha avuto un'eco impressionante in tutto il mondo. Per Raffaele Sollecito è "la fine di un incubo", Amanda Konx invece si sente finalmente "sollevata e grata" di poter riavere la propria vita indietro. Ma chi paga per tutto questo? La sentenza di ieri, che ha dimostrato al mondo l'assurdità del nostro sistema, è la Waterloo della giustizia italiana. Adesso sarà chiaro al mondo intero. Una pillola amara da ingoiare e Una sentenza che ha causato uno shock alla famiglia sono i primi commenti della stampa inglese all'assoluzione in via definitiva di Amanda e Raffaele per l’omicidio della studentessa inglese. Per il Guardian, "la famiglia Kercher dopo il verdetto deve ora ingoiare una pillola molto amara", soprattutto perché, "dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi, questa non è affatto la conclusione che la famiglia Kercher avrebbe mai potuto desiderare". In particolare, per il quotidiano progressista, il problema principale è che sono state assolte "le uniche persone che siano mai state seriamente sospettate, per la famiglia una pillola assai amara da ingoiare". Anche il resto della stampa britannica sottolinea gli elementi più sorprendenti, almeno per l’opinione pubblica del Regno Unito. Il Daily Mail, tabloid molto seguito in Gran Bretagna, scrive chiaramente della "lunga saga" dei processi e di "uno choc da assoluzione per la madre di Meredith". Per il Daily Telegraph la coincidenza della sentenza con l’uscita del film Il volto dell’angelo del regista Michael Winterbottom, pellicola chiaramente ispirata ai fatti di Perugia e nelle sale americane proprio da venerdì 27 marzo, è indicativa di "un’ossessione per Amanda Knox" alimentata dal circo mediatico che "insulta Meredith Kercher". Obiettivo ora, scrive la giornalista Barbie Latza Nadeau, autrice del libro che ha ispirato il film, è riportare Meredith, "la vera vittima", al centro dell’attenzione. A giocare un ruolo decisivo nell’assoluzione sono stati probabilmente i forti dubbi sulla validità dei test del dna eseguiti durante le indagini. A criticare le conclusioni degli investigatori italiani, ricorda la rivista New Scientist, sono stati diversi esperti su entrambe le sponde dell’Atlantico. In particolare ad incriminare i due erano tracce di dna trovate su un coltello nell’appartamento di Sollecito, sul cui manico c’era materiale genetico di Amanda mentre sulla lama c’era quello di Meredith. Su un ferretto del reggiseno della ragazza uccisa c’era invece il Dna di Sollecito. Nel 2009 una lettera di un’associazione di esperti statunitensi aveva scritto una lettera aperta alla corte mettendo in dubbio le conclusioni dei test. "Un esame chimico per la presenza di sangue sul coltello ha dato esito negativo, ma non è stato preso in considerazione - era scritto nella lettera dell’associazione The Innocence project - inoltre il Dna trovato era sufficiente solo per un profilo parziale". Se non c’erano tracce di sangue sul coltello, hanno sempre sottolineato quindi anche gli altri scienziati "innocentisti" che si sono interessati alla vicenda, come Bruce Budowles, genetista dell'Università del North Texas e consulente dell’Fbi, non era possibile che quella fosse l’arma del delitto. Gli esperti americani hanno anche paventato la possibilità che i campioni fossero contaminati, soprattutto perché l’analisi è stata condotta insieme a quella di altri reperti. Ad essere criticata è stata anche la lettura data dei risultati. Negli Stati Uniti infatti l’elettroforesi viene considerata valida se dà picchi sopra 150, mentre quelli sotto 50 vengono scartati, e quelli presi in esame per l’accusa erano tutti sotto questo livello. "Anche il reggiseno - hanno scritto gli esperti statunitensi - conteneva diversi Dna di cui uno compatibile con Sollecito, ma i giovani si frequentavano, quindi potrebbe essere finito lì in diversi modi innocenti".

"Uno scandaloso flop giudiziario". La stampa estera demolisce i pm. Il più duro è il britannico "Independent" che si chiede "quanto ingiustamente può agire il sistema di un Paese illuminato". L'americano "Huff Post": "Saga legale" tutta italiana, scrive Erica Orsini su “Il Giornale”. Spiazzati, sconcertati, indignati. È un giudizio unanime e durissimo quello dei media britannici e americani sul verdetto finale del caso Kercher. Per ragioni diametralmente opposte - i primi solidali verso il dolore di una famiglia colpita da un lutto gravissimo che rimarrà per sempre senza una spiegazione, i secondi strenui difensori di una connazionale la cui innocenza è stata finalmente riconosciuta - entrambi hanno riservato ieri commenti lapidari e titoli al vetriolo alla sistema giudiziario italiano. Per il quotidiano progressista britannico The Guardian il verdetto «è una pillola molta amara da ingoiare per i Kercher» perché «dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi questa non era affatto la conclusione che la famiglia avrebbe mai potuto desiderare». Ma soprattutto per il fatto che «sono state assolte le uniche due persone sospettate in questo caso». Anche i tabloid nazionali concordano su questo punto, enfatizzando la disperazione e lo stato di shock in cui è precipitata la famiglia della povera Meredith dopo una sentenza che ha messo per sempre la parola fine alla loro più che legittima richiesta di verità. Il Daily Mail , tra i quotidiani più seguiti in Gran Bretagna, accenna più volte in modo sprezzante alla «lunga saga di processi» mentre i titoli sul sito online spiegano che la sentenza della Cassazione italiana lascia «molti punti insoluti sulla vicenda» e si chiedono «allora chi ha ucciso Meredith?». È questo l'interrogativo che più pesa per la stampa d'oltre Manica mentre ciò che più sconcerta è la giustizia italiana che per l'ennesima volta esce a pezzi da questo vicenda. I giornali ripercorrono sette anni di clamorosi corsi e ricorsi, ricordano le ipotesi e le accuse, gli errori e le mancanze, l'insopportabile altalena emotiva a cui la famiglia di una vittima che non è mai stata al centro dell'attenzione, è stata sottoposta. Per il Daily Telegraph , quotidiano conservatore dai toni solitamente moderati, la coincidenza temporale dell'annullamento della Cassazione e l'uscita del film americano Il volto dell'angelo chiaramente ispirato ai fatti di Perugia, dimostrano «l'ossessione per Amanda Knox» alimentata da un circo mediatico che «insulta e offende la famiglia Kercher». Ma le parole più dure sulla nostra giustizia emergono sicuramente dal commento privo di retorica del corrispondente dell' Independent Peter Popham che scrive: «Knox e Sollecito assolti: è stato un terribile errore giudiziario. Il verdetto della Corte suprema mette la parola fine sull'intera vicenda. Ero stanco di sentir parlare del caso di Amanda Knox, di leggerne, di pensarci, di sentire cose su una storia su cui ormai nulla di più doveva essere detto. Eccetto una constatazione e cioè quanto ingiustamente può agire il sistema giudiziario di un meraviglioso, illuminato Paese. Quanto profondamente si può impantanare nelle sue stesse contraddizioni un sistema legale quando delle azioni decisive vengono prese in fretta, prima di avere delle prove cruciali». E mentre la madre di Amanda Knox minaccia una richiesta di risarcimento danni nei confronti della giustizia italiana per i quattro anni che la figlia ha trascorso in carcere, il sito dell' Huffington Post cerca di spiegare ai suoi lettori l'incomprensibile storia di una «complessa saga legale» tutta italiana.

Processo Meredith, i colpevoli sono i pm. Otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Dal punto di vista degli imputati assolti, meglio tardi che mai. Ma otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare. L'elenco degli errori è lungo e non riguarda solo gli investigatori e i giudici di vario grado, ma anche il sistema giustizia italiano, contorto e profondamente confuso, oltre che di una lentezza mediorientale. Tutto è bene ciò che finisce bene, si fa per dire. Raffaele Sollecito e Amanda Knox, tra una doccia fredda e una doccia calda, sono stati scagionati, come era giusto che fosse, per un motivo tanto semplice da essere disarmante: non si condannano persone per un delitto che non si è certi abbiano commesso. Punto e amen. La strada che si è percorsa per giungere a questa conclusione è piena di accidenti, di crudeltà e di assurdità. E meno male che la Cassazione ha dimostrato un'assennatezza di cui francamente non la accreditavamo. Altrimenti oggi saremmo di fronte al sospetto che un paio di innocenti fossero in carcere, ciò che spesso è accaduto e accadrà ancora finché non cambieranno i metodi processuali. Metodi che suscitano perplessità in altri Paesi dove pure si sbaglia, ma si cerca almeno di evitarlo. Come? Per esempio consentendo di ricorrere in appello soltanto a chi in primo grado sia stato condannato, al quale bisogna assicurare la possibilità di un «esame di riparazione». Appello, viceversa, non previsto per la pubblica accusa in base al principio che se essa non è stata capace di provare la colpevolezza dell'accusato, significa che le prove e gli indizi raccolti non sono abbastanza forti. Da noi, invece, il secondo grado è aperto sia all'accusa sia alla difesa col risultato che tra magistrati (Pm) e avvocati scoppia una vera e propria lite, con tanto di ripicche che assomigliano molto a vendette. Ma che giustizia è quella che sfocia regolarmente in risse, quasi che il soccombente rischiasse di perdere la faccia? Talvolta gli effetti prodotti da simile braccio di ferro sono surreali. È stato il caso di Amanda e Raffaele, i quali si sono fatti quattro anni - una vita, alla loro età - di carcerazione preventiva e altri quattro di libertà provvisoria (in attesa di verdetto definitivo), immagino trascorsi nell'angoscia e senza alcuna opportunità di costruirsi un'esistenza normale. Tutto questo è inammissibile. All'estero incomprensibile. Ovvio che la stampa straniera consideri l'Italia fuori dal mondo civile, altro che culla del diritto. Da vari anni è stata abolita una vecchia formula salvifica: la cosiddetta «insufficienza di prove», grazie alla quale in «dubio pro reo». Cancellata questa scappatoia, oggi i tribunali sono di fronte a un bivio: o colpevole o innocente. Tertium non datur . Cosicché in camera di consiglio, i magistrati si scannano per far valere le loro opinioni. E sottolineo opinioni. Se teniamo conto che i giudici popolari - non togati - non capiscono un cavolo di diritto, immaginate quale scempio del diritto stesso avverrà nelle sacre stanze della giustizia. A complicare le cose negli ultimi tempi è intervenuta la scienza, di cui abbiamo il massimo rispetto, che però, essendo maneggiata da uomini, può trasformarsi in una fonte di topiche macroscopiche. Non raramente le perizie ordinate dal tribunale e quelle di parte sono contrastanti, si smentiscono l'una con l'altra. Quali sono esatte e quali no? Se anche gli esperti non sono d'accordo tra loro, ci si può fidare delle congetture e dei teoremi dei pubblici ministeri, che affrontano i processi con lo stesso spirito combattivo dei pugili, pronti a tutto pur di vincere il match dal cui esito dipendono fama e carriera? In alcune circostanze si ha l'impressione che le toghe siano sadiche e godano allorché le loro decisioni servano a sbattere in prigione gli imputati a ogni costo, anche quello di prendere un granchio. In questo senso la vicenda di Amanda e Raffaele è paradigmatica. Rudy Guede, condannato a 16 anni per concorso in omicidio di Meredith Kercher, non ha mai fatto i nomi dei due quali suoi complici. Le cui tracce nel teatro dell'omicidio non sono state rilevate, se si esclude una briciola di Dna sul gancetto del reggiseno recuperato sotto il letto della vittima 40 giorni dopo il delitto. Altri elementi non c'erano per incastrare lei e lui. Solo elucubrazioni. Qualche labile indizio. Occhio, però. L'opinione pubblica era divisa in due parti: innocentisti e colpevolisti. Più numerosi quelli che pretendevano di aver capito, sulla scorta di sensazioni, che i due innamorati meritassero la cella. Le pressioni ambientali, le aspettative della gente influenzano tutti, in particolare i giudici popolari. E così si comprende la piega negativa che hanno assunto le sentenze di primo grado e dell'Appello bis. Ma, al netto delle supposizioni, delle malevolenze e delle stupidaggini a cui la stessa Amanda ha dato corpo nel corso dell'inchiesta, nulla giustificava una pena detentiva da infliggersi ai due giovani. L'avvocato Giulia Bongiorno e il suo collega Carlo Della Vedova sono stati impeccabili. Mi domando se il merito dell'assoluzione sia tutto loro o abbia giocato favorevolmente la notevole sensibilità della Corte. Difficile rispondere. Comprensibile il dolore dei genitori della vittima, i quali a distanza di otto anni dal fatto di sangue non sanno ancora se ad averlo commesso sia solo Rudy o se questi si sia avvalso della complicità di qualcuno. Eventualmente, chi? Ma è anche vero che o gli assassini vengono identificati con sicurezza, e castigati, oppure, nella vaghezza delle ipotesi, è criminale selezionare due individui e punirli per ciò che forse hanno compiuto o forse no. Comunque la nostra giustizia - e non mi riferisco alla Cassazione - ha confermato di essere malata. Soprattutto di protagonismo.

L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.

L'Italia dei processi infiniti dai costi incalcolabili. Se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale, scrive Luca Fazzo su  “Il Giornale”. Non è stato il primo, e sicuramente non sarà l'ultimo: se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale. Il codice non prevede un tie break, un momento in cui si debba per forza tirare le fila, facendo pendere la bilancia da una parte o dall'altra. L'andirivieni tra Corti d'appello e Cassazione può andare avanti in teoria all'infinito: specie per i processi per omicidio, che non possono essere inghiottiti dalla prescrizione. Certo, i costi per la collettività sono incalcolabili, e pesanti anche i costi materiali e psicologici per vittime e imputati. Ma di una norma che metta fine al rimpallo non si è mai parlato. E così non è affatto da escludere che lo stesso esito del processo per il delitto di Perugia possa averlo a breve quello per il delitto di Garlasco, visto che la Cassazione dopo avere annullato la assoluzione di Alberto Stasi potrebbe tranquillamente annullare anche la sua condanna. Come capostipite dei processi interminabili viene indicato abitualmente quello per la strage di piazza Fontana: che però ebbe un percorso accidentato ma tutto sommato lineare, anche se molti anni dopo la stessa Cassazione scrisse che la Cassazione si era sbagliata ad assolvere i neofascisti Freda e Ventura. Ben più surreale fu invece l'andirivieni di un altro processo degli anni di piombo, quello per l'omicidio del commissario Calabresi: Adriano Sofri venne condannato in primo e secondo grado, la Cassazione annullò la condanna, nel nuovo processo d'appello Sofri venne assolto ma la Cassazione annullò anche questa sentenza, e ci vollero un terzo processo d'appello e una nuova condanna, stavolta confermata dalla Cassazione, per chiudere la vicenda. In tempi più recenti, quasi impossibile da spiegare ai non addetti ai lavori è stato l'iter del processo per il rapimento dell'imam terrorista Abu Omar: gli 007 del Sismi vennero assolti in primo e secondo grado, la Cassazione annullò le assoluzioni, a quel punto l'appello bis si concluse con la condanna di tutti gli imputati, ma la Cassazione annullò (fortunatamente senza rinvio, altrimenti si sarebbe andati avanti chissà quanto) anche la sentenza di condanna. Per i reati non puniti dall'ergastolo, a dare un taglio alla faccenda arriva prima o poi la prescrizione, ma l'effetto è ugualmente straniante: la Procura di Milano non ha mai rinunciato a considerare Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, colpevole del caso Unipol, ma si è dovuta arrendere - a causa del tempo trascorso - di fronte alla sentenza di assoluzione dell'appello-bis, dopo che la Cassazione aveva annullato le prime assoluzioni. E nel vuoto rischia di svanire anche il triste caso di Matilda Borin, la bambina uccisa nel 2005 vicino Vercelli. Prima fu assolto l'amante della madre, poi anche la madre; altri non potevano essere stati; la Cassazione ha riaperto il caso, ma - trattandosi di omicidio preterintenzionale - la prescrizione potrebbe arrivare prima di qualunque condanna.

FORCAIOLI: ORA TACETE!

Delitto di Perugia. L’assoluzione di Amanda e Raffaele una lezione per la piazza forcaiola, scrive “Tempi”. L’istruttivo racconto dei giudici che per primi sancirono la non colpevolezza degli imputati: siamo stati «denigrati per anni», ma in mancanza di prove certe «si può tollerare l’assoluzione del colpevole, non la condanna dell’innocente». In margine al clamore suscitato dall’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nella notte di Halloween ben 8 anni fa (otto), oltre alla durata e alle alterne sorti della vicenda processuale (condanna in primo grado, assoluzione in appello, annullamento in Cassazione, nuova condanna in un nuovo appello e infine assoluzione «per non aver commesso il fatto»), devono far riflettere tutti, magistrati e giornalisti in primis, le parole consegnate alla stampa in questi giorni da due dei giudici della Corte di assise di appello del capoluogo umbro, quella che nell’ottobre 2011 per prima riconobbe i due ex fidanzati non colpevoli per l’uccisione della povera ragazza. Si tratta dell’allora presidente di quella Corte, Claudio Pratillo Hellmann, oggi in pensione, e del giudice Massimo Zanetti. In una intervista pubblicata  da Repubblica, parlando del verdetto «senza rinvio» stabilito dai giudici della Cassazione venerdì 27 marzo, Hellmann esprime «soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo», ma spiega che per lui questa decisione rappresenta «soprattutto la fine di una grande sofferenza». Per tre anni e mezzo, infatti, il magistrato ha «sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima», a causa di un processo divenuto assurdamente “mediatico”, le cui conseguenze Hellmann ha finito per pagare di tasca propria. «La nostra decisione – racconta il magistrato a Repubblica – fu accolta con reazioni di sdegno». Hellmann parla di vero e proprio «linciaggio diffamatorio». «Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia». Evidentemente la folla aveva già deciso, a prescindere dai fatti (non) accertati in tribunale, che Amanda e Raffaelle dovevano essere riconosciuti colpevoli. Ma non solo la folla. Helmann rimase particolarmente colpito dalla «reazione dei colleghi magistrati». «Quasi tutti» i colleghi, ricorda il giudice, «mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda». Secondo lui nel tribunale di Perugia «tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa». E la sentenza di assoluzione fu a tal punto indigesta per il suo ambiente che la presidenza del Tribunale, per la quale Hellmann dice di essere stato «in predicato», fu invece «assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione». Dice: «Praticamente fui costretto». Nel colloquio con il quotidiano Hellmann spiega che l’indagine sul conto di Amanda e Raffaele, evidentemente non agevolata dall’eccessiva attenzione mediatica di cui è stata oggetto, «era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall’inizio». Lo dimostrerebbero l’arresto ingiusto di Patrick Lumumba («che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa») e le perizie ordinate dalla stessa Corte di appello che «non erano state fatte durante il processo di primo grado», e grazie alle quali, soprattutto, «la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza». Secondo il giudice era «palese» che «il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l’arma del delitto», tanto che perfino nel secondo processo di appello, che pure terminò con una condanna per i due imputati (inspiegabile, secondo Hellmann), la perizia scientifica disposta dalla Corte di Firenze «aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra». Anche Zanetti, intervistato domenica 29 marzo dal Tg1, ricorda di essere stato «denigrato ingiustamente per anni» per l’assoluzione della Knox e di Sollecito. Il fatto è che per la Corte di assise di Perugia «le prove raccolte non erano sufficienti per una condanna», racconta Zanetti, e però la legge impone al giudice di raggiungere nel processo una certezza superiore a ogni ragionevole dubbio prima di giudicare qualcuno colpevole di un reato. Non fu facile sottoscrivere un verdetto evidentemente contrario a quello stabilito a priori dal circuito mediatico-giudiziario, ma «il destino degli altri che in quel momento è in mano nostra – spiega Zanetti – non è barattabile con la comodità di una carriera spianata». Sono le conseguenze “scomode” dello Stato di diritto: in mancanza di prove certe, meglio mandare in libertà un criminale che rischiare di colpire qualcuno ingiustamente. La verità processuale non equivale alla verità dei fatti, e non a caso l’ordinamento italiano, sintetizza Zanetti, «può tollerare l’assoluzione del colpevole, ma non la condanna dell’innocente». Nemmeno se a deciderla è stata la piazza.

DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!

"Uno in meno". Bufera per insulti su Fb. Capo Dap sospende 16 agenti, scrive “L’Ansa”. I commenti choc sono stati ospitati e poi cancellati sul profilo Facebook di un sindacato minore di polizia penitenziaria. "Un rumeno di meno" o ancora "Speriamo abbia sofferto". Sono i commenti shock al suicidio, l'ennesimo, in carcere di un detenuto in ergastolo, pubblicati (e poi cancellati) sulla pagina Facebook dell'Alsippe, un sindacato minore della polizia penitenziaria. Una vicenda che ha scatenato una bufera con una dura presa di posizione del ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha parlato di "atti intollerabili" e ha convocato il capo del Dap. Il detenuto in questione, Ioan Gabriel Barbuta si è tolto la vita nel carcere milanese di Opera, dove si trovava in seguito a una condanna in appello all'ergastolo da parte della Corte d'assise di Venezia per aver ucciso, nel giugno del 2013, un vicino di casa durante una rapina finita male. Il capo del Dap, Santi Consolo, ha comunque immediatamente preso le distanze sottolineando di considerare i post "un'offesa al lavoro di tutti gli agenti che tutti i giorni sono impegnati a salvaguardare le persone che hanno in custodia". E dopo un colloquio con il ministro della Giustizia Orlando sospende alcuni agenti. "Ho firmato 16 provvedimenti cautelari di sospensione e ho concordato con il direttore del personale l'avvio del procedimento disciplinare" - ha annunciato -. Il capo del Dap non è entrato nel dettaglio delle possibili sanzioni per gli agenti, decisione che non compete a lui, perché come ha spiegato "sarà un organo terzo a decidere sulle sanzioni disciplinari". "Non si tratta - ha aggiunto il ministro della Giustizia Orlando, che insieme a Consolo ha tenuto una conferenza stampa - di un organo ad hoc, ma di una commissione disciplinare che interviene nel caso di rilievi". Consolo ha inoltre annunciato d'aver trasmesso gli atti alla procura: "Ho trasmesso un rapporto corposo predisposto dal nucleo investigativo centrale all'autorità giudiziaria perché faccia le sue valutazioni: se ci sono reati questa amministrazione si costituirà parte civile per danno all'immagine". Rispetto alla possibilità che nei comportamenti degli agenti possa esserci un rilievo penale e che possa essere contestato il reato di istigazione al suicidio, Consolo si è limitato a specificare che queste sono valutazioni che spettano ai magistrati. Quanto al fatto che tra i 16 agenti per cui è partito il provvedimento di sospensione ci siano anche appartenenti a organizzazioni sindacali del Corpo, Consolo ha precisato che gli accertamenti in questo senso sono appena iniziati e ancora in corso. L'organismo del Ministero da cui dipende la Polizia penitenziaria ha già avviato un'inchiesta interna per accertare che gli autori degli insulti siano davvero dei poliziotti e assicura che, in caso positivo, scatteranno le dovute sanzioni dal momento che la faccenda è ritenuta una "follia intollerabile". Prende le parti degli agenti il leader leghista Matteo Salvini: "conoscendo quali sono le condizioni in cui lavorano gli agenti della Polizia Penitenziaria non dico che giustifico ma capisco". Chiedono, invece, di fare luce sulla vicenda il Pd e Sel, mentre Patrizio Gonnella di 'Antigone' invita il Dap a chiudere ogni rapporto con l'Aslippe se sarà dimostrato che sono tesserati di questo sindacato quelli che hanno scritto "le frasi volgari e offensive". "Se è vero - dice Gonnella - che si tratta di agenti penitenziari questi hanno contravvenuto a un dovere di lealtà e legalità, tradendo la loro missione e il loro impegno istituzionale". Dura condanna arriva anche da uno dei principali sindacati degli agenti, il Sappe che, nel dare la notizia del suicidio di Barbuta, aveva spiegato: "Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla Polizia Penitenziaria, pur con le criticità che l'affliggono, non si e' riusciti ad evitare tempestivamente cio' che il detenuto ha posto in essere nella propria cella". Il segretario del Sappe, Donato Capece attacca inoltre i presunti colleghi "esultare per la morte di un detenuto - dice - è cosa ignobile e vergognosa".

Suicida: capo Dap firma 16 provvedimenti sospensione, scrive invece “La Repubblica”. Prime misure per la vicenda, rivelata da Repubblica.it, delle offese pubblicate da agenti sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria. Il ministro Orlando: "Assumeremo iniziative congrue". "Sedici provvedimenti cautelari di sospensione" per la vicenda degli insulti via Facebook a un detenuto suicida da parte di agenti della polizia penitenziaria. Li ha firmati il capo del Dap Santi Consolo, che ha annunciato di aver anche "concordato con il direttore del personale l'avvio del procedimento disciplinare". "Ho trasmesso un rapporto corposo predisposto dal nucleo investigativo centrale all'autorità giudiziaria perché faccia le sue valutazioni: se ci sono reati questa amministrazione si costituirà parte civile per danno all'immagine", ha aggiunto Consolo. Durissimo anche il ministro della Giustizia Andrea Orlando: "Assumeremo i provvedimenti del caso", ha detto a margine dell'inaugurazione dell'anno giudiziario delle commissioni tributarie, assicurando che verranno portate avanti "iniziative congrue". Il comportamento degli agenti penitenziari, ha ribadito il Guardasigilli, "è inammissibile, tanto più in un momento di grandi tensioni come questo è importante che nelle carceri venga assicurato il rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e della vita umana". Però, ha tenuto a precisare Orlando, "va anche detto che gli agenti della polizia penitenziaria sono di norma quelli che sventano i suicidi non quelli che esultano quando ne avviene uno". Sulla questione intervengono anche gli avvocati che aderiscono alla Camera penale di Milano che definiscono le frasi pronunciate dagli alcuni agenti di polizia penitenziaria come parole che "fanno rabbrividire", perché "ogni suicidio in carcere è di per sé inaccettabile", è "il segno del fallimento di un sistema penitenziario che dovrebbe avviare le persone alla revisione di scelte devianti ed accompagnarle di nuovo nel mondo".

Suicidio in carcere, atroci commenti di agenti su Fb: "Uno di meno". Interviene Orlando. Le frasi sono apparse sulla pagina del sindacato di polizia penitenziaria Alsippe, che poi ha deciso di rimuoverle. Il Dap avvia un'inchiesta interna. Il ministro della Giustizia convoca i vertici dell'amministrazione, scrivono Giuliano Foschini e Marco Mensurati su “La Repubblica”. Un uomo si suicida nel carcere di Opera. E gli agenti di Polizia penitenziaria - come rivela Repubblica.it - si esibiscono in un diluvio di commenti di questo genere: "Meno uno". "Un rumeno in meno", "mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l'esempio". L'ultima vergogna italiana è qui, in un gruppo Facebook di un sindacato di agenti, l'Alsippe, dove nelle ultime ore si è scatenata una caccia all'uomo che rischia di avere gravi conseguenze. Il ministro della giustizia Andrea Orlando ha convocato il capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, per chiarimenti su commenti definiti "intollerabili". L'incontro servirà, tra l'altro, per acquisire "elementi sull'inchiesta interna avviata e per valutare i provvedimenti da adottare". Il ministro convocherà nei prossimi giorni anche le sigle sindacali della polizia penitenziaria per discutere dell'accaduto e "di come evitare che simili inqualificabili comportamenti possano ripetersi". Il sindacato Alsippe ha deciso di cancellare i commenti incriminati dalla propria pagina Facebook sottolineando di non condividerli. "Non è nostra abitudine censurare i commenti dei nostri followers pubblicati sul nostro profilo di Facebook", si legge sulla pagina social del sindacato, dove si spiega che la decisione è maturata considerando che le frasi "hanno ingenerato una strumentalizzazione tale da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria". Il caso nasce tre giorni fa, con la notizia del suicidio dell'uomo: 39 anni, Ioan Gabriel Barbuta, romeno, era detenuto nel carcere di Opera dopo essere stato condannato all'ergastolo nel giugno del 2013 per l'omicidio di un vicino di casa. Una storiaccia emblematica anche perché documenta per l'ennesima volta la barbarie delle condizioni delle carceri in Italia, sia per i detenuti sia per chi ci lavora. "Noi poliziotti penitenziari - diceva non a caso nell'articolo un sindacalista del Sappe - siamo attenti alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso". Il problema è però evidentemente come si declinano questa "attenzione e sensibilità". Perché i commenti a corredo del post che sono apparsi sulla pagina Facebook dell'Alsippe, uno dei sindacati della Polizia penitenziaria, sono stupefacenti: "Meno uno". "A me dispiace per i colleghi che si suicidano per soggetti come questo. Per lui no!", e ancora "chi se ne frega?", "uno de meno che lo stato non ha da magna..." e a chi faceva notare che i commenti erano fuori luogo la risposta era chiara: "Lavora all'interno di un istituto. Sono solo extracomunitari. Per fare questo mestiere devi avere il core nero". E la cosa incredibile è che la maggior parte di queste persone arrivavano non soltanto da agenti ma anche da chi ha responsabilità sindacali. Insomma, rappresentanti della categoria. Questa storia probabilmente però non finirà qui. Perché grazie all'intelligenza e alla sensibilità di qualcuno che lo ha denunciato sui social, è finita all'attenzione del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, che ha immediatamente avviato un'inchiesta interna. "E' un'offesa - spiegano al Dap - al lavoro di tutti gli agenti impegnati a salvaguardare le persone che hanno in custodia". Profonda irritazione è stata espressa anche da altre sigle sindacali. Tre senatori del Pd (Roberto Cociancich, Laura Cantini ed Andrea Marcucci) e Sel hanno preannunciato un'interrogazione al Guardasigilli sul caso. Per Daniele Farina, capogruppo Sel in Commissione Giustizia a Montecitorio, si tratta di "commenti inqualificabili che vanno stigmatizzati", sottolineando la necessità di arrivare all'istituzione di una Commissione parlamentare di indagine sulle morti in carcere. Matteo Salvini, segretario della Lega nord, parla di "commento che a mente fredda uno non avrebbe fatto" e poi spiega: "Conoscendo quali sono le condizioni in cui lavorano gli agenti della Polizia Penitenziaria non dico che giustifico ma capisco".

Suicida in cella. Silenzio diventa notizia solo se…, scrive Giuseppe Candido su “Il Garantista”. Suicidio al carcere di Opera, a Milano. Il Sappe lancia l’allarme per le condizioni inumane dei penitenziari, ma per Repubblica.it la notizia diviene un’altra. La versione online del quotidiano diretto da Ezio Mauro, mercoledì 18 febbraio, pubblica un articolo a firma di Giuliano Foschini e Marco Mensurati, col titolo in bella evidenza su alcuni commenti usciti sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria: “Suicidio in carcere, atroci commenti di alcuni agenti su Fb: Uno di meno ”. «Un uomo si suicida nel carcere di Opera», scrivono i due giornalisti. Ma aggiungono subito dopo: «gli agenti di Polizia penitenziaria – come rivela Repubblica. it – si esibiscono in un diluvio di commenti di questo genere: ”Meno uno”. ”Un rumeno in meno”, ”mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio”». Nessuno cenno alla condizione ancora disumana e degradante delle carceri che nell’ottobre 2013 ha indotto il presidente della Repubblica emerito Giorgio Napolitano a inviare – secondo l’articolo 87 della Costituzione – un messaggio alle Camere per chiedere di «riconsiderare le ostilità a un provvedimento di amnistia e indulto». Un messaggio ancora tragicamente attuale e che come Radicali, proprio perché rimasto inascoltato dal Parlamento cui era rivolto, abbiamo deciso di mettere al centro della nostra iniziativa politica. Per ottenere qualche condivisione in più sui social, i giornalisti aggiungono la frase ad effetto: «L’ultima vergogna italiana è qui, in un gruppo Facebook di un sindacato di agenti, dove nelle ultime ore si è scatenata una caccia all’uomo che rischia di avere gravi conseguenze». Trattandosi di un articolo online uno si aspetterebbe di trovare almeno il collegamento che conduce alla pagina incriminata dove, secondo gli autori, sono apparsi questi commenti che consentono di dire: è Repubblica ad aver “rivelato” la notizia. Invece niente, c’è solo una immagine di alcuni commenti su Facebook senza che si capisca nemmeno su quale pagina siano. Poi si scopre che questi commenti sono stati fatti sulla pagina di un piccolo sindacato di polizia, l’Al.Si.Ppe., che tra l’altro ha subito rimosso i commenti incriminati scusandosi: «Non è nostra abitudine censurare i commenti dei nostri followers pubblicati sul nostro profilo di Facebook, ma visto il contenuto e fermo restanti le responsabilità  personali per quanto si afferma scrivendo su Facebook alcune frasi riportate, hanno ingenerato una strumentalizzazione tale da comportare un possibile danno di immagine al Corpo di Polizia penitenziaria. Oltre a non essere assolutamente condivisibili da parte del nostro sindacato, pertanto abbiamo ritenuto opportuno cancellarli». Meglio tardi che mai, verrebbe da commentare. Ma allora la domanda è un’altra: quale è la notizia per Repubblica? Quella delle carceri sulle quali il giornale vuol far notare di essere attenta, o piuttosto quella che sono apparsi commenti indecenti relativamente al suicidio del cittadino rumeno? Per gli autori dell’articolo evidentemente la seconda. E in realtà Repubblica non rivela proprio un bel niente perché – ad onor del vero – a dare la notizia dell’ennesimo suicidio nelle patrie galere, il sesto del 2015, è stato direttamente il Sappe Lombardia, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, con un comunicato diramato dal segretario Donato Capece che aveva posto al centro quello che definiva «un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria». Un comunicato che era stato ripreso dalla carta stampata de Il Giornale, nelle pagine di Milano, il giorno 15 febbraio 2015 e, successivamente, dalle Cronache del Garantista, quotidiano molto attento alla tematica delle carceri, con un bell’articolo di Damiano Aliprandi pubblicato sulla versione cartacea martedì 17 e che, a differenza di Repubblica, si occupava dell’”uomo”, del cittadino rumeno che non c’è più, di una persona che ha preferito togliersi la vita in carcere. Si trattava lì di voler documentare una condizione vergognosa, quella sì, di carceri in cui anche agenti, operatori sanitari e direttori, sono spesso vittime di uno stato che non rispetta più la sua stessa legge né quella internazionale e continua a trattare in modo inumano e degradante i detenuti e, con loro, tutto il personale che in quelle condizioni lavorano ogni giorno. La cosa strana è che sia la notizia dei commenti su Fb apparsa sul sito di Repubblica.it solo il 18 febbraio, sia quella sullo stesso sito ma relativa al “fatto” che porta la data del 14 febbraio, non sono mai stati pubblicate su carta, ma solo nella versione digitale.

A Opera si continua a morire: ecco il sesto suicidio del 2015, scrive Damiano Aliprandi su Il Garantista. Si è tolto la vita impiccandosi all’interno della sua cella del carcere di Opera, alla periferia di Milano. Parliamo dell’ennesimo suicidio all’interno delle nostre patrie galere e questa volta è toccato ad un detenuto romeno di 39 anni, condannato dalla Corte di assise d’appello di Venezia all’ergastolo per omicidio. La sua è stata una controversa vicenda giudiziaria. Il detenuto suicidato era accusato dell’omicidio dell’agricoltore sessantenne di Due Carrare, trovato senza vita, semicarbonizzato, nella sua abitazione il 6 giugno del 2007. Barbuta – l’ergastolano suicidato – era stato sempre assolto nei primi due gradi di giudizio, prima dall’Assise di Padova, quindi dall’Assise d’Appello di Venezia. I giudici avevano sempre condiviso l’impostazione della difesa. Secondo l’avvocato Chiarion non vi sarebbe stata alcuna prova decisiva a carico di Barbuta. I due verdetti erano stati però impugnati in Cassazione dalla Procura generale e dall’ex moglie della vittima. La Suprema Corte aveva annullato la sentenza assolutoria rinviando il processo ad un’altra sezione della Corte d’Assise d’Appello. Il 26 giugno 2013 i giudici veneziani gli avevano inflitto l’ergastolo, con isolamento diurno per sei mesi. Barbuta era stato arrestato un paio di mesi dopo dalla polizia romena nella città di Miroslava, nel distretto di Ieiu, ed estradato in Italia. Inizialmente la morte di Guerrino Bissacco era stata attribuita a un incendio accidentale o addirittura ad un suicidio. Le lesioni rilevate sul corpo dell’agricoltore durante l’autopsia avevano rapidamente portato i carabinieri della compagnia di Abano ad orientarsi verso l’omicidio. Secondo l’accusa, Barbuta, che abitava a pochi chilometri dall’abitazione della vittima in via Bassan, si sarebbe introdotto in casa di Bissacco per rubare la targa della sua auto, da montare successivamente sulla propria vettura. Avrebbe avuto infatti bisogno di una targa ”pulita” per rapire la fidanzata e riportarla in Romania. Scoperto dall’agricoltore, lo avrebbe ucciso provocando poi un incendio per far sparire ogni traccia del delitto. A rendere noto il suicidio del detenuto è stato il sindacato della Polizia penitenziaria (Sappe) secondo il quale, nonostante l’intervento degli agenti, non c’è stato nulla da fare. «Purtroppo, nonostante il prezioso e costante lavoro svolto dalla polizia penitenziaria, pur con le criticità che l’affliggono, non si è riusciti ad evitare tempestivamente ciò che il detenuto ha posto in essere nella propria cella», osserva il segretario generale del Sappe, Donato Capece. «Quel che mi preme mettere in luce – aggiunge Capece – è la professionalità, la competenza e l’umanità che ogni giorno contraddistinguono l’operato delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria di Milano Opera con tutti i detenuti per garantire una carcerazione umana ed attenta pur in presenza ormai da anni di oggettive difficoltà operative come le gravi carenze di organico di poliziotti e le strutture spesso inadeguate. Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso». Poi Capece sottolinea i problemi del carcere di Milano stesso: «Nei dodici mesi del 2014 nel carcere di Milano Opera si sono contati purtroppo il suicidio di un detenuto e la morte, per cause naturali, di un altro. Quattro sono stati i tentati suicidi evitati in tempo dai poliziotti penitenziari; 35 gli episodi di autolesionismo, 24 le colluttazioni e 7 i ferimenti». Sempre Capece conclude: «Numeri su numeri che raccontano un’emergenza purtroppo ancora sottovalutata, anche dall’Amministrazione penitenziaria che pensa alla vigilanza dinamica come unica soluzione all’invivibilità della vita nelle celle senza però far lavorare i detenuti o impiegarli in attività socialmente utili». Resta il fatto che il sistema penitenziario continua a produrre morte. Dall’inizio dell’anno siamo arrivati a sei suicidi, con un totale di 12 morti.

RepTv News, Ceccarelli: "Carceri, il silenzio della politica. Paura o repulsione?" Dopo l'ultimo suicidio in cella e gli insulti on web nessuna voce si è levata dai politici sul sovraffollamento, le condizioni pietose delle prigioni e i morti in carcere,  detenuti e  guardie. Forse qualcuno teme "di finirci dentro". Molti di certo hanno paura di "perdere voti".

La gabbia, scrive Massimo Gramellini su “La Stampa”. Un ergastolano si suicida in prigione e sulla pagina Facebook di un sindacato di polizia penitenziaria compaiono commenti di tenebra: «un rumeno di meno», «mi chiedo cosa aspettino gli altri a seguirne l’esempio». Stupore, scandalo, indignazione. E il solito carico insopportabile di ipocrisia. Come se molti secondini non avessero mai formulato questi pensieri anche prima che la tecnologia permettesse loro di farli conoscere a tutti. Come se, oltre a pensarli, non li avessero già espressi fin troppe volte in pestaggi e torture. Ma, soprattutto, come se si trattasse di qualche malapianta cresciuta in un giardino di rose anziché dell’ovvia conseguenza di un sistema in cui carcerieri e carcerati condividono le stesse brutture e combattono l’ennesima guerra tra poveri. La galera in Italia non è un centro di recupero, ma una soffitta orrenda dove stipare rifiuti umani che almeno metà della popolazione vorrebbe vedere sparire per sempre, non fosse altro perché teme che qualche garbuglio legale riesca a rimetterli in libertà molto prima del meritato e del dovuto. Le statistiche urlano che il carcere riesce a cambiare soltanto chi lavora, possibilmente in un luogo sano. Eppure nella pratica comune i condannati vivono da parassiti e la pena viene espiata in ambienti fetidi e brutali, tranne per chi è abbastanza ricco e mafioso da potersi permettere un trattamento privilegiato. Rendere civili le carceri e dare un senso alla galera non porta voti, quindi è considerato uno spreco. La politica ci risparmi almeno la sua indignazione per la beceraggine di certi immondi carcerieri. È lei ad averli disegnati così. 

Quelli che… dagli, dagli all’assassino! Scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Prima di sapere come andava a finire, finalmente Schettino ha pianto. Finalmente non perché pensiamo che dovesse piangere, che si dovesse battere il petto per chiedere perdono, come molti volevano. Finalmente perché ha detto tutto quello che ha passato. Non solo il dolore per le persone che sono morte, ma anche il fatto che in questi anni è stato «sotto il tritacarne mediatico». Sì, questi tre anni, dal naufragio della Concordia, gli italiani hanno vissuto sonni tranquilli, perché tanto il Colpevole, l’Assassino era lui. Sul processo e sulla sentenza, pesa questo sentimento che fin da subito ha colpito il comandante. Non erano passate neanche poche ore che già agli occhi dell’opinione pubblica mondiale era diventato lui l’unico responsabile del naufragio, il comandante vile che ha lasciato morire trentadue persone. È bastato davvero poco perché la sentenza fosse emessa, perché non ci fosse nessuna attenuante. La telefonata del comandante De Falco che gli grida di tornare a bordo – a quanto pare fatta uscire appositamente per delegittimare ancora di più Schettino – ha fatto il resto. Ma la gogna pubblica, messa in piedi da tv e giornali, è andata oltre. Ha fatto qualcosa di ancora più grave. Non solo ha condizionato pesantemente l’esito del processo, la condanna che ieri è stata trasmessa come se fosse una fiction, ma ha anche creato il Mostro. Schettino il vile, il comandante poco coraggioso, è diventato il personaggio perfetto per costruire il capro espiatorio, il responsabile di tutti i mali, l’esempio da stigmatizzare di quell’Italia che si merita di andare a fondo. In questi anni, senza nessuna pietà, Schettino è stato additato, offeso, perseguitato. Questo non significa che lui non abbia responsabilità, ma che queste responsabilità si sono mescolate con un sentimento di odio e di gogna che poco c’entra con la giustizia e con la verifica puntuale di tutte le responsabilità. Dall’opinione pubblica, o meglio dal pubblico di questo osceno spettacolo, si è passati all’aula di giustizia, dove il pm – che aveva chiesto per Schettino 26 anni, reputandolo l’unico colpevole – sono arrivate parole inaccettabili in un tribunale. Lo ha chiamato «abile idiota». Non una prova, ma un giudizio morale. Non la frase di un pubblico ministero, ma l’urlo della folla inferocita. Schettino, allora, ci racconta anche di noi. Di come siamo diventati e di come è diventata la giustizia in questo Paese. Noi, questa società, è diventata più barbara. Siamo sempre pronti a mandare qualcuno al patibolo, pensando che siamo migliori. Non esercitiamo il dubbio, non proviamo pietà, siamo solo capaci di affermare verità, la nostra verità. Una verità che ci scagiona e accusa l’altro. Da questo punto di vista il comandante Schettino è stato perfetto, il migliore obiettivo che ci si potesse dare in pasto. E noi lo abbiamo accolto, mangiato e sputato come qualcosa di spurio, come colui che corrompe il tessuto sociale e va fatto fuori. La giustizia, quella andata in scena non in un tribunale, ma in un teatro di Livorno, ne esce altrettanto male. La scelta anche del luogo dove celebrare il processo ci racconta di un rapporto morboso tra media e giudici. L’obiettività è stata sostituita dalla spettacolarizzazione, lo stato di diritto dalla condanna in diretta. Molti godranno della pena inflitta a Schettino, anzi si lamenteranno che gli anni non sono stati abbastanza, noi no. E non solo per il suo bene.

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

“Cose nostre: per un uso sociale dei beni confiscati alla mafia” recita il titolo di un convegno tenuto il 12 febbraio 2015 a Manduria nel tarantino e promosso dai Verdi e dal movimento Giovani per Manduria. A relazionare sul tema son venuti da Mesagne, nel brindisino, quelli di “Libera” ed erano presenti soggetti istituzionali di Manduria e di Mesagne.

“Cose nostre” si affermava nel titolo del convegno, mutuata dallo spot nazionale di “Libera” come se di una espropriazione proletaria si trattasse.

La Gazzetta del Mezzogiorno e Manduria Oggi ha dato ampio risalto all’evento.

Già nel marzo 2010 si leggeva su La voce di Manduria che "Il comune bandirà una gara per l'affidamento alle associazioni di tutti i 25 beni (terreni ed immobili) confiscati alle due famiglie mafiose Stranieri e Cinieri di Manduria. I primi tre lotti riguardano l'ex ristorante Tutti Frutti ed altre due villette a San Pietro in Bevagna. L'associazione contro le mafie, Libera, coordinerà i progetti finanziati dalla Regione Puglia.

Già da allora “Libera” voleva mettere le mani sui beni manduriani, non riuscendoci.

Si legge su Manduria Oggi del 3 dicembre 2014  «Quando la Regione Puglia, nel 2010 varò il progetto “Libera il Bene”, una iniziativa che promuoveva, con finanziamenti, il recupero e il riuso dei beni confiscati, nessun ente locale della provincia di Taranto partecipò, perdendo così una occasione preziosa» ricorda Anna Maria De Tomaso Bonifazi, referente per la provincia dell’associazione “Libera”. «Più volte “Libera”, fin dal 2004, ha chiesto di conoscere lo stato degli immobili confiscati sia al Comune di Taranto che a quello di Manduria, ricevendo risposte evasive. Eppure proprio a Manduria, in un periodo di commissariamento del Comune, il Prefetto di Taranto e i referenti nazionali di “Libera” riuscirono finalmente a mettere a bando i beni confiscati. Ma ci accorgemmo ben presto che si trattò di una vittoria di Pirro, perché, con l’elezione del nuovo Consiglio Comunale, il sindaco che si insediò annullò tutto e, di fronte alle rimostranze di “Libera”, non seppe fornire spiegazione alcuna, se non rifacendosi ad una decisione del segretario generale del Comune».

Vorrei, se possibile, come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, associazione antiracket ed antiusura riconosciuta dal Ministero dell’Interno, in quanto iscritta presso la prefettura di Taranto dal 2006, ma non facente parte della sfera di Libera, contribuire a far chiarezza su un dato, tenuto conto che nei convegni si devono sentire tutte le campane e fare compendio, specialmente se in quel convegno di diritto si avrebbe avuto interesse a prendere la parola. Non foss’altro per  spirito territoriale, avente la sede legale a 10 km da Manduria. E non è per spirito polemico, ma per ragioni di verità, per non  far passare dei principi non esatti ma ritenuti come tali, in virtù dell’ampia visibilità che a “Libera” si dà. Opinioni secondo scienza e coscienza forte delle mansioni nazionali che ricopro.

Si spera che la mia precisazione abbia lo stesso risalto che si è dedicato ai presenti al convegno.

Descrizione del Fenomeno, si legge sul sito della Commissione Nazionale Antimafia. Uno degli elementi fondamentali per sconfiggere le mafie è procedere al loro impoverimento confiscando loro tutti i beni e i patrimoni acquisiti mediante l'impiego di denaro frutto di attività illecite. Si tratta di un principio fondamentale che Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista in Sicilia e parlamentare della Commissione antimafia, ucciso a Palermo il 30 aprile 1982, capì in modo molto chiaro. Infatti, la legge che successivamente introdurrà nel codice penale italiano l'articolo 416-bis e altre norme, denominate misure patrimoniali, che consentono la confisca dei capitali mafiosi, porta il suo nome insieme a quello dell'allora Ministro dell'Interno, Virginio Rognoni. I beni dei quali sia stata accertata la proprietà da parte di soggetti appartenenti alle organizzazioni mafiose vengono confiscati, vale a dire sottratti definitivamente a coloro che ne risultano proprietari. Questi beni sono rappresentati da immobili (case, terreni, appartamenti, box, ecc.), da beni mobili (denaro contante e titoli) e da aziende. Secondo quanto previsto dalla legge 7 marzo 1996, n. 109, una legge di iniziativa popolare sostenuta dalla raccolta di un milione di firme da parte dell'associazione Libera, i beni immobili possono essere usati per finalità di carattere sociale. Questo significa che essi possono essere concessi dai comuni, a titolo gratuito, a comunità, associazioni di volontariato, cooperative sociali e possono diventare scuole, comunità di recupero per tossicodipendenti, case per anziani, ecc. Nelle regioni meridionali, ad esempio, sono sorte delle Cooperative sociali di giovani che coltivano terreni confiscati alle organizzazioni mafiose producendo pasta, vino e olio. In base alle previsioni della legge finanziaria 2007 (Legge 27 dicembre 2006, n. 296, comma 201-202) i beni confiscati possono essere assegnati anche a Province e Regioni. I beni immobili non assegnati ai comuni sono acquisiti al patrimonio dello Stato e vengono utilizzati per finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile. I beni mobili vengono trasformati in denaro contante, il quale viene successivamente depositato in un apposito fondo prefettizio. Le aziende vengono vendute, date in affitto o messe in liquidazione. Il ricavato viene versato nel fondo prefettizio. La Cancelleria dell'Ufficio giudiziario provvede a comunicare il provvedimento definitivo di confisca ai seguenti soggetti: l'Ufficio del territorio del Ministero delle Finanze, il Prefetto, il Dipartimento della Pubblica Sicurezza del Ministero dell'Interno. L'Ufficio del territorio una volta stimato il valore del bene da assegnare sente il Prefetto, il Sindaco, l'Amministrazione ed entro novanta giorni formula una proposta finalizzata all'assegnazione del bene. È il Direttore Centrale del Demanio che entro trenta giorni emette il provvedimento di assegnazione.

Bene. Su tutti i territori italiani operano delle associazioni distribuite per competenza provinciale ed iscritte presso le rispettive Prefetture. Dichiarazione, relazione e documentazione comprovante l’attualità dei requisiti e delle condizioni prescritte di cui agli artt. 1 e 3 del regolamento (DM 220 del 24/10/2007) recante norme integrative ai regolamenti per l’iscrizione delle associazioni e organizzazioni previste dall’art. 13, comma 2, L. 44/99 e dall’art. 15, comma 4, L. 108/96.

Associazioni antimafia che operano per assistere le vittime di estorsione ed usura, molte delle quali non fanno capo a Libera, che, spesso, presso la CGIL fa eleggere domicilio alle delegazioni locali.

Quindi sfatiamo un fatto: i beni confiscati non sono roba loro, ossia di “Libera”.

Un’altra cosa. I beni già sequestrati in odor di mafia, si confiscano solo a sentenza di condanna definitiva. In caso contrario tornano ai legittimi proprietari. Ma di altre questioni nei convegni di cui si parla ci si dovrebbe occupare: Ossia denunciare pubblicamente quello che la gente non sa circa gli interessi economici e politici che ruotano intorno ai beni sequestrati, prima, ed eventualmente confiscati, poi...

Che fine ha fatto la “robba” dei boss? L’ Antimafia al lavoro sui dossier. «Da più parti riceviamo denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia», ha spiegato Nello Musumeci, presidente della commissione regionale (siciliana ndr), che sta analizzando l’utilizzo delle ricchezze sottratte a Cosa nostra, scrive Giuseppe Pipitone su “L’Ora Quotidiano”. «Dopo avere completato le trascrizioni – annuncia il presidente dell’Antimafia – provvederemo a trasmettere il documento anche all’autorità giudiziaria. Abbiamo riferito al prefetto (Postiglione ndr) che in un anno e mezzo la commissione ha raccolto il grido di allarme di giornalisti, amministratori, imprenditori e rappresentanti dei lavoratori che denunciano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni tolti alla mafia». «In alcuni casi – ha spiegato Musumeci – si tratta di denunce di vere e proprie incompatibilità, situazioni preoccupanti. In altri casi abbiamo riscontrato la concentrazione di molti incarichi nelle mani di un unico amministratore e tentativi di favorire società e studi professionali». Palermo è la capitale della ”robba” dei boss. Il quaranta per cento di tutti i beni confiscati a Cosa Nostra, infatti, si trova nel capoluogo siciliano. Ed è proprio da Palermo che arriverà il primo dossier con le anomalie sulla gestione degli immobili confiscati alla mafia. Un patrimonio imponente: più di diecimila immobili, mille e cinquecento aziende, più di tremila beni mobili. Numeri che fanno dell’Agenzia per i beni confiscati, creata nel 2009 per gestire “la robba dei boss”, la prima holding del mattone d’Italia. E probabilmente anche la più ricca: il valore dei beni confiscati alle mafie, infatti, si aggira intorno ai 25 miliardi di euro. Un vero tesoro, che però spesso non riesce ad essere restituito alla collettività. A Palermo, per esempio, sono solo 1.300 i beni assegnati su un totale di 3.478. “Da più parti riceviamo, in audizione, denunce che rivelano la persistenza di molte ombre nella gestione dei beni confiscati alla mafia. Denunce che, dopo le trascrizioni, trasmetteremo alla magistratura e al ministero dell’Interno per le necessarie verifiche”, ha spiegato ieri Nello Musumeci, presidente della commissione regionale Antimafia, che sta lavorando ad un dossier sulla gestione dei beni confiscati. Proprio ieri la commissione Antimafia ha ascoltato la deposizione del prefetto Umberto Postiglione, che ha sostituito Giuseppe Caruso alla guida dell’Agenzia. “Insieme alla commissione Lavoro dell’Assemblea regionale siciliana – ha continuato Musumeci – stiamo elaborando una proposta di modifica della legge nazionale vigente  ponendo particolare attenzione due problemi: la tutela dei dipendenti di quelle aziende che spesso chiudono dopo la confisca; il patrimonio di edilizia abitativa da destinare, a nostro avviso, alle famiglie indigenti e alle Forze dell’ordine piuttosto che restare inutilizzato e in completo abbandono”. L’emergenza principale è forse rappresentata dai dipendenti delle aziende sottratte a Cosa Nostra. La maggior parte delle società confiscate, infatti, finisce per fallire, e i dipendenti rimangono senza lavoro. Questo perché il codice antimafia recentemente approvato, che ha preso il nome del ministro Angelino Alfano, prevede la liquidazione di tutti i crediti non appena l’amministratore giudiziario prende possesso della società. “Significa che se questa norma venisse intesa in senso rigido, il tribunale deve procedere a liquidare il 70 per cento dell’impresa per pagare tutti i crediti: e quindi non resterebbe alcuna risorsa per continuare a far vivere l’azienda”, spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Con il risultato che dopo la confisca gli ex dipendenti delle aziende di Cosa Nostra rimangono senza lavoro. “Con la mafia si lavora, con lo Stato no” gridavano negli anni ’80 gli operai delle prime aziende confiscate a Cosa Nostra. Oggi la situazione non sembra particolarmente migliorata. Un segnale poco incoraggiante,  pericolosissimo in una terra come la Sicilia che di segnali vive e si alimenta. Questo vale per la Sicilia, così come vale per tutta l'Italia.

Spero di aver dato un contributo costruttivo al dibattito.

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

La mafia dell’antimafia. Il business dei beni sequestrati e confiscati. Come si vampirizzano le aziende sane. «L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.»

Il 3 febbraio 2015, nel suo primo discorso di insediamento da Capo dello Stato, Sergio Mattarella ha parlato di lotta alla criminalità organizzata e di corruzione.  "La lotta alla mafia e quella alla corruzione sono priorità assolute", ha detto nel suo discorso di insediamento. "La corruzione - ha aggiunto - ha raggiunto un livello inaccettabile, divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini, impedisce la corretta espressione delle regole del mercato, favorisce le consorterie e danneggia i meritevoli e i capaci". Il capo dello stato ha citato le "parole severe" di Papa Francesco contro i corrotti, "uomini di buone maniere ma di cattive abitudini". Ed ha sottolineato quanto sia "allarmante la diffusione delle mafie in regioni storicamente immuni. La mafia è un cancro pervasivo, distrugge speranze, calpesta diritti". A giudizio del presidente Mattarella occorre "incoraggiare l'azione della magistratura e delle forze dell'ordine, che spesso a rischio della vita si battono per contrastare la criminalità organizzata. Nella lotta alle mafie - ha ricordato cedendo per un attimo alla commozione - abbiamo avuto molti eroi, penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per sconfiggere la mafia occorre una moltitudine di persone oneste competenti tenaci e una dirigenza politica e amministrativa capace di compiere il proprio dovere verso la comunità". Ad ascoltare Mattarella a Montecitorio c'erano il presidente della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Leoluca Orlando, che proprio di Falcone era acerrimo nemico.

Molti altri lo hanno ascoltato a Montecitorio: persone oneste e meno oneste. Tra le persone oneste folta schiera è nel centro sinistra: quasi tutti o tutti. Fiancheggiatori della giustizia e della legalità o vittime o parenti di vittime della mafia. Se non lo sono, vale lo stesso. Nel centro destra, poi, son tutti mafiosi (a prescindere). Certo è questo quel che si vuol far intendere. Ma a destra non se ne curano. Basta loro adoperarsi per gli interessi del loro capo. I magistrati, poi, sono gli innominati di manzoniana memoria. Loro sì onesti per davvero, perchè la gente comune non lo sa, ma i magistrati non hanno nulla da spartire con i comuni mortali, perchè loro, i magistrati, vengon da Marte.

Dopo l'elezione di Sergio Mattarella a Capo dello Stato, su Facebook la politica si scatena nei commenti, scrive “Libero Quotidiano” ed “Il Giornale”. Qualcuno non condivide l'elezione come fa Matteo Salvini, ma qualcun altro tra i grillini (che hanno votato Imposimato), ha attaccato il neo-presidente in modo duro. A farlo è Riccardo Nuti che afferma: "Lodare Mattarella come antimafia perché il fratello fu ucciso dalla mafia è falso e ipocrita perché allora bisognerebbe dire anche che il padre era vicino alla mafia". Lo scrive su Facebook il deputato M5s, che aggiunge: "Ma se è vero che gli errori dei genitori non possono ricadere sui figli, allora non possono essere utilizzate altre vicende dei parenti in base alla propria convenienza. L'uccisione di un parente da parte della mafia (i motivi possono essere tanti e diversi fra loro) non da nessun bollino di garanzia di lotta alla mafia". Un commento che di certo farà discutere. 

L’antimafia è un’entità composita con finalità politiche e speculative. Se la mafia è quella che ci propinano, allora la mafia non esiste. La mafia siamo noi tutti: i politici che mentono o colludono, le istituzioni che abusano, i media che tacciono, i cittadini che emulano. Se questo siamo noi, quindi mai nulla cambierà.» Non lo dice Don Ciotti, presidente nazionale di “Libera”, anche perché non oserebbe mai, ci vorrebbe pure. Lo afferma categoricamente il dr Antonio Giangrande, noto scrittore e sociologo storico e fine conoscitore del fenomeno della Mafia, della Massoneria e delle Lobbies e della Caste, oltreché presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Ed è tutto dire. Io sono il presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Sodalizio antiracket ed antiusura riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione iscritta presso la Prefettura di Taranto. Per le problematiche sociali affrontate, siamo l’associazione madre di tutte le associazioni tematiche e territoriali, così come riporta il nostro sito web. Se qualcuno ha un problema me lo segnala. Non ho il potere di risolverlo, (nessuno può) ma di elevarlo agli onori della cronaca, sì. Io sono il Don Ciotti della mia associazione, per intenderci. Però abbiamo un difetto. Io ho un difetto: non sono comunista e non santifico i magistrati. Per questo i media ci ignorano. Ma non i cittadini. Prova a mettere su google il mio nome e vedrai quanti parlano di me. Ho pochi amici su Facebook e sul gruppo associazione contro tutte le mafie, perché dopo un po’ di tempo cancello gli amici o gli iscritti, quando verifico che hanno sbagliato amico o gruppo. Noi siamo diversi e ce ne vantiamo. Ogniqualvolta mi hanno interpellato, le vittime hanno preteso la soluzione. Mai una volta che abbiano offerto il loro appoggio, il loro sostegno. Non ho potere, ne sono sostenuto da alcuno e pure i coglioni mi dicono: che ci stò a fare. A prendere le ritorsioni dei magistrati che tentano in ogni modo di tacitarmi. Ogni volta che qualcuno si è confrontato con me per forza di cose voleva alzare la sua bandiera ed il suo nome, per un interesse personale. Gli onori a lui, le rogne a me. Le lotte si portano avanti insieme e non per la propria guerra. E’ un tallone di Achille parlare di sé. Si sarà sempre additati di mitomania o pazzia o di interesse personale. Pensi che qualcuno abbia pensato a me per competenza, capacità, esperienza e coraggio per portare avanti in Parlamento le aspettative del popolo. No. Pur incapaci son tutti pronti ad ante mettersi. Io parlare di voi o di altri e come se parlassi per me. Ma parlo di voi e ne sono contento. Perché è come se fossi uno di voi. Quest’ultima inchiesta è pubblicata su 500 siti web di portali di informazione a me collegati in tutta Italia. Pensi che ciò non basti a dare spazio alla tua storia, che non è la tua: è di mille come te? Pensi che lo abbia fatto per un interesse personale e che abbia chiesto a qualcuno un compenso? Quindi non serve avere una associazione in più, ma basta avere la consapevolezza di avere una guida o di avere uno strumento che porti ad un risultato. E mi dispiace dirlo, sarà solo quello di aver fatto conoscere la propria storia e non sarà quello di avere giustizia in questa Italia e con questi italiani. Segui me, vediamo fin dove arriviamo, perché il mio cammino è iniziato 20 anni fa. Io son Antonio Giangrande e basta questo basta. Pensa a Berlusconi: se è successo a lui, e non è stato capace di difendersi, figuriamoci ai poveri cristi. C'è qualcosa da fare: far conoscere la verità a tutti ed in tutti i modi. Solo quello ci rimane da fare. I miei siti web. I miei canali youtube. La mia tv web. I miei libri. Sono tutti strumenti di divulgazione che fanno male al sistema e ciò serve a cambiarlo. Come azione politica noi combattiamo, oltre che per cambiare il sistema, anche per una proposta concreta: il difensore civico giudiziario a tutela del cittadino che abbia i poteri del magistrato ma che non sia uno di essi: corporativo ed amicale. Questo sì che cambierebbe le cose in fatto di garanzia per le vittime di giustizia.

L’antimafia non combatte i mafiosi. Il suo intento è osannare i magistrati (i Pubblici Ministeri in particolare) per asservirli ai loro fini. Ossia: eliminare i rivali politici (avete mai visto qualcuno di sinistra condannato per mafia o per il reato inventato dai magistrati quale l’associazione o la partecipazione esterna alla mafia?) e sfruttare economicamente i beni sequestrati ed espropriati, spesso ingiustamente.

L’Antimafia: o si è con loro, o si è contro di loro. Ti chiami Giangrande o Sciascia uguale è. E’ inutile rivolgersi ai parlamentari per ottenere giustizia. Molti sono genuflessi alla magistratura, qualcuno è colluso, tanti sono ricattati o sono ignavi. La poltrona vale qualsiasi lotta di civiltà. Per questo nessuno di loro merita il voto degli italiani veri.

Ecco allora che nasce impettito il fenomeno mediatico dell’invasione virulenta della mafia in tutta Italia. L’Italia all’estero è una nazione ormai infetta. Non è più la Sicilia martoriata da Cosa Nostra o dalla Stidda, con vittime illustri uccise dai boss (dello Stato), o non è più la Calabria martirizzata dalla ‘Ndrangheta, o non è più la Campania tormentata dalla Camorra. Oggi l’Italia per i magistrati è tutta una mafia. E gli intellettuali di sinistra ci marciano. Ed all’estero ringraziano per il degrado del Made in Italy. Fa niente se prima l'illegalità diffusa si chiamava tangentopoli e guarda caso i comunisti non son stati colpiti. Oggi nel fenomeno criminogeno (sempre di destra, sia mai) ci sono di mezzo siciliani, napoletani e calabresi: allora è mafia!

L’antimafia per creare consenso e proselitismo monta campagne stampa di sensibilizzazione che incitano le vittime a denunciare. “DENUNCIA IL RACKET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito.

Le vittime, diventate testimoni di giustizia, successivamente sono abbandonate al loro destino, che porta questi a pentirsi ed a  rinnegare quanto fin lì fatto. Esemplari sono le testimonianze da tutta Italia tra i tanti di: FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

A cosa porta per davvero l'interesse dell'Antimafia se non tutelare le vittime dell'estorsione e dell'usura, così come propinata?

Il fenomeno taciuto è la gestione dei beni sequestrati, prima, e confiscati, poi. Per capire bene il fenomeno di cui si crede di essere unica vittima bisogna andare al di là di quello che si conosce.

I beni di sospetta leicità sono sequestrati con un provvedimento giudiziario come misura di prevenzione ed eventualmente confiscati con successiva pena accessoria in sentenza, che spesso non arriva. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Ma no è così.

I beni sotto tutela sono appetibili da tutti coloro che agiscono all’interno del sistema. Apparato non accessibile a tutti.

Firma l'appello: "Niente regali alle mafie, i beni confiscati sono cosa nostra", si legge sul sito web di "Libera". "Cosa nostra"? Mi sembra di aver già sentito da altri lidi questa affermazione. "Cosa vostra"? Con quale diritto?

"Attorno ai beni confiscati e all’assegnazione di essi si può sviluppare l’unica vera opportunità per coinvolgere attivamente la società civile nella lotta alle mafie, portandola al suo esito più elevato: quello di estirpare culturalmente il fenomeno mafioso sul territorio a cominciare dal riuso di beni confiscati che devono essere effettivamente restituiti alla collettività", si legge su vari siti web di associazioni e comitati fiancheggiatori di "Libera" e della CGIL.

Una espropriazione proletaria nel nome dell’antimafia? Una buona trovata.

Rock e sociale incrociano le loro strade in Il silenzio è dolo. Il brano è di Marco Ligabue e si intitola "Il silenzio è dolo". Marco Ligabue l'ha scritta quando ha scoperto la storia del contestato sorteggio con cui sono stati "selezionati" gli scrutatori per le recenti elezioni europee nei seggi di Villabate, in Sicilia. L'iniziativa è stata presentata a Montecitorio e ha riscosso l'appoggio del presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati Nino Di Matteo, convinto che "la mafia ha sempre prosperato nel silenzio, i mafiosi vogliono che di mafia non si parli". Della selezione e dell'operato degli scrutatori e dei presidenti di seggio, uguale in tutta Italia, sorvoliamo, anche perché è cosa di sinistra, ma attenzioniamo un fatto. I Parlamentari e l'associazione Nazionale Magistrati non hanno posto uguale attenzione all'appello di Pino Maniaci. Ed i media neppure.

«Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento - scrive Pino Maniaci - C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco».

Il business dell'Antimafia. Conoscete Cavallari, il re mida della sanità? A bari si son fottuto tutto di questo signore. Tutte le sue cliniche private. Per i magistrati era mafioso perchè era associato con sè stesso. E poi come si dice, alla mano alla mano…Ossia conoscere altre storie similari ma non riuscire a cambiare le cose?!? Perché ognuno pensa per sé. Una voce è una voce; tante voci sono un boato che scuote. Peccato che ognuno pensa per sé e non c’è boato. Basterebbe unirsi e fare forza.

Si prosegue con Matteo Viviani, che raccoglie la testimonianza  di una famiglia siciliana di imprenditori: Mafia, antimafia e aziende che affondano. I Cavallotti hanno subito estorsioni dal braccio destro di Provenzano, irruzioni armate in casa, finendo poi in galera per aver pagato il pizzo. Erano glia anni di Cosa Nostra, spiegano, e tutti pagavano il pizzo. Nonostante dopo anni di processo sia stato appurato che i Cavallotti non siano mafiosi, continuano a non poter gestire la loro azienda. L'amministratore che se ne sarebbe dovuto occupare infatti, ha effettuato operazioni di vendita poco chiare di cui, alla fine, ha beneficiato economicamente. Viviani lo raggiunge, ma lui non dà risposte. Il 29 gennaio 2015 è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo Stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo, ancora continua, scrive Salvo Vitale. I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato. Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello Stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo Stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato  vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

Ma per la Commissione Antimafia la mafia è tutt’altra cosa…

La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali del 2014, e si capisce di cosa stia parlando. Gli italiani, soliti ignavi, non lo dicono, ma dimostrano il loro odio e disprezzo, o comunque il loro distacco dalla politica contemporanea che viene da lontano con l’astensionismo od altre forme di protesta. La politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari. Secondo Renato Mannheimer su “Il Corriere della Sera” la politica interessa solo a 3 italiani su 10 e magari, dico io, proprio perché interessati dai favori richiesti e ricevuti. I risultati delle ultime amministrative hanno dato una scossa violenta alla vita dei partiti. L'elevato tasso di astensione, il gran numero di schede bianche e nulle (di cui troppo poco si è parlato) e il successo di un movimento antipartitico come la lista 5 stelle hanno mostrato tutta la debolezza delle forze politiche tradizionali nell'opinione pubblica italiana. D'altra parte, questo scarso appeal dei partiti era già stato indicato dalle ricerche che mostravano il decrescere progressivo del grado di fiducia nei loro confronti. La sfiducia verso i partiti si inquadra in un più generale trend di disaffezione da tutte le principali istituzioni politiche, anch'esso accentuatasi negli ultimi anni. L'indice sintetico di fiducia per le istituzioni politiche elaborato da Ispo (che misura, attraverso un algoritmo statistico, il consenso verso diverse istituzioni, dall'Ue al Parlamento, al Governo, fino al presidente della Repubblica) mostra al riguardo un calo drastico al valore del 25,5 di oggi. Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere. Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……

Ma non solo la politica paga fio. Non si fidano della magistratura 2 italiani su 3, scrive Errico Novi su "Il Garantista". E’ un crollo. Il tasso di fiducia nei magistrati passa dal 41,4% di un anno fa ad appena il 28,8%. Lo dice il Rapporto 2015 dell’Eurispes, presentato ieri a Roma dal presidente dell’istituto Gian Maria Fara. Che definisce il dato su giudici e pm «preoccupante e inatteso». Di fatto quello della magistratura è il potere che perde maggiori consensi: più del 30% di quelli che già aveva. Il governo è messo male, il dato della fiducia è al 18,9%, eppure è in lieve crescita rispetto a un anno fa. Il che autorizza a credere che nella lite tra le toghe e l’esecutivo sul taglio delle ferie, i cittadini parteggino decisamente per quest’ultimo. I dati rischiano di galvanizzare Renzi. Soprattutto nella sua guerra a distanza con i magistrati. Secondo il Rapporto Italia 2015 dell’Eurispes la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni tende al ribasso. Ma se si va nel dettaglio, le cose si mettono davvero malissimo per la magistratura, che ha un tasso di consenso ridotto ormai al 28,8% e diminuito nel giro di un anno di ben 12,6 punti percentuali (nel 2014 era dunque al 41,4%, tutta un’altra cosa). Il governo come istituzione nel suo complesso ha un punteggio da incubo, sta al 18,9%. Ma seppur di qualche decimale, e in un clima di generale scoramento, è in salita. Non che ci sia da festeggiare visti i numeri, ma insomma il presidente del Consiglio potrebbe dedurne che gli italiani parteggiano più per lui che per le toghe, nella contesa sul taglio delle ferie. Interpretazioni a parte, le statistiche presentate ieri alla Biblioteca Nazionale di Roma da Gian Maria Fara, che dell’Eurispes è presidente, fanno impressione. Il giudizio degli italiani nei confronti delle istituzioni resta complessivamente negativo, il 69,4% dice di riporvi minore fiducia che in passato. E questo in un quadro complessivo di certezze sempre più scarse, di valutazioni molto critiche nei confronti dell’Unione europea e della moneta unica e in un generale clima di oppressione percepita nei confronti di fisco e burocrazia. Nulla di sorprendente, però. Tranne il dato sui magistrati. Che tracollano in modo davvero verticale – di fatto perdono oltre il 30% dei consensi che avevano – nonostante il grande impatto mediatico di inchieste come quella su Mafia Capitale. E’ la pietra tombale sul ricordo stesso della stagione di Mani pulite. Un cambio di paradigma che tra l’altro è stato ampiamente rappresentato pochi giorni fa all’inaugurazione dell’anno giudiziario dal primo presidente della Cassazione, Giorgio Santacroce, proprio con il riferimento alla golden age di Tangentopoli. Nella sua esposizione pubblica Fara non si dilunga granché sul dato. Si limita a definirlo «preoccupante e inatteso». E a proporlo anche in versione capovolta: «La quota di cittadini che non ripongono fiducia nella magistratura è passata dal 54,8% del Rapporto 2014 al 68,6% dell’ultimo rilevamento». Il clima del Paese non è certo colorato di rosa, dice lo studio presentato. Gli aspetti patologici da rimuovere in fretta sarebbero la pervasività della burocrazia e le tasse asfissianti. Soprattutto il primo elemento potrebbe indurre il sospetto che il crollo della magistratura nell’indice di gradimento degli italiani sia parte di una più generale ripulsa nei confronti di tutto ciò che è apparato e potere pubblico. E invece non è così. Niente da fare, le toghe non possono aggrapparsi neppure a questo. Perché nonostante l’analisi del presidente Fara parta da quello che lui chiama il «Grande Fardello» degli adempimenti infiniti e del fisco, la fiducia nei confronti della pubblica amministrazione non è in calo, anzi: è in clamorosa ascesa, fa registrare un +18,1% e si risolleva così da un dato precedente molto basso, fino a raggiungere il 39,1%. Meglio i travet e gli impiegati, meglio i ministeriali di giudici e pm. Chi l’avrebbe mai detto. Persino i partiti si riprendono un po’ (arrivano al 15.1% con un significativo +8,6% rispetto a un an anno fa), addirittura i vituperatissimi sindacati hanno consensi più che doppi rispetto alle forze politiche (tasso di fiducia al 33,9%, con un +14,7). La magistratura niente, è così penalizzata dalla ricerca dell’Eurispes da far pensare a un rancore profondo, diffuso, quasi a una voglia di fargliela pagare. Figurarsi se davvero insisteranno con il piagnisteo per quei 15 giorni su 45 di vacanza in meno.

Tutto il potere alle toghe. Dai la parola all’imputato? Favoreggiamento, scrive Guido Scarpino su "Il Garantista". Da 17 anni scrivo sui giornali e denuncio la mafia. Mi hanno anche bruciato la macchina e minacciato. Mi è capitato poi di dare diritto di replica agli imputati. Per esempio a un certo Serpa. Perché lo ho fatto? Perchè vivo – o così credo – in uno stato di diritto. Non è che se uno è accusato di un reato mafioso perde il dirtto a difendersi, no?. E invece un Pm, durante la requisitoria, se l’è presa con quei giornalisti che danno la parola ai boss e di conseguenza «favoreggiano la mafia…» Il diritto di replica può essere concesso anche ad un boss di ‘ndrangheta in semilibertà o ad un presunto “capoclan” a piede libero? E’ una domanda, a mio avviso superflua - soprattutto se posta dal cronista di un giornale che si chiama il Garantista – che pongo a me stesso dopo aver udito la requisitoria di un pubblico ministero antimafia, svoltasi a Paola, in provincia di Cosenza, che, bontà sua, ha distribuito bacchettate a destra e a manca: ai politici, ai parlamentari e finanche – mi chiedo cosa ci sia dietro – al “solito articolista”, che avrebbe condotto una “attività di favoreggiamento” per aver offerto il diritto di replica. In un clima di omertà e condizionamento denunciato dal pm, mi sarei atteso, dallo stesso pm, quanto meno nomi e cognomi. Tuttavia, ciò non è accaduto, ed il quesito di cui sopra lo pongo a me stesso, anche perché il sottoscritto, in diciassette anni di professione in cui ha documentato quasi quotidianamente le attività delittuose delle cosche tirreniche, nonostante le auto bruciate (la sua auto) e le tante minacce mafiose subite (“spedizioni punitive” sotto casa e proiettili inclusi), ha avuto il buon senso di far parlare, in replica, il boss della cosca Serpa, a quel tempo in semilibertà. Mario Serpa ha infatti contattato, anni addietro, il cronista perché voleva replicare a chi, come il sottoscritto, lo accusava d’aver mandato alcuni parenti – che incutevano terrore facendo il suo nome – a taglieggiare gli esercenti commerciali; anticipava telefonicamente, al giornalista, l’invio di una lettera a sua firma, concordata con l’avvocato Gino Perrotta, che il giornale pubblicò sulle pagine regionali a corredo di un altro pezzo, a dir poco “cattivo”, sempre a firma del sottoscritto, in cui si riportava il curriculum criminale dello stesso boss di Paola. Quella missiva (che non è stata sequestrata, come erroneamente riferito) è stata consegnata, dal sottoscritto, ai carabinieri, dopo essere stata pubblicata. In diciassette anni di attività, dunque, ho fatto parlare Mario Serpa e non credo d’aver “favorito” nessuno. Era un suo diritto parlare, in uno Stato di diritto e dopo centinaia di batoste a mezzo stampa. Peraltro era stato promesso dal detenuto in semilibertà, sempre al sottoscritto, l’invio di un corposo “dossier-confessione” a sua firma, da trattare – era questo l’intento – in una serie di articoli o attraverso la stesura di un libro. Una inchiesta giornalistica che mi avrebbe consentito di raccogliere una importante “verità di parte” da mettere in contrapposizione ai fatti storici ed ai fatti processuali della mala nella provincia di Cosenza.  Poi Mario Serpa venne arrestato e quel dossier venne trovato in carcere e finì – questo sì – sotto sequestro. Ho fatto parlare, poi, Nella Serpa, cugina di Mario e presunta “reggente” della cosca di Paola. Mi ha inviato delle lettere dal carcere che ho pubblicato (due, di cui una in ricordo del suo avvocato, il noto compianto penalista Enzo Lo Giudice), mentre altre tre/quattro missive (credo anche telegrammi), contenenti dure accuse e velate minacce al sottoscritto, non le ho rese note – ma consegnate (e non sequestrate) ai carabinieri quando mi è stata bruciata l’auto – solo perché di scarso interesse pubblico. Ricordo ancora, quando lavoravo a Calabria Ora, di essere stato contattato da un “gancio” per una intervista al boss di Cetraro, Franco Muto, che poi, nonostante la mia piena disponibilità a recarmi in quel di Cetraro, dove sono sempre stato odiato per le innumerevoli pagine da me stilate contro la cosca, non venne mai rilasciata. Ricordo ancora, diversi anni or sono, di essere stato convocato dai carabinieri, su richiesta dello stesso pm, per aver ospitato sulle mie pagine la denuncia di un avvocato penalista (Gino Perrotta) a discolpa di un suo assistito, un aspirante pentito prelevato dal carcere senza autorizzazione per indurlo a contattare telefonicamente i suoi “compari” al fine di raccogliere indizi nell’ambito di indagini antimafia. In questo caso, il magistrato perse mezz’ora del suo prezioso tempo solo per pormi una domanda: “Ma lei con chi sta? Con noi o con loro?”.  Io risposi: “Io sto con me stesso. Faccio il giornalista”. Una risposta che mi portò, poco dopo ad un’altra convocazione, questa volta in caserma a San Lucido – pare sempre su richiesta dello stesso pm - per rispondere sulla fonte di una notizia di cronaca nera apparsa sul mio giornale ed a mia firma. Chiaramente mi rifiutai di fare nomi, ma fornii ai carabinieri (me l’ero portato dietro, perché avevo previsto la mossa del “nemico”) copia di un articolo apparso il giorno prima su un giornale concorrente in cui il giornalista intimo amico di quel pm, pubblicò la stessa notizia, precedendomi, ma lui – il collega – non venne convocato da nessuno. Dunque, dopo migliaia di articoli contro le cosche del Tirreno (ospitando anche tante veline dei “buoni”), dare spazio in replica, con tre articoli, ai “cattivi”, può anche non fare piacere a tutti, ma a me interessa poco proprio perché opinione “interessata”.  Mi sono sempre guardato le spalle dalla ‘ndrangheta e dalla malapolitica ed ho imparato ad essere guardingo anche verso “padroni” in cerca di “servi” e verso quei pochissimi pm che vivono di visibilità ad ogni costo. Dopotutto, se un giornalista che fa parlare un mafioso è accusato – verbalmente, e non certo sulla carta – di essere un “favoreggiatore” (opinione personale non condivisa), un magistrato che acquista consapevolmente una villa abusiva (è la motivazione di un giudice), è uno che non rispetta le regole e non è in condizioni di dare lezioni a nessuno. P.S.: Oggi sono in vena di consigli: non dimenticate di chiedere al neo pentito Adolfo Foggetti chi è il mandante e chi l’esecutore dell’incendio della mia auto. Poi confrontate i nomi con quelli da me forniti al magistrato di Paola.

Ma questi magistrati non sono coerenti.

L'ex pm antimafia Ingroia difende un boss pluriomicida. È il legale del camorrista La Torre, accusato di 40 delitti. Di lui Saviano disse: "È solo uno smargiasso ambiguo", scrive Gianpaolo Iacobini su "Il Giornale". Antonio Ingroia, l'ex pm antimafia che difende un camorrista. Più d'uno è saltato sulla sedia quando il nome del magistrato che dava la caccia ai capi di Cosa Nostra è risuonato nelle aule del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere insieme a quello di Augusto La Torre, fino ai giorni dell'arresto - e pure oltre - boss del clan dei Chiuovi di Mondragone, alleato dei Casalesi ed egemone nell'alto Casertano, nel basso Lazio e lungo la costa domizia tra il 1980 e gli inizi dei Duemila. Davanti ai giudici sammaritani La Torre - che dietro le sbarre s'è laureato in Psicologia - è comparso da testimone nel processo a carico di Mario Landolfi, imputato di corruzione e truffa aggravata dal metodo mafioso per la vicenda d'un consigliere comunale dimessosi, secondo la Procura, in cambio dell'assunzione trimestrale della moglie in una società di servizi. L'ex ministro s'è sempre detto innocente e La Torre, in videoconferenza, ha smentito avesse contatti col clan, ma a far notizia è stata la nomina del nuovo legale del boss psicologo, poi confermata dal portavoce dell'ex procuratore aggiunto. Quello che, all'indomani del giuramento da avvocato, assicurava: «Per coerenza con la mia storia non difenderò né mafiosi né corrotti». E invece alla fine s'è ritrovato al fianco d'un barone del crimine organizzato, condannato in via definitiva a 22 anni per associazione camorristica e ad altri 9 per estorsione aggravata ed a tutt'oggi sotto processo anche per omicidio. La replica: «Nessuna contraddizione: è un collaboratore di giustizia». Insomma, un conto sarebbe difendere i mammasantissima tutti d'un pezzo, un altro assistere mafiosi contriti, anche quando, confidando nell'impunità, confessano i peggiori misfatti. Come La Torre, autoaccusatosi di una quarantina di omicidi, con le vittime crivellate di colpi, gettate nei pozzi di campagna e dilaniate con le bombe a mano, per smembrarne i corpi e lasciarli a marcire sotto acqua e terra. Di sicuro, c'è collaboratore e collaboratore: l'imperatore di Mondragone, detenuto dal 1996, saltò il fosso nel 2003, ma poco dopo la protezione gli fu revocata per un'estorsione. E i Tribunali hanno fin qui preso con le molle le sue dichiarazioni, negandogli sconti di pena, mentre proprio uno degli Ingroia-boys, lo scrittore Roberto Saviano, nel luglio del 2012 ne stroncava l'attendibilità, definendolo su Facebook «un pentito pieno di lati ambigui: smargiasso e feroce, è arrivato a far pentire l'intero clan per ricevere sconti di pena, in cambio della possibilità di uscire tutti dal carcere dopo una manciata di anni e conservare un potere economico legale, avendo ormai demandato il potere militare ad altri. Il boss, pur se pentito, dal carcere dell'Aquila tempo fa chiedeva anche danaro: aggirando i controlli scriveva lettere di ordini e richieste». Avesse ragione Saviano, che a sentire gli ingroiani ha ragione per definizione, è questo il nuovo cliente di Antonio Ingroia, un avvocato che non difende né mafiosi né corrotti. Ipse dixit.

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

Usura ed estorsioni, in manette il figlio del prefetto Sessa, scrive “Il Mattino”. Daniele Sessa, 31 anni, figlio del prefetto di Avellino, Carlo, è stato arrestato ieri dai militari del Comando Provinciale della Guardia di Finanza di Taranto, su disposizione del giudice per le indagini preliminari. Sessa è finito in carcere all’alba insieme a Cosimo De Pasquale. I due, entrambi tarantini, sono dietro le sbarre con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all'usura e all'estorsione. Nel corso delle indagini della Guardia di Finanza, eseguite anche con l'ausilio di intercettazioni telefoniche ed ambientali, è emerso che Sessa e De Pasquale, gestivano nel capoluogo ionico un giro di usura nei confronti di numerosi commercianti, con il supporto anche di altre tre persone, delle quali due legate da vincoli di parentela. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, mentre Daniele Sessa si occupava principalmente di procurare i capitali e di gestire la parte contabile, Cosimo De Pasquale, sfruttando la sua fama di uomo violento, si assicurava con continue minacce e intimidazioni fisiche e psicologiche, il rispetto delle scadenze da parte delle vittime finite nel giro di usura.

Gli altri tre componenti dell’associazione a delinquere, denunciati a piede libero, fungevano, a loro volta, da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell'associazione malavitosa. Ai due arrestati, su disposizione del pubblico ministero della Procura tarantina, sono stati sequestrati i conti correnti bancari, a titolo preventivo d'urgenza. L'operazione, condotta dalla Guardia di Finanza, è stata denominata «Ultima chanche». Le indagini delle Fiamme Gialle di Taranto sono andate avanti per circa un anno. I finanzieri sono entrati in azione dopo la denuncia di alcuni commercianti finiti nella rete degli strozzini. Secondo quanto accertato dagl inquirenti, Sessa e De Pasquale imponevano agli esercenti del rione Italia, che avevano chiesto piccole somme di denaro in prestito, tassi usurai che si aggiravano tra il 150-180 per cento.

Assistente sociale e usuraio. Nel blitz coinvolto Daniele Sessa, figlio di un Prefetto. Disponeva di macchine costose e con l’hobby delle competizioni motociclistiche, scrive “Taranto Buonasera”. Uno dei due  presunti usurai, arrestati ieri dalla Guardia di Finanza,  lavorava anche come assistente sociale. Daniele Sessa, 31 anni, incensurato e figlio di Prefetto, ufficialmente aiutava i bisognosi e, così come emerge dalle indagini delle Fiamme Gialle “ricavava redditi nell’ordine soltanto di poche centinaia di euro mensili, tanto da non presentare neppure le relative dichiarazione fiscali”. Di Daniele Sessa, che è attualmente in carcere con le pesanti accuse di associazione a delinquere e usura, gli investigatori del nucleo di polizia tributaria nel corso delle indagini hanno tracciato un preciso identikit. “Tra il 2011 e il 2013 era ancora a carico dei genitori, e tuttavia ciò non gli ha impedito di disporre di macchine costose, due Audi A6 e di coltivare l’hobby delle competizioni motociclistiche, anch’esso notoriamente  piuttosto impegnativo dal lato finanziario”. Arrestato  nella operazione “Ultima chance” anche il 46enne Cosimo De Pasquale che secondo l’accusa avrebbe a curato con continue minacce il “rispetto” delle scadenze da parte delle vittime. Altri  tre, tra cui zio e nipote, tutti commercianti, sono indagati a piede libero.  E’ emerso che fungevano da collettori insospettabili per la raccolta delle rate usurarie, mettendosi a disposizione come supporto logistico dell’organizzazione. I due arrestati sono attualmente detenuti nella casa circondariale di largo Magli, a disposizione del giudice delle indagini preliminari che li interrogherà  lunedì prossimo. Nei confronti di De Pasquale e Sessa, su ordine del pm Lucia Isceri è stato operato anche il sequestro preventivo d’urgenza dei conti correnti bancari. Nel corso delle indagini, durate oltre un anno e  condotte anche con intercettazioni telefoniche, è emerso che De Pasquale e il suo amico Sessa avrebbero gestito nel capoluogo jonico il giro di usura. Tra le vittime una decina di titolari di esercizi commerciali e di laboratori artigianali.  Avrebbero pagato tassi usurari che arrivavano fino al 180% annui, titolari di ristoranti, di negozi di abbigliamento e imprenditori. Secondo l’accusa le vittime sarebbero state minacciate anche in casa o nei luoghi di lavoro. In alcune circostanze Sessa avrebbe proceduto anche personalmente a richiedere i pagamenti degli interessi usurari.  Avrebbe comunque ricoperto il ruolo di mandante delle azioni estorsive che avrebbe, invece, messo in atto, il suo amico Cosimo De Pasquale.

La Guardia di Finanza di Taranto ha arrestato ieri due tarantini con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata all’usura e all’estorsione. Si tratta del 46enne Cosimo De Pasquale e del 31enne Daniele Sessa, scrive “La Voce di Manduria”. Quest’ultimo è figlio di Carlo Sessa, attuale prefetto di Avellino, già prefetto della neo costituita Prefettura della Provincia Bat e commissario prefettizio del comune di Manduria dove possiede ancora un’antica  villa nelle campagne tra Manduria e Sava. Secondo l’accusa, i due arrestati, con la complicità di altri tre indagati a piede libero, avrebbero gestito un giro di attività usuraia nei confronti di numerosi commercianti ai quali praticavano interessi sino al 180% annui. L’inchiesta delle fiamme gialle assume particolare spessore proprio grazie alla presenza, tra gli indiziati di reato, del figlio del prefetto Sessa. Il giudice delle indagini preliminari, Martino Rosati, nella sua ordinanza, descrive il giovane come «vocato alla violenza». Seppure ancora a carico dei genitori – scrive il gip -, dichiarava redditi per poche centinaia di euro mensili, disponeva di autovetture costose e coltivava l’hobby altrettanto costoso delle competizioni motociclistiche.

Da un fatto ad un all'altro.

Il Prefetto (poco perfetto) del Bunga Bunga. Guarda un po’: il prefetto Carlo Ferrigno, uno dei testi chiave dell’atto di accusa di "papponaggio" a Berlusconi (“A casa di Berlusconi c’era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione. Che puttanaio…”), è un esperto della materia: risulta iscritto nel registro degli indagati per violenza sessuale da sette donne: ricattate in cambio di pompini…, scrive “Dagospia”.

1 - IL PREFETTO SOTTO INCHIESTA PER VIOLENZA SESSUALE...Franco Bechis per "Libero". Uno dei testi chiave dell'atto di accusa a Silvio Berlusconi, il prefetto Carlo Ferrigno, è stato intercettato non su ordine di Ilda Boccassini e dei pm di Milano che stavano indagando sui festini di Arcore, ma del pm Stefano Civardi, che lo ha iscritto nel registro degli indagati per ipotesi di reato gravissime, fra cui la violenza sessuale. Il clamoroso particolare filtra con discrezione dal palazzo di Giustizia di Milano, e fa leggere sotto altra luce l'inchiesta principale. Ferrigno infatti è protagonista delle 389 pagine di intercettazioni telefoniche che Milano ha inviato in parlamento per inchiodare Berlusconi. Lo è perché Ferrigno è prefetto della Repubblica, e fra il 2003 e il 2006 è stato anche commissario anti-racket nominato dal governo Berlusconi. È attraverso le sue parole intercettate in tre telefonate che gli inquirenti e la stampa hanno disegnato il quadro delle feste di Arcore. Ferrigno non ha avuto mezze parole. È stato lui a definirle «un puttanaio» e a dare questo quadro alla stampa nelle prime ore. Lui a giudicare - alla luce dei festini - «un uomo di merda» il presidente del Consiglio, raccontando: «[...] tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine, quelle strette [...], capito? Bella roba, tutta la sera [...], pensa un po', che fa questo signore [...], ma che schifo quell'uomo». Trattandosi di un prefetto, di «un servitore dello Stato», quel giudizio è stato la chiave di lettura di quelle carte. Nessuno degli inquirenti però, inviandole a Montecitorio, si è premurato di fare sapere i guai giudiziari in cui il prefetto che si scandalizzava è incappato, e per cui il suo telefonino era sotto controllo del pm. Ferrigno è stato denunciato nel febbraio scorso dal presidente di Sos usura, Frediano Manzi, e dal presidente della Associazione Sos Italia Libera, Paolo Bocedi. Alla denuncia erano allegate sette testimonianze di donne che raccontavano ricatti e violenze sessuali subìte dal prefetto per sbloccare i loro mutui dal fondo anti-usura. Fatti avvenuti anche dopo l'abbandono dell'incarico di commissario, perché a loro dire il prefetto Ferrigno sosteneva di avere ancora in mano il commissariato. Le sette donne sono state convocate in procura e hanno confermato parola per parola i fatti. Una vittima dell'usura aveva consentito di filmare la sua denuncia, chiedendo di oscurare il volto. Il filmato è visionabile sul nostro sito www.libero-news.it. In procura sono arrivate altre due testi di accusa nei confronti di Ferrigno che hanno raccontato episodi di violenza sessuale svoltisi negli uffici o nelle abitazioni di Torino, di Milano e di Roma in cui si trovava il prefetto. Tutti e nove i verbali sono stati segretati dalla procura che ancora ha indagini in corso. Le accuse delle testi - lo capisce bene chi può visionare il video - sono gravissime. I presunti ricatti subiti sono di incredibile e odiosa violenza, le parole crude. Ferrigno - secondo il racconto - imponeva rapporti sessuali completi e talvolta orali in cambio dello sblocco dei mutui. E minacciava le malcapitate di non fare denuncia, perché tanto lui aveva relazioni con molti pm e molte procure e non le avrebbero mai prese sul serio. Il pubblico ministero Civardi invece le ha prese molto sul serio e così è nata l'inchiesta. Quando sono emerse le prime notizie, Ferrigno ha negato ogni responsabilità, sostenendo che le signore si erano inventate tutto. Sfortuna vuole che pochi giorni dopo, in tutt'altra procura - quella di Fermo - ma per episodi non dissimili si sia presentato un imprenditore, G.G., denunciando di avere subito analoghi ricatti dal prefetto per sbloccare la somma da lui attesa dal fondo anti-usura. Ha raccontato di avere dovuto pagare 5 mila euro per una serata che Ferrigno voleva trascorrere con alcune ragazze di un night club della riviera marchigiana. Il prefetto anche in questo caso è stato iscritto nel registro degli indagati, non per reati sessuali ma per corruzione. Entrambe le indagini sono ancora in corso, e per Ferrigno vale naturalmente la presunzione di innocenza. Anche se sembra singolare la sua inclinazione allo scandalo per le feste di Berlusconi. È curioso però come i verbali di intercettazione di Ferrigno siano finiti dentro un altro faldone che poco aveva a che vedere con il prefetto. Ferrigno infatti ha solo sfiorato le feste di Arcore, grazie a un suo rapporto assai stretto con una ballerina marocchina, Maria Makdoum, che la sera del 13 luglio ballò ad Arcore e nel cuore della notte telefonò a Ferrigno per un resoconto. Di quella telefonata ci sono solo i tabulati. Ma è citata come fosse avvenuta il giorno precedente in altre due telefonate, contenute in un brogliaccio di intercettazioni relative a telefonate che il prefetto ha fatto a un amico e al figlio il 22 e il 29 settembre 2010, a due mesi e mezzo dai fatti. Un giallo ulteriore che dovrà essere chiarito.

2 - LE INTERCETTAZIONI...Da "Libero". Che uomo di merda (...) Praticamente questo sai che faceva? Facevano le orge lì dentro, non con droga, non mi risulta, capito? E facevano quel lavoro lì. Bevevano tutte mezze discinte, e poi lui è rimasto con due o tre di queste (...) tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto, solo le mutandine quelle strette (...) capito? Bella roba, tutta la sera (...) pensa un po\', che fa questo signore (...) ma che schifo quell'uomo.

La testimone X.Y su Ferrigno....Sua Eccellenza il prefetto Carlo Ferrigno mi chiamò a Roma per vedere la mia pratica perché diceva che c'erano novità. Mi mandò a prendere da Tonino, il suo autista. Suonai. Mi venne ad aprire Sua Eccellenza e io ero un po' imbarazzata perché lo vidi in accappatoio. (...) La situazione era imbarazzante perché era nudo. Lui lasciava aperto l'accappatoio e quindi si vedevano i genitali. Cominciò con dei convenevoli (...) mi chiese di toccarlo. Mi disse proprio "Mi fai il favore di toccarmi?". Dissi che non ci pensavo proprio. Lui reagì sostenendo che non avevo capito, non dovevo pensare male... Mi prese per mano e mi portò in camera da letto... (...) Mi prese le mani e le mise sui suoi genitali... Io mi ritrassi. Lui disse che non avevo capito niente, (...) ma che ero abbastanza intelligente per capire che questa situazione mi avrebbe portato dei benefici. Lui (il prefetto Carlo Ferrigno) chiuse la porta dietro di me a chiave. Mi sono sentita sicuramente in trappola (...). Mi disse che non pretendeva tanto, che gli bastava anche un rapporto orale. Gli dissi che non se ne parlava proprio. Lui mi spinse sul letto e mi infilò la mano nei calzoni. Nel frattempo si era slacciato i suoi e aveva fuori il pene e i testicoli (...) Mi disse che le pratiche potevano restare ferme fino alla prescrizione, che lui aveva tanti amici nelle procure e anche fra i giudici e che la mia denuncia sarebbe finita in niente... Mi portò nei sotterranei... Mi prese la mano, la portò sui calzoni. Si slacciò la cerniera e in quella occasione mi disse che era la soluzione a tutti i miei problemi... se non vuoi avere un rapporto con me possiamo avere almeno un rapporto orale. Chiaramente mi rifiutai e lui mi disse che avevo deciso comunque la mia fine...

Ferrigno su Berlusconi. A casa di Berlusconi c'era pure la Minetti, col seno da fuori, che baciava Berlusconi in continuazione, insomma, senti, proprio un puttanaio eh? Quella Minetti lì, dice che poi non è nemmeno tanto bella, quella sera che c'erano tutte donne, Emilio Fede, Lele e lei, c'era anche la Minetti (...) quella mi chiamava, pur essendo lei una puttanella è rimasta esterrefatta quando stavano tutte discinte con le mutande, mezze ubriache, in braccio a Berlusconi e se le baciava tutte, le toccava tutte....

Si allarga la “tangentopoli” della Marina. Il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere i domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere a gennaio. Ma nelle prossime settimane altri potrebbero finire agli arresti, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Dopo gli arresti del 7 gennaio scorso di diversi alti ufficiali della Marina militare, per concussione, perché gli imprenditori erano stati costretti a versare una tangente del 10% (su tutti gli appalti e forniture), il Tribunale del Riesame di Taranto ha deciso di concedere gli arresti domiciliari ad alcuni ufficiali finiti in carcere. Ma negli atti depositati ai giudici, il pm Maurizio Carbone ha scritto che diversi imprenditori hanno chiamato in causa altri ufficiali della Marina militare di Taranto. Il pm ha glissato i nomi di questi ufficiali che sono stati anche loro iscritti sul registro degli indagati. Scrive nella sua memoria il pm Carbone: «I verbali delle sommarie informazioni degli imprenditori ascoltati contengono numerosi “omissis” nelle parti concernenti il coinvolgimento di altri ufficiali che sempre all’interno del Commissariato della Marina (Maricommi) di Taranto avrebbero preteso tangenti dagli imprenditori anche per gli altri reparti, sempre con la regia della direzione di Maricommi». Insomma, la Marina di Taranto rischia di essere affondata dalla inchiesta della Procura di Taranto, che sta svelando le tante falle di un «sistema» di corruzione che si tramandava da generazioni di ufficiali. E che non riguardava solo «il quinto reparto», ma anche gli altri. Dagli atti delle indagini risulta addirittura che dopo il primo fermo in flagranza di reato di un ufficiale della Marina che intascava le mazzette, e questo avveniva nel marzo scorso, le tangenti hanno continuato a essere pagate dagli imprenditori. «Si è rotto il muro dell’omertà», scrive il pm Carbone nella sua memoria. Ed ė facile ipotizzare che nelle prossime settimane altri ufficiali della base di Taranto finiranno agli arresti. Una falla. Enorme, continua Ruotolo. Cinque ufficiali e un sottufficiale della Marina militare in carcere per concussione. Le tangenti arrivavano anche a Roma, allo Stato Maggiore della Marina. Il 10% su tutti gli appalti. Ma il quadro potrebbe aggravarsi ancora di più. Ci sono altri indagati e gli arresti potrebbero scattare per altri ufficiali se quelli finiti in carcere stanotte dovessero decidere di collaborare, di ammettere, di confermare le ipotesi del pm Maurizio Carbone. Uno schizzo di fango, anzi peggio sulla Marina militare. Mare nostrum, il salvataggio di decine di migliaia di profughi è alle spalle. L’inchiesta della Procura di Taranto apre uno scenario inedito. Non si tratta di semplici «mele marce». È un sistema di corruzione radicato in quella che è la base aeronavale della nostra Marina. È stato un imprenditore che si è ribellato nel marzo scorso a svelare il sistema, facendo arrestare in flagranza di reato un capitano di Fregata, Roberto La Gioia, mentre intascava una busta con 2.000 euro. I carabinieri sequestrarono una pen drive e un appunto nella cassaforte dell’ufficiale che documentavano appalti, percentuali, spartizioni delle tangenti. Decine e decine di migliaia di euro finiti nelle tasche di diversi ufficiali. La Gioia ha ammesso che il suo predecessore gli fece le consegne. Insomma, ereditò il «sistema». Adesso c’è solo da aspettare, per vedere quanto esteso sia il marcio, alla Marina militare.

Appalti e mazzette, nuovo terremoto per la Marina a Taranto, scrive Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Si allarga anche agli altri reparti di Maricommi l’inchiesta sul sistema di tangenti imposto agli imprenditori. È quanto emerge dalla memoria presentata ieri mattina dinanzi al tribunale del riesame dal sostituto procuratore Maurizio Carbone con la quale aveva chiesto la conferma del carcere per i quattro indagati che avevano appellato l’ordinanza emesso lo scorso 13 gennaio dal gip Pompeo Carriere e che invece il collegio di magistrati ha scarcerato. Si tratta del capitano di vascello Attilio Vecchi, assistito dall’avvocato Susanna Carraro, del capitano di fregata Riccardo Di Donna, del capitano di fregata Marco Boccadamo, difeso dai legali Raffaele Errico e Rocco Maggi, e del maresciallo Antonio Summa difeso dagli avvocati Raffaele Errico e Alessandra Semeraro. Il pubblico ministero Carbone ha depositato diverse testimonianze di imprenditori raccolte negli ultimi giorni nelle quali gli stessi avrebbero raccontato agli inquirenti che le tangenti venivano pagate anche ad altri ufficiali di altri reparti della Direzione di commissariato della Marina militare di Taranto. L’inchiesta sulla tangentopoli in divisa, quindi, non si ferma. Anzi. L’indagine ora sembra mettere sotto la lente di ingrandimento anche gli altri reparti di Maricommi. Dalle poche notizie trapelate, infatti, i verbali di interrogatorio depositati dal pm Carbone sarebbero in diverse parti coperti da «omissis» per nascondere i nomi di altri ufficiali che, secondo quanto raccontato negli ultimi giorni da una serie di imprenditori, avrebbero intascato mazzette. Tra i diversi indagati, al momento, la posizione più delicata è quella di Marco Boccadamo, l’ex vice direttore di Maricommi a cui il riesame ha concesso i domiciliari. Contro di lui, infatti, hanno testimoniato diversi imprenditori sostenendo di aver pagato mazzette all’ufficiale sia quando ricopriva l’incarico di comandante del V Reparto che di vice direttore. Inoltre dopo le prime dichiarazioni di La Gioia che avrebbe raccontato di aver suddiviso le mazzette con Boccadamo, ora si sarebbero aggiunti anche altri due imprenditori che al pubblico ministero avrebbero ammesso di aver versato tangenti all’ex vice direttore per ottenere appalti anche negli altri reparti. Conferme non da poco, quindi, che per gli inquirenti possono significare solo che gli elementi raccolti finora rappresentano solo una parte di quello che avviene all’interno del comando militare. Elementi raccolti, secondo il pm Carbone, grazie agli arresti effettuati che hanno consentito agli imprenditori di abbattere il muro di omertà che per anni ha garantito la sopravvivenza del sistema concussivo. Infine contro Boccadamo pesano anche le dichiarazioni del suo pari grado Giovanni Cusmano avrebbe ammesso di aver ereditato direttamente da lui «la prassi» del 10 percento e di aver diviso con lui almeno in una occasione una tangente da 4mila euro versata dall’imprenditore tarantino che per primo ha dato il via a questo terremoto giudiziario. Cusmano ha spiegato al pm Carbone e al gip Carriere di essere arrivato al comando del V Reparto quasi consapevole che avveniva qualcosa di sospetto: «Che Boccadamo facesse queste cose, si sapeva all’interno».

"Pizzo come i malavitosi", 7 arresti per le tangenti su appalti della Marina militare. Secondo l'accusa, da più di 10 anni, gli imprenditori erano tenuti a pagare il 10 per cento del valore delle commesse per aggiudicarsi i lavori. In manette cinque ufficiali, un sottufficiale e un dipendente civile, scrive Vittorio Ricapito su “La Repubblica”. Scandalo in Marina Militare. Per la procura di Taranto ufficiali e responsabili degli uffici imponevano il pizzo  alle aziende fornitrici e dell'appalto. Un sistema di tangenti a percentuale fissa, il dieci per cento sull'importo di ogni appalto o fornitura, sotto minaccia di rallentare o ostacolare i pagamenti.  "Come la malavita organizzata", il pizzo veniva imposto "in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia", scrive il gip Pompeo Carriere nell'ordinanza di custodia cautelare, causando danni notevoli sia alle singole imprese che all'intera economia locale. Con l'aggravante che il giro di tangenti era imposto da dipendenti dello Stato, per la maggior parte militari, "che hanno giurato fedeltà alla Repubblica e all'osservanza delle regole, innanzitutto deontologiche, dell'ordinamento di appartenenza". Secondo gli investigatori, il "sistema del 10 per cento" andava avanti da almeno dieci anni, una prassi illecita che tacitamente si trasferiva da un comandante all'altro, come un passaggio di consegne. All'alba di questa mattina sono scattate le manette. I carabinieri del comando provinciale di Taranto guidati dal colonnello Giovanni Tamborrino hanno portato in carcere l'attuale e due ex vice direttori del commissariato militare marittimo di Taranto (Maricommi), un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina militare, tutti accusati di concussione. Gli arresti sono stati eseguiti a Roma, Napoli e Taranto. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Secondo gli investigatori le tangenti venivano riscosse dall'ufficiale alla guida del quinto reparto e poi divise in percentuali a seconda degli accordi con chi aveva seguito l'iter amministrativo della pratica. C'era da oliare diversi ingranaggi: chi dal comando di vertice assicurava la copertura finanziaria sui relativi capitoli di bilancio, chi autorizzava l'atto di spesa, chi sottoscriveva l'atto dispositivo, chi materialmente contabilizzava assegni e provviste ed infine chi si interfacciava direttamente con la vittima del sistema. Il tutto naturalmente suddiviso in percentuali formulate in base all'importanza che rivestiva nel procedimento ogni singolo attore. L'inchiesta del sostituto procuratore Maurizio Carbone è decollata il 13 marzo del 2014 quando i carabinieri arrestarono in flagranza di reato il capitano di fregata Roberto La Gioia, 45 anni, comandante del 5° reparto di Maricommi, fermato nel suo ufficio subito dopo aver intascato una tangente di 2mila euro da un imprenditore. Questo aveva già denunciato tutto ai carabinieri sostenendo di aver subìto per anni il "sistema del 10 per cento" e versato tangenti per circa 150 mila euro per mantenere l'appalto dello smaltimento delle acque di sentina delle navi militari. Fra casa ed ufficio del militare, gli investigatori trovarono circa 44mila euro ma soprattutto alcune pen drive su cui era annotata la contabilità occulta e la lista delle imprese che pagavano tangenti. Il 5° reparto di Maricommi, guidato da La Gioia fino al suo arresto, è quello che si occupa dell'approvvigionamento, stoccaggio e rifornimento di combustibili e lubrificanti delle unità navali della Marina Militare e dei mezzi aeromobili, assicurando rifornimenti h24 e 365 giorni all'anno. Nei successivi nove mesi gli investigatori si sono concentrati sulle dichiarazioni dell'ufficiale arrestato, hanno ascoltato i titolari delle imprese che lavorano con la Marina militare, messo sotto controllo telefoni e sequestrato documenti, computer e buoni carburanti, portando alla luce un giro di pizzo di notevoli dimensioni. La Marina militare, si legge in una nota, "ribadendo il proprio pieno sostegno all'azione della magistratura, ha incrementato al proprio interno le attività ispettive e di controllo finalizzate a prevenire e contrastare il fenomeno della corruzione, a salvaguardia del personale che presta quotidianamente servizio con spirito di sacrificio e senso dello stato, compiendo il proprio dovere anche a rischio della vita".

Marina Militare e appalti, 7 arresti per concussione, scrive “la Gazzetta del Mezzogiorno”. Un “vero e proprio pizzo imposto in modo rigido e con brutale e talora sfacciata protervia, e che ha causato nel complesso danni notevoli sia alle singole imprese che all’intera economia locale, sostanzialmente alla stregua dell’agire della malavita organizzata”. Lo scrive il gip di Taranto Pompeo Carriere nell’ordinanza di custodia cautelare, richiesta dal pm Maurizio Carbone, notificata a 7 indagati, tra militari e civili, nell’ambito di una inchiesta sugli appalti gestiti dalla Marina militare. La tangente imposta era pari al 10% dei profitti. I carabinieri del comando provinciale di Taranto hanno arrestato il vice direttore di Maricommi, due ex vice direttori, un ex capo reparto, un sottufficiale capo deposito, un dipendente civile addetto alla contabilità del reparto e un capo ufficio del settore logistico dello Stato Maggiore della Marina Militare per concussione. In concorso tra loro – secondo l'accusa – abusando delle loro qualità e dei loro poteri, con la minaccia di ostacolare la regolare emissione dei mandati di pagamento per la esecuzione dei lavori di manutenzione e forniture di servizi e materiale loro affidati per conto della Marina militare, gli indagati hanno costretto “vari imprenditori a versare materialmente al capo del V Reparto di Maricommi, in tempi diversi, più somme di denaro non dovute per importi variabili e altre utilità, per un valore complessivamente comunque equivalente al 10% circa dei profitti derivanti dai servizi svolti”. Somme che il capo reparto, precisa una nota dei carabinieri, “provvedeva a distribuire successivamente in diverse parti percentuali secondo gli accordi tra loro intervenuti”.

Gip: imponevano «pizzo» come malavitosi, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. E' in corso, nelle provincie di Taranto, Roma e Napoli, l’esecuzione, da parte dei Carabinieri del Comando Provinciale di Taranto, di sette ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip su richiesta della locale Procura della Repubblica. Le misure restrittive e contestuali perquisizioni vedono fra i destinatari appartenenti della Marina Militare fra i quali Ufficiali, Sottufficiali e personale civile, ritenuti responsabili, in concorso tra loro, del reato di concussione nell’ambito di appalti in favore dell’ente. L'inchiesta, avviata dopo la denuncia presentata da un imprenditore che sosteneva di aver pagato tangenti in relazione ad un appalto, sfociò il 12 marzo 2014 nell’arresto del capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, comandante del quinto reparto di Maricommi, che si occupava di contratti e appalti. L'ufficiale fu bloccato dopo aver ricevuto una busta con 2mila euro dall’imprenditore, che rappresentava – secondo l'accusa – una tranche di una tangente imposta per emettere i mandati di pagamento nei confronti della sua azienda. Il sospetto degli investigatori è che il militare abbia chiesto una tangente del 10 per cento. I carabinieri successivamente perquisirono l’appartamento e l’ufficio di La Gioia trovando altro denaro ritenuto frutto della concussione. Furono sequestrate anche due pen drive dell’arrestato, in cui furono scoperti file con un elenco di imprese. Accanto a ognuna di esse era riportato il valore dell’appalto aggiudicato e il pagamento di tangenti. Sono cinque ufficiali in servizio a Napoli, Roma e Taranto, un sottufficiale e un impiegato, entrambi in servizio a Taranto, le sette persone portate in carcere dai carabinieri nell’ambito dell’indagine sulle tangenti imposte sugli appalti della Marina Militare. In carcere sono finiti il capitano di vascello Attilio Vecchi, di 54 anni (in servizio al Comando Logistico di Napoli); il capitano di fregata Riccardo Di Donna, di 45 anni (Stato Maggiore della Difesa-Roma); il capitano di fregata Marco Boccadamo, di 50 anni (Stato Maggiore Difesa-Roma); il capitano di fregata Giovanni Cusmano, di 47 anni (Maricentadd Taranto); il capitano di fregata Giuseppe Coroneo, di 46 anni (vice direttore Maricommi Taranto); il luogotenente Antonio Summa, di 53 anni (V reparto Maricommi Taranto); e Leandro De Benedectis, di 55 anni (dipendente civile di Maricommi Taranto). Sono tutti indagati in concorso con il capitano di fregata Roberto La Gioia, di 46 anni, ex responsabile di Maricommi, arrestato il 12 marzo del 2104 ed attualmente e sottoposto all’obbligo di firma. L’ufficiale fu indagato per concussione nei confronti di una serie di imprenditori locali, assegnatari di servizi per conto della Pubblica Amministrazione nell’ambito degli appalti gestiti dalla direzione di Commissariato per la Marina Militare di Taranto. Al graduato fu sequestrata una somma di denaro contante, suddivisa in singole mazzette, per un ammontare complessivo pari a 44mila euro. Il gip scrive nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita oggi che il sistema ideato dagli indagati faceva sì che gli imprenditori concussi fossero vittime di una “vera e propria prassi illecita che si trasferisce da un comandante all’altro, in un ideale passaggio di consegne, più o meno tacito”.

Ma non è la prima volta.

Un provvedimento di interdizione dagli incarichi è stato chiesto dal sostituto procuratore della Repubblica presso il tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli nei confronti di quattro ufficiali della Marina Militare, coinvolti in un’inchiesta su appalti assegnati dalla Marina Militare per lavori nell’Arsenale di Taranto, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La richiesta è stata accolta dal gip del tribunale di Taranto Michele Ancona: trattandosi tuttavia di personale militare è necessario prima procedere agli interrogatori di garanzia, già fissati per il 28 e il 31 marzo 2008. Per i quattro ufficiali era stato chiesto l’arresto, ma il gip ha respinto la richiesta di misura cautelare. In tutto sono nove gli indagati. I quattro destinatari del provvedimento interdittivo sono l’ammiraglio Giulio Cobolli, attuale comandante dell’Arsenale militare, l’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino, ex direttore dell’Arsenale di Taranto, trasferito a Roma; Pietro Covino, in servizio a La Spezia, e Nicola Giustino, contrammiraglio in servizio a Taranto. Si ipotizzano anche i reati di truffa e turbativa d’asta perché alle gare di appalto avrebbero partecipato ditte che non avevano requisiti. L'inchiesta sfociò, il 9 novembre 2005, nel sequestro preventivo e probatorio di un’area di circa 18.000 metri quadrati all’interno dell’Arsenale della Marina Militare, nella quale lavorano numerose ditte appaltatrici, e delle attrezzature utilizzate per la manutenzione delle navi. Successivamente fu notificato il provvedimento di sequestro preventivo ai titolari delle ditte, alcune delle quali avrebbero la sede legale in un bar o in campagna. All’ammiraglio ispettore Alberto Gauzolino fu affidata la custodia giudiziale dell’area interessata dal sequestro. Le indagini dei carabinieri del Nil e dei funzionari dell’Ispettorato del lavoro facevano riferimento a presunte violazioni della normativa sulla sicurezza sul lavoro. Durante le ispezioni, sarebbe emersa la mancanza dei requisiti utili per poter partecipare alle gare di appalto espletate dalla Marina militare. Per altre aziende, invece, furono avviati accertamenti sulle modalità con le quali era stato ottenuto il certificato Nato necessario per compiere interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sulle navi militari.

Lecce, confessano altri due poliziotti della Stradale, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno. Altri due poliziotti della Stradale confessano. E’ accaduto ieri mattina nel corso dell’udienza davanti al Tribunale del Riesame. Stef ano Simonetto, 42 anni, e Luigi De Vincenzo, di 55, entrambi di Nardò, hanno ammesso di essersi «adeguati un andazzo che era generalizzato» fra gli agenti in servizio nella sezione di Polizia stradale di Lecce. I due sono in carcere dal 12 maggio scorso sulla scorta di u n’ordinanza di custodia cautelare in cui si contestano i reati di associazione per delinquere e concussione. Gli agenti sono accusati di aver preteso mazzette e regali da commercianti ed imprenditori. In cambio furgoni e camion delle aziende «compiacenti » non sarebbero stati multati. Il sistema delle «regalie» e delle mazzette è già stato illustrato da altri due agenti: l’ispettore capo Fr ancesco Reggio di Lecce e l’assistente Anna Maria Petrelli di Lizz anello. Ieri sono arrivate le dichiarazioni degli altri due agenti che hanno ammesso di aver ricevuto i regali e di aver fatto qualche «giro» fra gli imprenditori per ottenere buoni benzina. Simonetto e Di Vincenzo sono difesi dagli avvocati Giuseppe Bonsegna e Donato Mellone. Nel corso dell’udienza il pubblico ministero Guglielmo Cataldi ha depositato anche nuovi verbali con le dichiarazioni di altri imprenditori i cui nomi compaiono nella lista di coloro che avrebbero versato «mazzette» e fatto regali agli agenti della Stradale. I titolari di alcune aziende sono già stati sentiti. Ed hanno confermato di aver consegnato denaro, regali e buoni benzina ai poliziotti per evitare il rischio di essere multati.  Ieri davanti al collegio del Tribunale del Riesame sono arrivate le posizioni di altre cinque agenti raggiunti dall’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Si tratta di Leonardo Impero Delle Donne 45 anni, di Caprarica; di Franco Carlà, 58, di Lizzanello; di Maurizio Scarofo n e , di Lecce; Giuse ppe Piccinno, 51, di Aradeo; di Giuseppe Amenini, 46, di Maglie. Fra di loro c’è stato chi ha preferito rinunciare al ricorso al Riesame. Gli agenti sono assistiti dagli avvocati Giancarlo Dei Lazzaretti, Luigi Rella, Luigi Greco, Pantaleo Cannoletta, e Laura Minosi. Intanto continuano da parte degli ufficiali della sezione di pg della Polizia di Stato gli ascolti degli imprenditori come persone informate sui fatti.

Rossana di Bello, fa fallire Taranto e si prende un vitalizio a 58 anni, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. La domanda l’ha fatta all’inizio di settembre, ed è bastata una sola seduta dell’ufficio di presidenza del Consiglio regionale della Puglia per esaudirla, perfino in modo retroattivo. Dal primo settembre scorso c’è un ex politico in più a prendere quel vitalizio che da anni ci raccontano falsamente di avere abolito: è Rossana di Bello, una delle pioniere di Forza Italia. Ci sono non poche anomalie in quel vitalizio che era stato abolito e continua a correre come un fiume. La prima anomalia è quella di uno Stato che premia per tutta la vita un politico che non ha particolarmente brillato: la Di Bello è stata sindaco di Taranto per lunghi anni e con lei la città è stata fra i pochi comuni italiani a fallire, con un dissesto finanziario per oltre 900 milioni di euro (è stata anche sotto inchiesta penale, ma in secondo grado l’hanno assolta dando la colpa ai suoi collaboratori. La Corte dei Conti però ce l’ha ancora nel mirino per danno erariale). La seconda anomalia è che la Di Bello con soli cinque anni lavorati prende da settembre e prenderà fino all’ultimo suo giorno (con possibilità di rendere reversibile ai suoi cari) un assegno mensile da 3.862,27 euro lordi. La terza anomalia riguarda l’età pensionabile della fortunata politica: ha compiuto 58 anni il 28 agosto scorso. La legge Fornero vale dunque per tutti, ma non per i politici italiani, che con soli 58 anni e per avere lavorato solo 5 anni hanno diritto a una pensione reversibile che è quasi il triplo della pensione media degli italiani che hanno lavorato 40 anni. Quarta anomalia, chi sul lavoro combina un disastro come è evidente nella storia di Taranto, alla fine ci rimedia un bel premio.

Lecce, aumentano processi a magistrati, 12 indagati, 92 parti offese. L'inaugurazione dell'anno giudiziario a Lecce con competenza su Taranto: tra i temi caldi l'ambiente, con l'Ilva, il fotovoltaico, gli abusi edilizi e i rifiuti interrati. In crescita durata media procedimenti civili, in lieve calo quella dei processi di primo grado, scrive Chiara Spagnolo su “La Repubblica” L’Ilva, i parchi fotovoltaici, i rifiuti interrati e poi le colate di cemento sulle aree protette, vittime di “reati perpetrati oltre che da privati spesso anche dal pubblico”. È stato l’ambiente uno dei settori più impegnativi per la magistratura salentina, come emerge dalla relazione fatta per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dal presidente vicario della Corte d’appello di Lecce, Mario Fiorella: “In tutto il Salento è grave la situazione del traffico di rifiuti pericolosi di varia provenienza, spesso sparsi in discariche abusive o anche interrati con danni per i terreni e le falde acquifere”.  Relazione sintetica, quest’anno, perché racconta il lavoro fatto sotto la presidenza di Mario Buffa, da due settimane in pensione, al quale è stato rivolto un plauso unanime. L’anno appena trascorso - nei tribunali di Lecce, Brindisi e Taranto – è stato caratterizzato da difficoltà legate alla perdurante carenza di organico, sia dei magistrati che del personale amministrativo, a cui si è reagito con un impegno che ha consentito “di mantenere inalterato il trend relativo alla durata dei processi”, ha detto il presidente. I numeri, a quanto pare, descrivono una situazione sotto controllo: aumenta la durata media dei processi civili, ma solo in fase d’appello (891 giorni contro gli 806 dell’anno precedente), ma aumenta anche il contenzioso, che non viene alleggerito dalla mediazione civile “che non ha dato effetti positivi”, con solo 63 procedimenti iscritti nel 2013. Risulta addirittura leggermente diminuita, invece, la durata media dei processi di primo grado a Lecce e Brindisi (663 giorni a Lecce e 419 a Brindisi rispetto ai 675 e 442 dell’anno precedente) mentre è leggermente aumentata a Taranto (619 giorni a fronte dei 580 del 2012). I processi d’Appello invece sono risultati più veloci in entrambe le sedi (560 giorni a Lecce e 733 a Taranto, contro i 674 e gli 823 dell’anno precedente). E se le lungaggini della giustizia pongono il 2013 in perfetta linea con gli anni passati, risulta invece in crescita il numero di processi a carico di magistrati: ben 113 sono stati infatti quelli iscritti nel registro degli indagati, comprendendo sia quelli in servizio nel Distretto di Lecce (inchieste poi trasferite per competenza a Potenza) sia quelli in servizio a Bari, mentre 92 sono i magistrati che risultano parti offese. La relazione sull’andamento della giustizia ha preso poi in esame il lavoro effettuato dalle Procure, scavando anche nelle metodologie di indagine utilizzate ed evidenziando, per esempio in materia di intercettazioni telefoniche, come la Procura di Brindisi sia quella che ne ha fatto un maggiore utilizzo (con 647 utenze controllate a fronte delle 437 di Lecce e 641 di Taranto), mentre 1.267 sono i telefoni intercettati dalla Dda nell’ambito del controllo delle organizzazioni criminali. Proprio in tema di mafia, è stata sottolineata dal presidente Fiorella la diminuzione degli omicidi (2 a Taranto e 2 a Lecce) “dettato dall’esigenza di non richiamare l’attenzione di polizia e magistratura con azioni eclatanti”. Usura ed estorsioni, invece, continuano ad essere terreno privilegiato d’azione dei clan ma molto spesso “non vengono denunciate dalle vittime per paura di ritorsioni”, confermando l’appellativo di “reati sommersi”, che danno infatti origine a pochi procedimenti giudiziari: 40 per usura e 182 per estorsione nelle tre province.

E poi....

Denuncia un concorso ma l'Ateneo la accusa: «Collezionava incarichi», scrive Luca Barile su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un assegno di ricerca, pagato dall’Ateneo dal 2007 al 2011, entra a gamba tesa in un processo non ancora incominciato, ma che sta già facendo discutere. Dalla procura di Taranto, è notizia dell’altro ieri, il pubblico ministero Remo Epifani ottiene il rinvio a giudizio per una decina di professori universitari, accusati a vario titolo di aver favorito, nella fase di valutazione dei titoli, il candidato risultato vincitore di un concorso per ricercatore, bandito nel dicembre del 2009. Ma dalla direzione generale dell’Ateneo, nel frattempo, era partita una lettera, datata 12 dicembre 2014 scorso, indirizzata all’avvocatura dello Stato. Nella missiva si chiede un parere su come comportarsi nei confronti di Monica Bruno, titolare dell’assegno di ricerca. Da una verifica interna parrebbe che la signora, moglie del magistrato tarantino Ciro Fiore, possa aver percepito quella borsa senza averne avuto diritto. E quindi l’Università è pronta a pretenderne la restituzione. Quello che non è chiaro, ed ecco perché il parere richiesto all’avvocatura, è se si possa anche annullare il contratto che, a suo tempo, l’assegnista Bruno firmò con l’Ateneo. Questione non da poco (senza contratto, niente titolo) considerando che la signora è l’autrice dell’esposto dal quale è partita l’indagine sul concorso da ricercatore, un posto nel settore del diritto commerciale nella sede distaccata, a Taranto, dell’ateneo barese. Perché il titolo di assegnista ha il suo valore in una procedura di valutazione comparata. Tanto più che proprio sui titoli, Bruno sta giocando la sua partita contro Giuseppe Sanseverino, vincitore del concorso. La tesi, accolta da una sentenza del 2013 del Consiglio di Stato, è che i commissari valutarono positivamente alcuni titoli presentati da Sanseverino, in particolare delle esperienze scientifiche all’estero, senza accertarne la veridicità. Il Consiglio di Stato ordinò all’Università di ripetere la comparazione dei titoli, per i due concorrenti in causa ed il rettore, Antonio Uricchio, annullò il precedente decreto di nomina di Sanseverino, con cui questi era stato dichiarato vincitore. Inoltre, ha messo in moto la procedura per formare una nuova commissione. Della vecchia, sono indagati alcuni docenti baresi e non, compreso il professor Gianvito Giannelli, noto per aver svolto l’incarico di curatore fallimentare del Bari Calcio. È indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, anche se non faceva parte della commissione. Sanseverino, però, ha denunciato all’Ateneo che la sua concorrente avrebbe ottenuto incarichi, come amministratore giudiziario, curatore e revisore dei conti durante il periodo dell’assegno di ricerca. La cosa è incompatibile con l’esclusivo impegno richiesto ad un assegnista. E' stata fissata per il 13 febbraio 2015 prossimo l’udienza preliminare, dinanzi al gup del tribunale di Taranto Vilma Gilli, a carico di 11 persone per un presunto concorso truccato per un posto di ricercatore in diritto commerciale alla sede tarantina della Facoltà di Economia dell’università di Bari.

Concorso Università a Bari: 11 indagati tra cui 4 professori, scrive Massimiliano Scagliarini “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una dottoranda con il registratore sempre acceso in tasca e un concorso da ricercatore in Diritto commerciale annullato dal Consiglio di Stato. Un calderone di vita universitaria che ha scatenato una guerra tra Procure, coinvolgendo 11 persone (tra cui 4 docenti) che oggi si ritrovano indagati con l’accusa di aver truccato non solo le selezioni, ma persino l’assegnazione degli incarichi gratuiti di supplenza. Il punto è che la dottoranda Monica Bruno, che dal 2009 ha inviato diverse denunce sulla questione, è moglie di un magistrato di Taranto, Ciro Fiore, all’epoca dei fatti gip nel Tribunale jonico ed oggi trasferito al Minorile. A febbraio il procuratore aggiunto di Bari, Lino Giorgio Bruno, aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione delle accuse per una parte dei fatti, ma a inizio giugno il pm di Taranto, Remo Epifani, ha inviato l’avviso di conclusione delle indagini ad 11 persone: oltre ai commissari del concorso annullato, nell’elenco ci sono il vincitore, Giuseppe Sanseverino, 46 anni, di Massafra, ed i docenti baresi Gianvito Giannelli, 54 anni, e Ugo Patroni Griffi, 48 anni. Ce n’è abbastanza per parlare di liti in famiglia. Anche perché Patroni Griffi, presidente della Fiera del Levante, della Bruno è stato non solo tutor ma anche testimone di nozze. E Giannelli, ultimamente molto noto alle cronache per l’incarico di curatore fallimentare del Bari calcio, è a sua volta sposato con un sostituto procuratore. Ma quando la commissione che doveva nominare un ricercatore in Diritto commerciale ha prescelto Sanseverino rispetto agli altri tre partecipanti (tra cui c’erano il figlio del professor Giorgio Costantino e la figlia della professoressa Eda Lofoco), la dottoressa Bruno ha preso carta e penna e con l’avvocato Carlo Raffo ha denunciato una serie di presunte irregolarità, arrivando a formulare persino i capi di imputazione: nell’avviso di conclusione delle indagini la procura di Taranto li ha ripresi quasi tutti, e quasi parola per parola. In particolare, la Bruno ha denunciato quello che lei stessa chiama il «metodo del cappello» per l’assegnazione delle supplenze: il professor Patroni Griffi (che per questo è accusato di truffa e falso ideologico) avrebbe presentato domanda salvo poi ritirarla all’ultimo momento, avvantaggiando così - questa è la tesi - il dottor Sanseverino. Un punto su cui la procura di Bari, chiedendo l’archiviazione, aveva però espresso un’opinione contraria: semplicemente perché anche in quei casi Sanseverino poteva comunque vantare i titoli migliori dell’unica altra candidata. Il concorso per ricercatore del 2009, che a breve dovrà essere ripetuto con una nuova commissione e presumibilmente vedrà di nuovo la Bruno ai blocchi di partenza, è stato annullato sulla base di una decisione della giustizia amministrativa sulla valutazione comparativa dei titoli. Per questo la procura di Taranto accusa di abuso d’ufficio sia Sanseverino sia i commissari, tra cui oltre a Giannelli ci sono il bolognese Filippo Paolucci e il campano Ermanno Bocchini. Ma soprattutto, nei guai dopo le denunce (e le registrazioni) della Bruno sono finiti alcuni suoi ex colleghi dottorandi, accusati di favoreggiamento aggravato per aver negato ciò che probabilmente hanno detto a proposito del concorso mentre non sapevano di essere intercettati. Al di là dei docenti di ruolo, il vero beffato di tutta questa storia finora è proprio Sanseverino, che oltre a non aver ottenuto il posto è accusato anche di aver «barato» nel curriculum. Sanseverino ha depositato in procura una lunga memoria, in cui esamina in dettaglio i propri titoli accademici, si toglie qualche sassolino dalla scarpa, ma passa anche al contrattacco nei confronti della Bruno: ha infatti documentato che la collega, mentre percepiva l’assegno di dottorato da parte dell’Università di Bari, continuava a svolgere l’attività professionale di revisore dei conti. Nel frattempo il dossier di Sanseverino è finito alla Corte dei Conti: questa storia non finirà mai...

Concorso all'Università, 11 indagati illustri. "Truccarono le carte". La selezione per il posto di ricercatore in diritto commerciale internazionale, la procura di Bari archivia, Taranto verso il giudizio. Il Consiglio di Stato annulla la prova, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. Un concorso universitario. Undici indagati illustri. Un dibattito tra due procure, quella di Taranto e quella di Bari, che sullo stesso fatto hanno opinioni diverse: a Bari archiviano, nel capoluogo jonico sono pronti ad andare a giudizio. La storia è quella del concorso da ricercatore in diritto commerciale internazionale bandito dall'università di Bari per la sede di Taranto. La selezione viene vinta dal professor Giuseppe Sanseverino. Ma una delle partecipanti, Monica Bruno, non ci sta e presenta il ricorso amministrativo: il Tar le dà torto mentre il Consiglio di Stato ribalta la sentenza e di fatto annulla la prova che infatti si sta rifacendo in queste settimane. Non è chiaro, dicono i giudici amministrativi, in una sentenza in cui parlano tra le altre cose di "eccesso di potere", quali criteri abbia utilizzato la commissione per "sovvertire il diverso peso dei titoli di ricerca esibiti da ciascun candidato", dunque è tutto da rifare.  Il giudizio amministrativo però rappresenta soltanto una fetta di questa storia. La Bruno ha presentato un corposissimo esposto in procura, preparando persino i capi di imputazione. In un primo momento Taranto ha inviato gli atti a Bari, iscrivendo nel registro degli indagati ventinove persone, cioè tutto il consiglio di dipartimento. Con un provvedimento del 26 febbraio del 2014 firmato dal sostituto Luciana Silvestris e dall'aggiunto Giorgio Lino Bruno, Bari però archivia il reato di falso inizialmente ipotizzato. E rimanda le carte a Taranto per ulteriori valutazioni. Nei giorni scorsi la doccia fredda: il pm di Taranto Remo Epifani ha fatto notificare a undici persone un avviso di garanzia. E' indagata l'intera commissione di esame composta dai professori Gianvito Giannelli, Luigi Paolucci ed Ermanno Bocchino. L'accusa è di falso e abuso di ufficio perché "con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, procuravano intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale al candidato Sanseverino in concorso con il quale agivano, consentendogli il positivo superamento della procedura di valutazione contributiva. Cagionano così un danno ingiusto alla candidata Bruno". Non solo: dice il pm che ci sono anche dei falsi compiuti per "riconoscere al Sanserverino titoli preferenziali inesistenti" per "formulare giudizi favorevoli su pubblicazioni che non potevano essere valutate", il tutto chiaramente per consentire al professore di vincere la prova a scapito della Santoro. Nell'inchiesta è indagato anche il professor Ugo Patroni Griffi che però non faceva parte della commissione ma che è accusato dalla Santoro e dalla procura di aver favorito Sanseverino, perché suo allievo. Agli atti sono state depositate alcune intercettazioni fatte dalla stessa Santoro nella quale altri docenti, ora iscritti nel registro degli indagati (gli altri sono i professori Ermanno Bocchini, Luigi Paolucci, Anna Zaccaria, Francesco Sporta Caputi, Laura Tafaro, Giuditta Lagonigro, Rosa Calderazzi e Francesco Costantino) raccontavano alla collega di sapere che Sanseverino avrebbe dovuto vincere il concorso perché "aveva dei titoli fortissimi". Sanseverino a sua volta è passato al contrattacco depositando una memoria contro la Bruno (moglie del magistrato Ciro Fiore scrive nella memoria) nella quale fa notare tra le altre cose che la collega avrebbe ricevuto un assegno di ricerca mentre svolgeva altri ruoli, tra i quali “perizie contabili e societarie, curatele fallimentari e procedimenti penali” presso gli uffici giudiziari tarantini. Eppure al titolare dell'assegno è "inibito lo svolgimento - dice Sanseverino - in modo continuativo di rapporti di lavoro nonché l'esercizio di attività libero professionali". Oltre questo c'è poi la questione amministrativa. Come detto il Consiglio di Stato ha annullato il concorso perché la commissione avrebbe favorito Sanseverino a scapito della Bruno. 'Confrontando le relative attività di ricerca - si legge infatti nella sentenza emerge, in termini oggettivi, un dato di prevalenza per la dottoressa Bruno". Dopo la decisione dei giudici amministrativi è stata formata una nuova commissione che però ha interrotto i lavori. La Santoro ha mandato loro una diffida, spiegando che avrebbero dovuto rivalutare soltanto i suoi titoli e quelli di Sanseverino e non quelli di tutti gli altri candidati. Una teoria che non ha convinto però il rettore, Antonio Uricchio, che infatti ha chiesto un parere al Consiglio di Stato per capire come comportarsi ed è in attesa di ricevere una risposta. Per il momento il concorso è bloccato. Intanto però l'avviso è diventato un caso in ambito accademico. Anche se tutte le persone coinvolte si dicono serenissime. Se da una parte il legale di Patroni Griffi, Ugo Paliero, si dice sicurissimo di chiarire tutto in tempi stretti anche vista la "posizione marginale" del suo assistito, il difensore del professor Giannelli, Vito Mormando spiega: "I rilievi che gli vengono mossi fanno riferimento a presunte e opinabili irregolarità amministrative, tra l'altro già travolte dalla sentenza del Tar e dal decreto di approvazione degli atti da parte del rettore. Comunque un dato è pacifico: il concorso si è svolto presso l'università di Bari. La competenza non è tarantina".

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

ANTONIO GIANGRANDE. Alla domanda rispondo come dr. Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, iscritta presso la Prefettura di Taranto e per gli effetti riconosciuta dal Ministero Dell’Interno.

Per dare una risposta un po’ lunghina, ma estremamente esauriente ed esaustiva, bisogna partire dalla concezione che si ha dei mafiosi in Italia. Nel calcio, così come nella politica, specie a sinistra, vige il concetto che se si vince e si ha successo, si vale, se si perde, gli altri han rubato. Ergo: tu sei ricco e di successo, allora sei un mafioso. Così come molte associazioni antiracket ed antiusura, che non sono di sinistra o riconducibili alla CGIL, la mia associazione non è inserita nel sistema precostituito dell’antimafia Grasso-Ciotti-ANM/MD e per gli effetti vedo e denuncio le storture di una struttura mediatico-giudiziaria. Non ho il megafono dei media di sinistra col paraocchi ideologico, né tantomeno di quelli di destra, occupati ad osannare Berlusconi. Per questo non mi rimane che testimoniare il presente nei miei libri. In particolare: “Mafiopoli” e “Usuropoli e fallimentopoli”. Tornando alla domanda. La risposta la danno gli stessi protagonisti più noti della cronaca dimenticata. Mi astengo dal dilungarmi sulla mia storia. Un ristorante bruciato e dalla burocrazia mai risarcito, né fatto ricostruire. Dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Comunque in regime di sottomissione ideologica l’establishment ha altre cose da pensare rispetto a quello che il popolo anela.

PINO MANIACI. Beni sequestrati, Maniaci: “Gli dei delle misure di prevenzione”. Il direttore di Telejato è stato ascoltato in Commissione regionale antimafia. In quella sede ha presentato il suo dossier sui curatori dei patrimoni sottratti ai boss di Cosa nostra: “Sono sempre gli stessi e gestiscono patrimoni immensi. A volte con problemi di incompatibilità”, scrive Riccardo Campolo su “L’Ora Quotidiano”. “A fronte di quattromila richieste per fare l’amministratore giudiziario, vengono nominati sempre i soliti noti: Dara, Modica de Mohac, Benanti e soprattutto Cappellano Seminara. Quest’ultimo, tutt’ora, continua a gestire capitali immensi, nonostante qualche problema di incompatibilità”. Pino Maniaci, direttore di Telejato, ricostruisce per loraquotidiano.it le denunce portate davanti alla Commissione regionale antimafia durante la sua audizione dello scorso 17 dicembre. Secondo quanto riferito da Maniaci, il sistema delle misure di prevenzione farebbe acqua da tutte le parti, non rispettando il principio ispiratore della legge Rognoni-La Torre. “Non sono riuscito a scalfire con le mie denunce – ha spiegato – il sistema delle assegnazioni degli incarichi a pochi privilegiati. Quando ho riferito ciò che sapevo, mi sono reso conto che la politica era consapevole di ciò che stava succedendo. Forse i parlamentari non sono nelle condizioni di intervenire, al massimo hanno il potere legislativo per correggere”. Nessuno ha preso provvedimenti nei confronti delle persone denunciate dal direttore di Telejato? ”Non funziona così, funziona così per le persone normali, ma non per gli dei delle misure di prevenzione”. “Un lungo e intenso confronto in Commissione Antimafia regionale. Abbiamo appena finito di ascoltare Pino Maniaci, direttore di Telejato. Pino dipinge un quadro a tinte fosche, tante ombre e poche luci, ci fornisce spunti interessanti, soprattutto sulla gestione dei beni confiscati, e nei prossimi giorni ci consegnerà un dossier dettagliato che studieremo con attenzione. Gli ho detto, salutandolo, che non è solo e che deve continuare a fare il suo lavoro, il giornalista, come sempre ha fatto: con la schiena dritta e la testa alta”. Lo scrive sui social network il vicepresidente della Commissione regionale Antimafia, Fabrizio Ferrandelli. a conclusione dell’audizione del direttore della Tv di Partinico al centro di continue intimidazioni.

LE IENE. Le Iene e Mafia, antimafia e aziende che affondano. Nella puntata di giovedì 29 gennaio 2015, de Le Iene Show uno dei servizi proposti ha toccato il tema della mafia e l’inviato Matteo Viviani ha voluto raccontare la storia della famiglia Cavallotti ed ambientata a pochi chilometri da Palermo. Una vita, quella dei fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni, Gaetano, dedicata a svolgere il proprio lavoro, con passione e dedizione con l’intento di lasciare ai figli un modo migliore in cui vivere, salvo poi trovarsi, da un giorno all’altro, senza nulla a causa dello stato che sottrae tutto in nome della legalità. In poco tempo vedere i frutti di anni di lavoro, mandati in fumo da qualcun’altro che è stato messo a gestire il tutto al posto di proprio dallo stato. I fratelli raccontano la loro storia sin dagli inizi: dalle idee geniali che frutta una grande molo di lavoro, all’infiltrazione della mafia che spinge per riscuotere il pizzo, fino ad arrivare ad una situazione insostenibile fatta di arresti assurdi e condanne per associazione a delinquere. Il resto ve lo facciamo vedere senza svelarvi altro, per farvi gustare a pieno quanta assurda è questa storia.

A Le Iene Show nella puntata andata in giovedì 29 gennaio 2015, Matteo Viviani racconta la storia di un’azienda di famiglia siciliana affondata dalla mafia e dal mancato sostegno dello Stato. Siamo a pochi chilometri da Palermo, nella ditta familiare gestita dai fratelli Salvatore, Vincenzo, Giovanni e Gaetano Cavallotti. Tutti e quattro hanno dedicato anima e corpo a questo lavoro per sperare di poter lasciare qualcosa ai rispettivi figli. Ma neppure la loro realtà imprenditoriale in crescita è passata inosservata alla mafia locale che ha bussato alla loro porta pretendendo il pagamento del pizzo. Da qui è iniziato un calvario in cui l’intervento dello Stato non ha fatto che peggiorare le cose. Nel 98 i Carabinieri hanno eseguito perquisizioni e arrestato le vittime della vicenda, ovvero proprio loro che erano “costretti” a pagare il pizzo. Chi ha pagato viene trattato alla stregua di complice: le banche prendono le distanze e l’attività inizia a dare segni di cedimento. A capo delle aziende sono state messe persone terze (amministratori delegati) e ai proprietari originari non resta che assistere inermi al graduale fallimento, alla distruzione inesorabile del frutto di anni di sacrifici. I contratti già in essere decadono e passano ad altre società. Ma c’è di peggio: il patrimonio di famiglia viene sequestrato in via preventiva fino a quando, sostengono le autorità, “non riusciranno a dimostrare la provenienza lecita dei beni”. La “giustizia” arriva dopo 12 anni e 4 gradi di giudizio: i Cavallotti vengono dichiarati innocenti, estranei alla Mafia. Viviani ha intervistato l’amministratore delegato per capire se veramente ha sempre agito a favore dell’azienda vittima del sequestro. Spunta una differenza sospetta di un milione di euro circa di cui i Cavallotti non hanno visto un centesimo. Se volete vedere il servizio completo su questa assurda vicenda di in-giustizia italiana cliccate nel link sotto.

Le Iene parlano dei Cavallotti, scrive Salvo Vitale su “Peppino Impastato”. Ieri sera è andato in onda Italia Uno, nel corso della trasmissione “Le Iene” un lungo e documentato servizio sui fratelli Cavallotti, su come chi dovrebbe rappresentare lo stato abbia distrutto un’azienda florida che dava lavoro a circa 200 dipendenti  e su come questa vicenda, che ormai si protrae da 16 anni, malgrado le assoluzioni del tribunale e la riconosciuta estraneità dei fratelli Cavallotti a qualsiasi  forma di collusione mafiosa, per decisione dell’ineffabile dottoressa Saguto, il magistrato che dirige l’Ufficio Misure di Prevenzione di Palermo  ancora continua . I dati e i contatti con l’azienda sono stati forniti in gran parte da Telejato Vista la complessità dell’inchiesta che l’emittente conduce da tempo, lo staff delle Iene ha deciso, per il momento di affrontare solo un’impresa, quella dei Cavallotti, ma riservandosi di portare all’attenzione  le altre malversazioni  che, su questo campo, sono consumate in nome e con l’avallo dello stato.  Davvero meschina e al di là di ogni umano senso di dignità la figura dell’ ex amministratore giudiziario Modica de Moach, che non ha saputo dare spiegazioni delle sue malversazioni e delle false fatturazioni girate a un’azienda del fratello. In pratica abbiamo assistito in diretta alle prove dimostrate di come si commette un reato, con l’avallo dei magistrati delle misure di prevenzione e come, chi dovrebbe rappresentare lo stato e tenere in piedi le aziende che gli sono state affidate, fa di tutto per distruggerle ai fini di un  utile personale. Le riprese di un’azienda con i mezzi di lavoro arrugginiti, abbandonati, con i capannoni spogli, non possono che generare tristezza. Come succede in Italia, non succede niente, anzi, se succede qualcosa, succede per danneggiare chi chiede giustizia. Come nel caso dell’ultimo recentissimo  sequestro operato ai figli dei Cavallotti, che cercavano di raccogliere i cocci dell’azienda. Questo è quello che la redazione di Telejato vorrebbe andare a dire alla Commissione Antimafia, se questa si decidesse di tenere conto della richiesta di ascoltarla, già sottoscritta da 40 mila cittadini.

La storia allucinante dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, estratto da I Siciliani Giovani aprile 2014 n°19: Beni Confiscati: così non funziona di Salvo Vitale, Pino Maniaci, Christian Nasi e pubblicato su “La Nuova Belmonte”.

La Comest. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. Fiutano che c’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione e decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad avere numerosi appalti, specie nelle Madonie, con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi tornare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni. Sul mercato nasce, a far concorrenza a loro l’Azienda Gas spa, per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale chiede, per fondare la società, i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica: Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, con l’avallo, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità e si aprono le porte per gli appalti: unico ostacolo la Comest e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco: Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agire, è scritto: “Cavallotti due milioni”. Si fa presto a incriminare i Cavallotti, che, come tanti pagavano il pizzo, per associazione mafiosa, e a far disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto. Dopo che nel 2002 la Corte d’Appello ha ribaltato la sentenza con una condanna e dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa, ma, qualche mese dopo, nei suoi confronti scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristodaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione nei confronti di tre dei fratelli Cavallotti: ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario un certo Andrea Modìca di Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TOSA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni, mal’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati quasi tre anni, anzi, per, viene confiscata una nuova azienda di uno dei fratelli, che si è spostato a Milazzo e nel dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dal figlio, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, il ragazzo titolare, la cui sola colpa è di essere figlio di uno che è stato indagato, condannato e poi prosciolto dall’accusa di associazione mafiosa. Gli ultimissimi sequestri riguardano un complesso di aziende edili di Vito Cavallotti, figlio di Salvatore, la Energy clima, la Sicoged la Tecnomet e la Ereka CM, una parafarmacia già chiusa dal 2013. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per ritardo di notifica. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti. Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati.

Questo sistema non guarda in faccia a nessuno.

ITALGAS. Italgas: il colosso commissariato dall’antimafia. A dicembre 2014 ascoltati anche i vertici Snam in commissione parlamentare, scrive Luca Rinaldi su “L’Inkiesta”. Commissariata per sei mesi dal 9 luglio 2014 da parte della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, e commissariamento prorogato di altri sei mesi lo scorso dicembre. È l’attuale situazione della società Italgas, controllata al 100% da Snam, i cui principali azionisti di Snam sono Cassa Depositi e Prestiti Reti, Cassa Depositi e Prestiti e per un altro 49% altri investitori istituzionali. È la prima volta che una società quotata subisce una misura del genere. Italgas conta 1.500 concessioni, una rete di distribuzione di 53mila chilometri e 6 milioni di utenze a cui fornisce gas per quasi 7,5 miliardi di metri cubi. Un colosso che per gli inquirenti ha però trovato tra i suoi affari anche quelli di alcune società riconducibili a cosa nostra. E il gas storicamente attrae gli interessi della mafia siciliana da Mattei ai giorni nostri. Così capita che il cane a sei zampe si trovi tra le società cui appalta la metanizzazione del Sud Italia strutture in mano a soggetti destinatari di misure di prevenzione patrimoniali in passato accusati (ma poi assolti) di concorso esterno in associazione mafiosa e altre società su cui le procure antimafia hanno messo la lente d’ingrandimento. I pm di Palermo hanno richiesto e ottenuto per Italgas il commissariamento in seguito a una inchiesta partita sulla società Gas spa, società riconducibile a Vito Ciancimino e invece gestita formalmente dall’imprenditore Ezio Brancato. La stessa Gas nei primi anni duemila risulta però essere sotto il controllo di del figlio di don Vito, Massimo, che tramite due legali, la cede alla spagnola Endesa. Nel maggio del 2013 tre società del gruppo Gas finiscono in amministrazione giudiziaria e l’inchiesta della procura di Palermo, coordinata dai pm Petralia e Scaletta prosegue. Si arriva così ai fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno, accusati di concorso esterno in associazione mafiosa, e poi assolti. Tuttavia i due sono destinatari di alcune misure di prevenzione patrimoniale. Vengono sequestrati ai due beni per il valore di circa otto milioni di euro nel dicembre 2013, e nell’inchiesta fanno capolino due società, la Imet e la Comest. Quest’ultima, che già compariva in un pizzino di Bernardo Provenzano e un’altra, la Euroimpianti, mettono nei guai Italgas. Proprio la Comest fa parte di un pacchetto di acquisizioni di Italgas, che ne prende il controllo successivamente all’amministrazione giudiziaria nel 2009. Ma la società che segna un punto di svolta per la vicenda è la EuroImpianti, che secondo la procura di Palermo sarebbe sempre riconducibile ai fratelli Cavallotti. EuroImpianti vince l’affidamento di alcuni appalti in Sicilia e Liguria e si occupa della manutezione di altre strutture controllate da Eni. Il 22 dicembre 2011 Euroimpianti entra in amministrazione giudiziaria in seguito alle inchieste della procura di Palermo, e nel luglio 2014 è il turno di Italgas, che secondo i giudici «aveva sicuramente cognizione del fatto che la Euroimpianti pur se formalmente intestata ai giovanissimi figli di Cavallotti Vincenzo e Cavallotti Gaetano, era di fatto gestita dai predetti imprenditori». Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. Sullo sfondo della vicenda una interdittiva antimafia atipica nei confronti della Euroimpianti arriva il 2 novembre del 2011 dalla procura di Messina. L’interdittiva atipica, presente nell’ordinamento italiano e ora non più in vigore dopo l’approvazione del codice antimafia del 2013, faceva accendere una spia nei confronti di un’azienda che prendeva parte a un appalto, ma senza effetti immediati: l’appaltatore può discrezionalmente valutare se interrompere o meno il rapporto. Per il tribunale di Palermo ci sono sospetti di infiltrazioni mafiose all'interno di Italgas, che è anche quotata in Borsa: ora si trova affidata a un amministratore giudiziario. A ricostruire la vicenda è Luca Schieppati, per tre mesi amministratore delegato di Italgas prima del commissariamento, in audizione alla Commissione Parlamentare Antimafia. L’11 novembre del 2014 Schieppati si siede davanti alla commissione parlamentare antimafia per riferire sulla vicenda Italgas. Esordisce specificando che «il racconto di questa sera è quello di una persona che, fino al 10 aprile 2014, era direttore generale operations di SNAM Rete Gas, dopodiché dall'11 aprile è stato in Italgas, dove in questi tre mesi esatti, dall'11 aprile 2014 all'11 luglio 2014, non ha mai saputo di questa vicenda». Fatto sta che dopo la sospensione EuroImpianti viene riabilitata nell’ottobre del 2012: per 14 mesi la società non ha partecipato a gare di Italgas, poi riprende il servizio. Arriva il commissariamento anche per Italgas nel luglio 2014. «misura - dice Schieppati in audizione - che ha colto Italgas di sorpresa, perché non ci era mai pervenuta, prima di quella data, nessuna richiesta né alcuna informazione relativamente ai fatti». Viene sentito anche Leonardo Rinaldi, Ex amministratore delegato di Gas Natural Distribuzione Italia SpA, altra società che ha portato le indagini dei pm su Italgas, ma la sua audizione in commissione è rimasta secretata. A dicembre vengono sentiti in commissione anche Paolo Mosa, amministratore delegato di Snam Rete Gas e Carlo Malacarne, Amministratore delegato di Snam, i quali ricalcano le parole di Schieppati sulla sorpresa del provvedimento di commissariamento, e indicano che la società ha già avviato un monitoraggio interno per la selezione delle ditte che partecipano agli appalti. Malacarne, amministratore delegato di Snam: «Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori». «Mi sento di dire - ha riferito Malacarne ai commissari - che ci sono state delle carenze, sicuramente, a livello locale, localizzate. Queste carenze vanno comunque individuate». E ancora «Il discorso di Eurimpianti Plus e Cavallotti l'ho letto nella notifica. Non solo non ne ero al corrente, ma non è nel mio compito normale essere al corrente di un rapporto fra la società che ha l'indipendenza operativa e i suoi appaltatori. Io non ne ero al corrente non solo nel 2009, ma neanche nel 2014. Questo discorso di Cavallotti l'ho letto, ma non ne ero assolutamente al corrente. Lo dico molto sinceramente». Uno scarico di responsabilità che forse chiarisce ancora poco i rapporti tra le società in gioco, cioè Italgas e quelle dei Cavallotti. Dopo sei mesi, dal giugno al dicembre 2014 i commissari di Italgas e i giudici sembrano non vederci ancora chiaro e, come riporta La Stampa, in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata» mentre il pm «ha rappresentato di aver in corso il completamento di ulteriori attività investigative». È uno dei passaggi del provvedimento, secondo quanto riferito da chi ha visionato i documenti, con il quale il tribunale di Palermo ha prorogato per altri sei mesi il commissariamento della società controllata da Snam Rete Gas. In sostanza le indagini della procura di Palermo non si sono fermate, e si è in cerca di altri elementi utili, in particolare su negligenze nella gestione del sistema informatico degli appalti. Letta dunque la relazione degli amministratori giudiziari (Sergio Caramazza, Luigi Giovanni Saporito, Marco Frey, Andrea Aiello), depositata lo scorso 18 dicembre e fatta propria dai giudici nel provvedimento del 24, avrebbe fatto emergere in particolare una serie di carenze nel sistema di concessione degli appalti per i lavori sulla rete. I commissari: in Italgas permangono «condizioni di potenziale agevolazione degli interessi di soggetti collegati alla criminalità organizzata». Carenze, scrive ancora La Stampa, in grado di avere impatti negativi sul budget e sui conti della società. Proprio alla luce di queste carenze, i pm avevano chiesto e ottenuto nel novembre scorso il sequestro dei dati storici del sistema che gestisce gli appalti dell’intero gruppo Snam, al fine di «estrarre» i contratti relativi a Italgas. A poco è servito, secondo il giudice, l’attività posta in essere da Snam , che lo scorso 13 dicembre aveva a sua volta proposto una serie di misure per eliminare i problemi riscontrati dagli amministratori. Insomma, il rischio che Italgas rientri tra gli appetiti di cosa nostra è ancora alto e i giudici dicono che i commissari nella stessa Italgas che genera un terzo dei ricavi del gruppo Snam, pari a 1,3 miliardi di euro, devono restarci almeno fino al prossimo luglio.

«Ringrazio Riccardo Spagnoli e Matteo Viviani per avere, per la prima volta, portato a conoscenza degli italiani una verità che ancora oggi nei media, nelle aule di Tribunale, financo in Commissione Nazionale Antimafia si tenta di mistificare. Ringrazio anche il dott. Antonio Giangrande per avere ora - come in passato - trattato in maniera imparziale e professionale la storia della mia famiglia. Un ringraziamento particolare va a Pino Maniaci per avere per primo dato ascolto alla richiesta di aiuto della mia famiglia - scrive sul suo profilo Facebook Pietro Cavallotti - Ciò che più dà fastidio non è tanto il costatare che i sacrifici di due generazioni sono andati in fumo perché non siamo mai stati attaccati ai beni materiali; non è tanto vedere che un amministratore giudiziario si è impunemente arricchito sulle tue spalle con l'avallo - non so se consapevole o meno - del giudice che lo ha nominato, che ne avrebbe dovuto controllare l'operato e al quale avevamo a tempo debito segnalato le irregolarità compiute da questo signore amministratore. La cosa che più ci mortifica è continuare ad essere accostati alla mafia nonostante una sentenza di assoluzione passata in giudicato. Per chi ha subito le vessazioni della mafia nell'attività di impresa, financo nella vita privata non c'è nulla di peggio che essere accostati alla criminalità mafiosa. La mafia ci fa schifo! Noi siamo assolutamente lontani dalla logica mafiosa della prepotenza e della prevaricazione. Noi giovani abbiamo vissuto la nostra infanzia tra aule di Tribunale e case circondariali. Ma non abbiamo mai perduto la speranza nella giustizia. Pensavamo che l'assoluzione dei nostri padri ci avesse restituito la dignità che il fango di quelle infamanti accuse ci aveva tolto. Ci siamo messi in gioco e, ispirandoci ai valori che ci sono stati trasmessi dai nostri padri - l'amore per lavoro, il senso della legalità, il rispetto per il lavoratore che abbiamo sempre anteposto al bene personale - abbiamo costituito con le nostre mani una società che con impegno e sacrificio siamo riusciti a far crescere producendo il benessere per le famiglie dei nostri collaboratori e una aspettativa di vita migliore per noi stessi. Pensavamo di avere recuperato quello che la cattiva giustizia aveva tolto a noi e ai nostri padri. Avevamo per un attimo accarezzato il pensiero di vivere in un Paese civile. Ma evidentemente ci sbagliavamo. Nel 2012, infatti, viene sequestrata la nostra azienda. Sapete perché? Perché l'amministratore giudiziario che si vede nel video ha fatto una segnalazione al Tribunale dicendo che la nostra società faceva concorrenza alla Comest. Nel provvedimento di sequestro si continua a ripetere che i nostri padri sono vicini alla mafia. Ma come si può dire una cosa del genere a fronte di una sentenza ampiamente assolutoria? Ed ecco che proprio quando pensi di esserti rimesso in carreggiata, precipiti di nuovo in basso. Ti ritrovi isolato, emarginato dai media e da qualcuno che fino a poco prima ritenevi essere amico, tutto intorno terra bruciata. Siamo letteralmente impossibilitati nella ricerca di trovare un lavoro. Nessuno è disposto ad assumerci per paura di ripercussioni giudiziarie. Sono addirittura stati capaci di porre in amministrazione giudiziaria la Italgas perché questa ha avuto dei regolari rapporti commerciali con la nostra società che, secondo l'accusa, sarebbe riconducibile ai fratelli Cavallotti "vicini ad esponenti di spicco della criminalità organizzata". Questo ci ferisce e ci sconforta. Con la massima - e forse ingenua - fiducia nelle istituzioni, mandiamo una lettera alla Commissione Nazionale antimafia chiedendo di essere ascoltati per chiarire la vicenda giudiziaria della nostra famiglia e i rapporti che ci sono stati tra la nostra società e la Italgas, esprimiamo la più ampia disponibilità a collaborare per l'accertamento della verità. Ad oggi non ci è stata data alcuna risposta. Qualcuno potrebbe dire <<le colpe dei padri non devono ricadere sui figli>>. Ma talvolta nello sconforto ci chiediamo: quale sarebbe la colpa dei nostri padri? La loro colpa è forse quella di essere innocenti? Quella di avere subito le minacce della mafia in un periodo storico in cui opporvisi significava sottoscrivere la propria condanna a morte? Noi siamo orgogliosi di tutto quello che i nostri padri hanno fatto, di tutto quello che ci hanno insegnato. Ci dicono che noi siamo i prestanome dei nostri padri. Cosa falsa. Noi portiamo con orgoglio il loro nome e non lo prestiamo! E se la conseguenza dell'amore che noi proviamo nei loro confronti deve essere quella di portare insieme a loro questa croce noi siamo disposti a farlo, mai abbandonando la fiducia nella giustizia che siamo certi, prima o dopo, arriverà. L'auspicio è che giornalisti seri come Antonio Giangrande, Pino Maniaci, Marco Salfi, le stesse Iene, tutti gli altri protagonisti della antimafia vera (come Salvo Vitale), tutti i protagonisti della lotta contro tutte le mafie - per dirla con il dott. Giangrande -, tutti gli uomini liberi non asserviti al potere e non inclini a fare aprioristicamente da eco alla voce delle procure, possano ancora impegnarsi per far luce sul malaffare che ruota attorno al sistema criminale delle misure di prevenzione, dietro il quale spesso si nasconde e si arricchisce impunemente sotto il manto della legalità la criminalità meglio organizzata».

La Mafia dell’Antimafia: l'inchiesta di Telejato audita in Parlamento, scrive Pino Maniaci su “Change”. C’è ancora un business di cui non si parla, un business di milioni di euro. Il business dell’Antimafia. Quattro mesi dopo il brutale assassinio di Pio La Torre, nel 1982, viene approvata la legge Rognoni-La Torre, che consentiva il sequestro e la confisca di quei beni macchiati di sangue. Finalmente, lo Stato aveva le armi per attaccare gli ingenti patrimoni mafiosi. Nel ’96 grazie a Libera nasce la legge 109 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia, e finalmente terreni, case, immobili tornano alla comunità. Tutto bellissimo. Nella teoria. Qualcosa però non funziona. Questi beni, sequestrati, confiscati, falliscono l'uno dopo l’altro. Il 90% di imprese, aziende, immobili, finisce in malora spesso prima ancora di arrivare a confisca. A non essere rispettata e ad aver bisogno di una riforma strutturale è la Legislazione Antimafia - Vittime della mafia e relativo Decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. Parliamo di aziende e imprese sequestrate perché di dubbia legalità: aziende che forse furono acquistate con proventi mafiosi, o che svolgono attività illecito-mafiose, e che per chiarire questo dubbio vengono poste sotto sequestro ed affidate alla sezione delle misure di prevenzione del Tribunale competente. In questo caso, parliamo del Tribunale di Palermo, che amministra la grande maggioranza dei beni in Sicilia. I beni confiscati sono circa 12.000 in Italia; di questi più di 5000 sono in Sicilia, circa il 40%. La maggior parte nella provincia di Palermo. Si parla di un business di circa 30 miliardi di euro, solo qui a Palermo. Questi beni sotto sequestro vengono affidati a un amministratore giudiziario scelto dal giudice del caso, che dovrebbe gestirlo mantenendolo in attività e tenerlo agli stessi livelli che precedevano il sequestro. Questa fase di sequestro secondo la legge modificata nel 2011 non deve superare i 6 mesi, rinnovabile al massimo di altri 6, periodo in cui vengono svolte le dovute indagini e si decide il destino del bene stesso: se dichiarato legato ad attività mafiose esso viene confiscato e destinato al riutilizzo sociale; se il bene è pulito viene restituito al precedente proprietario. Purtroppo la legge non viene applicata: il bene non viene mantenuto nello stato in cui viene consegnato alle autorità, né vengono rispettate le tempistiche. In media il bene resta sotto sequestro per 5-6 anni, ma ci sono casi in cui il tempo si prolunga fino ad arrivare a 16 anni. L’albo degli amministratori competenti che è stato costituito nel gennaio 2014 per legge dovrebbe essere la fonte da cui vengono scelti questi soggetti: in base alle competenze e alle capacità. Ma la scelta è arbitraria, effettuata dai giudici della sezione delle misure di prevenzione. Ritroviamo molto spesso la solita trentina di nomi, che amministrano decine di aziende e imprese. E non per capacità, perché la maggior parte di quei beni falliscono durante la fase di sequestro. Anche se poi vengono dichiarati esterni alla vicenda e gli imputati assolti da tutte le accuse. Telejato, la piccola emittente televisiva comunitaria siciliana che gestisco dal 1999 e che da allora non ha mai smesso di denunciare e lottare contro la mafia, ha sede a Partinico e copre un bacino d’utenza caratterizzato storicamente da una forte presenza mafiosa. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli amministratori giudiziari. La pratica di vendere parti delle aziende stesse mentre sono ancora sotto sequestro, è abbastanza consolidata, e ci si ritrova con aziende svuotate e distrutte ancor prima del giudizio definitivo, che sia di confisca o di dissequestro. Questi sono solo alcuni esempi, alcune storture del sistema; ma molti sono i casi che riflettono un problema strutturale: una legge limitata, da aggiornare, che non permette gli adeguati controlli e conduce troppo spesso al fallimento dei beni per le - forse volute - incapacità del sistema. Posso fare nomi, esempi, citare numeri e casi. Chiedo alla Commissione Antimafia di essere audito per esporre questa inchiesta che stiamo portando avanti a Telejato, con notevole fatica, perchè non abbiamo nessuno al nostro fianco.

La famiglia Cavallotti è solo la punta dell'iceberg, scrive Pino Maniaci su “Change”. I fratelli Cavallotti, sono stati assolti con sentenza definitiva dalla infamante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa con la formula "perchè il fatto non sussiste". In riferimento all’assoluzione dei fratelli Cavallotti il dott. De Lucia ha dichiarato che tale pronuncia giudiziale “come tutte le sentenze di assoluzione, però, deve essere letta. Una serie di dati processuali lì non hanno trovato, per una serie di questioni di natura formale, soddisfazione”. Ebbene, i fratelli Cavallotti sono stati assolti non per “questioni di natura formale”, ma perchè, a seguito di un lungo e complesso procedimento penale, sono stati ritenuti vittime e non complici della mafia per i motivi di cui adesso si dirà. Gli elementi da cui è scaturito il processo penale sono gli stessi su cui si basano le misure di prevenzione avverso le quali pende ricorso in Cassazione. Si tratta di una serie di pizzini e di dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia che, se interpretate correttamente, dimostrano come le imprese dei fratelli Cavallotti, piuttosto che essere state avvantaggiate illecitamente dalla mafia, alla stregua di tutte le imprese operanti in Sicilia negli anni '80 e '90 - periodo della massima recrudescenza del fenomeno mafioso - sono state costrette a pagare il pizzo e a subire furti e danneggiamenti nei propri cantieri, tutti denunciati alle autorità competenti. I Cavallotti non hanno mai partecipato al sistema di spartizione illecita degli appalti (c.d. "Accordo Provincia") ideato dal Siino; ciò è dimostrato in maniera irrefutabile dall'elenco dei lavori che il gruppo Cavallotti ha svolto dalla data della costituzione della prima società di capitali alla data del sequestro, dal quale si evince che mai alcuna impresa riconducibile al gruppo Cavallotti si è aggiudicata lavori di importo superiore ad un Miliardo di lire indetti dall'Anas o dalla Provincia tra la seconda metà degli anni ottanta e il 1991 - periodo della riferita operatività dell'accordo suddetto avente ad oggetto, come spiegato dallo stesso Siino, la spartizione dei lavori indetti da Anas e Provincia di valore superiore ad un Miliardo di Lire . Quanto poi alla non meglio precisata - e perciò suggestiva - “documentazione riferibile a Bernardo Provenzano, che parla di appalti all'epoca di natura miliardaria, che riguardavano il gruppo Cavallotti” cui ha fatto cenno il dott. De Lucia secondo il quale tale documentazione avrebbe avuto “una valorizzazione diversa in sede processuale, ma questo non toglie che quel materiale trova nuovo utilizzo nella misura di prevenzione attualmente pendente”, può essere di aiuto alla comprensione della vicenda processuale ricordare che si tratta di missive dattiloscritte inviate dal Provenzano all’Ilardo e da questi consegnate al Colonnello Riccio. In queste missive si fa cenno, da una parte, ai lavori di metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe, eseguiti dalle società dei fratelli Cavallotti, dall’altra, alla Cooperativa “Il Progresso”, di cui a breve si dirà. Il carteggio in parola va letto - ed è stato valorizzato dai giudici del processo penale - come pagamento del pizzo, e ciò per le seguenti ragioni. Le gare per i lavori per la metanizzazione dei comuni di Agira e Centuripe sono state indette e aggiudicate a Palermo dalla Siciliana Gas. Queste missive sono del seguente tenore:

1- "Ti prego se puoi mettere a posto questi tre bigliettini che ti mando che cadono tutti e tre nella Provincia di Enna dammi risposta di quello che fai".

2- "Imp. Coop. Il Progresso deve fare un lavoro a Piazza Armerina - devono fare il consolidamento Pile sul Fiume Gela sotto il viadotto Fontanelle al km 48 strada Statale 117 bis importo 500 m circa questo lo cominceranno verso fine Febbraio 95. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Agira dopo Leonforte Provincia di Enna. Imp. 4 ml. Imp. Cavallotti. Lavoro Gas Centuripe Provincia di Enna Imp. 4 ml. Dammi risposta se li raccomandi o nò".

Va precisato che nel gergo mafioso con l'espressione "raccomandazione", come affermato incidentalmente nella sentenza che ha assolto dalla accusa di turbativa d’asta il sig. Pavone, titolare della Cooperativa “Il Progresso” menzionata nello stesso bigliettino, si intende fare riferimento alla messa a posto. Pur non contenendo una datazione, tali missive vengono fatte erroneamente risalire all'Ottobre del 1994 così da essere collocate, nella prospettazione accusatoria, in epoca antecedente alla aggiudicazione dei lavori (Dicembre 1994). Inoltre, la Cassazione ha stabilito che le dichiarazioni dell’Ilardo e le sintesi delle stesse contenute nella relazione del Riccio (dove si fa cenno al dato temporale) sono inutilizzabili perché ritenute prove formate in violazione di legge in assenza del contradditorio. Ma non è tutto. Sulla base di una nota "regola di mafia", se Provenzano avesse voluto favorire l'aggiudicazione dei lavori ai Cavallotti, avrebbe dovuto rivolgersi al referente locale della consorteria mafiosa competente su Palermo - luogo, nel quale vengono indette e aggiudicate le gare - e non di certo all'Ilardo, referente della famiglia mafiosa di Caltanissetta ed Enna. Viceversa, l'indirizzamento delle missive all'Ilardo dimostra, in verità, ancora una volta, che Provenzano faceva riferimento alla messa a posto. E ciò risulta compatibile con una ulteriore "regola di mafia" secondo la quale la riscossione del pizzo compete alla famiglia del luogo in cui i lavori vengono eseguiti. Alcune delle concessioni ottenute con regolare procedura dai Cavallotti, dopo il loro arresto avvenuto nel 1998, sono state sottratte alla Comest, già in amministrazione giudiziaria, e affidate, senza alcuna gara con il c.d. "patto di legalità" siglato dall'allora prefetto Profili, proprio alla Gas s.p.a., in corrispondenza dello stanziamento dei fondi europei per la metanizzazione della Sicilia al fine di, come si legge nell’atto prefettizio, “prevenire e reprimere ogni possibile tentativo di infiltrazione della malavita organizzata nel mercato del lavoro, nella fase di aggiudicazione degli appalti e negli investimenti, nonchè nello svolgimento dei lavori presso i cantieri e nell’esercizio delle attività produttive”. Con riferimento a questa operazione è di interesse, inoltre, riportare le dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino presso il Tribunale di Palermo alla presenza dei magistrati dott. Ingroia e dott. Di Matteo il 09/07/2008: "si erano occupati insieme anche di fare levare l'aggiudicazione della, dei lavori dell'impresa quella dei Cavallotti per farla aggiudicare sempre all'impresa Brancato - Lapis". L'allora Presidente della Commissione Antimafia Giuseppe Lumia in data 17/06/2000 partecipava a Mezzojuso alla inaugurazione dei lavori di metanizzazione eseguiti dalla Gas s.p.a. spiegando al suo uditorio la necessità di coniugare lo “sviluppo con la legalità”. Nel processo di appello del processo di prevenzione il Procuratore Generale, Florestano Cristodaro, ha chiesto la revoca delle misure di prevenzione sia personali che patrimoniali ritenendo ancora una volta i Cavallotti "vittime della mafia" ed invitando i giudici a "leggere serenamente le carte processuali". Ora, se un Procuratore della Repubblica italiana, ha chiesto di revocare le misure di prevenzione, ciò significa, che con riferimento alla vicenda dei Cavallotti non è ravvisabile neppure l'indizio della loro vicinanza alla mafia; E se questo dato così significativo viene letto insieme alla sentenza di assoluzione definitiva la conseguenza non può che essere una: i Cavallotti non hanno mai avuto nulla a che fare con la mafia! Veniamo adesso all'audizione della commissione Nazionale Antimafia nella quale sul sequestro Italgas sono stato audito il dott. Dario Scaletta “Belmonte Mezzagno è un paesino della provincia di Palermo, per chi non lo conoscesse, ed è il paese di Benedetto Spera, un noto esponente mafioso assicurato alle patrie galere”) del dott. De Lucia (DE LUCIA: “(a) Belmonte Mezzagno, un paese di poche migliaia di anime, (i Cavallotti) sono ben noti sia per le capacità imprenditoriali sia per il tipo di rapporti che hanno con la criminalità mafiosa in quel territorio, che è stata per anni rappresentata dal braccio destro di Bernardo Provenzano, Benedetto Spera”), dell’On.le Lumia (LUMIA: “Belmonte Mezzagno, un comune dove agiva un boss mafioso del calibro di Benedetto Spera, che stava nel Gotha mafioso insieme a Provenzano e a Giuffrè”). Sembra quasi che le imprese gestite da cittadini belmontesi siano per ciò stesso dotate, in chiave indiziaria, di un marchio registrato che ne certifica l’origne criminale. Questo modo di argomentare che segue il noto detto di “fare di tutt’erba un fascio” è inamissibile oltre che offensivo nei confronti di una intera comunità cittadina. Vale la pena di ricordare che Belmonte Mezzagno non è soltanto il paese che ha dato i natali a Benedetto Spera, ma il paese in cui vivono e da cui provengono centinaia di lavori infaticabili e imprenditori onesti che lottano tra mille difficoltà a fianco dei propri collaboratori non soltanto contro la crisi economica ma anche contro un pregiudizio che talvolta fa più male della crisi. Belmonte Mezzagno, “per chi non lo conoscesse”, è il paese di artisti, di musicisti e sportivi di fama internazionale, dei migliori studenti dell’Università di Palermo. Continueremo con la Nostra battaglia e vi preghiamo di sostenere la petizione.

FRANCESCO DIPALO. Imprenditore di Altamura, testimone di giustizia, minaccia di darsi fuoco, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, ha minacciato di darsi fuoco nella serata di ieri davanti alla Prefettura di Monza, procurandosi comunque delle ustioni alle mani con liquido infiammabile. Francesco Di Palo è un imprenditore di Altamura, diventato testimone di giustizia e recentemente uscito dal programma di protezione. Tuttavia lui e la sua famiglia continuano a sentirsi in pericolo. Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio, dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana e il presunto intreccio tra mafia, politica e Forze dell’Ordine. A causa delle ristrettezze economiche derivanti dal suo status di testimone di giustizia, l’uomo ha più volte protestato pubblicamente contro il ministero dell’Interno e la procura di Bari. Nell’ottobre 2011 chiese di uscire dal programma di protezione perchè – disse ai giornalisti – il Viminale non gli pagava più l’affitto della casa nella località protetta in cui viveva: per questo, il 27 ottobre 2011, protestò con un megafono davanti al tribunale di Bari dove era giunto in treno ("senza pagare il biglietto") e senza scorta. Raccontò che anche i suoi tre figli erano tornati a casa, ad Altamura. «Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesto – disse in quell'occasione ai cronisti – per dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

Altamura: nuove minacce per i fratelli Di Palo  Scritte intimidatorie contro il giornalista ed il testimone di giustizia, scrive Savino Percoco su “Antimafia Duemila”. Lo scorso dicembre 2014, all’indomani di alcune denunce, testimoniate in diretta radiofonica ai microfoni di Radio Regio Stereo, Alessio e Francesco Di Palo, sono stati destinatari di minacciose frasi intimidatorie scritte su alcuni muri della città di Altamura. Non è la prima volta che i due fratelli, entrambi molto attivi nella lotta contro la criminalità organizzata, sono destinatari di inquietanti messaggi o minacce. In passato sono stati vittime anche di violente aggressioni fisiche e verbali ed hanno subito danni anche su alcuni beni mobili. Alessio è giornalista e conduttore radiofonico e nei suoi programmi denuncia senza timore il malaffare mafioso e le sue connessioni. Francesco invece è un ex imprenditore e titolare della Venere S.r.l. di Matera, produttrice di vasche idromassaggio, divenuto testimone di giustizia dopo aver coraggiosamente denunciato i suoi estorsori. Dal dicembre 2009 su richiesta del pm antimafia Desirèe Digeronimo, oggi consigliere comunale di Bari, è entrato nel programma di protezione, iniziando così la dura vita dei testimoni di giustizia in località protetta fatta di segretezza, difficoltà economiche e limitazioni di movimenti e spostamenti. Nonostante ciò nei loro confronti regna un certo silenzio. Nessuno, tra i media, ha dato risalto alle intimidazioni subite ed anche tra le istituzioni sono latitanti nell'esprimere vicinanza verso questi due uomini che a distanza di anni, continuano il duro commino in nome della giustizia e della legalità. Francesco Di Palo, assieme al fratello, qualche mese fa ha presentato una serie di esposti alla Procura della Repubblica di Bari, denunciando continue estorsioni ai danni di imprenditori, commercianti ed artigiani altamurani. Nella sua denuncia Di Palo ha spiegato come, a suo parere, vi sia una nuova famiglia criminale che sta prendendo il controllo sulle attività estorsive un tempo condotte dal boss Bartolomeo Dambrosio, trucidato da 50 colpi di arma da fuoco nelle campagne altamurane il 6 settembre del 2010. “Inoltre sono stati inviati esposti - aggiunge Francesco - con i quali abbiamo denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti che vedono coinvolti imprenditori deviati di Altamura, affiliati al clan Dambrosio e ad un clan di Bari. Non abbiamo più avuto notizie. Mai in nessuna Procura d’Italia un Testimone di Giustizia non è stato convocato dai Magistrati dopo aver denunciato fatti gravi e penalmente rilevanti. Mai in nessuna Procura della Repubblica d’Italia un soggetto che denuncia una organizzazione criminale per estorsioni, non è convocato dai magistrati per confermare le denunce rese e/o approfondire i fatti oggetto delle stesse denunce”. Alla luce di ciò, qualche settimana fa i due fratelli lanciarono un appello dagli studi di Radio Regio Stereo indirizzato al Prefetto di Bari, chiedendo non solo un intervento a riguardo ma anche spiegazioni per il mancato scioglimento del Consiglio Comunale di Altamura per condizionamento mafioso.Su quest’ultio punto, l’ex imprenditore ricorda importanti deposizioni rilasciate agli inquirenti dalla vedova del boss Bartolomeo Dambrosio (oggi testimone di giustizia) riguardo presunti coinvolgimenti tra mafia, imprenditoria e politica altamurana. Nello specifico, risalta i punti e afferma “che il Sindaco di Altamura Mario Stacca chiedeva al boss supporto per le sue campagne elettorali …  il Presidente del Consiglio Comunale di Altamura, si recava a casa del boss per chiedere sostegno per la sue candidature a consigliere comunale di Altamura … e che gli amministratori e politici Altamurani erano quasi tutti nel libro paga del Columella”.

A tutela delle sue accuse, il testimone di giustizia fa riferimento anche ad alcune intercettazioni telefoniche apparse sui giornali, tra il figlio di Carlo Dante Columella (patron della discarica di Altamura) e il Presidente del Consiglio comunale di Altamura Nico Dambrosio, quando “parlavano delle presunte mazzette che i Columella pagavano al segretario del sindaco tanto che quest’ ultimo era definito dagli intercettati, mani viola (dal colore delle banconote da 500 euro. Nelle stesse intercettazioni si faceva riferimento a presunte mazzette che andavano anche al Sindaco Stacca”. Il senso di solitudine da parte del testimone di giustizia si manifesta anche dopo un ulteriore atto intimidatorio nei suoi confronti, avvenuto negli ultimi tempi. “Uno dei principali indagati per Mafia murgiana, recentemente raggiunto da nuova ordinanza di custodia cautelare per reati di mafia - spiega Francesco - ha persino lanciato, tramite una rete televisiva privata, una sorta di petizione per non farmi mettere più piede ad Altamura. Tutto questo nella più assoluta indifferenza delle Autorità Giudiziarie. Io ho sacrificato la mia famiglia, le mie aziende, il futuro dei miei figli perché ho creduto nella Giustizia e la Procura di Bari non risponde alle mie missive: ma lo Stato con chi sta?”.

Francesco Dipalo: "Io, testimone di giustizia contro la Mafia Murgiana". La lettera dell’imprenditore: “Entrati nel programma di protezione, un incubo senza fine". Pubblichiamo di seguito la lettera inviata al direttore Giorgio Bongiovanni di “Antimafia duemila” da Francesco Dipalo, testimone di giustizia di Altamura che ha denunciato i clan della Mafia Murgiana.

«Egregio Direttore, chi Le scrive è un Imprenditore di Altamura che alcuni anni fa denunciò una organizzazione criminale denominata Mafia Murgiana che imponeva il pizzo al sottoscritto e ad una intera classe imprenditoriale. A seguito delle mie dichiarazioni rilasciate alla DDA di Bari e dopo sei anni di indagini, la dottoressa Desirèe Digeronimo, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, e il dott. Roberto Pennisi Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, applicato alla DDA di Bari, chiesero ed ottennero dal GIP di Bari il rinvio a giudizio di numerosi soggetti tra i quali figuravano, affiliati al clan Dambrosio di Altamura, imprenditori deviati, esponenti delle forze dell’ordine, professionisti, politici ed amministratori pubblici accusati a vario titolo di associazione mafiosa, omicidi, occultamento di cadavere, detenzione illegale di armi da guerra e relative munizioni, estorsione, usura, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, sfruttamento della prostituzione, rapimento (per avere rapito un imprenditore di Altamura rilasciato per aver pagato un riscatto) ecc. Sempre dalle mie denunce si svilupparono altri filoni di indagini che consentirono al Tribunale di Lecce (competente su quello di Bari), di rinviare a giudizio una ventina di soggetti tra i quali figuravano magistrati togati, giudici di pace, avvocati ecc. tutti accusati di aver pilotato sentenze in favore del boss Bartolomeo Dambrosio e dei suoi affiliati. Sempre dalle mie denunce si sono sviluppati altri filoni di indagini tra i quali vi sono quello della sanità pugliese, e delle escort. Il mio vero dramma ha inizio quando, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia di Bari e della Direzione Nazionale Antimafia, io e la mia famiglia, esattamente 5 anni fa fummo inseriti nello speciale programma di protezione e condotti in località segreta. Da allora per tutta la mia famiglia ha avuto inizio un incubo senza fine. Siamo stati umiliati, derisi, vessati, maltrattati e ci siamo sentiti dire anche che rompevamo i coglioni quando contestavamo comportamenti irresponsabili, ingiustificati ed ingiusti messi in atto da funzionari del Ministero dell’Interno nei confronti di soggetti che in questa maledetta storia sono solo vittime. È stato distrutto il futuro affettivo dei miei figli che hanno dovuto lasciare amici e parenti per essere destinati all’isolamento più totale. Una delle mie figlie solo dopo pochi mesi non sopportava più lo stato di solitudine e di sofferenza a cui era sottoposta e tornò a casa ad Altamura. Come se tutto ciò non bastasse, da quando sono stato sottoposto allo speciale programma di protezione, il Servizio Centrale di Protezione non ha provveduto a notificarmi gli atti giudiziari. Nel frattempo alcuni dei soggetti arrestati e/o rinviati a giudizio, mi avevano querelato per diffamazione e/o reati simili. A seguito delle predette querele, sono stato rinviato a giudizio, processato e condannato in contumacia dai giudici di pace di Altamura mentre io ero all’ oscuro di tutto. Io non sapevo neanche di essere stato querelato. Ovviamente gli imputati hanno utilizzato le condanne inflitte in contumacia al sottoscritto dal giudice di pace di Altamura per tentare di screditarmi nei processi nei quali erano imputati. Ad un testimone di giustizia sotto protezione in una località segreta, lo Stato non gli ha notificato gli atti giudiziari. Mi è stato impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi. Con gli atti e i documenti in mio possesso, avrei potuto dimostrare ai giudici di pace che le querele sporte nei miei confronti dagli affiliati al clan Dambrosio erano pretestuose e facevano parte di una strategia difensiva finalizzata a screditarmi. Ma vi è di più: lo Stato non mi ha concesso di presenziare nei processi nei quali sono persona offesa e mi sono costituito parte civile contro i miei estorsori, contro soggetti accusati di reati gravi come omicidi, ecc. Mi è stato impedito di puntare il dito contro i miei estorsori. Inoltre mi è stato impedito di poter raggiungere altre procure per acquisire atti a mia firma di procedimenti penali a carico di altri soggetti da me denunciati, e che erano strettamente attinenti ai procedimenti penali in corso a Bari. Il risultato è che i colletti bianchi della mafia murgiana sono stati assolti. Uno dei principali imputati assolti, solo poche settimane dopo la sentenza di assoluzione è stato raggiunto da una nuova ordinanza di custodia cautelare per reati simili. Lo Stato mi ha impedito di esercitare il diritto di difesa nei processi ed ha agevolato le posizioni processuali di soggetti legati ad una potente organizzazione criminale che da oltre un decennio ha condizionato la vita sociale ed economica di una intera comunità. Ora sono tornati a delinquere più forti di prima grazie alla inerzia dello Stato. Ovviamente il sottoscritto ha provveduto ad inviare al Ministro dell’Interno, oltre che al vice Ministro, una serie di esposti con i quali denunciavo tutto quello che si stava verificando e che stavano inclinando i processi a beneficio degli imputati. Nessuno mi ha mai risposto. Si sta per volgere al termine il processo in Corte di Assise a Bari nei confronti di tutti gli altri affiliati al clan e al sottoscritto non è stato concesso di presenziare ad una sola udienza. Si continua ad impedire ad un testimone di giustizia di presenziare alle udienze. Ma nonostante le decine di esposti che ho inviato a mezzo raccomanda a/r al Ministro Alfano, mai nessuna risposta mi è pervenuta e nessun provvedimento e stato adottato per consentirmi di avere giustizia. Ho anche denunciato al Ministro Alfano con decine di missive, che nonostante i processi in corso, nonostante le indagini tuttora in corso, il Servizio Centrale di Protezione ha reso pubblica la mia residenza nella località dove attualmente vivo e nessuna tutela è stata predisposta per la mia famiglia ed in particolare nei confronti di mia figlia che vive ad Altamura. Non mi ha mai risposto. Ora tutti sanno che vivo a Monza. Ho scritto decine di missive ai Prefetti di Bari e di Monza e Brianza con le quali ho chiesto se sono in state attuate misure di tutela idonee a garantire la incolumità dalla mia famiglia. Nessuno mi ha mai risposto. Si continua a favorire le posizioni processuali di esponenti della mafia murgiana e il Ministro Alfano non risponde. Egregio direttore, in questo Paese per garantire la incolumità dei propri cari che rischiano di essere lasciati nelle mani dei carnefici, bisogna ricorrere ad atti estremi. Questo è lo Stato. Cordialità. Francesco Dipalo»

LUIGI ORSINO. Vittime di camorra abbandonate dallo Stato – L’invito a denunciare il racket è una trappola? Scrive “Pensare Liberi”. Ci ritroviamo a parlare di malagiustizia, ma questa volta la protagonista indiscussa è la camorra. Abbiamo raccolto la testimonianza di un nostro concittadino napoletano che riporteremo integralmente nel presente articolo. Questa vuole essere una denuncia nei confronti della politica, delle istituzioni, della magistratura, delle forze dell’ordine e nei confronti di quei cittadini collusi e quindi omertosi. Sappiamo tutto, i vari “stacci tu qua e poi vediamo se fai l’eroe!” Bene, la storia che portiamo oggi alla luce parla proprio di un caso eroico, di chi ha detto no alla camorra, di chi ne ha pagato pesantissime conseguenze, di chi non trova dalla sua parte nemmeno l’opinione pubblica, i media, o famosi giornalisti o scrittori. Perchè quando si fanno i nomi, quando dal generico si passa al pratico, allora le cose si fanno davvero serie. Questo articolo non diverrà un best-seller, ma bisogna avere il coraggio di denunciare soprattutto i casi reali e stringersi intorno a questi. Tutti devono sapere cosa accade a un nostro concittadino nel momento in cui cade in questo vortice di violenza e disumana realtà. Belle parole? Vediamo se siamo bravi anche con i fatti? Ci incontriamo per strada a parlarne da uomini? Questa storia, come tante altre, dimostra come lo Stato sia completamente assente nel momento in cui bisogna difendere i cittadini che hanno avuto il coraggio di denunciare il racket. Politicamente scorretto dirlo? Denunciare il racket è un dovere? Solo così si può sconfiggere la camorra? L’omertà… di chi? Slogan di un certo effetto, di quelli che suscitano gli applausi delle platee… peccato che spesso questo invito a denunciare il racket si riveli solo una ingegnosa, quanto sospettosamente premeditata, trappola mortale. I fatti parlano in questi termini. Lo Stato? Assente ingiustificato…Veniamo al coraggioso e disperato racconto del protagonista cittadino Luigi Orsino e della sua famiglia. «La nostra attività imprenditoriale (mia e di mia moglie Esposito Giuseppina) inizia nel 1979, all’epoca eravamo studenti, con l’apertura di un piccolo negozio di mobili in Portici (Na). Nel tempo la nostra attività si ingrandì e arrivammo a possedere 2 aziende, una ditta individuale ed una S.r.l., proprietarie di 3 negozi di abbigliamento in Portici, di un grosso negozio di arredamenti sempre in Portici e di un ancor più grande negozio di arredamenti in Sant’Anastasia. Ovviamente avevamo molti dipendenti ed eravamo divenuti benestanti. Comperammo una villa al mare in Calabria, due proprietà a S. Sebastiano al Vesuvio (villa con giardino e dependance con giardino), un appartamento di lusso ad Ercolano e due appartamenti in pieno centro di Roccaraso ( circa 130 mq + 60 mq), un locale commerciale in Portici. Ad un certo punto entrammo nelle mire del clan Vollaro che pretese cifre sempre più consistenti per farci lavorare in pace, ovviamente ad ogni nostra resistenza corrispondevano minacce, atti intimidatori e attentati. L’esosità degli estorsori ci costrinse a ricorrere all’aiuto finanziario di una persona, che credevamo essere nostro amico e con cui effettivamente intrattenevamo rapporti di amicizia a livello familiare, tale individuo si offerse di prestarci il denaro per poter tacitare le richieste estorsive dei camorristi. In seguito questa persona, noto professionista napoletano, si rivelò essere un avido usuraio che in complicità con altri svolgeva questa ignobile attività. In seguito l’usuraio si rivelò essere un personaggio molto pericoloso ed aggressivo, arrivando a minacciarmi con una pistola ed a vantarsi dei suoi stretti legami con il feroce clan camorristico dei Vollaro. Quest’individuo arrivò a pretendere interessi che, fatti i dovuti calcoli e grazie ad un perverso meccanismo, arrivano a raggiungere finanche il 400%. Sempre questo viscido personaggio, quando non potei onorare prontamente i prestiti, si appropriò con minacce ed atti violenti delle mie proprietà di Ercolano e di Roccaraso, una vera e propria estorsione perpetrata usando la violenza per vincere la mia riottosità. L’eccessiva avidità dei camorristi e del loro affiliato, e forse una sopravvalutazione delle mie disponibilità finanziarie, causarono il tracollo economico delle mie aziende ed il loro conseguente fallimento. Ovviamente tutti i miei beni furono pignorati a favore dei creditori, tra cui per altro avevano avuto la sfacciataggine d’inserirsi anche gli usurai. Il Giudice delle esecuzioni immobiliari del Tribunale di Nola si rifiutò di voler considerare il caso nel suo insieme e ritenne che non era sua competenza valutare i risvolti penali (intanto avevo denunciato il tutto alla Procura della Repubblica), in tal modo equiparava il mio caso, di fatto, ad un fallimento doloso, quanto in realtà  era sempre stato, e tale riconosciuto dallo stesso tribunale fallimentare, fallimento semplice non fraudolento. E’ pur vero che il giudice è tenuto a salvaguardare i diritti dei creditori ma è altrettanto vero che egli è tenuto a verificare la validità dei crediti vantati. Tra i miei creditori vi sono gli usurai e banche che si sono comportate come usurai e continuano a farlo tutt’ora. Le banche hanno applicato l’anatocisma finchè la legge non ha comparato tale pratica all’usura, ora applicano comunque pratiche che fungono da moltiplicatore del debito, va, inoltre considerato che le stesse banche hanno commesso atti illegali, dimostrati, ma su cui il Giudice civile non ha mai indagato. Il G.E. Si è limitato a dichiararsi incompetente a ripartire tra i creditori il ricavato delle vendita all’asta dei miei beni, compreso la casa in cui abito con la famiglia. Veniamo al risvolto penale della vicenda: Nel 2004 presentammo denuncia alla Procura della Repubblica contro usurai ed estorsori, tale denuncia, su consiglio pro bono di un giovane legale, tracciava per grandi linee la vicenda perché ci aspettavamo di essere convocati da un magistrato per poter scendere nei particolari. La denuncia fu presentata alla Procura e non alle locali forze dell’ordine perché negli anni precedenti si erano verificati episodi di collusione tra tali organismi e la malavita organizzata, i fatti ebbero grande rilevanza e furono promosse azioni giudiziarie, inoltre noi stessi avemmo a costatare strani comportamenti. Ascoltati dai CC di San Sebastiano rendemmo  dettagliata deposizione circa i fatti riguardanti l’usura ma fummo più vaghi sugli estorsori, per le ragioni già dette. Dal 2004 al 2010 nessuno ci ha ascoltato, ad eccezione dei CC 2 volte, in ogni caso mai nessun giudice, ed anzi la procedura è stata divisa in due tronconi, uno per l’usura ed uno per l’estorsione, nonostante noi avessimo dimostrato che i reati erano contigui e perpetrati da personaggi in complicità tra loro, Proc. N° 52969/05 e 11335/10. A giugno del 2010 il Giudice che si occupava delle indagini sull’usura ha archiviato la procedura senza neanche avvertirci, privandoci del nostro diritto di fare opposizione. Inoltre non si spiega come mai lo stesso magistrato, su nostra richiesta ci abbia concesso i benefici previsti dall’art. 20 della legge 44/1999 (il 25/11/2010) che prevede la sospensione dei termini esecutivi per le vittime della criminalità organizzata, riconoscendoci, dunque, tale status, e poi poco dopo (comunque prima dello scadere dei canonici 300 gg) archivia il tutto, bloccando in tal modo la nostra richiesta di poter accedere ai fondi di solidarietà destinati alle vittime di camorra. Veramente la spiegazione è che il Signor Giudice in 5 anni non ha fatto indagini ma ha tenuto la pratica a raccogliere polvere, dopo di che dovendo rispondere della sua ignavia si è cavato d’impaccio archiviando. La motivazione dell’archiviazione “ perché non eravamo credibili in quanto esistevano rapporti antecedenti con gli usurai” è una vera beffa. Tali rapporti li avevamo già riferiti noi nella nostra denuncia, specificandone la natura e furono proprio tali rapporti a far conoscere agli usurai la nostra florida situazione finanziaria, (l’usuraio era il nostro commercialista sin dal lontano 1979, mai avevamo prima sospettato la sua vera attività). Ancora maggiormente inspiegabile è l’archiviazione della procedura contro gli usurai se si considera il fatto che abbiamo prodotto prove non solo testimoniali (testimonianza mia e di mia moglie) ma anche prove documentali incisive e verificabili. Resta in piedi la procedura contro gli estorsori, ma l’archiviazione della procedura contro gli usurai non fa ben sperare. Nel frattempo tutti i miei beni sono stati venduti forzosamente dal Tribunale, la casa in cui abitiamo è stata anch’essa venduta e il 07 settembre u.s. l’Ufficiale Giudiziario , con l’appoggio della forza pubblica, mi voleva gettare materialmente per strada, solo le mie precarie condizioni di salute lo hanno costretto a rinviare al 19 ottobre 2011, quando interverrà un’ambulanza per sgomberarmi senza correre il rischio di essere denunciati per tentato omicidio. In quale modo noi si possa sopravvivere senza più una casa, senza un lavoro, nell’indigenza più assoluta, io gravemente cardiopatico, con tre by-pass, e mia moglie malata anch’essa, nessuno mi ha mai spiegato. Tutti gli sforzi fatti in questi anni per rientrare nel tessuto produttivo (vari tentativi di iniziare una nuova attività) sono stati vanificati dall’aggressività dei criminali che mi hanno perseguitato e continuano ancor oggi. Nel tempo abbiamo subito minacce, intimidazioni ed attentati di ogni genere: spari contro i nostri esercizi (molte volte), furti di automezzi carichi di merce, spari conto la mia casa e la mia vettura, furti negli esercizi, rapimento di mio figlio (durato pochi minuti per fortuna), auto con mia moglie a bordo spinta fuori strada, percosse a me e a mia moglie, uccisione del nostro amato cane a colpi d’arma da fuoco. E ultime in ordine di tempo atti vandalici contro la mia vettura (settembre 2010), un ordigno incendiario gettato nel cortile di casa (07/12/2010) che ha causato un principio d’incendio da me domato con un estintore, dopo di che sono intervenuti i CC. Il 3 gennaio 2011 un messaggio anonimo contenente una minaccia, scritto su un biglietto d’auguri, è stato lasciato nella buca delle lettere. Il 17 gennaio 2011 un individuo introdottosi nel giardino di casa ha aggredito mia moglie,verso le ore 19, picchiandola e poi spingendola per le scale interne al giardino stesso. Evidentemente i malavitosi vogliono mantenere costante la pressione su di noi ed anzi rincarano vieppiù la dose. Il 21/03/2011 un individuo aggredì in giardino mia moglie ponendo in essere un tentativo di strangolamento. Lo stato economico attuale è disastroso, viviamo della carità del Comune (ogni tanto ci paga qualche bolletta) e della Chiesa di San Sebastiano al Vesuvio che ci fornisce pacchi alimentari. Faccio notare che per volere del comitato per l’ordine e la sicurezza siamo sottoposti a protezione di tipo 4, cioè i Carabinieri della locale caserma passano più volte al giorno a controllare che non vi siano pericoli incombenti. Sicuramente la costanza e la tenacia del Comandante la stazione di San Sebastiano al Vesuvio e dei militi ai suoi ordini ha evitato che nuove e,  forse più gravi, violenze fossero commesse a nostro danno. Ci risulta incomprensibile come sia possibile proteggerci se saremo in ridotti a vivere in strada (realmente, non retoricamente). Come è incomprensibile che la polizia si mobiliti in otto, dico otto, agenti, alcuni della DIGOS per sfrattarci mentre contemporaneamente il Comandante dei CC e il suo vice erano presenti per garantirci la protezione. Una assurda ed incomprensibile contraddizione. Il prossimo 19 ottobre l’ufficiale giudiziario accompagnato probabilmente da un plotone di poliziotti, con l’ambulanza pronta nel caso mi dovesse venire un altro infarto mi butteranno in strada, con la famiglia, a calci nel di dietro. Se fossi stato il boss Provenzano forse mi avrebbero trattato meglio. E’ molto facile fare i forti con i deboli, salvo poi a farsi deboli con i forti. Luigi Orsino»

“DENUNCIA IL RACHET. TI CONVIENE.” A questo punto sembra più una minaccia che un invito. Vogliamo fare luce su un particolare che ci ha colpito molto e che, a nostro avviso, rappresenta la chiave del “problema camorra” e nello stesso tempo la sua vera forza. La collusione tra questa e le istituzioni, ma soprattutto, la collusione tra camorra e cittadini. Chiunque, inaspettatamente, può rivelarsi un camorrista, anche il più insospettato e insospettabile amico di famiglia. In questo caso è venuta fuori la figura di un commercialista il cui vero lavoro è quello di segnalare alla camorra le aziende che fatturano bene e che vanno a gonfie vele, arrotondando con attività di estorsione, mentre il lavoro contabile è soltanto una copertura. Che questo principio entri bene nelle nostre teste. Il nemico non è soltanto fuori.

PINO MASCIARI: «Costretto a sparire e autoproteggermi perché abbandonato dalla scorta in Calabria», scrive Roberto Galullo su “Il Sole 24Ore”. Il suo telefono cellulare torna raggiungibile 19 minuti dopo la mezzanotte ma il Sole-24 Ore riesce a mettersi in contatto con Pino Masciari – il testimone di giustizia calabrese che per oltre 36 ore era scomparso a Cosenza – solo alle 9.31 di oggi. Ha la barba lunga e sta poco al telefono. «La scorta mi ha detto che non mi avrebbe riportato a casa. Mi ha girato le spalle e se ne è andata. A quel punto ho dovuto tutelarmi e sono stato costretto a fare tutto da solo senza dare notizie a nessuno, neppure a mia moglie. Mi sono mosso da solo e non nascondo che nel primo tratto di strada mi hanno riconosciuto e sono stato preso dal panico. Con mezzi di fortuna mi sono messo all'opera per tornare a casa, a Torino, dove sono giunto ieri sera tardi». In altre parole, come lui stesso scrive sul sito, «mi sono sentito costretto ad auto-proteggermi e a tornare a casa, non ritenendo giusto di esporre i civili che mi stavano accompagnando in quanto versavo, per l'ennesima volta, privo di protezione in terra di Calabria». Da quel momento ha staccato il cellulare perché, dice, «sarebbe stato possibile essere rintracciato da chiunque». A casa l'aspettavano moglie e figli che – a quanto dichiara al Sole-24 Ore lo stesso Masciari - nulla sapevano. E che per 36 ore hanno cercato di avere notizie. E che per 36 ore nulla hanno intuito se è vero che la coniuge di Pino ha cercato di averne in ogni modo e che ancora nel pomeriggio di ieri aveva un rappresentante del servizio scorte di Torino accanto a lei in casa. Notizie sulla sua scomparsa che - a quanto si apprende solo questa mattina nel momento in cui è stato pubblicato il comunicato stampa nel sito di Pino Masciari – la prefettura (di Torino? Di Cosenza?, non è dato sapere visto che manca l'intestazione) sapeva. E lo Stato (qualunque fosse la prefettura) non le ha comunicate alla moglie? A quanto sembra no anche se è umanamente difficile da credere. Alle ore 9 di ieri mattina la prefettura ha infatti ricevuto questo comunicato spedito via fax dallo stesso Masciari: «Oggetto: Urgente Comunicazione Giuseppe Masciari. La presente, quale documento ufficiale, è per comunicare che in questo momento sono a Cosenza, Calabria, e sono stato " abbandonato" dal personale di scorta, con la conseguenza che sto provvedendo di rientrare a Torino con mezzi pubblici o di fortuna. Vani sono stati i tentativi di contattare il personale di scorta di riferimento di ………… . Pertanto mi rivolgo a Lei per un intervento immediato che tuteli la mia persona e per denunciare il susseguirsi di mancate condizioni di sicurezza che avvengono, in particolar modo in Calabria, e che mi espongono a serio rischio. Reputo le autorità preposte responsabili se dovesse accadere qualcosa alla mia persona. Cordialità» . Questa la nuda cronaca (conclusiva o dovremo aspettarci la versione dello Stato, attraverso le spiegazioni del Viminale?) di due giornate delle quali non si sentiva francamente il bisogno.

Chi è Giuseppe Masciari?

Il mio nome è Giuseppe Masciari, un imprenditore edile calabrese, nato a Catanzaro nel 1959. Sono stato sottoposto a programma speciale di protezione dal 18 ottobre 1997, insieme a mia moglie (medico odontoiatra) e ai miei due bambini. Dal 2010, fuoriuscito dal Programma Speciale di Protezione, vivo sotto scorta. Ho denunciato la ‘ndrangheta e le sue collusioni con il mondo della politica. La criminalità organizzata ha distrutto le mie imprese di costruzioni edili, bloccandone le attività sia nelle opere pubbliche che nel settore privato, rallentando le pratiche nella pubblica amministrazione dove essa è infiltrata, intralciando i rapporti con le banche con cui operavo. Non ho accettato le pressioni mafiose dei politici e del racket della ‘ndrangheta. Il sei per cento ai politici e il tre per cento ai mafiosi, ma anche angherie, assunzioni pilotate, forniture di materiali e di manodopera imposta da qualche capo-cosca o da qualche amministratore, pretese di regali di appartamenti e costruzioni gratuite, finanche acquisto di autovetture: questo fu il prezzo che mi rifiutai di pagare. Fummo allontanati dalla nostra terra per l’imminente pericolo di vita in cui ci siamo trovati esposti, insieme alla mia famiglia. Da quando operavo nella mia attività con le mie aziende, non mi sono arreso mai ai soprusi della ‘ndrangheta, mi ribella, riferisco tutto all’Autorità Giudiziaria e denuncio; tanto fu ferma la mia scelta di non cedere ai ricatti che  arrivai al punto di dover chiudere tutte le mie imprese licenziando nel settembre 1994 gli ultimi 58 operai rimasti.

Ingresso nel Programma Speciale di Protezione. Il 18 Ottobre 1997 io, mia moglie Marisa e i miei due figli appena nati entrammo nel programma speciale di protezione e scompariamo dalla notte al giorno: niente più famiglia, lavoro, affetti, niente più Calabria. Testimonio nei principali processi contro la ‘ndrangheta e il sistema di collusione, quale parte offesa costituendomi come parte civile. Divento “il principale testimone di giustizia italiano”, così definito dal procuratore generale Pier Luigi Vigna. Inizia il CALVARIO: accompagnamenti con veicoli non blindati, con la targa della località protetta, fatto sedere in mezzo ai numerosi imputati denunciati, intimidito, lasciato senza scorta in diverse occasioni relative ai processi in Calabria, registrato negli alberghi con il mio vero nome e cognome, senza documenti di copertura. Troppi episodi svelano le falle del sistema di protezione che dovrebbe garantire sicurezza per me e la mia famiglia.

Lo Stato istituisce la figura del testimone di giustizia. 2001. Con la legge 45/2001 si istituisce la figura del testimone di giustizia, cittadino esemplare che sente il senso civico di testimoniare quale servizio allo Stato e alla Società. Il 28 Luglio 2004, la Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica che “sussistono gravi ed attuali profili di rischio, che non consentono di poter autorizzare il ritorno del Masciari e del suo nucleo familiare nella località di origine. Ritenuto che il rientro non autorizzato nella località di origine potrebbe configurare violazione suscettibile di revoca del programma speciale di protezione”.

Revoca del programma speciale di protezione. Il 27 Ottobre 2004, tre mesi dopo, la stessa Commissione Centrale del Ministero degli Interni mi notifica il temine del programma speciale di protezione. Tra le motivazioni si indica che i processi erano terminati. Cosa non vera: i processi erano in corso e la D.D.A. di Catanzaro emetteva in data , 6 febbraio 2006 successiva alla delibera, attestato che i processi era in corso di trattazione.

Ricorso contro la revoca. 19 Gennaio 2005, faccio ricorso al TAR del Lazio contro la revoca, azione che mi permette di rimanere sotto programma di protezione in attesa di sentenza.

Il programma cessa in ogni caso. 1 Febbraio 2005, senza tenere conto del ricorso già in atto, la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno delibera ancora una volta di “ invitare il testimone di giustizia Masciari Giuseppe ad esprimere la formale accettazione della precedente delibera ricordando che alla mancata accettazione da parte del Masciari, seguirà comunque la cessazione del programma speciale di protezione”.

Non posso testimoniare ai processi. Il 19 Maggio 2006, il mio legale invia una nota alle Autorità competenti per segnalare che i Tribunali erano stati notiziati “della fuoriuscita del Masciari dal programma di protezione” e che pertanto non risultavo essere più soggetto a scorta per accompagnamento nelle sedi di Giustizia. Mi sono recato ugualmente nei processi con senso di DOVERE, accompagnato dalla società civile.

Sentenza del TAR: diritto alla sicurezza. Gennaio 2009, dopo 50 mesi a fronte dei 6 mesi stabiliti dalla legge 45/2001 art.10 comma 2 sexies-, il TAR del Lazio pronuncia la sentenza riguardo il ricorso e stabilisce l’inalienabilità del diritto alla sicurezza, l’impossibilità di sistemi di protezione o programmi a scadenza temporale predeterminata e ordina al Ministero di attuare le delibere su sicurezza, reinserimento sociale, lavorativo, risarcimento dei danni. Per tramite del mio legale faccio richiesta formale dell’ottemperanza della sentenza.

Sciopero della fame e della sete. Aprile 2009 Non avendo ricevuto nessuna risposta dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, annuncio la volontà di cominciare il 7 aprile lo sciopero della fame e della sete, fintanto che non vedrò rispettati i diritti della mia famiglia ancor prima che i miei. Lo sciopero della fame è l’ultima risorsa, supportata dlla società civile e dagli “Amici di Pino Masciari” vista l’urgente necessità di tornare a vivere che dichiarano: «Grazie a Pino Masciari abbiamo imparato ad amare lo STATO. Dodici anni di sofferenza e esilio sono un prezzo altissimo che i Masciari hanno pagato con dignità, senza mai rinnegare la scelta fatta. E’ ora che questo STATO riconosca loro quanto dovuto. Noi, Società Civile, non possiamo accettare questa scelta senza lottare fino all’ultimo istante al fine di evitare l’ennesimo estremo sacrificio della famiglia Masciari. Basta una firma, e la volontà di apporla. Per i cittadini, lo STATO e la Costituzione. Per la Famiglia Masciari.» Il 14 maggio termina lo sciopero della fame e della sete a seguito dell’impegno preso dalla Presidenza della Repubblica attraverso la nota del 12 maggio, che da quel momento mi  assegna scorta e tutela adeguata e ulteriori vetture di staffetta, che mi hanno accompagnato.

Due eventi preoccupanti. Il 21 luglio 2009, sul davanzale della mia ex sede della ditta di costruzioni (attualmente ufficio legale di mio fratello), a Vibo Valentia, è stato ritrovato un ordigno inesploso. Il 19 agosto l’abitazione in località segreta nella quale risiedo con la mia famiglia, è stata violata. In questo caso si è trattato probabilmente di ladri comuni (cosa comunque gravissima, a riprova della vulnerabilità cui siamo soggetti), nel precedente è stata invece la ‘ndrangheta, che ricorda di non avere fretta, non dimentica.

L’uscita dal Programma speciale di protezione. Nel 2010 ho concordato la conclusione del Programma Speciale di Protezione in comune sintonia con il Ministero dell’Interno, dando cosi inizio ad una nuova fase della mia vita e quella della mia famiglia, con le Istituzioni e la società civile al mio fianco. Oggi vivo alla luce del sole, pur rimanendo “sotto scorta”.

L’inizio di una nuova vita. «”Quando istituzioni e società civile si assumono le proprie responsabilità lo Stato vince. In questo credo e continuo a credere ed è per questo che sono certo che la mia vicenda si concluderà con la giusta reintroduzione sia in ambito lavorativo che sociale ed umano“.» In questi anni ho girato l’Italia, ho solidarizzato con i familiari delle vittime di mafia ed altre associazioni, persino oltre confine, sono stato a raccontare la mia storia in numerosissimi istituti scolastici e incontri organizzati dalla società civile. Inoltre ho ottenuto la cittadinanza onoraria di molte città.  E infine, si è deciso – insieme a mia moglie – di raccontare la nostra storia in un libro. Si intitola “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”, lo ha pubblicato la casa editrice torinese “Add”.

COSIMO MAGGIORE. L’ultimatum del testimone di giustizia Cosimo Maggiore: “Mi hanno lasciato solo”, scrive Paolo de Chiara il 14 gennaio 2015 su “19 luglio 1992”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Si barrica nella sua azienda venduta all’asta e tenta il suicidio, l’imprenditore che denunciò il racket: “Vaffanculo Stato”. L’intervista realizzata da Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”. Ha perso tutto, ora anche la sua azienda venduta all’asta. Questa mattina i nuovi proprietari hanno cambiato il lucchetto e si sono appropriati dell’azienda di Cosimo Maggiore, l’imprenditore di San Pancrazio Salentino che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma come la maggior parte dei testimoni è stato abbandonato dallo Stato.  In un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket e il malaffare. Una volta raccolte le  testimonianze poi vengono lasciati al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia  è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Ma questi ultimi servono, e quindi vengono protetti. I testimoni, come molti di loro raccontano “vengono usati e poi mandati via… per loro siamo solo dei rompiglioni” Questa è una delle frasi più volte lette nel libro del giornalista Paolo De Chiara che in “Testimoni di giustizia” riporta la storia e le interviste ad molti di coloro che hanno denunciato e si sono opposti alle organizzazioni criminali. La storia di Cosimo Maggiore ve l’abbiamo già raccontata in un nostro reportage.  Alla sua triste vicenda oggi si aggiunge un nuovo tassello. Lui  non solo non  ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti ma la sua azienda è stata venduta all’asta  perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. Oggi è sfiorato nella sua mente il pensiero di farla finita, di saltare in aria in quel capannone che è stata la sua vita. Ma non ce l’ha fatta, ha guardato la foto dei suoi e ha deciso di continuare a vivere. Arrabbiato, amareggiato, deluso, con la dignità calpestata si lascia sfuggire in questa intervista: “vaffanculo allo Stato”.

Azienda va all’asta e imprenditore tenta il suicidio, scrive A.P. su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. «Vaff... allo Stato». Sono le ultime durissime e sofferte parole dell’imprenditore Cosimo Maggiore, che nel 2008 denunciò i suoi estorsori, ritenuti elementi di spicco della Sacra Corona unita di Torre Santa Susanna. Maggiore è stato riconosciuto testimone di giustizia, ma è stato abbandonato dallo Stato. Uno schiaffo in un paese dove i collaboratori di giustizia vengono tutelati meglio dei testimoni, gente che non ha commesso alcun reato ma che ha deciso di denunciare il racket. Ma una volta raccolte le testimonianze persone come Maggiore vengono abbandonate al loro destino, senza alcuna garanzia. La legge che riconosce lo status di testimoni di giustizia è la stessa che garantisce tutele per i pentiti. Al termine di una mattinata convulsa l’imprenditore si è barricato in azienda tentando di farla finita. L’ultimo disperato grido d’allarme dopo che alla fine di una vicenda che va avanti da quasi 7 anni, la sua attività è stata venduta all’asta. Maggiore non solo non ha più un lavoro, pochissime tutele, una vita di stenti, ma ha finito anche col perdere la sua azienda che è stata venduta all’asta perché non è stata riconosciuta la legge prevista in questi casi per la sospensione del pagamento delle varie contribuzioni. E ieri mattina quando ha visto che i lucchetti all’ingresso della sua attività erano stati sostituiti ha pensato di compiere un insano gesto vedendo che tutte le battaglie sostenute negli ultimi anni erano perse. Amaro il suo sfogo: «È finita oltre che la mia vita si sono presi anche la mia azienda. Fanno bene a non denunciare. Non denunciate il racket. Ecco cosa succede, sbattuto fuori da casa mia! La mia banca la Popolare pugliese non ha accettato l’art. 20 della legge 44/99, la legge che tutela chi è colpito dal racket. Grazie Stato». Con la voce rotta dall’amarezza spiega perchè non ha portato a termine il suo gesto: «Mi sono barricato nel capannone perchè avevo deciso di farla finita. C’era già tutto pronto anche le bombole di propano. Poi... ho guardato le foto dei miei figli... e... non ce l’ho fatta». Poi conclude: «Vaff... allo Stato!».

L’azienda del testimone di giustizia finisce all’asta. “Pronto a barricarmi dentro”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Nella mia azienda non entrerà nessuno. Io non sono come loro, sono una persona perbene. Ho ricevuto una proposta indecente: fare un accordo con la mafia. Cosa devo fare per uscire da questa drammatica situazione? Devo rivolgermi ad un usuraio? Devo fare il gioco dei mafiosi che ho denunciato? Devo vendere la mia anima al diavolo, alla Sacra Corona Unita? Non ho ritirato le mie denunce, neanche dopo le innumerevoli pressioni. Ho mandato in galera i miei estorsori. Continuerò su questa strada, sino alla fine. Sino alla morte”. Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato. Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella della Sacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi. Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli. “Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche pentiti) e con dei reati sulle spalle. “Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”. L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”. Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile. “Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi. L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti. Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia. “Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”.

Il testimone di giustizia abbandonato dallo Stato. “Maledetto il giorno che ho denunciato, maledico questo Stato e le persone che mi hanno convinto a denunciare e che mi hanno lasciato solo”. È l’imprenditore Cosimo Maggiore che parla, un testimone di giustizia di San Pancrazio Salentino, in provincia di Brindisi. La stessa località che ospita la figlia del capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. Cosimo è stanco, è abbattuto. Ha denunciato i suoi estorsori, uomini della Sacra Corona Unita, finiti in galera e condannati grazie al suo senso civico. Alla sua onestà di cittadino perbene. Vittima di estorsione e di minacce da parte dei mafiosi del posto. La mafia pugliese, sanguinaria e violenta, che sembra quasi dimenticata. Lo stesso ‘trattamento’ riservato alla ‘ndrangheta, sino a qualche tempo fa. Ha perduto la sua azienda e la speranza. “Oggi non lavoro più, cazzeggio tutto il giorno su facebook, la mia valvola di sfogo. Il mio capannone è stato messo all’asta. Mi hanno fatto terra bruciata intorno. Sono solo, con la mia famiglia. Sai chi ha acquistato all’asta il mio capannone? Un prestanome delle persone che ho denunciato. Ma nessuno entrerà nella mia struttura, a costo di farmi saltare in aria”. Cosimo ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano, al ministro Alfano, al Prefetto, al Generale dei Carabinieri. “Non ho ricevuto risposta da nessuno. L’unica cosa che hanno fatto è stato il ritiro delle armi, legalmente detenute. Le ho regalate ai miei amici dell’Arma”. Cosimo Maggiore ha una scorta, due carabinieri (“tutto ciò che mi resta, due angeli custodi”) che lo seguono ovunque. “Ho ricevuto premi come imprenditore coraggio, tutti mi dicono sei coraggioso, hai le palle, servono persone come te. Sono uno scemo, mi sento solo e abbandonato”. Ma quando inizia la sua storia di testimone di giustizia? “Otto anni fa, nel 2006, quando vennero da me dei soggetti per una proposta”. Una ‘assicurazione’, un’estorsione di 500euro al mese, da destinare alle famiglie dei carcerati. “Non accettai la proposta”. Cosimo pensa a lavorare, ha diversi cantieri aperti, costruzioni da ultimare. Si occupa di infissi. Va avanti per la sua strada, a testa alta. Ma i delinquenti non mollano la presa. Si rifanno vivi dopo qualche mese. “Vengo convocato in un appartamento, dove trovo una bella sorpresa. Non c’erano lavori da effettuare, ma una nuova proposta da accettare. Pretendevano anche gli interessi arretrati, circa 2mila euro al mese”. Nella stanza erano “presenti Occhineri Antonio e Musardo Mario”, entrambi detenuti. Cosimo continua a subire pressioni, strani sguardi, avvertimenti. Racconta la sua drammatica storia a un ispettore della squadra mobile e denuncia nel 2007. “Ho avuto paura, questa è brutta gente. Hanno collegamenti con le forze dell’ordine e non solo”. Sino ad oggi ha collezionato 32 denunce, “è stato tutto inutile”. Le pressioni continuano senza soste. “Un mio compare, vicino a questa organizzazione criminale, mi avvicina diverse volte. Pretendono che ritiri la querela, mi incontrano”. È presente anche Bruno Andrea, capo indiscusso della zona, oggi in carcere con una trentina d’anni da scontare. Fratello di Ciro, capo storico della Scu, già condannato all’ergastolo. “Mi fanno parlare con un avvocato, che a tavolino, mi spiega cosa devo fare”. Il ‘compare’ continua la sua azione, “non potevo immaginare che anche lui potesse appartenere all’organizzazione. Gli dissi che non doveva farsi più vedere, ricordo una sua frase, non potrò mai più dimenticarla: ‘fai attenzione, non sai chi hai sfidato. Sono gli stessi criminali che, tempo fa, hanno ammazzato e seppellito sotto un terreno due giovani”. Cosimo Maggiore è una brava persona, non la ritira la denuncia. Si posiziona dalla parte dello Stato (che in molte circostanze non si dimostra tale e con la ‘S’ maiuscola), vuole e cerca giustizia. La sua dettagliata testimonianza manda in galera sette soggetti. Diventa quasi un eroe. Nel 2007 a San Pancrazio il Presidente della Provincia convoca un consiglio monotematico, coinvolgendo tutti i sindaci (di Brindisi e provincia), i politici, la Camera di Commercio e le autorità locali. Tutti insieme per celebrare “l’imprenditore coraggioso, tutti volevano aiutarmi. Ad oggi non ho mai visto nessuno. Dopo la denuncia è cominciato il mio calvario”. Nel 2008 i riconoscimenti pubblici: il premio 112 dell’Arma dei Carabinieri e il premio imprenditore coraggio. Iniziano i problemi anche con la sua attività. “Mano a mano comincio a perdere i lavori”. ‘Non possiamo saltare anche noi in aria’ – le parole ripetute all’infinito – potevi pensarci prima. Te la sei cercata. Perde tutti i lavori. “Ed iniziano altri problemi, le ingiunzioni. Mi avevano avvisato, me lo avevano detto chiaramente: ‘te la faremo pagare. Rimarrai da solo come un cane’. Si è avverato tutto”. Il testimone di giustizia non si dà pace. “Il mio capannone è stato messo all’asta, nessuno ha applicato l’articolo 20 della legge 44 del 1999 (Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura). La banca non ha mai accettato questa legge, nessuna sospensione. Solo una presa per il culo”. Si legge nell’interrogazione dell’aprile 2014, a firma del senatore Iurlaro: “Chi denuncia il racket dovrebbe essere tutelato ai sensi di quanto stabilito dalla legge del 1999. Chi è vittima dell’estorsione e denuncia il racket, si rivolge alle associazioni anti racket proprio perché ne presume l’adeguata esperienza assistenziale, invece, nel territorio brindisino, il signor Maggiore ha ricevuto solo danni per inadeguata assistenza. È stato persino danneggiato pesantemente, per il mancato interessamento volto alla sospensione dei termini di 300 giorni ex art.20, come era suo diritto e come, da prassi, ottiene la vittima di estorsione e/o usura che abbia denunciato ed abbia presentato domanda di accesso al Fondo”. Cosimo ha 47 anni, una moglie e due figli. Ma come vive la famiglia Maggiore questa assurda situazione? “Preferisco non parlarne. Con me hanno vinto loro, i mafiosi. Siamo rimasti soli, tremendamente soli. Vado sempre in giro con una lettera intestata alla mia famiglia. Mi resta soltanto una strada: il suicidio”.

Un ex imprenditore chiede aiuto: “La SCU ha mantenuto la sua promessa: Io non vivo più”, scrive Maristella De Michele su “Brindisi Oggi”   “Se non paghi finirai di lavorare”; “Se denunci avrai finito di vivere”; “Se ti fai parte civile, muori”. Firmato La Scu (Sacra corona unita). Questo e molto altro lo ha vissuto – e continua a vivere – sulla sua pelle Cosimo Maggiore, oggi 47enne, ex imprenditore di San Pancrazio Salentino, piccolo paese in provincia di Brindisi. ‘Ex’ perché oggi Maggiore si ritrova senza un lavoro e senza la sua azienda. Perché? Perché un bel giorno mentre nel Salento stava per sbocciare la Primavera al cancello della sua azienda di infissi si è presentato il pizzo. Una macchia nera che avvolge e distrugge tutto: il lavoro, la libertà, la serenità, la vita. L’imprenditore, che si è piegato pochissime volte ai ricatti della criminalità organizzata, è stato costretto al pagamento attraverso intimidazioni e minacce, ma poi aggrappandosi alle sue forti spalle ha deciso di recarsi dalle forze dell’ordine e denunciare. Dal 2006 ad oggi per Cosimo Maggiore e la sua famiglia, sono stati anni di lotte, minacce, denunce, arresti, paure. L’imprenditore da otto anni vive sotto protezione. Al suo fianco ci sono sempre due carabinieri – definiti da lui gli angeli custodi – che non lo perdono di vista. Una vita che oramai non si può più definire vita. Un’azienda ereditata dal padre che dopo venti anni di duro lavoro si è sgretolata, ma non a causa della crisi o della mancanza di lavoro, ma a causa del giro del racket. Cosimo Maggiore non si è inginocchiato ai piedi della Scu e ha denunciato, non una sola volta, ma più volte fino a far arrestare anche il boss della frangia torrese della Sacra corona unita, Andrea Bruno insieme ai suoi compari. Oggi però dopo anni di inferno, Cosimo Maggiore – considerato dallo Stato un Testimone di giustizia e vittima del racket – sostiene che a sbattergli le porte in faccia sia stato proprio lo Stato e le associazioni Antiracket e sostiene, ancora, che a vincere sia stata la Scu. Il suo capannone, infatti, lo Stato lo ha venduto all’asta. Una parte, quindi, della sua ex azienda è stata acquistata da terze persone. L’imprenditore di San Pancrazio Salentino lo scorso settembre ha presentato un’ennesima denuncia presso l’Arma dei carabinieri. In quella querela Maggiore dichiara a chiare lettere che il suo capannone sarebbe stato acquistato da un prestanome. Già in passato Maggiore aveva rilasciato qualche dichiarazione, ma oggi per la prima volta ha accettato di parlare in una video-intervista.

LUIGI COPPOLA. Sono disposto a darmi fuoco. Parla il testimone di giustizia Luigi Coppola. Abbandonato dallo Stato, scrive Paolo De Chiara sul suo blog. “La camorra ha iniziato, ma le Istituzioni stanno continuando il lavoro”. Non usa mezzi termini il testimone di giustizia Luigi Coppola per spiegare la sua situazione. Difficile e drammatica per lui e per la sua famiglia. La famiglia Coppola, per una scelta coraggiosa e dignitosa, è costretta ad elemosinare un posto per dormire. Tutto è cominciato nel 2001. Luigi era un commerciante di auto a Boscoreale, in provincia di Napoli. Stanco delle vessazioni della camorra, denuncia le estorsioni e l’usura. Grazie alle sue denunce si aprono le porte del carcere per alcuni esponenti camorristici locali. Oggi la famiglia Coppola è stata abbandonata dallo Stato. Ritornati nella loro terra, dopo aver girato il Paese, hanno toccato con mano la diffidenza della gente comune. “Un giorno sono entrato insieme alla mia scorta in un noto ristorante di Pompei. A me e mia moglie è stato impedito di sederci a tavola”. Nel gennaio del 2010 il Viminale ha revocato la scorta e la vigilanza fissa. Per lo Stato l’imprenditore Coppola non rischia nulla. Solo per un ricorso al Tar viene risparmiata la scorta. Non è facile, nel BelPaese, la vita dei testimoni di giustizia. Per l’europarlamentare Sonia Alfano: “le loro storie, purtroppo, sono tutte uguali: eroi civili che hanno denunciato i fatti criminosi che hanno subito o di cui sono venuti a conoscenza e che, dopo i processi (le cui sentenze quasi sempre si soffermano sulla nobiltà del loro gesto) sono stati abbandonati dallo Stato, estromessi dai programmi di protezione, lasciati senza sicurezza e senza mezzi di sostentamento”. Luigi Coppola, membro della consulta anticamorra del comune di Boscoreale e coordinatore di uno sportello antiracket, continua la sua solitaria battaglia. “Sono anche disposto a darmi fuoco davanti al Viminale. E’ un mese che ho lasciato l’albergo per motivi economici e nessuno si è curato di noi”.

Coppola, a chi si riferisce?

“Allo Stato”.

Cosa chiede allo Stato?

“Di essere ricevuto e di cercare una soluzione al mio grosso problema. Nel momento in cui lo Stato mi abbandona definitivamente sotto il profilo della sicurezza la camorra metterà in atto il proprio atto criminale”.

Ha ricevuto altre minacce?

“Sto vivendo temporaneamente presso l’abitazione di mio fratello. Ultimamente si sono registrati degli sgradevoli episodi. Qualcuno, scambiando mio fratello per me, gli ha dato del cornuto. C’è stata una regolare denuncia fatta da mio fratello”.

Esiste una petizione promossa dal comitato per la tutela dei testimoni di giustizia, tra i firmatari Salvatore Borsellino, Sonia Alfano, Angela Napoli, Giuseppe Lumia, Elio Veltri. A che punto siamo?

“Non ricordo bene se siamo a 1300 o 1400 adesioni. C’è l’intenzione, entro questo mese, di portarla all’attenzione del Capo dello Stato per vedere se almeno lui ci riceva”.

Nel luglio scorso Sonia Alfano ha inviato una lettera al Presidente della Repubblica per illustrare la situazione dei testimoni di giustizia. Siete stati ricevuti dal Capo dello Stato?

“No, l’incontro non c’è mai stato. A parte la lettera dell’onorevole Alfano, mi ci sono recato personalmente al Quirinale. Insieme a mia moglie abbiamo fatto lo sciopero della fame, ma in tre giorni e tre notti nessuno si è visto. Ho avuto una sola risposta dal Quirinale. In quei giorni sono scesi dei funzionari che mi hanno comunicato che il Capo dello Stato non può interferire in decisioni che devono essere prese da altri organi dello Stato”.

Il neo ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, ha dichiarato che “si interesserà al caso”.

“Il ministro ancora non si è interessato. L’altro giorno sono stato ricevuto dal senatore Giuseppe Lumia e prima dell’incontro sono riuscito ad ascoltare le dichiarazioni della Cancellieri alla Camera dei Deputati, un’interrogazione a risposta immediata sull’altro caso del testimone di giustizia Cutrò. Il ministro ha risposto anche sugli altri testimoni, affermando che il Viminale si è sempre preso cura dei testimoni e nulla sarebbe stato lasciato al caso. Io sono la prova che tutto ciò è falso e sfido la Cancellieri a smentirmi”.

Lei era un rivenditore di automobili a Boscoreale. Nel 2001 denuncia l’estorsione e l’usura della camorra…

“E viene decapitato definitivamente il clan Pisacane di Boscoreale, vengono tratti in arresto un reggente del clan Cesarano, più due suoi cognati. In più vengono arrestati appartenenti al clan Gionta di Torre Annunziata e numerose persone che avevano fatto usura nei miei confronti. In totale 30 persone. Per pagare la camorra fui costretto ad acquisire denaro a tassi usurai. Grazie alle mie dichiarazioni è stato anche sciolto il Comune di Boscoreale per infiltrazioni camorristiche”.

Nel 2002 venite inseriti nel programma di protezione per i testimoni di giustizia…

“Grazie al sostituto procuratore Giuseppe Borrelli, che lavora attualmente presso la Procura di Catanzaro. Prima stava alla Dda di Napoli. Prima di lui, chi aveva preso la situazione in mano non aveva ritenuto opportuno attivare nessuna misura di sicurezza. In quel periodo ho subito due aggressioni e ci sono i referti ospedalieri che lo provano”.

Nel 2007 la famiglia Coppola rientra in Campania, precisamente a Pompei. 

“Avevamo scelto Pompei perché ritenuta tranquilla”.

E come siete stati accolti dalle Istituzioni, dalla gente?

“Peggio della camorra. Al sindaco sono state portate delle petizioni che sono state girate alla Direzione Distrettuale Antimafia e all’ex prefetto di Napoli. Il sindaco non ha mai dimostrato sensibilità nei nostri confronti, anche quando siamo stati costretti a vivere nelle auto blindate”.

Come spiega la frase “a voi non si loca e non si vende…”.

“Mi auguro che sia solo un fattore di paura, ma non credo che il Comune di Pompei possa avere paura. Questa è discriminazione”.

Dopo i vari gradi di giudizio, nel 2009, i processi aperti grazie alla sua testimonianza arrivano in Cassazione.

“Ventitre di loro vengono definitivamente condannati per associazione di stampo mafioso. Da un mesetto è uscito il reggente, il braccio destro del clan Pisacane. Stiamo parlando di un clan che fino ad oggi non ha prodotto pentiti e che ha tutta la voglia di rimettersi in piedi, di riprendersi il territorio per continuare con la droga, con le estorsioni e con l’usura”.

Per lo Stato la famiglia Coppola non rischia nulla. Viene revocata la vigilanza fissa e la scorta.

“Alla revoca mi oppongo con un ricorso al Tar. La scorta viene mantenuta, ma la vigilanza non viene rimessa. La camorra dà il proprio segno di apprezzamento con proiettili inesplosi e una bottiglia incendiaria. Attualmente ho ancora la scorta, ma so che stanno operando per eliminarla”.

Oggi come vive la famiglia Coppola?

“A carico di mio fratello e di mia madre, senza un centesimo. Il 24 gennaio le banche mi iscriveranno al recupero crediti e sarà per me la morte civile. E se tutto questo avverrà mi darò fuoco davanti al Viminale”.

Lei ha due figlie.

“Frequentano il liceo”.

A scuola come vengono trattate?

“Non bene. Vengono viste come degli appestati dai loro amici, sicuramente condizionati dai genitori”.

L’ex sottosegretario Mantovano le disse: “cerchiamo di non prenderci il dito, la mano e il braccio”.

“Ho presentato regolare denuncia alla Procura di Roma”.

Esiste lo Stato nei suoi territori?

“Stato è una parola troppo grossa. La camorra ha preso il posto dello Stato”.

L'IMPRENDITORE LUIGI COPPOLA, PERSEGUITATO DALLA CAMORRA E ABBANDONATO DALLO STATO. Inizia nel lontano 1993 la triste storia di Luigi Coppola , 47enne sposato, con 2 figlie, scrive E. Lampitella su “Globuli Azzurri”. Da venditore d’auto a perseguitato dalla Camorra. Coppola è uno dei tanti che denunciano i propri aguzzini ma rimangono sotto traccia. Grazie alle sue deposizioni, nel 2001 sono state arrestate più di 34 persone di 4 Clan diversi, tra cui il Boss Pesacane. L’imprenditore è rimasto vittima delle attenzioni di tre clan diversi. Colpa, la sua, vendere auto in un trivio che è sotto la “giurisdizione” di 3 clan diversi, tra Bosco Reale, Boscotrecase e Torre Annunziata, che lo vedevano come potenziale riciclatore. Rappresentava un boccone prelibato per il loro malaffare . E’ così entrato in una vera e propria spirale del terrore, a causa dei rifiuti alle pesanti richieste di estorsione e riciclaggio di più esponenti malavitosi che si palleggiavano il cittadino onesto di turno. Ma La storia di luigi Coppola non si ferma qui, dopo aver collaborato con la giustizia alla fine di 10 anni passati in mano ad usurai per pagare il pizzo ai camorristi, Coppola è rimasto solo. Abbandonato dallo stato e ridotto alla fame, costretto a dormire in auto con la scorta. Un’ordinanza del Viminale, che fa seguito alle richieste avanzate da Coppola, nega al collaboratore di giustizia il programma di protezione. Luigi Coppola stasera racconterà la sua storia a Globuli Azzurri, programma di Samuele Ciambriello, sempre sensibile a queste tematiche.

LUIGI LEONARDI. Camorra, denunciò chi gli chiedeva il pizzo: abbandonato dallo Stato e dalla famiglia, scrive Giovanni Gaudenzi su Theblazonedpress.it. Luigi Leonardi ha 39 anni, ed è stato per molti anni uno degli imprenditori più ricchi di Napoli. Guadagnava anche 250 mila euro a settimana, con la sua attività di fabbricazione d’impianti d’illuminazione e 4 negozi sparsi per la provincia partenopea. Oggi non guadagna praticamente nulla, e le sue imprese non esistono più. Perchè ha osato denunciare i taglieggiatori mandati dalla camorra, che gli chiedevano oltre 24 mila euro al mese per garantirgli la loro protezione. Lui, invece di sottostare al vile ricatto dei clan, ha scelto di ribellarsi, presentando 18 denunce negli ultimi 12 anni. Sulle sue dichiarazioni sono basati 2 processi, il primo dei quali ha portato a 63 condanne in primo grado. Per il commerciante nessuna protezione, nessuna misura precauzionale come quelle previste per i pentiti. Perché Leonardi, con i camorristi, non ha mai voluto avere nulla da spartire. E’ stato aggredito a sprangate, nel 2009, ed è finito in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. L’uomo è stato anche sequestrato per 24 ore, a Secondigliano. Ma non si è arreso, sfidando la mala e perdendo tutto quello che aveva, negozi compresi. Ora chiede solo che lo Stato provveda a proteggerlo e che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia, insieme al risarcimento dei danni subiti. “Rifarei tutto- spiega- Con la camorra non ho mai voluto compromettermi.” Il cugino del padre, Antonio Leonardi, è sospettato di essere affiliato alla famiglia mafiosa dei Di Lauro. Ed è questa la ragione per la quale la sua famiglia lo ha abbandonato, lasciandolo solo a combattere la sua battaglia: “Se mi fossi rivolto a lui- dice- avrebbe risolto immediatamente la questione. Ma ho scelto di stare dalla parte della legalità. Adesso, alla mia situazione, deve pensarci lo Stato.” 

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce. Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l'imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni. Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”. L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”. “In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”. Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan. Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”. Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato. “Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto. Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

TIBERIO BENTIVOGLIO. Tiberio Bentivoglio, imprenditore antimafia: «Ho denunciato, Equitalia mi porta via la casa». Rompe il muro di omertà contro la 'ndrangheta, ma resta solo. Così, tra silenzi, lentezze burocratiche e casa ipotecata, si umilia il coraggio di chi denuncia le cosche di Reggio Calabria, scrive Gelsomino Del Guercio su “L’Espresso”. «Sto perdendo casa e lavoro, ho già perso la serenità familiare. Allora oggi mi chiedo: conviene denunciare i propri aguzzini come ho fatto io?». E' il grido di un uomo disperato quello che affida a "l'Espresso" Tiberio Bentivoglio, imprenditore reggino 61enne sotto scorta e testimone di giustizia dal 1992, cioè da quando si è ribellato ai suoi estorsori. Da allora per Tiberio è iniziato un lungo calvario. Gli hanno voltato le spalle gran parte dei suoi concittadini di Condera, la frazione di Reggio Calabria dove abita e dal 1979 è titolare di un negozio, la "Sanitaria S.Elia" che vende prodotti elettro medicali e articoli per la prima infanzia. Perché da quelle parti sfidare i boss è un sacrilegio. Ma sopratutto gli hanno voltato le spalle le istituzioni, che lo hanno abbandonato a se stesso nonostante gli appelli al consiglio regionale della Calabria, alla Commissione Parlamentare Antimafia , al ministro dell'Interno Angelino Alfano e persino a papa Francesco. In questi giorni la parabola di Tiberio è giunta al capolinea. Sommerso dai debiti, con un fatturato crollato negli ultimi nove anni del 75% (cioè 2 milioni e mezzo di euro in meno) e un conseguente danno per mancato guadagno che si aggira ad oltre 800 mila euro, l'imprenditore è sull'orlo del crac e dirà addio al suo negozio e non solo. Il colpo finale è arrivato tra le fine di settembre e i primi giorni di ottobre. Equitalia gli ha inviato l'avviso di vendita all'asta della sua abitazione, già ipotecata da oltre un anno per 991mila euro. L'iter prima dello sfratto durerà circa sei mesi. L'ipoteca di Equitalia era arrivata perché da nove anni non paga più i contributi all'Inps dei propri dipendenti (ora rimasti in due, prima erano in cinque) ai quali fino all'anno scorso riusciva a versare a mala pena gli assegni con gli stipendi. «Ho sempre pagato tutto regolarmente ai lavoratori fin quando ho potuto», sottolinea l'imprenditore. Per il danno erariale relativo ai contributi Inps, sua moglie (la loro è un'azienda familiare) ha subito due condanne in primo grado dal tribunale di Reggio Calabria per appropriazione indebita (pena sospesa): la prima un anno fa, la seconda una settimana fa. «Il paradosso è che adesso diventiamo noi i "pregiudicati"…», afferma sconsolato Tiberio. Come se non bastasse, da qualche settimana si è fatto incalzante il pressing delle banche, che dopo l'ipoteca sull'abitazione hanno ritirato gli affidamenti: non concedono più alcuna forma di credito, mutui e prestiti a Bentivoglio. Sono stati ridotti i carnet degli assegni a lui destinati perché sui suoi conti correnti non c'è abbastanza denaro per pagare i fornitori del negozio (circa 150). Il risultato è che le banche, come da legge, hanno inoltrato gli assegni scoperti ai notai - il cosiddetto "protesto" - e per l'imprenditore si prospettano nuove sanzioni amministrative (che comunque non riuscirà a pagare). L'ennesima batosta è arrivata sabato 4 ottobre quando ha ricevuto il preavviso di sfratto dai proprietari del negozio, perché, ormai da un anno, non ha i soldi per pagare l'affitto. Invece il 10 dicembre 2014 il tribunale di Reggio stabilirà se Tiberio dovrà abbandonate il deposito annesso al negozio perché anche in quel caso è "forzatamente" moroso nei confronti del proprietario. Ma perché un uomo libero, un imprenditore coraggioso, un testimone di giustizia, fondatore peraltro di "Reggio Libera Reggio", iniziativa anti racket nata in città il 20 aprile 2010, si è ritrovato in una condizione così assurda, al punto da ritenere che sia stata una cosa sconveniente, un errore, denunciare la 'ndrangheta? E' giusto che in un Paese civile si debba pagare tacitamente il pizzo per non ridursi in questo stato di disperazione? Quest'ultima domanda, tanto più in queste ore, se la stanno ponendo Tiberio, la moglie e sopratutto i suoi figli, «psicologicamente devastati da questa vicenda», dice lui. Nelle sue parole traspare un rimorso rabbioso per quella battaglia iniziata 20 anni fa. «Mi sono rifiutato di riconoscere il loro sistema criminale e sono stato costretto a subire una serie di punizioni e perfino un tentato omicidio che si verificò dopo la condanna di alcuni malavitosi da me nominati nelle denunce». Episodi agghiaccianti, sette in totale. Il primo nel 1992 (furto al negozio), altri due nel 1998 (furto e attentato). Quindi un attentato dinamitardo al negozio nell’aprile 2003 e un incendio nel 2005. Nel giugno 2008 va a fuoco il capannone-deposito. Nel febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando nel suo frutteto, alle 6 del mattino. «Solo il caso ha voluto che il proiettile, probabilmente quello fatale, si fermasse nel marsupio di cuoio, che quel giorno portavo a tracolla sulle spalle. Gli autori del tentato omicidio a oggi restano ignoti, mentre io continuo a trascinarmi su una sola gamba in quanto l’altra ha riportato lesioni permanenti causati dai proiettili». Da quel momento a Bentivoglio è stata potenziata la scorta, ora di "terzo livello", cioè assegnata ad una persona "ad alto rischio". Questa serie di intimidazioni ha scatenato un primo, ma graduale allontanamento della clientela dal negozio. E' lunga la lista degli amici che hanno cominciato a far finta di non vederlo, a non salutarlo in strada, a schivarlo. Peggio ancora dopo che il testimone di giustizia, nel 2007, ha denunciato la presunta connivenza del parroco locale don Nuccio Cannizzaro con Santo Crucitti, presunto boss di Condera-Pietrastorta. Il reato di favoreggiamento di cui era accusato il sacerdote è stato prescritto a luglio 2014 e a Condera, dopo la pronuncia del Tribunale di Reggio, si è festeggiato con caroselli d'auto e fuochi d'artificio. «Don Nuccio da queste parti è molto temuto, ma sta di fatto che in Italia la giustizia è lentissima», ammonisce Bentivoglio. Non solo la giustizia, ma lo è anche la burocrazia, che ha scagliato il colpo di grazia contro la "Sanitaria S.Elia". C'è una legge, la 44 del 1999, che prevede aiuti alle vittime di mafia. «Per l'attentato al negozio del 2003 ho ricevuto 3400 euro a fronte di 120mila euro di danni. Per l'incendio del 2005 ho avuto circa 300mila euro in tre anni, e per l'incendio al capannone del 2008 circa 400mila euro, tanto quanto il valore della merce bruciata, ma sempre dopo tre anni». In teoria la normativa stabilisce che lo Stato ripaghi la vittima entro 60 giorni dal fatto. «In realtà la media di attesa è molto più lunga - sentenzia Bentivoglio - intanto, ogni volta che ho subito un agguato, in attesa di ricevere quei soldi sono rimasto anni ed anni con il mio negozio e il deposito distrutti». I clienti in fuga, la liquidità che viene a mancare, le difficoltà nel pagare i fornitori, un mix micidiale, «che mi è costato 2 milioni e mezzo di euro in nove anni, a tanto ammonta il calo del mio fatturato e 800mila di mancato guadagno che è alla base del mio indebitamento verso Stato, fornitori, locatari. In confronto a ciò gli indennizzi ricevuti in tre anni, non compensano praticamente nulla». Sempre per la legge 44/99, gli è valso 16mila euro il tentato omicidio del 2011 (soldi ricevuti nel 2014), e poiché quella norma sospende i provvedimenti esecutivi per 10 mesi, è rimasto tutelato dall'avviso di sfratto del proprietario del deposito fino a settembre 2013. «Non ho mai trovato gente disponibile ad affittare un locale ad una persona come me, che ha già subito una serie di attentati». Eppure l'imprenditore-coraggio non vuol rassegnarsi ad un epilogo che sembra scritto. «Griderò fino all’ultimo giorno di vita - chiosa Bentivoglio - non voglio e non posso finire così. Io ho fatto il mio dovere ma sto perdendo tutto. Se non avessi una famiglia mi sarei già suicidato».

IGNAZIO CUTRO'. L'imprenditore Ignazio Cutrò chiude per mafia "Lo Stato mi ha lasciato solo". Aveva denunciato il racket: “Tante parole al vento perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo”, scrivono Piero Messina e Maurizio Zoppi su “L’Espresso”. Chiuso per mafia: è il titolo adatto per l’ultimo capitolo della storia imprenditoriale di Ignazio Cutrò. Ultimo, perché l’imprenditore in prima linea contro Cosa Nostra, pronto a denunciare i suoi estortori, alla fine si è arreso e ha chiuso la sua azienda. La procedura è stata avviata al registro delle Imprese di Agrigento.  Così, l’azienda che aveva detto no al racket, nei fatti, oggi non esiste più. A Cutrò resta solo una montagna di debiti col fisco e le banche per evitare il fallimento. “Che dire? Un bel segnale per tutti gli imprenditori che sono assaliti dalla mafia e dagli estortori – è il commento caustico di Cutrò – da oggi per tutti è chiaro quale sia la fine delle aziende che si oppongono alla mafia”. Ma come si è arrivati al default? Dopo aver denunciato i suoi estortori, accusandoli pubblicamente e contribuendo all’attività di magistrati e investigatori, l’imprenditore di Bivona, un piccolo comune della provincia di Agrigento, s’era trovato letteralmente solo. Lo Stato all’inizio, sembrava volesse prendere a cuore la causa dell’imprenditore, sul cui operato – nella sentenza che seppelliva il sistema del racket mafioso agrigentino – i giudici esprimevano ben 19 pagine di riflessioni. Cutrò e la sua famiglia finiranno sotto scorta per le continue minacce. A quel punto, l’imprenditore si trova di fronte al classico bivio: scegliere di essere trasferito in località protetta ed essere stipendiato dallo Stato o rinunciare ai sussidi e tentare di far ripartire la sua attività. “ In quel momento ho scelto di restare – ricorda Cutrò – perché ho tentato di essere coerente fino in fondo. Che lotta alla mafia è quella che costringe gli imprenditori ad abbandonare la propria terra e la propria attività?”. Non mancano le stille di curaro: “io sono tra i pochi imprenditori che ha iniziato a collaborare senza versare un centesimo agli esattori della mafia. Non tutti erano nella mia stessa condizione. Molti hanno saltato il fosso soltanto dopo che gli investigatori avevano scoperto e accertato il loro soggiacere alle richieste economiche della mafia”. Che Cutrò credesse fino in fondo  alla scelta di restare in Sicilia lo dimostra l’utilizzo dei fondi ricevuti dallo Stato come danno biologico. “A me ed ai miei familiari – spiega – è stato riconosciuto un risarcimento di circa 100 mila euro. Quei soldi avrei potuto metterli da parte, invece li ho usati per pagare tasse e contributi. Insomma, volevo il Durc a posto (durc è l’acronimo di documento unico di regolarità contabile, necessario per lavorare nel settore pubblico, ndr) per poter essere chiamato a lavorare. Forse ho sbagliato”. Ogni tentativo di far ripartire l’azienda sarà inutile. Cutrò e la sua azienda verranno isolati. L’imprenditore tenterà persino di mettere in vendita tutti i mezzi della sua azienda, camion, macchine scavatrici, bulldozer e utensili. Non si è presentato nessuno. “Messaggio chiaro – dice – messaggio non detto che vale più di mille parole: le cose di Cutrò non si toccano”. L’ultimo tentativo è dell’estate scorsa, quando Cutrò viene chiamato a lavorare dal general contractor dell’impianto fotovoltaico di Gela. Missione fallita, di quel sogno declinato nel segno dell’energia verde resta solo una collina rasa al suolo e tante imprese, come quella dell’ormai ex imprenditore antimafia, che non vedranno mai il risultato del lavoro svolto. Eppure sarebbe bastato poco per salvare quella piccola impresa edile in prima linea nella lotta alla mafia, bastavano solamente 38.500 euro. A tanto ammontavano i debiti fiscali che Cutrò avrebbe dovuto pagare per restare con il Durc pulito. Ma lo Stato ha erogato soltanto 20 mila euro, il resto non è mai arrivato. Cutrò sostiene di avere sperato sino all’ultimo nell’intervento del Viminale: “Resta solo l’amarezza – ricorda – per decine e decine di riunioni, tempo perso e parole al vento. Perchè alla fine sono stato abbandonato. Mi chiedo quale sia oggi il posto della lotta alla mafia nell’agenda del governo. A parte le vetrine della legalità, mi sembra tutto fermo e tutto inutile. Non vorrei fare polemica, ma non ritengo giusto che uno Stato in grado di pagare un riscatto di 12 milioni di euro per salvare la vita di due ragazze italiane prese in ostaggio dai terroristi, non trovi le risorse, o molto più probabilmente la voglia, di trovare quei 18 mila euro che rappresentavano la mia salvezza” . “Ora – conclude Cutrò – non mi resta che prendere atto di aver fallito, di avere distrutto la mia vita e quella dei miei figli. Ma in fondo dal Viminale mi avevano avvertito,  me l’avevano detto che non avrei più potuto lavorare nella mia terra”.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

L’irresistibile ascesa di Cicci e le mille luci della città che pensava in grande. Il rappresentante di farmaci che divenne il re Mida della sanità privata. Nella sua villa cenò Liza Minnelli, scrive Angelo Rossano su “Il Corriere del Mezzogiorno”. È un’alba livida e umida. E’ l’alba di martedì 28 marzo 1995. Se, alla fine, questa storia diventerà davvero la trama per un film, ebbene, la prima scena non potrà che essere questo momento in questa città: Bari. I blitz vengono fatti sempre all’alba, sia che si tratti di criminalità comune, organizzata o di colletti bianchi. Sia che si tratti di sicari di malavita o del sindaco o del direttore della Gazzetta del Mezzogiorno. L’appuntamento con le manette è a quell’ora lì. E lo fu anche quel giorno. Quando 35 persone finirono coinvolte in un’inchiesta sulla sanità privata. Una storia di tangenti, giri miliardari e rapporti mafiosi. Così si disse e si scrisse. Il Corriere della Sera titolò il pezzo: «Tangenti, in manette i padroni di Bari». E poi finirono tutti assolti. Quell’inchiesta era iniziata qualche tempo prima: il 3 maggio del 1994, un altro martedì. Francesco Cavallari finì in manette con alcuni suoi collaboratori per una storia di ricoveri poco chiara. Da lì, alle sue agendine, ai racconti e alle testimonianze sui suoi rapporti con la politica e con i pezzi che contavano nella società barese, il passo fu breve. E’ l’operazione «Speranza» coordinata dall’allora procuratore aggiunto della Direzione nazionale antimafia Alberto Maritati (poi divenne parlamentare prima dei Ds e poi del Pd e anche sottosegretario). Al centro di tutto c’è lui: Francesco Cavallari, detto Ciccio solo da chi voleva far credere di conoscerlo bene, mentre il suo vero nomignolo era «Cicci». E con lui finirono nell’inchiesta e agli arresti domiciliari gli ex ministri Vito Lattanzio (Dc) e Rino Formica (Psi), accusati di corruzione e finanziamento illecito ai partiti. Furono pesantemente coinvolti l’allora sindaco di Bari, Giovanni Memola (Psi), accusato di corruzione, l’ex sindaco Franco De Lucia (Psi), ma ancora un ex presidente della Regione, Michele Bellomo (Dc), ex assessori regionali come Franco Borgia (Psi) e Nicola Di Cagno (liberale), il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, Franco Russo. E anche appartenenti alle forze dell’ordine, capiclan, magistrati. In vent’anni sono stati tutti assolti. Tutti, tranne uno: Cicci. Lui aveva patteggiato. Ma l’altro ieri (che giorno era? il 6 maggio, un altro martedì) la Cassazione - proprio in occasione del suo compleanno - ha stabilito di fatto che Francesco Cavallari, l’ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. I giudici hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi, Cavallari nel 1995 patteggiò una condanna a 22 mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione e gli fu confiscata gran parte del patrimonio, circa 350 miliardi di lire. Chiariamo: la corruzione resta, ma la pena andrà rideterminata. Il patrimonio? Si vedrà. Un vero tesoro accumulato a partire dalla fine degli anni ’70, grazie alla legge che istituì il servizio sanitario nazionale e che prevedeva le convenzioni con i privati. Il rappresentante di medicinali Cavallari compie il grande passo: «Rileva le quote di una società che possedeva la clinica Santa Rita, in via Bottalico, a Bari», racconta Antonio Perruggini, che fu suo stretto collaboratore ed è l’autore del libro Il botto finale, sottotitolo: «Morì un giudice, un imprenditore finì in esilio. Storia dello scandalo giudiziario più clamoroso di Bari e delle sue inaspettate fortune» (Wip edizioni, 10 euro). Fu quella la porta che Cavallari attraversò per entrare negli anni Ottanta da protagonista. Era la Bari da bere, la Bari governata dall’asse socialisti-democristiani. Nelle elezioni del 1981 per la prima volta in città il Psi superò il Pci. Era la Bari del giro vorticoso di soldi e favori, di affari e carriere, di rapporti opachi con il malaffare e la malavita, di assistenza medica privata in cliniche che sembravano alberghi a 5 stelle e posti di lavoro da chiedere e da garantire. Una città dove tutto si teneva insieme. Ma era soprattutto una città che aspirava al ruolo di capitale e poggiava le sue ambizioni su quattro pilastri: la sanità privata, la cultura, la finanza, la tecnologia. Erano le Ccr (le Case di cura riunite), il Petruzzelli, la Cassa di risparmio di Puglia e Tecnopolis. Era quindi anche la città del Petruzzelli e di Ferdinando Pinto, un altro socialista. Un lustro per la città che toccò l’espressione più alta con la produzione dell’Aida in Egitto, tra le vere Piramidi. Altri tempi, si dirà: rubinetti della spesa pubblica sempre aperti e politica compiacente. Certo, ma anche altre ambizioni, altre visioni, altra borghesia. Com’è finita lo ricordano tutti. Teatro in fiamme e a Pinto ci sono voluti dieci anni per dimostrare di essere innocente. Erano anche gli anni delle cene a casa Cavallari: villa su corso Alcide De Gasperi, lato destro andando verso Carbonara, con due piscine (una era coperta e l’altra scoperta), interni progettati dallo studio barese dell’ingegnere Dino Sibilano. Una volta, lì cenò Liza Minnelli, ma c’è chi ricorda anche Umberto Veronesi e Renato Dulbecco. Nulla di strano, in fondo nel frattempo Cavallari era diventato il capo di un’azienda, le Case di Cura Riunite, «cui facevano capo - ricorda Perruggini - 11 strutture a Bari e provincia specializzate in cardiochirurgia, dialisi, cardiologia, chirurgia, geriatria: è stata fino alla metà degli anni ’90 la prima azienda sanitaria privata di Italia con un fatturato prossimo ai 300 miliardi di lire annui e oltre 4mila dipendenti. All’epoca le Case di Cura Riunite erano per dimensioni seconde solo all’Ilva di Taranto». Bari era diventata l’eldorado della medicina convenzionata. Antonio Gaglione cardiochirurgo, già deputato, senatore e sottosegretario, ricorda ancora quell’8 maggio del 1992, oggi sono esattamente 22 anni, era il giorno che i baresi dedicano a San Nicola: a Villa Bianca (clinica Ccr) eseguì per la prima volta in Puglia un’angioplastica su un malato di cuore. Non era un paziente qualunque: si trattava di quel Nicola Di Cagno, politico e docente universitario, che tre anni dopo sarebbe finito coinvolto nell’inchiesta. E se la sera, dopo il teatro, si andava a cena da «Cicci» e dalla moglie, la signora Grazia Biallo, la mattina si facevano affari anche grazie al ruolo che aveva assunto la Cassa di Risparmio di Puglia, presidente Franco Passaro, socialista, docente universitario. Sotto la presidenza Passaro (dal 1981 al 1994) la Cassa diventa banca leader della Puglia assieme al Banco di Napoli. Com’è finita? L’ex presidente ha raccontato nel 2010 la sua versione in un libro La Resa. Piccola storia di una banca e di un processo. Infine, la quarta gamba di questa sorta di «primavera tecnocratica» barese anni ’80. Tecnopolis, il primo parco scientifico e tecnologico d’Italia, nasce alle porte di Bari da un’intuizione del professore di fisica Aldo Romano (prima socialista, poi vicino ai democristiani), allievo di Michelangelo Merlin che era a capo di un dipartimento di fisica, quello barese, dove ci fu la prima laurea d’informatica del Sud, seconda in Italia. Tecnopolis viene inaugurato nel 1984, per l’occasione arriva anche il vice governatore della California e assiste al convegno di battesimo intitolato «Finanza, tecnologia e imprenditorialità». L’Università di Bari, la Banca d’Italia, la Cassa per il Mezzogiorno e il Formez erano insieme nell’incubatore che consentirà la nascita del parco. Il modello del parco scientifico e tecnologico fu esportato in tutta Italia. Anche su Tecnopolis fu aperta un’inchiesta giudiziaria. Romano lasciò la presidenza del parco e andò a insegnare a Roma. Dall’inchiesta, alla fine, non emerse nulla. Nel 1982, intanto, la Regione Puglia, presidente Antonio Quarta varò il «Piano regionale di Sviluppo centrato sull’innovazione». Era l’82 e alla Regione si parlava di innovazione. Oggi Tecnopolis di fatto è InnovaPuglia, società della Regione che progetta e gestisce programmi di tecnologia dell’informazione e della comunicazione ed è anche una società per la promozione, gestione e sviluppo del Parco Scientifico e Tecnologico. Forse si farà davvero un film su un pezzo di questa storia. E se la scena iniziale sarà quella dell’alba sul lungomare di Bari, quella finale non potrà che essere il tramonto di Santo Domingo, dove adesso Francesco Cavallari, detto Cicci, gestisce una gelateria.

Francesco Cavallari, ex «re Mida» della sanità privata barese, non è mafioso. Lui lo aveva sempre sostenuto, ma le sue dichiarazioni dinanzi a pubblici ministeri e giudici erano rimaste inascoltate. E vent'anni dopo arriva la clamorosa decisione della Cassazione: è stata annullata la sentenza con la quale la corte di appello di Lecce aveva respinto l'istanza di revisione del processo al termine del quale nel gennaio 2013 era stato condannato per associazione mafiosa. I giudici della Suprema corte hanno disposto un nuovo procedimento per la rideterminazione della pena. Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Cavallari è stato assistito dagli avvocati Franco Coppi e Mario Malcangi. Bari. Tutti assolti: con questo verdetto, 14 anni dopo gli arresti, si è concluso il processo d’appello per trentuno imputati coinvolti nell’operazione Speranza, in cui la procura di Bari ipotizzava un intreccio tra mafia, politica e affari. E così l’unico colpevole è rimasto Francesco Cavallari, noto come Cicci, per lungo tempo il re Mida della sanità privata pugliese e italiana: l’imprenditore, infatti, dopo essere stato arrestato, patteggiò una pena a ventidue mesi di reclusione per associazione mafiosa e corruzione subendo un sequestro patrimoniale di circa 350 miliardi di vecchie lire. A questo punto, però, visto che tutti i presunti componenti di quella organizzazione criminale sono stati scagionati nei vari processi relativi all’inchiesta che si sono susseguiti nel corso degli anni, Cavallari di fatto risulta associato con se stesso: proprio per questa ragione l’imprenditore, un tempo ex presidente delle Case di Cura Riunite e adesso gestore di una gelateria a Santo Domingo, ha chiesto la revisione del processo. L’inchiesta sul presunto intreccio tra politica, affari e criminalità organizzata nella gestione delle case di Cura Riunite di Bari, denominata speranza, fu diretta dall’allora pm Alberto Maritati, successivamente parlamentare del partito democratico e più volte sottosegretario, e coinvolse politici, magistrati e giornalisti. Tutti, naturalmente, non toccati dalla vicenda. Il vicenda giudiziaria che travolse Bari nel 1995 vide coinvolti oltre all’imprenditore esponenti politici di primo piano (tra i quali gli ex ministri Lattanzio e Formica poi assolti) amministratori regionali e infine esponenti della criminalità organizzata barese. Cavallari da anni vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria.

Lo aveva sempre sostenuto e la Cassazione gli ha dato ragione: Francesco Cavallari non è mafioso, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La Suprema Corte ha annullato la sentenza con la quale la corte d’Appello di Lecce nel gennaio 2013 aveva detto «no» all’istanza di revisione del processo avanzata dai suoi difensori, sulla base di un principio, in fondo, semplice semplice: un’associazione mafiosa con se stesso non può esistere. Le carte, adesso, torneranno a una diversa sezione della Corte d’Appello salentina che dovrà rideterminare la pena che Cavallari aveva patteggiato: corruzione sì, falso in bilancio anche, ma mafia davvero «no». Così ha stabilito la Suprema Corte che ha accolto la richiesta della stessa Procura generale, oltre che quella dei difensori dell’ex «Re Mida» della sanità privata pugliese. «Sono contento che sia stata ristabilita la verità storica su quello che abbiamo sempre sostenuto da molto tempo», ha commentato l’avvocato Mario Malcangi, difensore di Cavallari, insieme con il principe del foro, il professor Franco Coppi. Si chiude così, dopo qua-si vent’anni, non solo la vicenda privata di Cavallari, ma anche quella della imponente operazione denominata «Speranza». Gli inquirenti teorizzarono la sussistenza, nel territorio barese, di u n’associazione a delinquere di stampo mafioso nata da un ben preciso accordo criminoso intervenuto tra Cavallari, maggior azionista e presidente del consiglio d’amministrazione della società «Case di Cura Riunite» s.r.l. e titolare effettivo della Geoservice s.r.l. - e i principali capi clan baresi. Nel mirino degli inquirenti «il controllo di attività economiche e servizi di pubblico interesse » anche «attraverso la manipolazione del consenso elettorale a beneficio di candidati compiacenti». L’operazione rappresentò un «cataclisma» per il sistema politico e imprenditoriale locale. Il primo vero scandalo nella gestione della sanità privata. Pesanti accuse che non hanno retto al vaglio della magistratura giudicante. Personaggi del calibro di Antonio, Sabino, Mario e Giuseppe Capriati, tra gli altri sono stati strada facendo assolti in via definitiva. Era il 1995 quando il gup del Tribunale di Bari aveva ratificato il patteggiamento a una pena (sospesa) di 22 mesi anche per l’accusa di associazione mafiosa per Cavallari. Un patteggiamento criticato dalla stessa sentenza con cui il Tribunale di Bari assolse alcuni suoi computati. Il re della sanità privata, che oggi vive a Santo Domingo dove gestisce una gelateria, non poteva essere considerato credibile quando ammise «di avere posto in essere molteplici e gravi condotte di corruzione di pubblici amministratori e di reati finanziari, e una serie di assunzioni di malavitosi» e non attendibile quando «pur riconoscendo di avere intrattenuto rapporti di connivenza con alcuni boss della malavita» negò «di avere stipulato un rapporto con i clan » . Nel corso del tempo tutti gli altri imputati erano stati assolti in via definitiva dalla stessa accusa. Di qui la richiesta di revoca della sentenza con proscioglimento «dal menzionato delitto di associazione a delinquere di stampo mafioso, perché il fatto non sussiste, con conseguente rideterminazione della pena inflitta ». La Corte d’Appello di Lecce aveva detto «no». Di diverso avviso la Cassazione. Dalle sentenze di merito è persino emerso come «Cicci» «sia stato sottoposto ad atti di intimidazione da parte dei clan». A seguito del patteggiamento, i giudici confiscarono numerosi beni tra i quali ville, appartamenti e terreni. Tra questi, anche la villa di corso De Gasperi a Bari e l’appartamento in via Putignani, nel centro del capoluogo, ora in uso alle forze dell’ordine. Un sequestro disposto ai sensi del codice antimafia. Adesso il rischio è che potrebbero ritornare nelle mani di Cavallari. Con tante scuse.

«Anzitutto, devo precisare che sono stato difeso da prof. Franco Coppi, ma anche dall’avv. Mario Malcangi di Bari, che mi ha seguito in questa vicenda. Qual è la mia prima reazione? Sono molto, molto felice, perché è tornata serenità e pace in famiglia e, finalmente, penso che potrò ritornare con un bel rapporto con mia moglie, perché purtroppo all’epoca non resse a tutto quel tam tam che ci fu tra carabinieri, guardia di finanza, ecc. Tanto che arrivammo al divorzio. Adesso, penso che lei si sia definitivamente convinta che in casa non ha mai avuto un Totò Riina o un Bernardo Provenzano. Quindi sono molto felice. Anche se in questa grande gioia che provo in questo momento c’è grande dolore per come sono ridotte le mie strutture, che erano un gioiello all’epoca. Non lo dico io, lo dicevano tutti. E soprattutto per le migliaia di dipendenti che hanno perso il posto di lavoro. Io non sono d’accordo con chi dice, con chi ha sempre detto che mi hanno tolto i magistrati, Maritati, Scelsi, 20 anni di vita. Io ho guadagnato 20 anni di vita in questo periodo. Perché se fossi rimasto a Bari, con quelle ansie, preoccupazioni, anni di dolore che ho provato, sarei crepato. Ecco perché io non sono crepato a Bari, ma finalmente, posso dire oggi, che loro mi hanno regalato 20 anni di vita. Quindi, sembrerà un paradosso. Sono grato a quei provvedimenti, che all’epoca presero per la mia libertà personale, che mi consentì, dopo tanti anni, di fare degli accertamenti diagnostici. Da qui venne fuori che ero un cardiopatico. Sto aspettando la mia famiglia, che mi raggiungerà in questi giorni, proprio per chiarire alcune situazioni tra di noi, di famiglia, e, quindi, penso di ritornare al momento debito. Perché adesso voglio completare tutto l’iter giudiziario. Certamente ritornare a Bari. Vedere quello strazio. Quelle condizioni in cui versano le mie strutture. Io penso che eviterò di passare da via Fanelli. Eviterò di passare da via Salandra, da via Ciro Petroni. Ecco quindi cercherò di non frequentare quei posti, per non rivivere certi momenti che ho vissuto. Molto belli. Ho maturato in me una grande decisione, che mi fa piacere, in primis, riportare attraverso Telenorba. Io creerò una fondazione per assistere coloro i quali sono senza difesa, perché non hanno la possibilità di permettersi un avvocato, ed anche un assistenza a parenti di persone che sono incarcerate».

Cavallari fu arrestato nel ’94 e patteggiò la pena di 22 mesi per associazione mafiosa ed alcuni episodi di corruzione. Dalle sue dichiarazioni racconta, rimasero coinvolti una sessantina di politici e tra loro l’ex assessore regionale Alberto Tedesco, che però, non venne indagato. Cavallari affermò di aver dato 20 milioni di lire anche a Massimo D’Alema, ma i pm baresi chiesero ed ottennero l’archiviazione dell’accusa per finanziamento illecito ai partiti. Ha riferito anche che alla fine degli anni 80 un amico gli segnalò per un’assunzione Patrizia D’Addario, ma non se ne fece nulla.

Sanità, Politia ed Affari. E’ già successo a Bari nei primi anni 90, dice Antonio Procacci in un suo servizio su Telenorba. Fu un vero terremoto. Un’ottantina le persone indagate e una trentina gli arrestati. Alla fine ha pagato solo uno: Francesco Cavallari. Il re delle cliniche private. Fu arrestato nel maggio ’94 e scarcerato a novembre, quando cominciò a svuotare il sacco. Fece i nomi, e che nomi: da i ministri Lattanzio e Formica al sottosegretario Lenoci; dall’ex presidente della giunta regionale Michele Bellomo all’ex senatore Alberto Tedesco, a cui, secondo il racconto fatto all’allora pm Alberto Maritati, oggi compagno di partito dell’ex assessore, diede un contributo di 40 milioni di lire per la campagna elettorale di Lenoci, pochi mesi prima del sui arresto. E poi parlò di magistrati, funzionari pubblici, direttori generali di ASL e persino di giornalisti. Partito come informatore scientifico, Cavallari ha costruito un impero. Il più grande della sanità italiana ed europea. Con 10 cliniche private e 4000 dipendenti: pagando mazzette finanziano campagne elettorali ed assumendo centinaia di dipendenti sponsorizzati dai politici e dalla malavita locale. Tutto annotato in agende e sul computer in un file denominato, non a caso, mala.doc. “Sono l’unico imprenditore che non si è potuto sottrarre ai ricatti dei politici, malavita organizzata, magistrati e forze dell’ordine” ha sempre sostenuto e dichiarato Cicci Cavallari, che era solito favorire l’acquisto di materiale sanitario da fornitori che li venivano segnalati dai politici. Nulla di nuovo nella successiva inchiesta “Tarantini”. All’epoca non c’era la droga e neanche le escort, anche se una giovanissima Patrizia D’Addario fu presentata pure a Cavallari, ma con l’intento di fargli eseguire giochi di prestigio in alcune serate nelle sue cliniche. C’erano già, invece, i viaggi regalati, però, non ai medici, bensì ad alcuni giudici e funzionari regionali. La grande differenza di ieri, rispetto ad oggi, la fanno, però, soprattutto i soldi. Davvero tanti: 4,5 miliardi di vecchie lire, secondo le ultime stime che l'ex re delle CCR avrebbe pagato a tutti: dal PCI, come ammesso da Massimo D’Alema, fino all’MSI. Chi più, chi meno, un po’ tutti confermarono di aver intascato mazzette da Cavallari, anche se alla fine, gogna mediatica a parte, nessuno, o quasi, ha pagato. Anzi, è la Regione Puglia che deve pagare a Cavallari 63 milioni di euro per TAC, risonanze magnetiche e ricoveri in esubero non saldati ai tempi dello scandalo. Fu proprio Tedesco, all’epoca assessore alla Sanità, a stoppare i pagamento alle CCR, come ha ricordato recentemente il re Mida della Sanità. Per non parlare delle parcelle degli avvocati, che hanno difeso molti di quei politici e rigorosamente a carico dello Stato. Alcuni di essi si sono ritirati dalla scena, altri invece, sono ancora sugli scudi.

Guardia di finanza in azione: finiti in prigione anche l'ex assessore regionale Marroccoli e un consigliere comunale di Bari. TITOLO: Puglia, manette alla sanità privata. Tra le accuse più pesanti: truffa aggravata, falso e corruzione. Ricoveri mai effettuati, pagati dall'Usl 600 mila lire al giorno. Coinvolti anche i vertici di "Apulia Salus" e "Santa Maria". Ventisei arresti, il carcere attende Francesco Cavallari padrone di dieci cliniche, scriveva Piraino Giancarlo su “Il Corriere della Sera” il 4 maggio 1994. Per qualche ora s'è temuto che, avvertito in tempo, fosse riuscito a riparare all'estero. Poi, a metà pomeriggio, è giunta notizia che stava tornando da Milano per costituirsi ai giudici baresi. Francesco Cavallari, "re" della sanità privata in Puglia, era stato infatti raggiunto da due ordinanze di custodia cautelare. Al mattino era già finito in cella Paolo Biallo, suo cognato e braccio destro nella gestione delle Case di cura riunite (10 cliniche, 4 mila dipendenti, 250 miliardi di fatturato all'anno), il direttore sanitario Nicola Simonetti (piantonato in ospedale), e altri quattro tra medici e dirigenti del gruppo. Sempre in mattinata erano stati arrestati l'ex assessore alla Sanità della Regione Puglia, Tommaso Marroccoli, e un consigliere comunale di Bari, Giuseppe Pellecchia. Il blitz della Guardia di finanza aveva raggiunto anche i vertici dei due gruppi concorrenti delle Case riunite: i fratelli Franco e Giuseppe Cacurri, proprietari dell'Apulia Salus (tre cliniche, più altre tre partecipate) e Vincenzo Traina, della Santa Maria. Coinvolti anche tre funzionari della Regione, Maria Grazia De Luca, Nicola Armenise e Lorenzo D'Armento. In tutto 34 ordinanze di custodia cautelare, che hanno interessato 27 persone (qualcuno ne ha ricevuta più d'una). Truffa aggravata, falso, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione, i reati contestati dai giudici Giovanni Colangelo ed Annamaria Tosto. I provvedimenti sono stati firmati dal gip Maria Iacovone. In ballo i ricoveri in regime di convenzione e soprattutto quelli d'urgenza. Negli uffici dei funzionari regionali sono stati sequestrati documenti riguardanti il periodo 1990-93. Alle sole Case di cura riunite sarebbero stati versati 85 miliardi per ricoveri mai effettuati. Un soggiorno di degenza, alla Mater Dei o altra clinica del gruppo, costava sino a 600 mila lire. L'indagine sarebbe partita da una denuncia riguardante le risonanze magnetiche e le Tac. Differenziate le accuse: quella di corruzione riguarderebbe solo i vertici delle Case di cura riunite, l'ex assessore Marroccoli e i funzionari regionali. Marroccoli, i funzionari regionali e i vertici delle Case di cura sono finiti in carcere; per tutti gli altri, arresti domiciliari. Per Bari è un autentico terremoto. I personaggi sono tutti notissimi. Cavallari era nel mirino della magistratura da tempo. Il sostituto procuratore Nicola Magrone (ora deputato progressista) aveva accusato lui e il cognato Paolo Biallo d'assunzioni fatte negli ambienti della malavita. L'indagine gli era poi stata tolta, alla vigilia, pare, del coinvolgimento di alcuni personaggi politici. Magrone era stato anche deferito al Csm e poi completamente prosciolto. Di fronte al plenum del Csm era invece finito nel gennaio scorso il procuratore generale di Bari, Michele De Marinis. A lui erano stati contestati anche l'atteggiamento tenuto in quella vicenda e la sua supposta amicizia con Cavallari, ma nei suoi confronti non era poi stato assunto alcun provvedimento. La sanità privata pugliese è sempre stata al centro di polemiche politiche. Le opposizioni, di destra e di sinistra, alla giunta regionale hanno sempre contestato l'entità dei finanziamenti. Cifre imponenti: nel solo bilancio 1993 94, 310 miliardi, più altri 100 per la sola assistenza nelle malattie da tumore. Dei 310 miliardi i due terzi sarebbero finiti ai tre gruppi ora sotto indagine; i 100 miliardi per l'oncologia quasi tutti alla sola "Mater Dei", clinica di Cavallari in regime di convenzione con la Regione sino al 31 dicembre di quest' anno. Dopo quella data il governo della Puglia dovrebbe decidere se rinnovare la convenzione o acquistare la clinica. Ma in questo caso Cavallari aveva già pronta la soluzione di ricambio: proprio in questi giorni stava per varare l'Istituto oncologico del Mediterraneo, con i soldi dell'Isveimer e della Cassa di risparmio di Puglia; benchè il suo gruppo abbia con la Cassa barese un'esposizione di 65, qualcuno dice 100 miliardi.

Il giudice morto che turba un pm e un senatore Pd, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”,  Lun, 26/09/2011 con  Massimo Malpica. Le inchieste sulla sanità pugliese, le accuse tra magistrati, gli esposti al Csm, le denunce in Procura. I veleni tra le toghe baresi di questi giorni, che vedono l'ex pm Scelsi contrapposto al capo dell'ufficio giudiziario del capoluogo, Laudati, ricalcano una storia oscura di 15 anni fa. Nel 1994 la Procura di Bari indaga su un re della sanità pugliese, Francesco Cavallari, presidente delle Case di cura riunite. Al lavoro ci sono quattro pm. Alberto Maritati (l'attuale senatore Pd che a detta di Scelsi, nel 2009, gli chiese notizie sull'affaire Tarantini per conto del dalemiano De Santis) e Corrado Lembo della Direzione nazionale antimafia, Giuseppe Chieco e Pino Scelsi (lo stesso che oggi accusa Laudati) della Dda locale. Procuratore capo facente funzioni è Angelo Bassi.

Bassi non è una toga rossa. Non ha colori. A dicembre '94 difende Antonio Di Pietro: «Si sono disfatti di un magistrato scomodo facendo disperdere intorno a lui il senso della giustizia», detta alle agenzie. Quando però il mese prima Silvio Berlusconi era stato raggiunto da un avviso di garanzia alla conferenza Onu sulle mafie, Bassi aveva apertamente parlato di «scempio». Non sui giornali, ma in ufficio sì. Tanto era bastato, racconta oggi la moglie, Luigina, per inquadrarlo come «non allineato». Di certo, da quel momento la sua vita prende una piega drammatica. Bassi, come tanti a Bari, conosce Cavallari, che è sotto intercettazione. Viene registrato un colloquio tra l'aggiunto e l'indagato. I due si danno del tu, si chiamano per nome. E poi, un giorno, a dicembre del 1994, Bassi va a casa di Cavallari per interrogarlo. «Essere andato a interrogare Cavallari, che intendeva collaborare, a casa sua (...) bastò a far decretare la mia fine», racconta lui stesso, a luglio del 1997, a Carlo Vulpio del Corriere della Sera. I «colleghi» che indagano su Cavallari lo denunciano alla procura di Potenza (allora competente per i magistrati baresi, ora è Lecce, come Laudati sa bene) e al Csm. Bassi si ritrova indagato: abuso di potere e omissione di atti d'ufficio le ipotesi di reato. Il Csm a settembre del 1995 lo trasferisce a Napoli: incompatibilità ambientale. E l'otto novembre '96 viene rinviato a giudizio dalla procura di Potenza. Proprio due dei suoi «accusatori», Scelsi e Chieco, in udienza confermano che Bassi «li raggiunse nel loro ufficio per informarli dell'incontro con Cavallari», nel corso del quale Bassi aveva raccolto una confidenza, utile per un'indagine che vedeva Maritati parte lesa a Potenza, subito trasmessa dagli stessi pm alla procura lucana. Non sembra un comportamento da favoreggiatore. Infatti il 14 marzo '97 Bassi viene assolto perché il fatto non sussiste. La motivazione della sentenza è devastante per gli accusatori dell'ex procuratore, e stigmatizza in particolare Maritati. Che, pur in conflitto di interessi, come inquirente e come parte lesa di quelle dichiarazioni, secondo il giudice «non ha avvertito la necessità di astenersi dal prendere parte a qualsiasi iniziativa del suo ufficio in relazione ad un fatto che lo riguardava personalmente, ed abbia anzi redatto unitamente ai colleghi Chieco e Scelsi la relazione inviata in data 23-12-94 al procuratore della Repubblica di Potenza». Bassi, assolto in tribunale, il giorno dopo la sentenza viene condannato in ospedale, dove gli viene diagnosticata una malattia in fase terminale. Morirà un anno dopo, non prima di aver denunciato i suoi accusatori Maritati, Scelsi, Chieco e Lembo che si ritrovarono sotto indagine a Potenza in un fascicolo. Archiviato. Come archiviata finì la denuncia degli stessi pm da parte di Cavallari, che nella maxi-inchiesta barese che aveva coinvolto anche big della politica come Massimo D'Alema (percettore per sua stessa ammissione di un finanziamento da Cavallari, ma il reato era prescritto) era stato, alla fine, l'unico condannato, patteggiando 22 mesi. Decisivo per chiudere l'indagine potentina in cui Cavallari denunciava «gravi violazioni» dei pm, fu il nastro di un colloquio in procura a Bari di Maritati e Chieco con lo stesso Cavallari, in cui l'imprenditore rivelava ai suoi interlocutori una sorta di «complotto» della politica contro di loro. Deja-vu? Fatto sta che Cavallari, di fatto, li scagiona mentre, a Potenza, li accusa. Tutto normale? Insomma. Maritati, come rimarcava in un'interrogazione del '97 l'allora senatore di An Ettore Bucciero, era «al contempo indagato (...) e magistrato inquirente che raccoglie e registra le dichiarazioni confidenziali del suo accusatore». Un delirio. Ma non è la sola stranezza. Quel verbale viene chiuso con Maritati che fa presente come alle «11.50 del giorno 12 febbraio 1996, Cavallari è uscito dalla nostra stanza», a Bari. Eppure lo stesso Cavallari quel giorno, secondo gli atti del procedimento della procura lucana, venne convocato e interrogato dai pm Nicola Balice ed Erminio Rinaldi. Alle 12: dieci minuti dopo, a 140 chilometri di distanza. E i due magistrati, ascoltando il nastro barese dell'ubiquo imprenditore, invece di stupirsi della strana coincidenza di date, chiesero (e ottennero) l'archiviazione per il futuro senatore Maritati e per i suoi colleghi. Chi tocca certi fili muore, come Bassi.

“Cavallari? Il male lo ha subito”. "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". "In punta di piedi mi permetto di rivolgermi alla Sua persona in qualità di amico di Francesco Cavallari, dopo aver appreso dagli organi di informazione della consegna, anche alla Sua presenza, della villa di Rosa Marina in favore di una nobile causa sociale. Annoveri anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato". Una lettera aperta, (pubblicata da Nicola Quaranta su “Brindisi Report”) una difesa a tutto campo dell'imprenditore barese Francesco Cavallari. Antonio Perruggini, ex responsabile delle Pubbliche relazioni del Gruppo Case di Cura Riunite di Bari, all'indomani dell'inaugurazione, presso l'ex villa del Re delle Ccr di Bari, del Centro per l'autonomia, ripercorre le tappe della vicenda giudiziaria di Cicci Cavallari: fondatore delle "Case di Cura Riunite" di Bari, coinvolto negli anni Novanta nella tangentopoli barese. E lo fa rivolgendosi in prima persona al Vescovo di Brindisi e Ostuni, monsignor Rocco Talucci, che nel corso della cerimonia di benedizione ha sottolineato il senso e il valore dell'evento che ha sancito la consegna ai volontari del Centro per la riabilitazione dei disabili del patrimonio immobiliare a suo tempo confiscato: "Come nella Resurrezione, siamo a celebrare il passaggio dal male al bene". Queste le parole del vescovo. Ma chi, al fianco di Cavallari, ha lavorato per anni, vivendo la stagione fortunata delle Case di cura Riunite (all'epoca azienda leader in Europa nella Sanità Privata, con 250 miliardi di fatturato, undici presidi e oltre 4000 dipendenti), non ci sta: "Il Procuratore della Repubblica di Bari Angelo Bassi, il magistrato integerrimo che si permise di trattare Francesco Cavallari con umanità pur non avendo mai avuto alcun rapporto con lo stesso imprenditore imputato per mafia, mentre era in preda a atroci sofferenze, mi disse poco prima di morire che il caso Cavallari sarebbe terminato con un botto finale. E così è stato, anche se quello più fragoroso deve ancora arrivare. Non so se Cavallari assisterà a quell'esplosione, ma di sicuro il suo nome, la sua storia e quella dei suoi carnefici, ci saranno. In prima fila, ognuno con le proprie responsabilità e meriti. Proprio come diceva l'indimenticabile magistrato". La ragione dello sfogo: "Ancora oggi - scrive Perrugini - le cronache regalano pezzi di ingiustizia, così eclatante da far rabbrividire. Mi chiedo come si può non sapere che quell'uomo è innocente e ha subito ingiustamente un martirio durato 17 anni. Invece ancora oggi in pompa magna autorevolissimi esponenti della politica, dello Stato e della Chiesa partecipano all'affidamento di un bene di Cavallari, sequestrato perché lo stesso era accusato (mai condannato !) di ipotesi mafiose risultate penosamente infondate. Anzi infondatissime. E così l'azione devastante verso quell'uomo e l'azienda che aveva realizzato, ovvero di quelle cliniche che furono un vanto per il territorio pugliese e un esempio di eccellenza clinica per il meridione di Italia, pare non terminare mai, nonostante ben tre gradi di giudizio che hanno urlato la stessa parola finale: innocente. Dopo 17 anni". E la difesa continua: "Era il 17 dicembre del 2009 quando per l'ennesima volta un collegio giudicante di appello aveva sconfessato sonoramente tutta l'opera costata miliardi, contro Cavallari. Ma non bastò. Chi volle il suo sacrificio, quello della sua famiglia e dei suoi dipendenti, non si dette per vinto e in un ultimo disperato tentativo, tentò la strada della Cassazione, che con decisione ha consacrato quanto per anni e in tutte le lingue aveva riferito e avevano motivato i suoi legali. Non bastarono le testimonianze, i riscontri inesistenti, le rogatorie internazionali in mezzo mondo finite con un nulla di fatto, e la leale collaborazione dell'imprenditore a far ragionare i suoi accusatori". "Doveva sparire. E così avvenne. Ora è esiliato a Santo Domingo. Oggi è gravissimo e in certi versi sconvolgente, che la "signora con la spada" pronta a troncare ogni ingiustizia, non ottenga il giusto rispetto. E così mentre si scrive la parola fine "all'assalto alla diligenza", ora deve essere il tempo della presa d'atto di un fallimento e del riconoscimento morale e materiale di quanto è avvenuto in danno di un innocente. Di mafia si intende. Perché Francesco Cavallari è stato accusato di altri reati, che non potevano procurare l'attacco verso tutto il suo essere e consentire di entrare anche nei "buchi delle sue serrature" e incenerire anche la polvere che calpestava. Quindi l'affondo, nelle parole di Peruggini: "L'affare ciclopico c.c.r". ha sorpassato da tempo i limiti della decenza politico-economico - istituzionale e nonostante le urla di giustizia consacrate in coerenti sentenze penali e civili, non ha fatto muovere nulla e nulla è stato fatto, come se in una sorta di limbo imbalsamato e maledetto da un diabolico sortilegio, "la bestia" doveva restare vittima, in attesa della tanto adorata "bella". Quello che è stato più volte e chiaramente scritto "in nome del popolo italiano", evidentemente ha infastidito i pochi reduci della "lotta verso Cavallari" e così mentre viene consacrato che quanto ha subito è stato davvero troppo, attraverso le ipotesi di mafia e truffa naufragate insieme alle loro congetture, l'unica vittima di questo affare colossale, resta Cicci Cavallari che ha creato lavoro e sviluppo economico, restando completamente estraneo alle insussistenti accuse del naufragio annunciato". Ed in fine le conclusioni: parole rivolte direttamente a monsignor Talucci. "Mi aspetto che almeno un Vescovo, con il suo noto senso di Carità avverta la opportunità di condividere una atroce sofferenza, agevolmente da conoscere con un minimo cenno, al fine di poter annoverare anche il buon Cavallari nelle preghiere che anche altri vescovi gli hanno sempre riservato. Penso che qualsiasi uomo che sente il dovere della giustizia terrena e divina, debba avere la gioia di conoscere una storia, a maggior ragione quando questa è costellata da grandi sofferenze trasformate spesso in altre versioni lontane dalle sentenze e dai fatti per il tramite di articoli e menzogne riportate in centinaia di "cronache", e in libri pubblicati e venduti sulla pelle di Cavallari e di una azienda passata di mano senza troppe esitazioni". "La storia vera, che in tutta solitudine Cavallari, ormai stremato, ha invocato per anni e che non è stata mai ascoltata ha sostenuto invece varie fortune politiche, una drammatica disoccupazione e l'affermazione di un nuovo modello di gestione della sanità che viviamo ogni giorno. Basta ancora oggi alzare il telefono e chiedere la disponibilità di una Risonanza Magnetica o di una Tac per rendersene conto". La chiosa, in calce alla lettera indirizzata al vescovo: "Ringrazio il Signore - scrive Perruggini - per avermi donato la gioia di essermi rivolto alla Sua pregevole persona e di aver vissuto nel mio cuore un glorioso momento di giustizia, pregandoLa di perdonare il mio sfogo e di rivolgere la Sua preghiera e il Suo perdono anche verso chi a Cavallari volle così male". La storia giudiziaria di Cavallari, in sintesi: negli anni Novanta l'imprenditore barese finì in manette nell'ambito di un'operazione che portò la magistratura a scoperchiare un presunto intreccio affaristico, politico, criminale. Una vicenda giudiziaria che scosse nel capoluogo i palazzi del potere. Cavallari a suo tempo patteggiò la pena, quella di associazione per delinquere di stampo mafioso, e uscì dal carcere. Riacquistata la libertà, perse però i suoi averi. Quel patteggiamento, infatti, segnò la fine del suo impero economico e portò alla confisca di gran parte dei beni di famiglia, compresa la lussuosa villa nel residence più esclusivo del litorale ostunese. Nei mesi scorsi la Cassazione ha chiuso anche l'ultimo capitolo di quella vicenda giudiziaria, dichiarando inammissibile il ricorso che era stato presentato dalla Procura generale avverso la sentenza con la quale nel 2009 i giudici d'appello mandarono assolti, perché il fatto non sussiste, anche le dodici persone ritenute vicine ai clan baresi a cui, sempre secondo la Pubblica accusa, Cavallari aveva concesso una serie di aiuti, a partire dalle assunzioni presso le sue cliniche. Nel corso del tempo furono assolti anche gli altri personaggi eccellenti coinvolti in quella inchiesta: ex assessori e funzionari regionali, ex ministri, giornalisti. Cavallari, l'unico all'epoca a scegliere la strada del patteggiamento, risulta così anche l'unico colpevole.

Maritati & C.: “liberammo Bari”. Adesso chi ci libererà da loro? Si chiede Nicola Picenna su “Toghe Lucane”. L'inchiesta “Speranza” (31 imputati) e l'inchiesta “Toghe Lucane” (34 indagati) hanno molto in comune, oltre al numero degli indagati che quasi quasi coincide. Entrambe ipotizzano una vasta rete di corruttela fra imprenditori, politici, magistrati e delinquenza comune e non. Entrambe sembrano destinate a finire in un nulla di fatto. Tutti assolti in appello (tranne Francesco Cavallari che aveva scelto il patteggiamento) quelli di “Speranza”. Tutti in attesa che si pronunci il Gip sulla richiesta di archiviazione tombale, per “Toghe Lucane”. Uno dei PM che aveva condotto le indagini nell'inchiesta “Speranza”, Alberto Maritati, difende il suo operato: “può anche succedere che l'accusa venga rovesciata con una sentenza di assoluzione, ma non per questo si deve pensare che il pm sia stato un cieco persecutore”. Anche il Procuratore Capo, Giuseppe Chieco, difende l'operato della Procura di cui ha la responsabilità, criticando quello del dr Luigi de Magistris dopo che gli indagati da quest'ultimo – nel “filone” Marinagri, troncone rilevante del “Toghe Lucane, sono stati assolti. Nel processo “Speranza”, “non si deve pensare che il pm sia un cieco persecutore. I provvedimenti cautelari da noi richiesti sono passati al vaglio di tre giudici: il gip, il Tribunale del Riesame e la Cassazione”, così parla Alberto Maritati. Nel procedimento “Toghe Lucane-Marinagri” il provvedimento (cautelare) del sequestro del cantiere è stato confermato dal Gip, dal Riesame, dalla Cassazione e, per altre due volte, nuovamente dal Gip. Ma De Magistris viene dipinto come un “cattivo magistrato”. Nel procedimento penale “Toghe Lucane” il pensiero infamante è obbligatorio. “Di regola il pm che svolge le indagini è lo stesso che sostiene l'accusa anche nel dibattimento e, a certe condizioni, anche in appello. I pm non hanno seguito il procedimento fino alla conclusione... e il processo è stato spezzettato in tanti tronconi: questo secondo me ne ha decretato la fine”. Così parla Maritati del processo “Speranza” e non si sbaglia. Per “Toghe Lucane” è lo stesso. Il primo pm (Luigi de Magistris) viene sottratto all'inchiesta; gli subentra Vincenzo Capomolla che spezzetta “Toghe Lucane” in tanti tronconi. Nel momento topico del processo anche Capomolla evapora. Arriva Cianfrini che in pochi minuti valuta quintali di atti giudiziari e chiede l'assoluzione. Gabriella Reillo, Gup dalle indiscusse capacità valutative, assolve. “Quell'inchiesta ha liberato Bari da una cappa... Cavallari controllava la città. Così come ha detto egli stesso a noi e come ha detto a voi (Corriere del Mezzogiorno, ndr) nell'intervista conferma di aver distribuito 4 miliardi di lire ai politici e non solo”; sempre Maritati che parla apertis verbis. Anche per “Toghe Lucane” emergeva la “cappa” o, come scrisse De Magistris, “l'associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari, alla truffa aggravata ai danni dello Stato ed al disastro doloso”. Che Bari si sia liberata da quella cappa, alla luce delle recenti inchieste sulla sanità pugliese, appare affatto certo. Come accade in Basilicata, dove gli indagati da De Magistris (in buona parte) occupano ancora i posti di comando e controllo. Se non che, a guardare tutto, si scopre che Giuseppe Chieco, oggi fra gli indagati in “Toghe Lucane” è stato fra i PM dell'inchiesta “Speranza” insieme con Maritati. Che Chieco e Maritati furono indagati per abuso d'ufficio in una inchiesta tenuta dalla Procura di Potenza da cui vennero prosciolti grazie alle improvvide dichiarazioni rese loro (che strano) proprio da Francesco Cavallari. Era il 12 febbraio 1996, in Procura a Bari, presenti Chieco, Maritati e Cavallari. Ma Cavallari nega e si scopre che in quello stesso giorno, a quella stessa ora, Cavallari Francesco veniva interrogato a Potenza. Carte false, Chieco e Maritati vennero salvati da carte false autoprodotte. “Liberammo Bari” dice Maritati, ma chi ci libererà da loro? p.s. Qualcuno chieda ad Alberto Maritati, perché la quota parte dei 4 miliardi finita nelle tasche di Massimo D'Alema finì con la prescrizione e come mai egli decise di candidarsi proprio nel partito di Max e come fu che, eletto alle suppletive, D'Alema lo volle immediatamente sottosegretario nel I e II governo di cui era Presidente del Consiglio. Qualcuno chieda a Maritati perché non indagò Alberto Tedesco, indicato fra i percettori di una quota consistente dei “soliti” 4 miliardi; come oggi risulta indagato per analoghe operazioni poste in essere da assessore della giunta “Vendola”. Qualcuno chieda a Maritati come fa a sostenere lo sguardo dei parenti di quel magistrato coperto da accuse infamanti ma poi assolto per non aver commesso il fatto. Qualcuno gli chieda perché, ancora oggi, non sente vergogna ogni qualvolta ne richiama la memoria, tradendolo anche da morto, come di un magistrato colpevole di inqualificabili (ma inesistenti) reati.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

Il tribunale fallimentare di Milano ha dichiarato lo stato di insolvenza dell'Ilva di Taranto, nell'ambito della procedura di amministrazione straordinaria. Come giudice delegato per la procedura stessa è stata nominata Caterina Macchi. Si apre quindi il capitolo finale per la tormentata azienda siderurgica, ormai destinata al fallimento.  L'azienda "presenta un indebitamento complessivo pari a 2.913.282.000 euro", scrivono i giudici nella sentenza. Secondo i giudici l'Ilva "si trova in stato di insolvenza come adeguatamente illustrato nel ricorso" del commissario straordinario presentato lo scorso 21 gennaio e "comprovato dalle allegazioni documentali, risultando - si legge nel provvedimento - che la società presenta capitale circolante negativo per circa 866 milioni di euro, una posizione finanziaria netta negativa per 1583 milioni di euro, una progressiva riduzione del patrimonio netto contabile e una redditività negativa della gestione" sempre in riferimento al 30 novembre 2014. Mancano materie prime, stop alcuni impianti - Intanto a rendere ancora più complicata una situazione non facile, è arrivato l'annuncio dell'Ilva ai sindacati metalmeccanici di fermare alcuni impianti a causa del mancato rifornimento delle materie prime provocato anche dalla protesta degli autotrasportatori. "L'azienda - dice Vincenzo Castronuovo della Fim Cisl di Taranto - ha precisato che la situazione potrebbe cambiare in caso di ripartenza degli approvvigionamenti".

“Il futuro dell’Ilva è legato a filo doppio a quello di Taranto e a quello di un intero comparto, strategico per gli interessi nazionali. Per questo qualsiasi intervento inerente lo stabilimento va ben oltre l’ambito locale, e merita di essere affrontato in maniera approfondita e valutato in tutti i suoi possibili aspetti e in tutte le sue profonde ripercussioni, al netto da contrapposizioni demagogiche e pregiudiziali, cercando di alimentare e stimolare confronto e dialogo e non uno scontro sempre più esasperato” ha affermato  Nuovo Centrodestra in Consiglio regionale, Domi Lanzilotta. “E la preoccupazione per il contesto ambientale e per la tutela dei posti di lavoro va ovviamente estesa anche al considerevole indotto: apportando quindi i dovuti correttivi al decreto che ha restituito allo Stato una necessaria centralità per evitare la svendita dell’impianto, ma al tempo stesso non chiedendo e auspicando ripensamenti e retromarce in palese contraddizione con le precedenti, dure e motivate critiche e preoccupazioni per la gestione -piena di ombre- dei privati. Il momento così critico deve indurre allora a stemperare la tensione e a una piena assunzione di responsabilità da parte delle parti chiamate in causa. Per la ricerca di un difficile equilibrio, alla luce delle numerose difficoltà e criticità emerse, ma che va trovato nelle sedi istituzionali, per non lasciare sprofondare Taranto in un nuovo incubo, dopo anni di buio e colpevole silenzio”.

Lospinuso: “Non può essere lo Stato a far fallire le imprese, si paghino subito i debiti indotto Ilva”. “Confindustria Taranto lancia un grido di allarme: il decreto per Taranto, anziché salvarla, rischia di affossare la città con una crisi occupazionale senza precedenti. Eppure, Forza Italia ha presentato emendamenti risolutori, proposti anche dal Senatore Amoruso, che rappresentano la strada maestra per garantire i crediti vantati dalle aziende dell’indotto, evitandone il fallimento”. Lo sostiene in una nota il consigliere regionale di Forza Italia, Pietro Lospinuso. “Oltre ai 3000 dipendenti delle aziende dell’indotto che rischiano il posto di lavoro – aggiunge – anche l’Ilva potrebbe mettere in cassa integrazione 5000 dipendenti. Ciò vuol dire che l’intera città di Taranto rischia il fallimento. Pensare che le aziende abbiano fornito materiali e prestazioni per l’Ilva in questi mesi, contando sull’affidabilità dello Stato che l’amministrava tramite i suoi commissari; e che oggi queste realtà economiche siano sul filo del rasoio, è veramente il colmo. Non può essere lo Stato a far fallire le imprese ed anzi, deve pagare i debiti pregressi del siderurgico: il senatore Amoruso propone una soluzione che ritengo condivisibile e concreta per la salvaguardia del sistema-impresa di Taranto. Come proposto negli emendamenti presentati, il governo potrebbe garantire i debiti al 100% presso le banche con la Cassa Depositi e Prestiti, e così gli istituti di credito presterebbero le somme necessarie. Agli imprenditori non resterebbe che pagare gli interessi alle banche per i prestiti ricevuti e per lo Stato sarebbe una manovra quasi a costo zero. In alternativa, potrebbe essere la stessa Cassa depositi a finanziare le imprese dell’indotto in forza dei crediti da riscuotere dall’Ilva. Il governo, inoltre, potrebbe prevedere, nel decreto in questione, la sospensione dei debiti delle imprese interessate verso Equitalia, come prima misura di sostegno per le realtà economiche che non vengono pagate ormai da mesi. Come pure si potrebbe immaginare un sistema di compensazione fiscale per le imprese interessate”. “Siamo aperti ad ogni altra alternativa – conclude Lospinuso – purché non sia una chiacchiera per perdere altro tempo. Taranto è una questione nazionale e adesso non c’è più tempo per scherzare”.

Come si fa a salvare l’Ilva senza la collaborazione della procura di Taranto? Si chiede Luigi Amicone  su “Tempi”. Siamo stati facili profeti quando abbiamo ricostruito le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Eppure una via di uscita che non sia il fallimento o la statalizzazione si può ancora trovare due numeri a fotografare lo spartiacque tra cos’era prima della “cura” a cui è stata sottoposta dalla procura di Taranto e cos’è oggi, dopo tre anni di inchieste, arresti, sequestri, blitz della polizia giudiziaria, la più grande acciaieria d’Europa: da una media di utili annua che sfiorava i 100 milioni, Ilva è passata a perdite secche di 1 miliardo l’anno. Siamo stati facili profeti quando ricostruimmo le pazzesche vicende di questo tipico caso di “catastrofe italiana” indotta per via giudiziaria. Adesso, dopo che l’azienda è stata commissariata (e naturalmente indagato anche il commissario governativo Enrico Bondi, sostituito nel giugno scorso con Piero Gnudi dal governo Renzi) la fotografia è la seguente: permanendo il sequestro giudiziario su due terzi dello stabilimento, le banche hanno staccato un assegno di 125 milioni come seconda rata di un prestito che servirà a pagare stipendi di dicembre e tredicesime agli 11 mila dipendenti. Dopo di che, buio completo. Non si sa come verranno pagati gli stipendi a partire dal prossimo gennaio. E soprattutto non si sa chi salderà i circa 400 milioni di debiti scaduti con i fornitori. Non bastasse, quale investitore straniero può essere così matto da prendersi sul gobbo un’azienda condannata a intervenire con bonifiche ambientali per 1,8 miliardi di euro (pena il mancato dissequestro degli impianti) e sul cui capo pendono richieste di risarcimento danni per 35 miliardi? Essendo un caso tragico di zelo giudiziario, il genio della giustizia italiana si è inventato di tutto. Perfino il prelievo forzoso (e l’uso per ricapitalizzare l’acciaieria commissariata dallo Stato) degli 1,2 miliardi sequestrati ai Riva (tutt’ora, almeno per il diritto nazionale e internazionale, proprietari al 90 per cento delle acciaierie) nell’ambito di un’inchiesta milanese che li accusa di truffa ai danni dello Stato. Le banche e gli otto trust a cui i Riva hanno affidato il loro “tesoretto” (oltre che un ricorso pendente in Cassazione), hanno fatto sapere che, mancando una sentenza definitiva sulla partita giudiziaria (che nulla ha a che vedere con il caso Ilva) non se ne parla nemmeno di utilizzare quei soldi. Di qui l’impasse che lascia presagire il peggio. Ad oggi sono solo chiacchiere le notizie che circolano di aziende italiane ed estere che sarebbero disposte a entrare nell’“affare” Ilva. Corre ad esempio la leggenda secondo cui il più grande gruppo europeo dell’acciaio (gli anglo-indiani di Arcelor-Mittal, alleati con Marcegaglia) avrebbe presentato un’offerta. E si racconta che anche il lombardo Arvedi sarebbe disposto a entrare nella cordata. In realtà, vere e proprie offerte per l’Ilva non ce ne sono. Per questo si è dato inizialmente spago alla voce di un intervento dello Stato che consentisse di sfruttare anche per le acciaierie tarantine la legge Marzano. Uno schema che in pratica prevederebbe il fallimento pilotato dell’Ilva e la sua cessione. Ma è difficile immaginare un percorso per cui, prima si fa fallire un’azienda per via giudiziaria. Poi la si sottrae con un commissario governativo (esproprio) ai suoi legittimi proprietari. Infine il governo la rivende al migliore offerente. Ora, sebbene alla Fiom non dispiaccia questa via (tant’è che a Repubblica Landini dice «no, assolutamente no» a un piano di salvataggio dell’Ilva che coinvolga anche gli attuali proprietari), Renzi ha capito in fretta che non può essere questa la strada di un paese che sta in Europa e che vorrebbe ricominciare ad attrarre gli investitori stranieri piuttosto che gli avvoltoi. Dunque? «Dunque stiamo a vedere», dicono a Federacciai. «Renzi è intelligente. Capisce bene che l’Ilva non può fallire e non può mettere per strada 11 mila operai, più un centinaio di imprese che lavorano nell’indotto. Se lo Stato fa la sua parte e i Riva, come hanno fatto sapere, faranno la loro, una via d’uscita si trova». E magari una via d’uscita modello Alitalia. Con un bad company che si accolla le passività e la giungla di pendenze giudiziarie. E una new company che riparte grazie a un mix di ricapitalizzazione privata (banche, Riva, Arvedi, Arcelor-Mittal-Marcegaglia) e intervento statale (Cassa depositi e prestiti, attraverso il Fondo strategico). Certo, la condizione perché si possa ipotizzare una via d’uscita al disastro, è che la procura di Taranto molli la presa sui sequestri e consenta all’azienda di tornare sul mercato producendo e vendendo acciaio e non avvisi di garanzia. A questo proposito, conversando in pubblico con il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, si era da parte nostra avanzata la modesta proposta di dare al Pil italiano la possibilità di schizzare all’in su di un paio di punti grazie alla messa in mora (ad esempio con un anno sabbatico) di quei pubblici ministeri che, come ci ha detto l’ex capo procuratore di Napoli Lepore, fanno danni perché «si credono dei padreterni» . Quando funzionava a pieno regime l’Ilva valeva il 75 per cento del Pil tarantino e l’1 di quello italiano. Se invece di continuare a tenere sotto sequestro due terzi dello stabilimento la procura di Taranto si mostrasse meno intransigente, forse una via d’uscita per l’Ilva si troverebbe.

Il romanzone del caso Ilva, una catastrofe italiana. Ecco come abbiamo distrutto la più grande acciaieria d’Europa, scrive Luigi Amicone su "Tempi". Stanziamenti, tre leggi ad hoc, l’ingaggio di due governi, della Suprema Corte e della Corte Costituzionale. Niente da fare. L’Ilva chiude e riapre l’Iri. I magistrati sono scatenati, Enrico Letta è imbelle. Nei prossimi giorni il parlamento varerà una serie di provvedimenti per rilanciare la commissariata Ilva. La più grande acciaieria d’Europa. Almeno fino a due anni fa. Dopo di che, nel biennio di massimo protagonismo della Procura di Taranto, tra il 26 luglio 2012 (data del primo sequestro degli impianti) e il 20 dicembre 2013 (pronuncia della Cassazione contro il sequestro del patrimonio della famiglia Riva, maggiore azionista dell’azienda), l’Ilva ha perso un terzo della sua produzione di acciaio, ha dimezzato i ricavi e nel 2014 attuerà un massiccio piano di messa a “contratti di solidarietà” di 3.579 lavoratori. 26 luglio 2012. 20 dicembre 2013. Segnatevi queste due date. Corrispondono all’arco temporale durante il quale due magistrati, il procuratore capo Franco Sebastio e il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, impegnati a perseguire per “disastro ambientale” la proprietà e gli amministratori dell’Ilva, hanno di fatto determinato la politica ambientale e industriale di un pezzo importante del sistema Italia (prerogative che, per legge, spetterebbero al governo e alle amministrazioni pubbliche). Non solo. Questa coppia di magistrati è stata sufficiente a polverizzare ogni record in materia di conflitto tra funzione giudiziaria e gli altri poteri dello Stato. Anticipato in rapide sequenze da trailer, il film è il seguente. Dopo aver ordinato le due prime e pesantissime raffiche di arresti e di sequestri all’Ilva (26 luglio e 26 novembre 2012), prima la procura e il gip di Taranto si oppongono con ricorso alla Corte costituzionale a una legge dello Stato del 3 dicembre 2012. Poi, alla sentenza (9 aprile 2013) che dichiara “costituzionale” una legge dello Stato (la cosiddetta “salva Ilva”), la Procura attende un mese prima di predisporre il dissequestro, previsto per sentenza, di prodotti Ilva che la stessa Procura aveva impedito di commercializzare a partire dal 26 novembre 2012. Prodotti che in data 15 maggio 2013, giorno in cui il gip di Taranto firma il dissequestro, hanno perduto (per deperimento e caduta dei prezzi sul mercato dell’acciaio) oltre un terzo del loro valore di 1 miliardo di euro. Ancora. Il 25 maggio 2013, cioè dopo essere stati contraddetti dalla Corte costituzionale (sentenza del 9 aprile e deposito delle motivazioni del 10 maggio 2013), i magistrati di Taranto sequestrano altri 8,1 miliardi di patrimonio dei proprietari dell’Ilva e mantengono ferrignamente tale sequestro (col rischio di far collassare l’intera filiera aziendale dei Riva) fintanto che, sette mesi dopo, la Corte di Cassazione cancella senza rinvio tale provvedimento, dichiarandolo «abnorme» e «fuori dall’ordinamento». Infine, dopo l’incredibile braccio di ferro tra Procura e leggi dello Stato, dopo che i più gravi e importanti provvedimenti assunti dai magistrati nei confronti dell’Ilva sono stati demoliti da ben due sentenze delle massime Corti, invece che chiedere conto di quanto siano costati allo Stato (e a Taranto) l’intransigenza e gli errori della Procura, Enrico Letta riesce nell’impresa di rinunciare a esercitare le prerogative di un primo ministro e di un governo. Così, con l’alibi che nel giugno 2013 la proprietà Ilva (con tutto quello che aveva addosso) non era ancora riuscita a mettersi completamente a norma rispetto alle severe regole ambientali approvate nel decreto “salva Ilva”, il governo vara un ennesimo decreto legge che, a partire dall’agosto 2013, sancisce il “commissariamento straordinario” dell’Ilva. Azienda privata che viene in questo modo trasformata in azienda parastatale per almeno i prossimi 36 mesi. E ora, secondo le richieste del commissario Enrico Bondi, l’Ilva dovrebbe essere ricapitalizzata con i soldi (1,2 miliardi di euro) che i Riva si sono visti porre sotto “sequestro cautelativo” dalla Procura di Milano. Non per violazioni all’Ilva, ma su tutt’altra partita di una (ad oggi presunta) «maxi-evasione fiscale». E ora godiamoci il film (si fa per dire), distesamente. Il 27 novembre 2012, Stefano Saglia, vicepresidente della commissione Camera per le Attività produttive è ancora ottimista. Il giorno prima era scattata una seconda retata, dopo quella del 26 luglio con cui il gip di Taranto, Patrizia Todisco, aveva sequestrato sei impianti dell’area a caldo dell’Ilva, emesso otto mandati di arresto cautelare per manager dell’acciaieria (compreso l’allora 87enne Emilio Riva, ex patron dell’Ilva) e nominato quattro custodi giudiziari. Dunque, il 26 novembre 2012 una seconda ondata di arresti aveva portato in carcere altre sei persone e posto sotto sequestro 1,8 milioni di tonnellate di prodotti Ilva del valore commerciale di 1 miliardo di euro. Nonostante queste notizie, per Saglia l’acciaieria di Taranto resta «una grande realtà siderurgica di cui il paese non può privarsi. L’Ilva vale lo 0,5 per cento di Pil nazionale». E poi naturalmente ci sono in ballo migliaia di posti di lavoro. Per la precisione: 11.611 impiegati nelle acciaierie di Taranto più gli addetti in società strettamente collegate all’Ilva. In totale, senza contare l’indotto del Nord, nel novembre 2012 Ilva occupa ancora 15.358 persone e il suo fatturato consolidato (oltre 6 miliardi di euro nel 2011) è in netta ripresa rispetto al biennio 2009-2010. Ed ecco una fotografia dell’azienda esattamente un anno dopo, dicembre 2013, quando il commissario straordinario Bondi scrive nella sua relazione che le vendite sono in picchiata, costi e perdite in paurosa ascesa. Colpisce il brusco calo di produzione. L’Ilva perde due milioni di tonnellate d’acciaio, un terzo della produzione, in un solo anno. Nel 2013  produce 6 milioni e 300 mila tonnellate, contro gli 8 milioni e 300 mila del 2012. Rispetto al 2011, quando a bilancio risultavano ricavi superiori a 6 miliardi di euro, in aumento del 30,4 per cento rispetto al 2010, la relazione di Bondi prevede per il 2013 ricavi quasi dimezzati, 3,65 miliardi, oltre il 40 per cento in meno rispetto al 2011, anno che precede gli interventi della Procura. Insomma, benché goda della speciale rete di protezione messa a disposizione dai governi Monti e Letta (che nell’ultimo biennio hanno approvato ben tre decreti legge ad hoc e cospicue risorse economiche per interventi emergenziali, a cominciare dai 336 milioni di euro resi disponibili fin dall’agosto 2012) l’Ilva è inchiodata. Si deve procedere alla sua ricapitalizzazione. «All’Ilva servono 3 miliardi», dichiara Bondi al vertice ministeriale del 9 gennaio scorso. E la legge sull’emergenza ambientale, la cosiddetta “Terra dei fuochi-Ilva” in corso di definitiva approvazione in Senato, dovrebbe servire a procurarli. Come? In parte utilizzando il miliardo e rotti di euro sequestrati ai Riva dal procuratore di Milano (e attualmente anche consulente di Palazzo Chigi) Francesco Greco. In parte provando a convincere banche e investitori a entrare nella partita Ilva. E veniamo al “disastro ambientale” di cui sono accusati imprenditori, manager, funzionari pubblici, che hanno gestito l’Ilva negli ultimi 15 anni. Prima, però, facciamo un bel passo indietro. Il 13 aprile 1972, in un elzeviro di pagina 3 sul Corriere della Sera, Antonio Cederna, fondatore di Italia Nostra, descrive così la Taranto dell’Ilva-Italsider a gestione statale: «Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio. Mille camion al giorno scaricano a mare il materiale sbancato a monte e i velenosi residui degli altiforni: un’enorme distesa di mare è già colmata e i lavori procedono senza tregua». Cederna annota sgomento: «Un’impresa industriale a partecipazione statale, con un investimento di quasi duemila miliardi, non ha ancora pensato alle elementari opere di difesa contro l’inquinamento e non ha nemmeno piantato un albero a difesa dei poveri abitanti dei quartieri popolari sottovento». Il riferimento è al quartiere Tamburi, quello che nel 2013 è stato segnalato per l’alta incidenza di tumori. A distanza di oltre quarant’anni, 3 febbraio 2014, è Adriano Sofri a raccontare la visita e il ritorno da Taranto con animo «desolato». La magnifica penna di Repubblica non si lascia tentare dagli sforzi compiuti da ben due governi, dalle istituzioni locali e dalla stessa Corte costituzionale che il 9 aprile 2013 aveva richiamato la necessità di contemperare le esigenze del lavoro, della salute e del rispetto dell’ambiente, spettando al governo e alla pubblica amministrazione, non alla magistratura, dettare indirizzi e scelte in questi ambiti. Si ha l’impressione che per giustizia Sofri intenda questo: «Poi, nella notte fra l’11 e il 12 gennaio i custodi giudiziari hanno compiuto un’ispezione a sorpresa senza preavviso nell’Ilva e hanno trovato gli impianti (quelli che dovrebbero funzionare a ritmo ridotto) “tirati al massimo”. Anomale accensioni delle torce dell’acciaieria…» e via di altre illegalità. Bene. Dai primi anni Settanta, quando Cederna descriveva lo sversamento e inquinamento a cielo aperto dell’Ilva statale, pare che non sia successo niente. Poi, dai primi mesi del 2012, per la procura, i suoi periti e, a seguire, ambientalisti e dipietristi 2.0, l’Ilva diventa “il mostro di Taranto”. E i Riva – che pure hanno documentato investimenti a Taranto per 3 miliardi in tecnologia e 1,5 miliardi per l’ambiente – gli emblemi di un capitalismo selvaggio, feroce sfruttatore dei lavoratori, dell’ambiente e della salute. In effetti, sussurrano i collaboratori degli (ex) patron dell’Ilva, i Riva hanno commesso due gravi errori. Primo: sono scesi a Taranto col piglio bauscia del “sciur parun” del Nord. Secondo: il 17 febbraio 2012 non si sono presentati all’incidente probatorio dove avrebbero potuto giocarsi una sentenza del Tar di Lecce che aveva dato loro ragione in tema di emissioni di diossina. Detto ciò, sembra veramente arduo che l’accusa riesca a dimostrare in sede processuale che «in 13 anni» (13 anni? E i precedenti 50?) l’Ilva dei Riva è stata l’unica ed esclusiva responsabile di “disastro ambientale”. Tanto più che, oltre alla siderurgia, il sito industriale di Taranto comprende una grande raffineria, una grande centrale elettrica, un grande cementificio, un grande arsenale militare pieno di amianto. Non solo. A complicare le cose a quelli che vedono nei Riva il diavolo e nell’Ilva l’inferno, c’è un particolare rivelato da Corrado Clini, ex ministro dell’Ambiente del governo Monti che conosce ogni piega del caso e se ne è occupato personalmente fino al passaggio di testimone al suo omologo ministro Orlando del governo Letta. Dice Clini: «Il 4 agosto 2011 è stata data l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) per Ilva di Taranto, dopo un’istruttoria di 5 anni, con 462 prescrizioni. 5 anni è un tempo superiore 10 volte a quanto prevede la legge. E le 462 prescrizioni erano in gran parte in contraddizione tra loro e non applicabili, perché espressione di un compromesso “politico” tra la resistenza dell’impresa ad assumere impegni in linea con le migliori tecnologie disponibili e le istanze della Regione e degli enti locali in gran parte non sostenibili sul piano della fattibilità tecnica e giuridica. Ilva ricorre al Tar contro gran parte delle prescrizioni, ritenute in contrasto tra di loro e nei confronti delle norme vigenti. Il Tar riconosce la fondatezza del ricorso di Ilva e disapplica una parte rilevante delle prescrizioni. Nello stesso tempo, con valutazioni opposte a quelle del Tar, la procura della Repubblica di Taranto rileva che l’Aia non è adeguata per risolvere le molte problematiche ambientali e per la salute causate dallo stabilimento Ilva». Giusi Fasano, giornalista del Corriere della Sera, è a Taranto nei giorni dei sequestri e arresti che mettono a rischio quasi 12 mila posti di lavoro. Il 17 agosto 2012 l’inviato del Corriere segue il vertice che si svolge in città tra le istituzioni e le parti coinvolte nella crisi delle acciaierie. Il governo Monti è presente con due carichi da novanta, il ministro dell’Ambiente Corrado Clini e il ministro per lo Sviluppo economico e le infrastrutture Corrado Passera. Manca qualcuno? Sì. Manca il procuratore capo Franco Sebastio che pure è l’artefice, diciamo così, di tutto il can can. Giusi Fasano ha il suo cellulare, chiama, lasciamoli chiacchierare. «Sebastio risponde da Soverato, Calabria, “dove vengo in vacanza da 35 anni”, dice. Ma come? È a tre ore di distanza, arrivano i ministri a Taranto perché una sua inchiesta ha fatto dell’Ilva un caso nazionale e lei non torna nemmeno per una stretta di mano? “L’ho detto anche a loro in una telefonata, cordialissima: vedrete che non mancherà l’occasione”. Più che una promessa sembra una minaccia. “Non mancherà occasione nel senso che c’è sempre tempo per farlo. Presentarmi nell’incontro di venerdì non mi è sembrato opportuno. Lì c’era spazio per politici, amministratori, sindacalisti… che c’entrava un magistrato?”». Ecco, bisogna aggiungere altro? Sì, bisogna aggiungere che alla fine del 2012 il procuratore Sebastio metterà in un libro-intervista le sue riflessioni. «Quando arriva a Taranto con la toga sulle spalle? “Vengo trasferito nella mia città sempre da pretore nel ’76”. Che situazione trova? “Una situazione non certo facile. L’emergenza ambientale c’era tutta, ma non era agevole rendersene conto e, soprattutto, documentarla”. Ostacoli? “Diciamo che non mancavano ostacoli oggettivi”. In che senso? “Beh, in generale l’inquinamento ambientale non sempre provoca danni immediati. In alcuni casi, come per l’amianto, occorre aspettare anche decenni per rilevare le conseguenze sulla salute delle persone. E poi non c’era una sensibilità diffusa sulla qualità del lavoro e la tutela dell’ambiente. Naturalmente, anche la Giustizia soffriva della stessa miopia”». (Il mio Salento, la mia Puglia, dicembre 2012, edizione Affari Italiani). Dunque, alla fine del 2012 apprendiamo dal pm accusatore degli ultimi quindici anni di Ilva che dei 40 anni precedenti in cui lo stesso pm era a Taranto c’è ben poco da ricordare. Eppure, già all’inizio degli anni Settanta Antonio Cederna scriveva quel che scriveva sulla Iri-Italsider-Ilva di Stato. Ma certo, sono anni in cui «ostacoli oggettivi» non consentivano interventi come quelli odierni. E dal 1982 al 2012? Sempre in prima linea. Però «diciamo che la società civile non era consapevole del problema». La società civile? Ascoltiamo in proposito l’ex ministro Corrado Clini. «Nel marzo 2012, per superare le contraddizioni ed uscire dalla situazione di stallo che si era venuta a creare, sulla base di gran parte delle valutazioni della procura della Repubblica di Taranto ho disposto la revisione dell’Aia. Contestualmente al riesame dell’Aia, ho avviato una ricognizione sullo stato dell’ambiente nel territorio di Taranto. È stato messo in evidenza che molte iniziative strategiche per il risanamento ambientale di Taranto, programmate e finanziate a partire dalla fine degli anni ’90, non erano state avviate o completate. E straordinariamente, nessuno aveva avuto nulla da ridire. In particolare. Primo, il piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia di Taranto, finanziato nel 1998 con 50 milioni euro, era stato in gran parte disatteso. Secondo, le risorse destinate al risanamento ambientale del Mar Piccolo nel 2005 (26 milioni euro) erano state successivamente destinate ad altri interventi nella regione Puglia. Terzo, le risorse stanziate per il risanamento del quartiere Tamburi di Taranto (49,4 milioni di euro) il 3 luglio 2007 erano state successivamente destinate ad altri progetti». E adesso occhio alle date. Clini spiega: «Il 26 ottobre 2012, dopo una procedura di sei mesi ho rilasciato la nuova Aia, con la prescrizione dell’adeguamento degli impianti agli standard europei più severi e avanzati e che impone  investimenti per 3 miliardi di euro». È un’Aia draconiana. Impone all’Ilva standard che in Europa si devono adottare entro il 2016 (mentre i tedeschi hanno ottenuto un posticipo al 2018). L’Ilva deve adottarli entro il 2014. I primi due interventi prevedono la copertura di 65 ettari – l’equivalente di circa settanta campi di calcio di serie A – di parchi minerali. Il secondo, l’intubamento di novanta chilometri di nastri trasportatori. «Il 15 novembre 2012 – spiega Clini – Ilva accetta  le prescrizioni e presenta il piano degli interventi per dare attuazione alla nuova Aia. Nello stesso tempo Ilva ritira tutti i contenziosi aperti nel 2011 e 2012 dall’azienda contro l’Amministrazione. Insomma, Ilva aveva finalmente deciso di allinearsi alle direttive europee, voltando pagina». Con la retata del 26 novembre, naturalmente tutto cambia. Si era creata una via d’uscita rispettosa di tutte le esigenze (salute, lavoro, ambiente) al dramma di Taranto. Ma “la legge è legge”. Stessa storia accade il 24 maggio 2013, dopo la sentenza del 9 aprile con cui la Corte Costituzionale aveva sbloccato i sequestri e confermato la legittimità del “salva Ilva” di Monti. Il gip di Taranto passa a sequestrare l’intero patrimonio dei Riva. È la mazzata finale. Vero che alla procura di Taranto non basterà il bel servizio di Report del 18 novembre scorso, completamente allineato con le tesi della Procura degli 8,1 miliardi sequestrati perché questa, dicono i periti del gip, «è la cifra da noi stimata delle risorse sottratte dai Riva al risanamento ambientale Ilva». Vero che, 7 mesi dopo il teorema della procura e dell’affetto sostenitore di Report, arriverà la sentenza della Cassazione che disintegra l’ordinanza del gip di Taranto e ordina la restituzione degli 8,1 miliardi di patrimonio sequestrati ai Riva. Ma ormai il danno è fatto, l’Ilva è a pezzi, l’aria che tira a Taranto è di scontro permanente, insormontabile. E il governo Letta che fa? Invece di affrontare di petto l’incredibile anomalia di una procura che ha sbagliato pesantemente e che è stata due volte sonoramente stroncata nei suoi atti dagli stessi vertici del potere togato (Corte costituzionale e Suprema corte), ecco, invece di affrontare due magistrati, il governo batte in ritirata e si inventa una legge di “commissariamento straordinario”. Il resto è storia di questi giorni. Le acciaierie di Taranto sono tornate sotto amministrazione parastatale. E forse, chissà, invece che Ilva domani si chiameranno Iri.

La saggezza di un Capo magistrato: «I pm non sono padreterni. Devono servire il cittadino», scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Giovandomenico Lepore, l’ex numero uno della procura di Napoli, la più grande d’Italia, si confessa a Tempi. Separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, poco garantismo o troppo garantismo. Per una volta non parliamo dei problemi della giustizia. Per una volta parliamo di un magistrato “vecchio stampo”. Che poi significa semplicemente funzionario dello Stato, piuttosto che vincitore di concorso che si dà arie di primo ballerino alla Scala. Bene, coadiuvato dal giornalista Nico Pirozzi, l’ex capo procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore (foto a fianco) ha scritto un libro apolide rispetto alle correnti dell’Anm e controcorrente sul mestiere più delicato e terribile. Un libro di bilanci e di vicende giudiziarie narrate con precisione, gustosi aneddoti e statistiche. Un libro che per il fatto stesso di suggerire saggezza e ironia fin dal titolo pirandelliano – Chiamatela pure giustizia (se vi pare), Edizioni Cento Autori –, il rifiuto di sedurre il lettore con la sgamata tecnica dell’“indignazione”, rappresenta un buon viatico all’azione, non giudiziaria ma educativa e culturale, di contrasto alla proliferazione di cervelli all’ammasso che da un ventennio hanno messo in capo alla magistratura il vasto programma di creazione di un Mondo Nuovo. Giovandomenico Lepore, 78 anni, sposato, napoletano, uomo del buon umore e della lingua del popolo, cinquant’anni di vita trascorsi in magistratura. Dopo essere stato pretore, pm, aggiunto, sostituto, presidente della procura generale, ha diretto per sette anni (2004-2011) la procura di Napoli, la più grande e tormentata d’Italia. Il Csm lo scelse all’unanimità come capo degli uffici requirenti (per una volta trovando l’accordo il correntismo politico di destra e di sinistra), «perché alla procura generale stavo troppo tranquillo e sereno». Mentre occorreva che qualcuno di forte e autorevole mettesse fine allo scontro che, un po’ come succede oggi a Milano, spaccava la procura partenopea all’epoca della gestione di Agostino Cordova. Fu così che Lepore venne incardinato al vertice e in breve riportò ordine (e perfino una certa armonia) tra i centosedici pubblici ministeri della città delle emergenze per antonomasia. «Non ho fatto niente di particolare se non tenere la porta aperta, ascoltare, dialogare, assumere le mie responsabilità, decidere. E all’occorrenza anche correggere certe storture». È stato il regista di alcune delle inchieste più rumorose della Seconda Repubblica (le cosiddette Calciopoli, P4, escort a Palazzo Grazioli, emergenza rifiuti, bonifiche fantasma, mega truffe sulle invalidità civili, appalti al Comune) e ha stroncato il clan dei Casalesi. Cioè quel pezzo di potente camorra con a capo Michele Zagaria «che le forze dell’ordine mi arrestarono proprio qualche giorno prima di andare in pensione, fu per me un regalo quasi più bello della buonuscita». Tempi ha incontrato Lepore a Milano, tra una conferenza e l’altra organizzate nell’ambito dei corsi (obbligatori, legge del governo Monti) di aggiornamento professionale per i giornalisti. Conversazione all’Ata Hotel e aperitivo al bar dei cinesi.

Nei confronti dei magistrati di Prima Repubblica emerge talvolta, da parte dei colleghi della Seconda, l’accusa più o meno velata di “collusione col potere”. Certa attuale magistratura è così consapevole del potere e della centralità che ha assunto in un ventennio di scandali, che a quei pochi che eventualmente contestano loro certi metodi (tipo l’uso disinvolto della carcerazione preventiva), essi rispondono che «la legge è la legge». Il che sarebbe un’ovvietà se, di fatto, non fosse uno scaricare la coscienza personale dall’orizzonte del proprio operare. Che ne pensa?

«Penso che la legge vada sempre interpretata con buon senso e equilibrio. Lo lasci dire a uno che è stato per cinquant’anni al penale, tranne nei due anni che ho fatto il pretore a Genova, quando il pretore era un magistrato magnifico, stava nei piccoli centri ma era a contatto con la gente e, se era di buon senso, risolveva i problemi veramente secondo giustizia. Queste sono anche le finalità per cui ho scritto il libro. Proprio per dare indicazioni ai colleghi giovani. Infatti, durante i miei sette anni da capo procuratore a Napoli, mi sono accorto che arrivano in Procura giovani magistrati – magari hanno appena vinto il concorso – e ognuno di loro che va a ricoprire l’ufficio di pubblico ministero si crede un Padreterno, si crede al di sopra delle parti, e non si rende conto che invece è solo un servitore del cittadino. Perciò quando sento dire: “Ma io sono un magistrato!”, con quel tono sopracciglioso di chissà chi, a me scappa da ridere. Un magistrato? Beh, io non lo so fare, ma bisognerebbe fargli un bel pernacchio. Ma è così, sono duecento anni che in Italia la giustizia non funziona, rassegniamoci, non funzionerà per altri duecento…»

Eppure c’è una parte di magistratura che è convinta di avere una missione salvifica nella società…

«Guardi, io capisco che con la velocità dei nuovi mezzi di comunicazione e qualche ansia di protagonismo – la televisione, i titoli sui giornali, la gente che vuole “giustizia” – ci si esponga e si creda di rendere un buon servigio alla società. Il magistrato risponde alla legge. È vero. Ma risponde tanto meglio quanto più serve lo spirito e le finalità della legge: servire lo Stato e prima ancora i cittadini. Dunque, per essere dei buoni magistrati non occorre protagonismo per poi magari un giorno, sull’onda della notorietà, procacciarsi un posticino in politica. È anche a questo riguardo che la riforma del 2006 diede funzioni ordinatrice e coordinatrice al capo dell’ufficio. I pubblici ministeri non possono pretendere di godere della stessa indipendenza e autonomia del giudice. Sono parti e quindi devono in qualche modo rispondere al capo ufficio. Capisco le resistenze, ciascuno ha la propria testa ed è giusto che la utilizzi. Però il capo ha la responsabilità degli uffici e io non mi sono mai tirato indietro dal ricordarlo ai miei colleghi. Quando stralciai l’inchiesta su Bertolaso e due prefetti perché ritenevo che non vi fossero elementi che giustificassero provvedimenti restrittivi, l’ho fatto e non me ne sarei pentito, anche se poi li avessero condannati. Grazie a Dio ho avuto ragione, perché tutte e tre le posizioni vennero poi assolte. Per questo è di fondamentale importanza la valutazione attenta dei candidati prima di nominare i capi degli uffici requirenti. È il vertice dell’ufficio che dà l’impronta, in un verso o nell’altro, negativamente o positivamente, all’azione della procura».

Lei ci sta dicendo che la magistratura è l’ultimo posto in Italia dove si fa politica?

«Purtroppo non abbiamo ancora trovato un sistema che prescinda dalle correnti. Però, secondo la mia modesta opinione, il Csm dovrebbe essere composto solo da togati. Che ci stanno a fare i cosiddetti “membri laici”, spesso reduci o trombati della politica?»

Non mi riferivo ai politici in Csm, mi riferivo proprio al fatto che gli incarichi, così come i capi delle procure, vengono decisi nei negoziati tra le correnti dell’Anm e con criteri lottizzatori molto simili al tanto vituperato Cencelli della politica di Prima Repubblica. O sbaglio?

«Per me il problema è solo la eventuale malafede. Le correnti sono una realtà e non ci possiamo fare niente. E poi è normale che un magistrato abbia le sue idee politiche. L’importante è che non agisca in malafede. Vede, l’ho detto anche in conferenza qui a Milano. In un certo senso anche il delinquente ha una sua buona fede. E se tu magistrato sei corretto, stai tranquillo che le disgrazie non succedono. Ma se tu sei scorretto, ricorri ai trabocchetti, sei in malafede, è chiaro che raccogli quello che hai seminato. E poi non è vero che le nomine sono sempre lottizzate. Pensi al mio caso, ma ce ne sono anche molti altri. Ripeto, secondo me non sono le idee politiche, di destra o di sinistra che siano, a ostacolare la giustizia. L’ostacolo è il magistrato che si fa trascinare dalla sua ideologia e insiste, in malafede, a farsi trascinare».

L’ex procuratore di Bari Michele Emiliano ha lasciato la procura nel 2003, è stato eletto sindaco e poi segretario regionale Pd. Adesso dice che  ritorna a fare il magistrato. Le pare possibile?

«Beh, sì, se la legge lo consente… Però, no. Dal mio punto di vista se un magistrato va in politica deve lasciare la magistratura. Come fa il cittadino ad avere fiducia? Quale garanzia di imparzialità può dare ai cittadini?»

Condivide lo zelo con cui certe procure “attenzionano” i pochi grandi asset che sono rimasti in Italia? Pensi al caso delle presunte tangenti che l’accusa era certa fossero state pagate da Finmeccanica per piazzare elicotteri italiani in India. È finito in nulla ma l’Italia ci ha perso un mercato da 75 miliardi di dollari e commesse da due-tre miliardi di euro. Non le sembra distruzione del sistema-paese, per di più in un contesto di recessione e disoccupazione di massa?

«Capisco. Una cosa sono le tangenti che rientrano in Italia come provviste al manager o al politico che ha procacciato l’affare. Un’altra è quando sui mercati dell’Est, o dell’estremo oriente, per non parlare dell’Africa, l’azienda italiana deve passare, diciamo così, dalle forche caudine di sistemi corrotti in loco. Non è certo bello a vedersi. Ma questo è il mondo. Che senso ha metter tanto zelo e indagare i rapporti tra aziende e soggetti esteri? Ripeto, mi riferisco al contesto ambientale di certi mercati, non alle eventuali bustarelle che rientrano in Italia al manager o al politico per un affare che, poniamo, l’azienda italiana ha fatto in Africa e che vanno senz’altro perseguite. Sto parlando di come il mondo funziona realisticamente in certe aree geografiche. Lei ha fatto il caso di Finmeccanica. Lì non c’è stata nessuna tangente dice il dispositivo assolutorio. Ma anche se ci fossero state provviste da parte di soggetti esteri per ottenere all’azienda italiana la possibilità di entrare in un mercato – d’accordo, non sarebbe un bel vedere e infatti non si deve proprio vedere – non capirei lo zelo investigativo. Mettetevi al posto del soggetto straniero, come pensate che prenda la nostra attività? “Sapete che c’è? La commessa che dovevo dare a voi italiani la giro al belga piuttosto che all’inglese”. Questo è il punto. Il buon magistrato deve sempre ricordare che la legge lo pone al servizio del cittadino non astrattamente, ma realisticamente e prudentemente, considerando tutti i fattori di contesto in cui è chiamato a operare. Altrimenti io cittadino posso anche pensare che qualche interesse indicibile ce l’hai pure tu. E magari non è di questo paese».

De Magistris ha fatto cadere Prodi…

«Veramente quello lo ha fatto cadere un collega che sta dalle parti di Santa Maria Capua a Vetere, se si riferisce al caso Mastella».

Al di là del caso Mastella, Luigi De Magistris, questo singolare personaggio che condannato in prima istanza e obbligato a dimettersi da sindaco di Napoli – così come tutti i politici (in primis Berlusconi) sono stati obbligati a dimettersi in ottemperanza alla legge Severino – è il solo caso di politico che ottiene una sospensiva (dal Tar della Campania) e torna sindaco. E quanti danni ha fatto, da magistrato, con i suoi flop?

«Conoscevo suo padre, era un magistrato straordinario, eccezionale, equilibrato, direi impeccabile. Adesso questo figlio, che è pure intelligente e, devo dire, assolutamente onesto, pecca un pochino di impulsività. Quanto alle sue inchieste finite in flop devo dire che il problema non è suo. Ha fatto indagini, si è appassionato al suo quadro probatorio. Insomma, ha fatto il mestiere del pubblico ministero. È vero, ha sbagliato a farsi trascinare in televisione e a farsi rappresentare come una Giovanna D’Arco che sta sulle barricate. Però, chi lo poteva o doveva fermare – se c’erano le ragioni per fermarlo – era il capo ufficio. Allora, o il capo è stato un pusillanime e non ha avuto il coraggio di fermare cose sbagliate. Oppure il capo ha condiviso l’inchiesta e un certo modo di procedere. Terzo non è dato».

Arresti cautelari. Non c’è un sistema giudiziario in Europa che come il nostro vi ricorra così disinvoltamente. Con la conseguenza che le carceri italiane sono piene di persone ancora in attesa di giudizio. Non è tortura questa?

«Guardi che sono tre le motivazioni per giustificare provvedimenti cautelari restrittivi. Tu devi provare che c’è rischio di inquinamento delle prove, di fuga e di reiterazione del reato. Il problema è che la pressione dei media e della cosiddetta “opinione pubblica” non aiutano. Vai a spiegare, poniamo nel caso di un omicidio per gelosia, con reo confesso e magari pure pentito, che ci sono tutti i presupposti per concedere la libertà provvisoria. Vai a spiegare che se non c’è pericolo di fuga e naturalmente non c’è pericolo di inquinamento delle prove essendo il reo confesso, il rischio di reiterazione è nullo, ovviamente, per la particolare fattispecie di reato (quello ha ucciso la moglie per gelosia, non è che adesso c’è il rischio che ammazzi il primo che passa). Se li immagina i titoli dei giornali? Ci vuole più coraggio a fare le cose bene che a farle strizzando l’occhio alla vox populi, o meglio, alla vox media».

Ma lei, quando i suoi sostituti chiesero l’arresto di Bertolaso e dei due prefetti, si mise di traverso.

«E perché avrei dovuto rovinare la vita a tre persone quando il quadro probatorio non mi sembrava giustificare gli arresti? Poi, come le ho detto, mi andò bene, furono tutti e tre assolti. Ma anche se fossero stati condannati io ero il capo e dovevo assumermi le mie responsabilità. Dopo di che, non vorrei sembrare un’anima bella: se ci sono elementi per giustificare un provvedimento di restrizione della libertà si deve provvedere. Bisogna anche capire, però, che un arresto cautelare non è una prova di colpevolezza, perché poi la prova si forma in dibattimento. È chiaro che, purtroppo, proprio per le ragioni del giornalismo alla velocità della luce poi succede che chi finisce agli arresti cautelari viene marchiato a vita, perde la reputazione, l’onore, il lavoro, a prescindere. Per questo bisogna ponderare con prudenza ed equilibrio ogni provvedimento di questo genere. Purtroppo l’opinione pubblica è stata abituata ad avere la certezza di colpevolezza già dall’avviso di garanzia. E questo non va bene».

Cosa pensa dello scontro in atto alla Procura di Milano tra il capo Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo?

«Il dissidio è forte. Ci penserà il Csm. Mi spiace soltanto che queste cose finiscano sui giornali. La gente cosa capisce della magistratura? E soprattutto, a che serve alla gente sapere che questo e quello stanno litigando? È tutto gossip che fa solo male alla giustizia».

Come disse una volta Luciano Violante, bisognerebbe separare le carriere dei magistrati da quelle dei giornalisti?

«Sì, bisognerebbe tagliare il cordone. Anche se io ho sempre avuto rapporti splendidi con i giornalisti. Se dicevo a uno di loro: “Guarda questa cosa che ti hanno spifferato è vera, ma non la scrivere sennò mi comprometti le indagini”, beh questi mi obbediva e non usciva niente. Poi è capitato qualcuno con l’ansia dello scoop che ha creduto di farmi fesso. Peggio per lui, l’ho messo nel libro nero e non s’è visto più. Così la pubblicazione delle intercettazioni, a mio parere non va bene. Però capisco la pressione che avete addosso voi giornalisti… Comunque è sempre una questione di persone. Con me non è potuto mai succedere. Chiaro che poi non è che puoi controllare tutti gli uffici. Come si vide con l’inchiesta Calciopoli, dove molti verbali vennero rubati e pubblicati in un vero e proprio volumetto e questo ci rovinò l’indagine».

Però, se il Csm funzionasse bene, sarebbe già una mezza riforma della giustizia, non crede?

«Credo che il Csm dovrebbe essere composto solo da magistrati. Che c’entra il cosiddetto “laico”? Il Csm svolge una funzione importantissima. Come le dicevo, l’ufficio del capo procuratore è decisivo per l’organizzazione e il coordinamento dell’attività requirente. Per questo il problema è come scegli e chi scegli ai vertici delle procure…»

Da quale corrente è stato portato all’ufficio di capo a Napoli?

«Da nessuna. Ho avuto la fortuna o la sfortuna, veda un po’ lei, di essere prescelto all’unanimità. Me ne stavo tranquillo e sereno in procura generale quando mi hanno chiesto di mettermi a disposizione per sanare un pesante conflitto che spaccava in due la procura. Non voglio parlare della situazione che trovai negli uffici, dico soltanto che grazie a un paziente lavoro di ascolto e di mediazione siamo riusciti a ricompattare la più grande procura d’Italia, con 116 procuratori. Le assicuro, non è stato uno scherzo».

Beh, i risultati insegnano…

«Ripeto, quando si devono scegliere i capi degli uffici requirenti bisogna ponderare bene le scelte. Fortunatamente io sono stato scelto sopra, sotto e oltre ogni corrente. E mi scusi se cambio argomento pensando alle correnti politiche in generale: che spettacolo è questo che non si riesce a eleggere due membri della Corte costituzionale perché, così si dice, la Corte ormai è un organismo politico? E allora aboliamola questa Corte invece di assistere a questo spettacolo indecoroso!»

In effetti Svizzera e Gran Bretagna, tanto per citare i primi due paesi che vengono in mente, non hanno la Corte costituzionale e non pare siano paesi incivili…

«Ma l’Italia ne ha bisogno, abbiamo una Costituzione che la prescrive, va interpretata, la Corte è indispensabile per dirimere i conflitti istituzionali».

Cosa pensa del moltiplicarsi delle leggi anti-corruzione, anti-riciclaggio, anti-autoriciclaggio e via discorrendo? Ormai si pensa che le leggi siano la bacchetta magica per risolvere tutto e non si risolve niente, anzi.

«È vero che il costume italiano è peggiore di altri. Però è anche vero che la corruzione c’è sempre stata. Che fai, fermi lo sviluppo perché prima dev’essere tutto pulito e moralizzato? Che fai, blocchi i cantieri perché c’è sempre qualcuno in “odore di mafia”? E poi che significa “in odore di mafia”? Che se c’è un tale, un operaio o un impiegato di una certa impresa che è legato a qualche cosca o ha la fedina penale macchiata, fermi tutto in nome della normativa antimafia? Adesso vedo che a Milano è arrivato Raffaele Cantone, un bravissimo collega, per vigilare sull’Expo. Ma che vuol dire “super magistrato”, “super procuratore”? E poi, in concreto, che vuole dire “vigilare”, che può fare? Non mi sembra che sia la via giusta quella di moltiplicare le authority e gli istituti cosiddetti “anticorruzione”. Cantone è bravissimo, per carità. Ma che può fare in concreto? Rischia di aggiungere carte a carte, burocrazia a burocrazia.  Vede, si moltiplicano gli organismi e le autorità, ma ancora non si fa abbastanza per far comprendere che il problema della corruzione è di cultura e di educazione. È qui che devi intervenire. Non puoi ridurre la giustizia a feticcio e aspettarti dalla magistratura la bacchetta magica per risolvere tutti i problemi. Il mestiere del magistrato non è quello di salvare il mondo. È quello di fare rispettare le leggi nell’interesse della giustizia, dello Stato e, prima di tutto, dei cittadini».

Chi sono le istituzioni che aiuteranno chi denuncia?

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

Equitalia, strozzini di Stato: per 2.100 euro ne vogliono 3 mila, scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Avviene tutti i giorni in gran parte delle case degli italiani. A metà mattina suona il postino «Raccomandata!», apri e ti trovi fra le mani una missiva di Equitalia, che sono sempre dolori. Si tratta delle solite multe prese magari senza nemmeno accorgersene (soste, infrazioni al traffico, eccessi di velocità etc..) o di contestazioni della Agenzia delle Entrate per rilievi formali magari di poco conto sulle dichiarazioni dei redditi. Al signor Marco Rossi (il nome è di fantasia) proprio quest'ultima è arrivata: una cartella Equitalia con una contestazione per irregolarità formali da parte della Agenzia delle Entrate su una dichiarazione dei redditi di cinque anni prima. «Ma come? Sono lavoratore dipendente, l’unica cosa che aggiungo è qualche detrazione di spese mediche e per questo invio tutto al commercialista». Marco manda la cartella di Equitalia al commercialista, che allarga le braccia: «La cifra non è enorme. Bisogna pagarla». Marco sospira: «Per lei non saranno enormi 2.114,66 euro. Ma per me sono più di un mese di stipendio. Almeno si può pagare a rate?». Con l’aiuto del commercialista è subito pronta la lettera da spedire ad Equitalia: non c’è bisogno di allegare documentazione che comprovi le difficoltà del momento per cifre così basse. E infatti Equitalia tempo un mese risponde a Marco, che apre la lettera tutto felice: «Le abbiamo accordato la ripartizione del pagamento di tale documento in n.28 rate mensili». Rateizzare - Il piano di ammortamento - scrivono - è stato «formulato secondo il criterio alla francese, che prevede rate di importo costante con quota di capitale crescente e quota interessi decrescente». Il signor Rossi non ci capisce molto: qualcosa cresce, qualcosa altro decresce. Ma vede il conto totale a fine operazione: 3.076,44 euro. Rateizzare quel debito che nemmeno capisce gli costa insomma 950 euro più che pagare subito. Sono 20 giorni di stipendio che si involano un po’ salendo un po’ scendendo «alla francese» per finire in tasca ad Equitalia. Le varie colonne dicono «quota capitale», «quota interessi di mora», «quota interessi di dilazione», «quota compensi di riscossione». Si fa due calcoli e significa che in due anni e 4 mesi il suo debito aumenta del 45,2%. Se va da uno strozzino dal cuore buono finisce che per una cifra così i prestito riesce perfino a risparmiare rispetto a quanto gli chiede il fisco italiano. Equitalia vuole il 32,58% in interessi di mora, poi il 4% di interessi di dilazione e l’8,6% di compensi di riscossione. Avranno ragione? Naturalmente hanno ragione: sono le leggi e i regolamenti che prevedono questo lievitare del debito dei contribuenti. Ogni governo di questi ultimi anni ha fatto finta di addolcire la pillola, si è sgolato parlando di «fisco amico», di «sportello amico», di una Equitalia dal volto umano, magari ha anche allargato e allungato le possibilità di rateizzare il debito per cifre via via più consistenti e perfino in tempi più lunghi, per venire incontro alle difficoltà che la crisi economica crea nel bilancio familiare o aziendale di milioni di contribuenti. Ma al ruolo vocazionale di strozzinaggio lo Stato non ha mai rinunciato, in nessuno dei volti in cui si presenta. Tassi di interesse - Il primo gennaio 2014 scorso sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è stato pubblicato il nuovo tasso di interesse legale stabilito dal governo italiano: è l’uno per cento. Il contribuente non si deve attendere di più quando presta soldi o li dà in custodia a Stato o privati secondo le leggi vigenti. Ma se il percorso è quello contrario: è lo Stato che li deposita da te (ad esempio facendoti rateizzare il tuo debito con lui), quella regola non vale più, e sono dolori per il cittadino. Oltretutto non c’è solo Equitalia: quel debito potrebbe essere con l’ufficio tributi di un comune, o con un ufficio giudiziario, o con un altro ente pubblico. E ognuno applica il tasso che vuole. Ad esempio gli interessi sulle dilazioni sono diversissimi in ogni posto di Italia: si va da zero fino al 6 per cento. Ed è questione di fortuna: gli uffici giudiziari applicano il 4,5%. L'ufficio tributi del comune di Monza (e di pochi altri piccoli comuni) non chiede interessi (il tasso sulle dilazioni è 0%). Quello di Livorno vuole il 4,5%, quello di Perugia si accontenta dell'1% che sarebbe poi il tasso legale, quello di Pitigliano chiede il 3,5%. A Messina vogliono il 4%, a Torino il 5%, a Milano sulla tassa per i rifiuti viene applicato un interesse dilazionatorio del 2%, a Novara l'ufficio tributi chiede il 2,5%, in un posto vip come Courmayeur si accontentano dell’1,5% (a Cortina invece è 1%).

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

Le Prove. La Prova scritta.

La prova scritta è in genere un tema o una griglia di test a risposta sintetica o una prova pratica. Solitamente è svolta in 1 o più giornate differenti su materie differenti, e può essere indifferentemente un giorno un tema ed il successivo una prova pratica, o una prova a risposta sintetica ed un tema ecc. ecc. Come nella prova preselettiva al candidato vengono consegnate due buste, una con il materiale d’esame e l’altra con il cartoncino su cui indicare il proprio nome, cognome e data di nascita. Lo scritto va fatto – brutta e bella – utilizzando esclusivamente i fogli messi a disposizione, che poi il candidato inserirà nella busta grande insieme alla busta piccola (chiusa) contenente il cartoncino con le generalità. Il bando dà indicazioni sui testi che è possibile portare con sé – normalmente il dizionario di italiano ed i codici senza commenti se la prova è di tipo giuridico. Attenzione, all’ingresso i testi possono venire aperti per un controllo e, se non rispondono per qualche ragione a quanto previsto, non vengono fatti entrare. Eliminate perciò fogli di appunti, temi, schemi ecc…Evitate per quanto possibile di portare fotocopie, che possono subire la stessa sorte. Se sono proprio necessarie, portatele ben rilegate. Tenete conto che le operazioni di controllo all’ingresso possono durare a lungo, specialmente nei concorsi con grande affluenza. E’ quindi molto frequente che dall’orario di convocazione – in genere le 9 del mattino – all’ora in cui ha effettivamente inizio la prova, possono passare 2,3,4 ore. Se aggiungete a queste le ore di durata effettiva della prova, capite quanto può essere importante avere con sé qualcosa da mangiare e da bere. Solitamente non è possibile alzarsi per le prime due ore.

Domande a risposta sintetica. Si tratta di un numero limitato di domande (di solito non più di sei) che hanno, oltre alla classica opzione della risposta multipla, anche alcune righe per la risposta sintetica. E’ un tipo di prova molto comune soprattutto sulle materie giuridiche ed è un tipo di scritto abbastanza ostico. Scrivere di diritto non è facile, essere sintetici ancora meno. Il testo scritto deve essere breve (tra le dieci e le venti righe), coinciso e il più possibile chiaro. Non deve semplicemente ripetere con altri termini la risposta già scelta tra le riposte fornite dal test, ma deve aggiungere qualcosa: la motivazione della risposta già data, il contesto, casi specifici ed eccezioni, ecc. Nell’allenarsi alla prova a risposte sintetiche, è sconsigliabile tentare di imparare quelle contenute nei testi di preparazione: quasi sempre niente ritorna alla memoria al momento opportuno, mentre è utilissimo allenarsi a scrivere testi brevi, utilizzando qualunque tipo di domanda a risposta multipla.

Prova pratica. E’ una prova pratica quella ispirata alla verifica delle reali capacità operative del candidato nel ruolo specifico che gli verrà affidato. Essendo diversa da mansione a mansione è quindi qui impossibile estrapolare degli esempi (la sua applicazione va dalla multa al caso clinico). Di solito quando un concorso prevede una prova di questo tipo, le editrici specializzate inseriscono uno schema all’interno dei testi di preparazione. Il suggerimento anche qui è di utilizzare il buon senso: la prova serve a verificare quanto il candidato riesca effettivamente ad utilizzare nella pratica le nozioni che ha acquisito, quindi va benissimo imparare schemi (moduli, procedure ecc), ma questi vanno utilizzati tenendo in debito conto del quesito proposto (che come sempre va letto molto attentamente) ed anche della nozioni teoriche sottese (implicate).

Tema. Il tema è una composizione scritta abbastanza lunga ed articolata – circa 3/5 facciate di foglio protocollo - ampiamente utilizzata nelle prove di concorso. Nei concorsi per diplomati, è più spesso di cultura generale, storia, italiano; si tratta quindi di uno scritto del tipo di quelli che si fanno alle scuole superiori. In questo caso quello che conta è che l’elaborato sia in italiano corretto e che sia chiaro e non contenga informazioni errate. Se invece il tema è di argomento giuridico la faccenda cambia. Il tema di diritto mette in difficoltà un po’ tutti, chi è laureato in materie giuridiche infatti è raramente abituato a scrivere, chi ha fatto altri percorsi di studio teme di non saper utilizzare adeguatamente il linguaggio giuridico. In tutti i casi, non c’è da perdersi d’animo: ci si riabitua a scrivere semplicemente allenandosi. Certo, specialmente chi non ha un background giuridico fa bene a seguire dei corsi, per affinare la terminologia in modo da non incorrere in errori concettuali gravi. Se chiarezza e completezza sono le carte vincenti, non vanno dimenticate la calligrafia – che deve essere il più possibile leggibile, e la lunghezza totale, che non deve essere eccessiva.

Diario di un commissario del concorso per magistrato: i trucchi per copiare, dal bagno alla nursery, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24ore”. Nelle ore immediatamente successive alla prova scritta per un posto da magistrato, uno dei 29 commissari, ha voluto riassumere in quattro paginette di appunti la sua esperienza al padiglione fieristico di Rho-Pero e aggiungere alcuni suggerimenti per rendere meno macchinosa, più corretta e trasparente la selezione dei togati. Ecco alcuni passi degli appunti del commissario, una probabile traccia per l'audizione davanti alla IX commissione del Csm. Durante i tre giorni delle prove scritte, a seguito di violazioni delle regole concorsuali, la commissione ha deciso diverse espulsioni, pare 70, anche se non conosco il numero esatto. Io stesso ho espulso un buon numero di candidati in poche ore. La maggior parte delle irregolarità consisteva nella detenzione di testi non consentiti. Ho sentito dire da più parti che con ogni evidenza il controllo dei codici non ha funzionato. Ma è proprio così? Per non drammatizzare inutilmente, basterebbe un semplice conteggio: ogni concorrente si presenta alla prova scritta con almeno 5 "pezzi" tra codici, raccolte di leggi, stampe da Internet ecc. Moltiplicando questa cifra (ottimistica) per 5.600 partecipanti, risulta che noi commissari abbiamo controllato non meno di 28mila testi. Se solo 2 su 1.000 sono sfuggiti al controllo – frazione senz'altro fisiologica se non virtuosa – possiamo concludere che una sessantina di casi sono apparentemente tanti, ma sono invece relativamente pochi. Esistono molte edizioni dei codici, quasi tutte volutamente ai limiti dell'ammissibilità e spesso con tanto di scritta in copertina che rassicura l'acquirente sul fatto che potrà usarlo durante la prova scritta. Ed è così: l'irregolarità non è per niente scontata e dipende dall'interpretazione della norma che esclude i testi con "note, commenti, annotazioni anche a mano". E allora perché tante edizioni border line? Alcuni di questi tomi sfruttano l'indice analitico che arriva così a occupare centinaia di pagine ed è talmente strutturato da poter fungere da tracce di elaborati; altri volumi recano abbondanza di richiami che non possono essere vietati perché riportati da tutte le edizioni, "Gazzetta Ufficiale" compresa. I candidati sono suddivisi per lettera in tante file e consegnano i testi ad altrettanti desk con un commissario che decide i casi dubbi. È ovvio che per evitare disparità di giudizi che finiscano in difformità sui criteri di sequestro, la soglia di ammissibilità è tenuta bassa. Anche perché, spesso si tratta di codici costosi, non pacificamente inammissibili, magari curati da colleghi magistrati, spesso recanti scritte rassicuranti e persino timbri di concorsi precedenti. Soprattutto, sequestrare i codici a Rho-Pero in prossimità della prova, significa di fatto lasciare il candidato senza testi da consultare perché, data la distanza dalla città, non è possibile andare in una libreria a Milano e tornare in tempo per l'esame. Oltre alle edizioni border line, è sempre più frequente che i candidati si presentino con pacchi di stampe dal computer: formati ammissibili, ma di difficile controllo. Ci sono poi i testi annotati a mano, non vietati automaticamente ma da valutare nel loro contenuto. Ci sono candidati disposti, per evitare il sequestro, a strappare o sigillare le parti vietate e rendere così utilizzabile un codice (sulla cui copertina resterà comunque scritto "commentato", cioè di fatto vietato). E va considerato che la legge di fatto incoraggia i tentativi di introdurre materiale illegale perché in sede di controllo pre-esame consente solo l'esclusione del testo e non anche del candidato: insomma, abbiamo dovuto vedere in aula candidati che il giorno prima avevano cercato di introdurre un vocabolario di italiano farcito con temi di diritto. È stato escluso il tomo, ma non il suo detentore. A parte i difficoltosi controlli dei giorni precedenti, anche il giorno della prova il materiale irregolare entra facilmente: la polizia penitenziaria esegue una perquisizione "leggera" all'ingresso, ma le piccole fotocopie nascoste sotto gli abiti ovviamente passano. I servizi igienici sono usati sia per scambiarsi parole veloci durante le code per entrare, sia per passare il materiale da una inaccessibile fodera a una comoda tasca. Da qui il divieto di andare al bagno prima di una certa ora, cui vengono opposte continue affermazioni di gravi problemi fisici, difficili da contestare in assenza di un commissario-medico. Ecco il motivo delle numerose deroghe al divieto, pur accompagnate da precauzioni aggiuntive come le perquisizioni prima e dopo, a meno che il candidato non accetti di lasciare la porta del bagno aperta, vigilato da un agente dello stesso sesso. Altro luogo "tentatore" è la nursery cui hanno diritto le candidate con infante da allattare. Ovviamente il bimbo è accudito da un parente, magari adatto a consultazioni o che si presta a "importare" materiale proibito.

Questo succede durante le prove scritte. Nessuno sa quello che succede dopo. La verità si scopre attraverso i ricorsi al Tar.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

Medicina, storia del concorso delle polemiche. "Test copiati, quiz rimossi e compiti modificati". L'esame per l'accesso alle scuole di specializzazione dello scorso novembre 2014 doveva eliminare il problema dei baronati. Ma dopo le polemiche sulle domande sbagliate, l'Espresso ha visionato il ricorso presentato dai candidati al Tar. E dentro viene denunciato davvero di tutto, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Doveva essere il concorso del merito, della trasparenza, dei parametri standard di valutazione, immune finalmente da localismi e al riparo dalle grinfie dei baroni. Tutti i candidati, dal Friuli alla Sicilia, davanti a un pc, niente carta e penna, un salvataggio a fine prova, un meccanismo di correzione costruito per essere impermeabile a qualunque ipotetico sospetto di violazione dell'anonimato. A distanza di tre mesi, invece, la lista completa di verbali, atti e documenti relativi al primo concorso pubblico per l'accesso alle specializzazioni di medicina gestito a livello nazionale con graduatoria unica svela il tracollo di premesse e promesse. Un tradimento che ha già portato tanti giovani medici ad abbandonare l'Italia, ancor prima di attendere le decisioni della giustizia amministrativa sommersa dai ricorsi. Punteggi sbagliati, pc in rete. Sedi non idonee, controlli non omogenei delle singole commissioni, router nascosti nei cappotti e pc collegati in rete durante le prove in alcuni atenei, foto che mostrano chiaramente come in certe aule i candidati fossero seduti a distanza ravvicinata tanto da costringere il Miur a sferzare le commissioni con una circolare dopo il primo giorno di test. E ancora singole aule in cui tutti i candidati hanno totalizzato punteggi stellari e perfettamente combacianti, centinaia di black out e guasti ai computer che hanno consentito ai più fortunati di veder raddoppiato il tempo a disposizione per rispondere alle domande, "bachi" nel sistema informatico, punteggi affissi in graduatoria diversi da quelli visualizzati dai candidati al termine delle prove e ricorretti in fretta e furia solo grazie all'attenzione e alle proteste degli interessati. Computer così vicini da permettere di copiare. A suggello di tutto le mani non meglio identificate di chi, denunciano gli avvocati dei ricorrenti, ha potuto incredibilmente entrare nelle prove di tutti i candidati modificandole dall'interno in violazione dello stesso principio che il nuovo concorso era nato per salvaguardare: proprio quello dell'anonimato. Tutto questo viene oggi ad aggiungersi a quanto di clamoroso emerse a inizio novembre, a concorso appena finito: il pasticcio dell'inversione dei quesiti di due differenti aree del test (quella medica e quella dei servizi clinici) da parte del consorzio Cineca incaricato di preparare le prove, il ministero dell'Università e della Ricerca che prima annuncia la scelta di annullare quelle oggetto dell'errore poi, dopo due giorni, fa marcia indietro e sentito il parere dell'Avvocatura sceglie di abbonare quattro domande (in seguito diventate sei) a tutti i candidati, dando loro il massimo punteggio a prescindere dalla maggiore o minore correttezza delle risposte fornite.
Uno scandalo già rimosso. Un caso dai contorni surreali, l'ultimo pugno nello stomaco di una generazione di aspiranti camici con la valigia in mano, archiviato dai media e dal dibattito politico con molta più fretta di quanto ci si sarebbe potuti aspettare nell'Italia che insegue la svolta all'insegna della gioventù e della meritocrazia. L'Espresso ha potuto visionare in anteprima questa galleria di irregolarità e superficialità, alla vigilia dell'udienza del 12 febbraio davanti al Tar del Lazio chiamato a prendere in esame parte dei ricorsi presentati per l'annullamento delle graduatorie. Una lista contenuta nella lunga memoria depositata lo scorso 26 gennaio dall'avvocato Michele Bonetti, il legale che tra l'estate e l'autunno dello scorso anno ha già ottenuto l'ammissione con riserva ai corsi di laurea delle facoltà di medicina di tutta Italia di 5.000 studenti respinti ai test d'ingresso e che, insieme al collega Santi Delia, ha curato anche i ricorsi degli aspiranti specializzandi. Insomma un elenco fornito da una parte con precisi e concreti interessi nella partita, ma puntellato da un corposo dossier di carte ufficiali finito all'attenzione della magistratura in sede penale. Aule inidonee, punteggi stellari. Il primo cardine su cui doveva poggiare il nuovo concorso, ovvero l'omogeneità della selezione a livello nazionale, ha retto a stento davanti alle carenze organizzative di alcune aule. L'articolo 2 comma 4 del bando disponeva che almeno 20 giorni prima della prova di esame il Miur dovesse comunicare sedi e orario di svolgimento. Le aule però sarebbero state reperite solo qualche giorno prima dei test, non solo nelle università ma anche in centri di formazione professionale e istituti privati. Come emerge da alcuni verbali e dalle foto pervenute al sito de "l'Espresso", in alcune di esse i candidati erano talmente vicini da consentire a tutti di poter leggere tranquillamente dallo schermo del collega. Un monitor che, a differenza dei classici fogli A4 contenenti 4 o 5 domande, proiettava a visione intera un solo quesito alla volta con la relativa risposta del candidato. Più piccole erano le aule, riporta l'avvocato Bonetti nella sua memoria, più palese è stato il numero di concorrenti con punteggi identici. Come a Catania, dove nell'aula 10 - durante l'ultimo giorno di prova - su 12 partecipanti concorrenti per Anestesia, in 10 hanno avuto l'identico alto punteggio di 17,4 su 20. O a Bari, dove il 31 ottobre durante la prova dell'area dei servizi di fatto non di competenza dei candidati (perché si scoprirà che le domande erano state invertite con quelle di area medica) in un'aula 12 candidati su 14 ottengono lo stesso score: di nuovo 17,4 su 20. A Milano i candidati chiedono che sia messo a verbale che i pc sono troppo vicini e corrono voci di "copiature frequenti e uso di cellulari presso altre sedi". A Trieste è addirittura la stessa commissione ad alzare bandiera bianca: "Risulta materialmente impossibile", recita il verbale del 30 ottobre per l'aula F, "collocare tutti i candidati in modo alternato, si decide di far prendere posto ai candidati seduti necessariamente vicini nelle posizioni di massima visibilità". Black out, web libero e bug informatici. Sono centinaia i casi a verbale di black out energetici in diverse sedi di concorso. In alcune i candidati, dopo aver letto le domande e addirittura aver terminato la prova, hanno potuto ripeterla visto che i pc si spegnevano o non rispondevano ai comandi. Aule intere hanno subito la sospensione dell'energia dopo che erano state lette le domande della prova. Durante le operazioni di ripristino, a Chieti, i candidati hanno addirittura potuto riprendere i propri cellulari collegati in rete. In altre sedi, come risulta a verbale, i pc erano invece collegati via cavo alla rete LAN o avevano accesso alla rete wi-fi consentendo la navigazione sul web attraverso router portatili lasciati dai candidati nei cappotti. Uno di questi casi è documentato a Napoli, presso l'università Suor Orsola Benincasa. Alla Seconda Università di Napoli, il 31 ottobre, dopo 16 episodi di malfunzionamento dei pc la prova viene interrotta e fatta ripetere ai candidati. A Ferrara addirittura salta un'intera fila di computer, obbligando ormai a fine prova a far rifare il test a tutti i candidati della fila. Tragicomici, poi, alcuni degli episodi segnalati sempre a verbale: come a Padova, dove durante la prova un candidato - ricontrollando i test - si rende conto a un certo punto che in alcuni casi le risposte da lui date risultano modificate. Colpa di un bug informatico che fa sì che il concorrente, anche semplicemente muovendo il mouse sulla parte bianca dello schermo, intervenga sull'opzione appena spuntata senza rendersene conto. Un'anomalia denunciata anche a La Sapienza. Centinaia anche le segnalazioni di aspiranti specializzandi che hanno trovato un punteggio affisso diverso da quello visualizzato dopo la prova e regolarmente salvato. Come a Genova, dove lo score di una candidata era stato prima salvato come 34,1 e poi - il giorno dopo - riverificato essere 33,8. Se l'interessata non avesse chiesto di eseguire un controllo, essendo convinta del suo risultato iniziale, l'accaduto non avrebbe mai potuto essere ricostruito. Pipì nel cestino. Anche nella severità con cui le commissioni hanno fatto rispettare i regolamenti emergono forti discrepanze. Nonostante il bando del 4 agosto 2014 specifichi chiaramente che "il Ministero definisce ogni elenco d'aula avendo cura di distribuire i candidati secondo l'ordine anagrafico", in alcune sedi è stato concesso agli aspiranti specializzandi di scegliere liberamente il posto. In un verbale dell'ateneo di Udine viene riferito candidamente che "ciascun candidato si colloca a sua scelta in una delle postazioni disponibili". A Palermo la commissione controbatte addirittura a un candidato che, bando alla mano, chiedeva il rispetto dell'ordine alfabetico. D'altro canto persino il video esplicativo sulla procedura di accesso alle aule del Miur, disponibile sul sito , indicava la possibilità di scegliere liberamente dove sedersi in piena contraddizione con il bando. Il video è stato poi successivamente modificato a concorso concluso. Il rigore in ordine sparso delle varie commissioni ha riguardato anche la possibilità di andare in bagno: a Pisa e Pavia è stato consentito, a Firenze invece un candidato è stato costretto a urinare nel cestino della carta. Le domande abbonate: nuovi interrogativi. Non è la prima volta che il consorzio interuniversitario Cineca, incaricato di somministrare i test nei concorsi, combina errori che impattano su vite e carriere. Basti pensare al "famoso" concorso del 2012 per l'accesso ai TFA, i tirocini formativi per l'abilitazione all'insegnamento, nel quale 25 domande su 60 furono annullate. Questa volta l'anomalia è avvenuta nella fase di preparazione delle buste: le domande che avrebbero dovuto essere sottoposte ai candidati per le scuole di area medica il 28 ottobre sono state invece somministrate il 31 ottobre nella prova per l'area dei servizi clinici, e viceversa. Il primo novembre il Miur annuncia con un comunicato stampa sul sito che le prove in questione sono da ripetere. Due giorni dopo, al termine di una riunione tra il ministro Stefania Giannini e la Commissione nazionale incaricata di validare le domande dei quiz, sempre tramite nota stampa arriva il contrordine: siccome l'inversione ha riguardato solo le 30 domande comuni a ciascuna delle due aree, e non i 10 quesiti specifici per ciascuna tipologia di scuola (cardiologia, necrologia, endocrinologia etc.), l'esito dei test si può salvare "neutralizzando" le sole due domande per ciascuna area che sono state giudicate non pertinenti dalla Commissione di esperti. In pratica a tutti i candidati, a prescindere dalla maggiore o minore correttezza della risposta fornita, viene assegnato per quelle domande il massimo punteggio. Da quel momento, e dopo le dimissioni rassegnate dal presidente del Cineca Emilio Ferrari, si chiude il sipario mediatico sulla vicenda. Adesso però, dai verbali delle singole commissioni sparse per l'Italia, da quello della riunione del 3 novembre tra Miur e Commissione nazionale e da una perizia di parte del dottor Gianluca Marella (docente a Tor Vergata e consulente tecnico della procura di Roma) emergono elementi nuovi. Emerge chiaramente, ad esempio, come in diversi casi gli stessi candidati abbiano riscontrato e segnalato ai commissari l'inversione dei quiz già nel corso delle prove, che tuttavia non sono state interrotte. Nel verbale della riunione di Roma del 3 novembre, inoltre, si legge che "delle 30 domande contenute nella prova di area medica del 29 ottobre, 27 sono riconducibili ai 5 settori scientifici disciplinari comuni tra l'area medica e quella dei servizi, 1 quesito è riferibile al settore scientifico disciplinare della farmacologia". Tradotto: le domande non pertinenti all'area medica, e quindi da abbonare, in base a quanto dichiarato dalla stessa Commissione nazionale non sono due ma tre. Perché allora il quesito di farmacologia non è stato abbonato? Non solo. Nel verbale del 3 novembre la Commissione conclude che la scelta di invalidare le quattro domande di area non influisce sulla validità complessiva dei test, perché le domande più importanti - quelle relative alle scuole di specialità cui sono attribuiti il doppio dei punti - non hanno determinato problematiche. Eppure, dopo la stesura dell'atto, sulla base di un altro verbale, che conclude una riunione del 4 novembre cui prendono parte solo il presidente della medesima Commissione nazionale e un rappresentante della società Selexi, si provvederà ad abbonare altre due domande: stavolta relative proprio ad altrettante scuole di specializzazione (una di Cardiologia e un'altra di Endocrinolgia). Un totale di 6 quesiti abbonati attraverso dei semplici verbali, senza l'intervento di un apposito provvedimento ministeriale indispensabile - sostengono gli estensori dei ricorsi - per modificare un bando di concorso approvato con decreto. Prove modificate dall'interno. Alla scelta di abbonare le sei domande, accusano i legali dei ricorrenti, è seguita una procedura inedita. Invece di limitarsi ad aggiungere il punteggio delle domande in questione alla graduatoria finale, Cineca e Miur sono entrati nei singoli compiti inserendo a livello informatico i codici fiscali e hanno modificato dall'interno le risposte dei candidati, che non hanno in questo modo neanche più la certezza di quali risposte abbiano fornito, visto che le prove erano soltanto digitali. La decisione di intervenire sulle prove già svolte è avvenuta dopo che i punteggi dei singoli candidati erano già pubblici e le graduatorie già in mano al Cineca: cioè dopo che ad ogni compito era stato dato un nome. E così, tra accessi non verbalizzati nei compiti e interventi postumi sulle domande, lo scopo principale del nuovo concorso a graduatoria nazionale, quello di garantire la segretezza e la trasparenza della selezione e l'anonimato dei candidati, potrebbe essere stato compromesso. Mancano i soldi. Davanti a questo nutrito elenco di contestazioni, l'Avvocatura dello Stato ha messo le mani avanti. "Nella denegata ipotesi in cui i ricorsi relativi al contenzioso venissero accolti", recita un documento redatto dal Miur e da poco depositato davanti al Tar del Lazio, "una ammissione in sovrannumero comporterebbe ripercussioni economiche considerevoli, in quanto imporrebbe allo Stato il reperimento delle risorse finanziarie necessarie all'erogazione di ulteriori contratti di formazione specialistica". "Anche l'ammissione di un solo medico in più", prosegue minaccioso il documento, "comporterebbe l'onere di reperire risorse aggiuntive da stanziare tramite appositi provvedimenti legislativi (circa 125.000 euro in più per ogni specializzando)". Una mossa legittima, anche se i giovani ricorrenti meriterebbero forse un giudizio - decisivo per il loro futuro - capace di entrare nel merito delle irregolarità denunciate senza fermarsi davanti allo spauracchio della spesa pubblica. Dal Paese che li spinge in massa verso l'estero dopo anni di sacrifici sui libri, meriterebbero maggiore considerazione e trasparenza.

Concorsi pubblici, tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso su  “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a Roma. Le prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio  del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief:«Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

Si stava meglio quando si stava peggio? Italia, declino inevitabile: dove andremo a finire?

A leggere i giornali od a seguire i Tele Giornali o i talk show in tv cerco di carpire qualche notizia che parli di me: di me cittadino. Cerco qualcuno che parli dei miei problemi.

La pagina politica parla delle solite promesse, dei soliti sprechi e dei soliti privilegi.

La pagina della giustizia parla dei soliti morti, dei soliti arresti e delle solite condanne, oltre che della solita mafia: una rassegna dei successi di magistrati e forze dell’ordine, insomma.

La pagina degli esteri parla delle solite guerre e dei soliti cattivi da eliminare.

La pagina finanziaria parla di default, tasse e soldi per lo Stato che non bastano mai e della ovvia evasione fiscale dei soliti ricchi.

Per lo spettacolo e lo sport la solita rassegna di pettegolezzi di star e starlette senza arte né parte.

A parer dei media sembra che la vita scorra monotona lungo questi binari, salvo qualche problema che, però, a parer dei lettori e telespettatori, appare colpire solo gli altri.

Ma non è così. A spulciare nelle notizie, c’è tutta una quotidianità di cui nessuno parla: la lotta alla sopravvivenza delle famiglie italiane nella assoluta solitudine e nel generale sottaciuto abbandono.

Chi ha qualche anno di vita, (chi troppi, chi pochi) ricorda che:

prima il potere era del popolo: oggi non più, il potere è delle mafie, delle caste, delle lobbies e delle massonerie deviate;

prima c’era meno illegalità, meno obblighi, meno sanzioni e c’erano meno leggi da rispettare, specie quelle a carattere emergenziale: oggi anche un giurista insigne pecca di ignoranza giuridica;

prima nel nome della legalità c’era meno illegalità ed iniquità: oggi l’ingiustizia abbonda e gli abusi di potere strabordano;

prima c’era più rispetto e credibilità negli anziani, nei magistrati e nelle istituzioni: oggi non ci sono più esempi degni da seguire e non abbiamo stima nemmeno per noi stessi;

prima pur con tangentopoli, c’era meno ladrocinio e le mafie non avevano invaso l’Italia: oggi la corruzione e l’abuso di potere è la normalità e la mafia è dappertutto;

prima l’usuraio era l’amico: oggi non più, usuraio è lo Stato o le banche;

prima si pagava un decimo di tributi rispetto ad oggi e si otteneva 10 volte tanto in termini di servizi;

prima nella disgrazia potevi parlare con il politico che votavi ed il minimo che succedeva era che ti ascoltava ed il favore lecito, spesso, ci scappava: oggi non è più così, perché i politici sono tutti degli emeriti sconosciuti e se ti rapporti con loro disattendono il loro mandato;

prima nell’errore speravi nella coscienza delle istituzioni e tutto si aggiustava secondo equità: oggi non è più così, perché più che il principiò di legalità vale l’interesse estremo a punire, per salvaguardia finanziaria del proprio status di sanzionatore;

prima c’era più Empatia, ci si metteva nei panni dell’altro, si condividevano sentimenti, emozioni e sofferenze: oggi non più, c’è più Dispatia, ovvero l'incapacità o il rifiuto di condividere i sentimenti o le sofferenze altrui, ovvero c’è più Alessitimia, ossia il disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche che spesso rende sterile e incolore lo stile comunicativo delle persone;

prima nell’avversità c’era qualcuno che pubblicamente denunciava sui giornali la tua questione: oggi la notizia è omologata nella censura e se, al contrario, è resa pubblica, lo scandalo non produce effetti;

prima nell’avversità c’era una famiglia, spesso numerosa e con genitori pensionati, che ti sosteneva: oggi siamo soli nell’indifferenza, nell’indisponenza, nell’insofferenza e gli anziani non hanno più figli al capezzale ma solo badanti straniere;

prima si era più ricchi di affetti e di beni materiali: oggi amici non ne hai ed i parenti meglio non averli e se hai un bene materiale te lo toglie la criminalità o lo Stato;

prima nel bisogno il lavoro era tutelato e comunque si trovava, anche negli uffici di collocamento, o addirittura anche a nero o sottopagato: oggi non più assolutamente, nonostante i centri per l’impiego e le agenzie interinali;

prima a veder un clandestino era un’eccezione, oggi è la regola;

prima gli unici ad essere discriminati erano i meridionali: oggi si discrimina tutto e tutti e si uccide per questo (religione, razza, sesso, ideologia politica, tifo sportivo, gusti sessuali, ecc.);

prima si era più sinceri e diretti: oggi si è politicamente corretti, perbenisti e buonisti, ossia più demagoghi, utopistici, falsi e bugiardi;

prima nell’intraprendenza l’agricoltura, l’allevamento, la pesca, nonostante i disastri meteorologici, erano attività in cui si riusciva ad andare avanti: oggi le campagne sono abbandonate, troppi, cavilli, oneri e spese;

prima nel rischio le imprese, grandi o piccole, riuscivano a produrre reddito: oggi non più, perché sono vessate dallo Stato da controlli, oneri, cavilli e balzelli e tributi e comunque da questo Stato non tutelate dalla competitività estera, o taglieggiate dalla criminalità, o sequestrate e portate al fallimento dallo stesso Stato perché accusate di essere colluse con la criminalità, o, seppur operanti da decenni, chiuse ora perché inquinanti;

prima le professioni si potevano esercitare: oggi non più, perché hanno chiuso gli ospedali ed i tribunali ed impediscono di esercitare. Prendiamo per esempio la professione di avvocato. Hanno chiuso moltissimi tribunali. Hanno impedito la tutela legale per i sinistri stradali e le sanzioni amministrative. Settori utili per i neo professionisti. Non sono certo, però, diminuite, come promesso, le polizze assicurative. Hanno eliminato di fatto il gratuito patrocinio, con condanne inevitabili per gli indigenti, ed in generale il ricorso all’autorità giudiziaria, con il contributo unico unificato elevato. Tra Giudici onorari di Tribunale, Giudici di Pace, Conciliazione obbligatoria e Negoziazione assistita hanno eliminato quasi tutto il lavoro dei magistrati togati, impegnati come sono a fare esclusivamente politica,  ma la lentezza della giustizia è rimasta. Hanno imposto ai giovani avvocati in tempo di crisi l’iscrizione alla Cassa Forense ed imposto in tempo di vacche magre l’esercizio della professione legale in maniera continuativa e prevalente. Ecco i punti fissati dal Governo:

a) la titolarità di una partita Iva;

b) l’uso di locali e di almeno un’utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale, anche in forma collettiva (associazione professionale, società professionale, associazione di studio con altri colleghi);

c) la trattazione di almeno 5 affari per ogni anno dei 3 presi in considerazione, anche se l’incarico è stato inizialmente conferito ad altro legale;

d) la titolarità di un indirizzo Pec comunicato al Consiglio dell’ordine;

e) l’avere assolto l’obbligo di aggiornamento professionale secondo modalità e condizioni stabilite dal Cnf;

f)la stipula di una polizza assicurativa a copertura della responsabilità civile che deriva dall’esercizio della professione;

g)la corresponsione dei contributi annuali dovuti al Consiglio dell’ordine;

h) il pagamento delle quote alla Cassa di previdenza forense.

Sig. direttore, lei, meglio di me, sa che prima si poteva criticare e protestare: oggi non più perché abbiamo un bavaglio. Tra la legge sulla privacy e lo spauracchio delle norme penali sulla diffamazione tutto ciò è impedito.

Oggi non puoi nemmeno recriminare con una imprecazione: “Italia di Merda” perchè segue una condanna certa.

Allora… si stava meglio quando si stava peggio? E dove andremo a finire? E comunque, per gli italiani perché non vale la teoria sull’evoluzione migliorativa naturale della specie?

Europa, i napoletani guadagnano meno dei polacchi. E in altre zone d'Italia non va meglio. Secondo i dati più recenti dell'istituto di statistica europeo il reddito medio in provincia di Napoli è ormai inferiore a quello medio della Polonia. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Se un amico di Napoli vi confida che vuole emigrare in Polonia, non chiedetegli se è diventato matto: per come vanno le cose l'idea potrebbe quasi avere senso. Secondo i dati dell' Istituto di statistica europeo , aggiornati al 2011, il reddito medio dei napoletani è ormai inferiore a quello dei polacchi. Nei primi si ferma a 16.100 euro l'anno, mentre per i secondi è più alto di 300 euro. L'area d'Europa con il PIL più alto è invece la parte occidentale di Londra, cuore finanziario della Gran Bretagna, dove la media supera i 150mila euro. Ma in Italia c'è chi è messo ancora peggio. Nella provincia di Medio Campidano, in Sardegna, il reddito è di 11.200 euro l'anno: poco meno che in Bulgaria. Seguono Caserta e Agrigento, intorno ai 13mila e qualche centinaio di euro in più rispetto a un abitante medio della Romania. Resta forte la divisione nord-sud, anche se in quest'ultimo spicca la provincia di Catanzaro che supera i 20mila euro l'anno – fatto praticamente unico nel meridione –, mentre al centro si distingue Rieti; chi vi abita ha in media un reddito più basso di quello dei vicini. Roma è un caso a parte. Essere il centro della burocrazia italiana, con il relativo carico di retribuzioni elevate, non può che portare a risultati maggiori: un elemento che in qualche misura sposta i redditi – ma non per forza quanto poi si produce davvero – verso l'alto. Al nord invece i milanesi hanno un reddito medio di 45.600 euro, quasi il doppio della media europea. Un valore senz'altro elevato, ma forse neppure troppo per quello che dovrebbe essere il centro della borghesia produttiva italiana. Senza neppure arrivare a Londra, in cui i tanti stranieri della City finanziaria renderebbero il confronto poco sensato, basta andare in Francia o in Germania – a Monaco, Parigi o Bonn – per trovare diverse aree in cui il reddito si aggira o supera i 60-70mila euro a persona. I dati non considerano solo quanto le persone producono, ma tengono in conto anche il diverso costo della vita. Affitti più alti e beni più economici, servizi a buon mercato o meno: tutti fattori che nella vita concreta contano almeno quanto lo stipendio che riceviamo. Si tratta del modo più accurato per capire qual è il reale tenore di vita delle persone in un regione piuttosto che in un'altra. Come succede di consueto quando si calcola il PIL, è inclusa anche una stima (più o meno accurata) dell'evasione fiscale. Eppure basta tornare qualche anno indietro per capire come i problemi italiani siano tutt'altro che nuovi. La crisi non ha fatto che pesare su un sistema già affaticato – in alcune zone più che in altre. Basilicata, Puglia e Calabria, per esempio, già prima della recessione del 2008 crescevano poco – meno dell'1% l'anno. Emilia Romagna, Marche e Lazio avevano invece un ritmo più elevato, intorno al 2%. Il motore pare inceppato da tempo: già intorno al 2002-2003 in diverse regioni il reddito ha fatto un salto indietro, per poi calare a picco dal 2008. In Molise la recessione ha fatto più danni: fino al 2011 l'economia è decresciuta in media del 2,9% l'anno; meno in Campania, con una caduta dell'1,8%. Seguono Calabria (-1,7%), Sicilia e Basilicata (-1,6%). Quando gli altri cadono – magra consolazione – anche restare fermi è un segnale positivo. È il caso di Lombardia e provincia di Bolzano, dove invece le cose sono rimaste stabili oppure la diminuzione è stata minima. Guardando a come vanno le cose provincia per provincia abbiamo un quadro più dettagliato, ma anche meno recente – per il momento i dati arrivano solo al 2011. Che napoletani e siciliani abbiano recuperato qualcosa, nel frattempo? L'unico modo per farsi un'idea è guardare a come sono andati i paesi nel loro complesso. Anche così, però, l'Italia resta quella che fa peggio. Non solo l'economia non recupera quanto aveva perso dall'inizio della recessione, ma continua a cadere ancora. Nel 2012 e 2013 la crescita media è stata molto negativa: la Spagna arretra ma meno, Francia e Germania crescono – molto poco – mentre nel Regno Unito va abbastanza meglio. Nulla di impressionante, certo, eppure nel regno dei ciechi l'orbo è re. Dunque è ancora vero che i napoletani guadagnano meno dei polacchi? Una cosa è certa: negli ultimi due anni questi ultimi sono andati avanti, mentre l'Italia è tornata ancora più indietro. Non solo il divario potrebbe essere rimasto, ma ci sono buone ragioni per pensare che sia aumentato. Chi più in fretta, chi trascinando i piedi, resta il fatto che diversi paesi stanno cominciando a uscire dalla crisi. Molti, ma non l'Italia. Chissà che l'amico napoletano non abbia tutti i torti.

Disoccupazione, i numeri fanno paura. Quella verità nascosta nelle statistiche. Fermarsi a leggere solo il dato generale di chi non ha un lavoro è un errore: i numeri in nostro possesso mostrano  fenomeni meno noti, che interessano soprattutto donne e giovani. Mentre il titolo di studio sembra ancora l'unico antidoto al rimanere senza impiego. Naviga i nostri grafici interattivi, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Una manifestazione del 2011 contro la disoccupazione giovanile Quando si parla di disoccupazione la cosa più semplice è elencare il solito numero - i soliti due numeri - e fermarsi lì. Sono quelli che sono stati ripetuti negli ultimi giorni: il tasso di disoccupazione generale è al 12,6 per cento, quello dei giovani fra 15 e 24 anni è al 43,3 per cento. Al crescere dell'età le cose migliorano, certo, ma restano tutt'altro che confortanti. Eppure la realtà è più complicata, e se si scava più a fondo nelle statistiche il quadro diventa forse ancora più buio: sicuramente più sfaccettato. Eurostat e Istat raccolgono informazioni sul lavoro anche a livello regionale, aggiornate al 2013; e sono dati che mostrano l'enorme differenza che esiste non solo fra paesi europei, ma anche all'interno degli stessi. Eppure, nel fare confronti fra paesi, i dati vanno guardati con prudenza. Il tasso di disoccupazione indica infatti quante sono le persone senza lavoro, ma solo fra quelle che un lavoro lo stanno cercando. Più di tre milioni, secondo le ultime stime: certo non un italiano su dieci o un giovane su due, come si sente dire ogni volta, ma comunque troppo. Il paragone naturale è con i vicini spagnoli. Ma proprio in Spagna, che nella mappa della disoccupazione risalta come una grande macchia rossa, secondo la Banca Mondiale la partecipazione al mercato del lavoro è più alta - in particolare per le donne e nelle aree più povere. In questi gruppi, ovvero, sono molti coloro che dichiarano di essere alla ricerca di un impiego. In Italia vale l'opposto: sono meno le persone che risultano alla ricerca di un lavoro e questo spinge il dato della disoccupazione verso il basso. D'altra parte in Italia e Spagna il numero di persone effettivamente occupate, rispetto al totale della popolazione, è più o meno lo stesso. Dunque la differenza, tutto sommato, è molto minore di quello che sembra. Non è il solo caso. In generale, prima di fare paragoni, bisogna fare attenzione a quei paesi in cui, per esempio, donne e giovani tendono a partecipare di più al mercato del lavoro. È il caso di Germania, Francia e - appunto - della stessa Spagna. Questo però non vuol dire che la situazione sia grave ovunque allo stesso modo; al contrario. Proprio in Italia considerare solo il tasso di disoccupazione generale nasconde le situazioni più diverse: soprattutto in alcune province, soprattutto per i giovani - e ancora di più per le donne. Tutti casi in cui la realtà è molto più difficile di quello che sembra. Prendiamo tre persone diverse: Luca, 40 anni, di Milano; Giulia, una trentenne romana; Sofia, appena diplomata a Napoli. Il primo è riuscito a trovare lavoro, e come lui diversi amici e amiche: a Milano essere uomo o donna non fa grande differenza. Giulia salta da un breve impiego all'altro, ma con la crisi le cose sono diventate più complicate. Trovare un nuovo lavoro è difficile, e non solo per lei: a Roma succede lo stesso a una donna su sei nelle sue condizioni. Sofia invece vorrebbe cominciare a lavorare subito dopo aver finito la scuola, ma non può. A Napoli per andare avanti ci vuole fortuna e bravura - o entrambe - quando tre ragazze su cinque come lei, pur cercandolo, un lavoro non lo trovano. Altrimenti la soluzione è la solita: emigrare. Anche qui però bisogna fare attenzione: fra i 15 e i 24 anni molti ragazzi studiano ancora, quindi non cercano lavoro né sono - tecnicamente - disoccupati. Un gruppo che rientra nella categoria degli “inattivi”, come li chiama l'Istat, composto da poco meno di quattro milioni e mezzo di persone. Il problema vero riguarda invece 685mila giovani di quell'età che, usciti da scuola, un lavoro lo vorrebbero ma non ce l'hanno. I dati smentiscono anche un altro luogo comune: che studiare non serve. Di nuovo, è vero l'opposto. Le persone con titoli di studio più elevati sono quelle meno esposte alle disoccupazione, e questo vale sia per gli uomini che per le donne. Una differenza che - soprattutto al sud - è enorme: le laureate calabresi, per esempio, hanno un tasso di disoccupazione di 8 punti percentuali più basso delle diplomate, mentre le campane arrivano a 10. Per gli uomini è lo stesso, basta guardare la differenza fra laureati e diplomati siciliani: fra questi ultimi, ai tempi della crisi, il tasso di disoccupazione è doppio. Altro che perdita di tempo: uno degli antidoti alla crisi, se mai ce ne fosse uno, sembra proprio lo studio.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

Magistrati coraggiosi contro le banche cercasi, scrive Enzo Di Frenna su “Il Fatto Quotidiano”. C’è qualcosa di legale in questo meccanismo? A novembre 2011 il presidente della Banca centrale europea, l’italiano Mario Draghi, incontra i vertici di alcune grandi banche – tra cui Goldman Sachs, Morgan Stanley, Barclays Capital– e dopo qualche settimana annuncia prestiti fino a tre anni per le banche europee con l’obiettivo di “ridare fiato all’economia” ed evitare il “credit crunch”, cioè la chiusura dei rubinetti monetari alle piccole e medie imprese. I soldi, in pratica, sono regalati (tasso 1%). Non si ha notizia che Draghi abbia fatto firmare alle banche un contratto che le costringesse ad usare quel denaro per sostenere gli imprenditori. Insomma, una roba del tipo: se li usi per speculare, il tasso passa al 15% e paghi anche una penale. È una soluzione elementare, non ci vuole una laurea in economia per usare una tale precauzione. Invece, cosa succede? Le banche succhiano un torrente di denaro alla Bce – cioè soldi dei cittadini europei – e li usano per speculare e acquistare titoli di Stato, sui cui guadagnano somme elevate. Ecco cosa è accaduto in Italia. Il 21 dicembre 2011 la Bce di Draghi mette a disposizione delle banche italiane 116 miliardi di euro lordi, ma – attenzione – l’incasso netto è intorno ai 60 miliardi. Nell’ultimo bollettino della Banca d’Italia si scopre che tra dicembre 2011 e gennaio 2012 le banche  hanno speso 28 miliardi di euro per acquistare BTP e altri titoli: in soli trenta giorni la loro quota complessiva è passata da 209 a 237 miliardi. Altri 41 miliardi li hanno spesi per acquistare bond e il totale arriva a 69 miliardi di euro. Quindi hanno usato i soldi per speculare e arricchirsi, invece che “ridare fiato all’economia” e aiutare le imprese. Tra febbraio e marzo 2012 si suicidano diversi imprenditori, anche con metodi violenti come darsi alle fiamme. Poi scopriamo che 12 mila aziende hanno chiuso nell’ultimo anno e 50 mila lavoratori sono stati licenziati. Emergono storie di imprenditori a cui le banche hanno chiuso i rubinetti del credito. Michele Santoro a Servizio pubblico, la scorsa settimana ha intervistato Maria Teresa Carlucci, la moglie di un imprenditore suicida a cui la banca ha rifiutato un prestito di 500 euro. Posso aggiungervi che anche un paio di amici – titolari di piccole attività commerciali – mi hanno riferito che sono in gravi difficoltà a cause della stretta creditizia applicata improvvisamente dalle loro banche. Ecco invece un commento copiato dal mio profilo Facebook: “Vedo che la gente è spaventata, che tante attività chiudono o che stanno per chiudere. Negozi chiusi da tanti mesi che nessuno prende in affitto perché avviare qualsiasi attività è troppo rischioso. Sono molto preoccupata per il futuro. Tanto tanto preoccupata. Non capisco perché la crisi la devono risolvere le classi meno abbienti» (Antonella). Quindi abbiamo la seguente situazione: la Bce ha fallito il suo obiettivo. Le imprese sono strangolate nel “credit crunch” e altri padri di famiglia potrebbero decidere di uccidersi. Ci sono i presupposti per avviare un’inchiesta giudiziaria? Si possono sequestrare i contratti che Mario Draghi ha firmato con le banche italiane? Possiamo conoscere i nomi degli amministratori delegati di quelle banche che hanno preso i soldi della Bce per comprare titoli e speculare? Mi rivolgo dunque alla magistratura. E chiedo ad Antonio Di Pietro, ex magistrato, di farsi portavoce di questa istanza presso la categoria che ha rappresentato negli anni di Mani Pulite. È possibile trovare magistrati coraggiosi che possano indagare su questo meccanismo e – se saltano fuori le prove di illegalità – far scattare le manette a chi usa il denaro in modo così spregiudicato? È’ possibile vedere in galera qualche banchiere senza scrupoli, che non arrossisce neppure quando nega un prestito di 500 euro a un padre di famiglia e anzi – cosa atroce – usa gli spiccioli per fare profittto con manovre speculative? Avete presente Callisto Tanzi dimagrito e col sondino al naso? Avete presente il suo pentimento in tribunale per aver causato sofferenze ai suoi clienti truffati? «Non mi rendevo conto dell’esaltazione…», ha detto. Ecco, vorrei vedere decine banchieri in galera e poi cospargersi il capo di cenere per aver causato così tanta sofferenza. Vorrei vederli pentiti per l’ubriacatura finanziaria e rinchiusi al sicuro dietro le sbarre. I giornalisti con la schiena dritta hanno fatto il loro dovere denunciando queste anomalie. Ora tocca ai magistrati.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Usura, un imprenditore accusa: «Ora a Milano i giudici stanno con le banche». Da qualche mese il Tribunale del capoluogo lombardo, dove hanno sede legale parecchi istituti di credito, ha iniziato a respingere le cause di usura bancaria. Motivando così la scelta: le perizie tecniche devono essere svolte secondo i criteri fissati dalla Banca d'Italia. I cui azionisti, però, sono gli stessi istituti, scrive Stefano Vergine “L’Espresso”. «Grazie all’azione di lobbying, le banche hanno fatto breccia nel Tribunale di Milano. Da qualche mese i giudici della corte lombarda stanno infatti rigettando le cause per usura che imprese come le mie stanno continuando a proporre, e questo è paradossale considerando che invece nel resto d’Italia le ragioni dei consumatori continuano a prevalere». A parlare è G.P., un imprenditore del settore immobiliare, titolare di due società e amministratore di altrettante imprese. Preferisce non rivelare il suo nome perché - dice – «ho ancora diverse cause in corso e questa intervista potrebbe danneggiarmi». Il suo è però un attacco diretto. Contro le banche, accusate di applicare tassi d’usura all’insaputa di imprese e cittadini. E contro l’orientamento prevalente nel Tribunale di Milano che, spiega l’imprenditore, «ultimamente ha iniziato ad accettare acriticamente la posizione sostenuta dagli istituti di credito». Sul tavolo c’è una questione spinosa come quella dell’usura. Non quella applicata dalla criminalità organizzata, ma l’usura bancaria. Un fenomeno difficile da quantificare con precisione. Le uniche cifre sono quella della Fondazione SDL, un centro studi basato a Brescia, di cui fanno parte avvocati, commercialisti e imprenditori come G.P. Analizzando circa 150 mila prodotti bancari, SDL dice di aver rilevato nel 71 per cento dei casi la presenza di usura oggettiva ai sensi del codice penale. E sulle 19 mila pratiche giudiziarie intentate finora contro le banche, afferma di aver ottenuto per i propri clienti, quasi sempre tramite transazioni, diverse decine di milioni di euro. «Tutte queste vittorie hanno costretto le banche a reagire», sostiene G.P., convinto che ora «la loro attività di lobbying abbia attecchito al Tribunale di Milano».

G.P., ci racconti in breve la sua storia personale.

«Nel 2012, grazie ad un amico che fa il perito per le banche, ho scoperto che sui conti correnti e sui mutui delle mie aziende venivano praticati tassi d’usura. Mi sono allora rivolto alla studio legale SDL, del professor Serafino Di Loreto, il quale mi ha spiegato come, in base alla legge 108 del 1996, mi veniva effettivamente praticata usura».

Ha fatto causa alle banche?

«Sì, ho fatto una decina di cause. Ovviamente per recuperare quanto pagato ingiustamente, ma anche per un senso di responsabilità civile: riflettendo su quanto mi stava accadendo, ho capito che dovevo farlo per non lasciare ai miei figli una società in cui la classe dirigente, in questo caso quella bancaria, esercita usura sulla piccola e media impresa e sulle famiglie».

Alla fine le cause le ha vinte?

«La prima l’ho vinta, a Milano: nel conto corrente di una mia azienda la perizia disposta dal tribunale ha rilevato usura penale per 50 mila euro. Le altre cause sono ancora in corso».

E cosa c’entra il Tribunale di Milano allora?

«Al Tribunale di Milano l’orientamento predominante è pro-banche, e questo è particolarmente importante visto che gran parte degli istituti ha la propria sede legale proprio nel capoluogo lombardo».

In che cosa consiste questo orientamento pro-banche di cui parla?

«Le cause per usura bancaria a Milano incontrano resistenze molto maggiori rispetto al resto d’Italia. Questo lo dico perché, da collaboratore di una fondazione che si occupa a livello nazionale di difendere i consumatori dall’usura bancaria (la fondazione SDL, ndr), ho avuto modo di notare la differenza di trattamento che ultimamente Milano sta riservando alle banche».

Concretamente, in che cosa consiste questo trattamento privilegiato?

«Tutto si gioca sulle perizie che il tribunale dispone per analizzare i conti correnti e ravvisare se vi è stata o meno usura. Nel resto d’Italia prevalgono le indicazioni di redigere la perizia sulla base dei criteri della legge 108 del 1996 e delle successive conferme della Cassazione. A Milano, invece, la linea predominante è quella di analizzare i conti correnti non sulla base della legge dello Stato, ma seguendo le istruzioni secondarie della Banca d’Italia».

E qual è il problema?

«Il problema è che le istruzioni della Banca d’Italia sono decisamente più vantaggiose per gli istituti. E non è un caso, visto che gli azionisti della Banca d’Italia sono le stesse banche. E’ un po’ come se, dopo un incidente d’auto provocato dallo scoppio di una gomma, il perito valutasse le cause dell’incidente seguendo le indicazioni della ditta costruttrice di pneumatici e non quelle previste dalla legge».

Lei però ha detto che a Milano una causa l’ha vinta, in realtà.

«Sì, è vero. L’ho vinta perché la banca aveva talmente esagerato che, nonostante siano stati applicati i criteri favorevoli della Banca d’Italia, il conto corrente è risultato essere comunque in usura».

Quindi alla fine le imprese che fanno causa alle banche continuano a vincere anche a Milano?

«La gravità della situazione è proprio questa. Ultimamente, sia personalmente che alla Fondazione SDL, risulta che l’orientamento prevalente del Tribunale di Milano sia quello di rigettare le cause per usura se la perizia con la quale si presenta il caso non è redatta sulla base delle istruzioni della Banca d’Italia. Questo mi sembra gravissimo perché le istruzioni di una società privata, seppur autorevole come la Banca d’Italia, disattendono diverse sentenze della Cassazione. Mi pare inoltre molto grave precludere la via del contenzioso a tutte quelle aziende piccole e medie che non hanno la forza economica per ricorrere in appello e cassazione, dove invece potrebbero ottenere ragione».

Adesso cosa farà?

«Continuerò a seguire le mie cause, che fortunatamente sono state presentate prima di questa ulteriore virata pro-banche del Tribunale di Milano. Di certo se subirò delle sentenze ingiuste ricorrerò, con il mio avvocato Biagio Riccio, in appello e in Cassazione, perché sono sicuro che alla fine otterrò giustizia. Al di là delle questioni personali, però, vorrei che questa intervista desse origine a un dibattito, aperto a tutte le parti in causa, perché sulla questione dell’usura bancaria e più in generale del credito alle imprese si gioca la ripresa italiana e il futuro dei nostri figli».   

Banche, tassi usurai alle aziende. Una società di consulenza bresciana ha scoperto che i tassi applicati sui prestiti si sono alzati, al limite dello strozzinaggio. Ma pochi imprenditori denunciano e l'ABI e la Banca d'Italia non controllano. Cronaca di una nuova, pericolosa deriva, scrive Massimiliano Carbonaro su “L’Espresso”. Anche le banche, in Italia, prestano 'a strozzo', attraverso meccanismi complessi nel rilascio dei finanziamenti a favore delle imprese. Sono molti gli istituti di credito coinvolti in questa nuova e pericolosa deriva. Sul fenomeno non esistono cifre complessive esatte, così come non si conosce la quantità di questi prestiti a tassi usurai. Questo perché, nelle occasioni in cui finora il problema è emerso in sede giudiziale, le stesse banche attraverso accordi di conciliazione sono riuscite a non far diventare pubblica la questione. La stessa Banca di Italia, pur ammettendo di non avere il polso complessivo della situazione, ha annunciato che deve rivedere il sistema di rilevazione dei tassi bancari. Come è noto, il grosso del tessuto imprenditoriale italiano è fatto da piccole e medie imprese che non sono strutturate per affrontare problematiche di natura finanziaria. Solo quando i costi di gestione dei loro conti correnti diventano particolarmente alti, gli imprenditori cominciano a porsi domande: così i titolari delle aziende hanno cominciato a rivolgersi a consulenti esterni per cercare di capirci di più. Tra queste società di consulenza c'è la bresciana SDL Centro Studi. Si tratta di una società con una trentina di dipendenti, unica rispetto al panorama delle concorrenti perché offre gratuitamente il primo screening sui conti. Negli ultimi due anni e mezzo ha esaminato oltre 29mila conti correnti intestati ad aziende, scoprendo che il 90% è afflitto da questo problema. Tutto è cominciato nel 2010 quando l'avvocato bresciano Serafino di Loreto è stato coinvolto nel fallimento della società di un amico che per la disperazione si è tolto la vita. A una attenta analisi della situazione societaria della ditta fallita è emerso che i conti erano infettati da usura e soprattutto che la somma degli interessi non dovuti estorti dalle banche l'avrebbe salvata dal fallimento. Questa scoperta ha spinto Di Loreto a creare una società in grado di scandagliare in maniera rapida la situazione finanziaria di un'impresa evidenziandone le anomalie. L'accertamento della SDL sui conti aziendali procede secondo vari step. In primo luogo si verifica se il tasso applicato è inferiore o meno al tasso oltre il quale siamo davanti all'usura. Ogni tre mesi Banca di Italia segnala i tassi effettivi medi rilevati e segnala i tassi 'soglia' su base annua per ogni categoria di operazione e per differenti range di importo oltre cui si verifica l'usura. L'altro fronte su cui lavora la SDL riguarda l'anatocismo, ovvero l'applicazione di interessi sugli interessi maturati che fanno crescere esponenzialmente il debito. «Il risultato degli accertamenti è per molti versi inaspettato. Tendenzialmente non sei portato a credere che una banca possa fare una cosa simile» commenta l'avvocato Di Loreto, responsabile legale della SDL «ma la cosa impressionante è che in pratica sono coinvolte tutte le banche italiane. Si stanno accanendo sulle nostre aziende, infliggendo costi ben superiori a quanto dovuto». Nel dettaglio la SDL è entrata dentro le carte di 9845 imprese, prevalentemente dislocate tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e la Toscana: il 90% dei conti presentava usura e anatocismo. Secondo i calcoli, poi certificati da commercialisti esterni, quello che le banche non avevano diritto a percepire oscilla tra il 30% e il 70% di quanto prelevato dai conti: si varia molto in base agli istituti di credito e alle tipologie di conto. Non sono solo i conti correnti delle imprese ad essere attaccati: ciò che emerge è un sistema perverso in cui le banche colpiscono gli imprenditori stessi rivalendosi sul loro patrimonio con l'intento di riuscire a rientrare dei debiti contratti per portare avanti l'attività dell'azienda: spesso, però, una parte di questi è frutto di interessi illegittimi. Il quadro del fenomeno fatica a venir fuori perché quando un imprenditore si ribella, utilizzando le perizie fornite da Di Loreto, e cita la banca in tribunale, l'istituto di credito preferisce arrivare a una transazione amichevole e soprattutto segreta. E' molto chiaro in tal senso l'accordo raggiunto tra un'azienda bresciana cui SDL ha fatto da consulente e una banca (non si può rendere noto il nome dei soggetti coinvolti altrimenti l'intesa potrebbe saltare) in cui l'istituto di credito ha preferito rinunciare a 350 mila euro dei 650mila concessi come prestito all'azienda. Questo dopo che era intervenuta una sentenza relativa ad un decreto ingiuntivo in cui il giudice rilevava che 42mila euro di debiti dell'impresa con la banca erano frutto di usura e anatocismo. Secondo il panorama delle conciliazioni esaminate, nessun gruppo creditizio italiano sembra sfuggire a questa strategia. C.C., un imprenditore del milanese attivo nel settore dei servizi che preferisce rimanere anonimo, si è sentito dire da un direttore di banca: «Non siamo un ente di beneficenza». «Sono furente» commenta l'imprenditore «non solo per i soldi che mi hanno rubato, ma anche i mancati investimenti e la perdita di competitività in campo internazionale». L'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato una richiesta di interessi non dovuti per 200mila euro. «Fino a un anno fa, spiega Di Loreto, si trattava esclusivamente di un recupero crediti legittimo. Ora invece stiamo assistendo da parte delle banche a una vera caccia alle imprese per far rientrare a tutti i costi e in tempi rapidi i clienti dei crediti concessi». Uno scenario per G.P., un imprenditore edile che con il suo gruppo di società detiene un patrimonio di immobili da circa 30 milioni di euro, definisce drammatico: «Sono 40 anni» spiega «che lavoro con le banche, ma in una situazione simile non mi ero mai trovato. Tra l'altro questo attacco indiscriminato alle imprese farà sì che quando ci sarà la ripresa rimarremo bloccati. Il tessuto di piccole e medie aziende che sostengono l'economia italiana nel frattempo sarà stato distrutto». Manco a dirlo, l'analisi finanziaria dei suoi conti ha evidenziato crediti estorti dalle banche per 1,5 milioni di euro. L'aspetto più assurdo della vicenda è che gli istituti procedono pressoché impuniti e che l'Abi (Associazione bancaria italiana) non rilascia alcuna dichiarazione. Il motivo? Non sono tenuti a esercitare il controllo sui loro soci. Banca d'Italia, che invece questo controllo lo dovrebbe effettuare, sottolinea come «le numerose denunce per usura siano basate sull'impiego di criteri di calcolo difformi». A questo però aggiunge che «sta rivedendo le istruzioni in materia di rilevazione dei tassi effettivi globali». Insomma, la situazione sembra priva di reale controllo.

I magistrati indagano i banchieri, poi ci vanno pure a scuola, scrive “Alètheia”. E pensare che ci stupivamo della telefonata fatta dal ministro della giustizia Cancellieri alla famiglia Ligresti. Le banche, tramite l’Abi (Associazione bancaria italiana), hanno sempre cercato di condizionare la giustizia, con protocolli di intesa (novembre 2006) con il Ministero della giustizia per progetti di formazione destinato a magistrati, cancellieri, ed altri operatori del settore giudiziario, per favorire la conoscenza e l’adozione degli strumenti del processo civile telematico, contribuire allo scambio di informazioni e best practice tra gli addetti ai lavori e agevolare la costruzione di una cultura italiana sulla giustizia telematica. Molti gli episodi di evidenti conflitti di interessi, come quella di alcune banche di finanziare i corsi dei magistrati, o la poco trasparente gestione delle esecuzioni immobiliari tra la società Asteimmobili di natura privatistica, chiamata a svolgere nei tribunali compiti di natura pubblicistica, nonché il palese conflitto di interessi sotteso alla decisione di assegnare all’Abi la gestione integrata di tutte le informazioni relative ai procedimenti giudiziari nei fallimenti ed esecuzioni immobiliari e l’invio informatico degli atti processuali. Lo scorso 4 luglio 2014 ed a seguito chiusura indagini per il reato di usura a carico di alcune banche e di ex dirigenti Bankitalia da parte del Pm di Trani Michele Ruggiero, la Scuola superiore della magistratura ha organizzato, d’intesa con la Banca d’Italia e l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) i cui ex vice-presidenti sono stati indagati (Emilio Zanetti scandalo Ubi-Banca) o arrestati (Giovanni Berneschi, scandalo Banca Carige Genova), un corso interdisciplinare sul tema dell’usura, riservando 30 posti per magistrati addetti al settore civile e 40 posti per magistrati addetti al settore penale (funzioni giudicanti e requirenti). Come si può leggere dalla lettera, Prot.n. 1980/2014USSM; inviata alla Direzione Generale dei Magistrati, Ispettorato Generale, Al Presidente della Corte di Cassazione Dr. Giorgio Santacroce, Al Procuratore Generale della Corte di Cassazione Dr. Gianfranco Ciani, Ai Presidenti delle Corti d’Appello, Ai Procuratori Generali delle Corti d’Appello, con l’oggetto: incontro di studi ”L’Usura: profili civilistici e penalistici“ 14-15 luglio 2014 Roma; Piazza del Gesù n. 49 – Sala della Clemenza, Palazzo Altieri. Roma, 4 luglio 2014. Firmato: la Segreteria della Scuola Superiore della Magistratura. Essendo gravissimo questo ultimo tentativo di indottrinamento degli operatori della Giustizia ad interessi di parte, che si consumerà il 14 e 15 luglio a Roma, nella sede Abi di Palazzo Altieri, dove è stato convocato un incontro di studio organizzato in fretta e furia dalla SSM (Scuola Superiore della Magistratura) d’intesa con la Banca d’Italia e l’ABI, proprio sul tema dell’usura bancaria, dove sono stati ammessi 70 magistrati, che potrebbe avere la finalità di condizionare indagini penali in corso, che vedono tra gli indagati primari esponenti delle banche associate all’Abi, che annovera molti banchieri incriminati e perfino arrestati, con sede in Piazza del Gesù, 49, a Roma proprio a Palazzo Altieri, e la Sala della Clemenza è tra le più prestigiose sale dove vengono svolti incontri, dibattiti, convegni, conferenze. Adusbef e Federconsumatori hanno denunciato un aspetto ancor più grave, che vede l’ex ministro della Giustizia del Governo Monti, prof.ssa Paola Severino nella duplice funzione di docente e partecipante attiva al corso sull’usura somministrato ai magistrati nella tavola rotonda di apertura per disquisire, assieme ad altri illustri relatori, sui profili civili e penali della legislazione antiusura, ed allo stesso tempo nella veste di avvocato difensore e consulente legale di celebri indagati (probabilmente anche nel processo penale istruito dal Pm di Trani Michele Ruggiero), accusati di aver violato la legge 108/96 ed il reato sull’usura. Poiché tale palese commistione tra organi giudiziari come il SSM, che avrebbe finalità di offrire formazione oggettiva ai magistrati, con i rappresentanti di dirigenti indagati o arrestati come Abi e Banca d’Italia, fa sorgere il dubbio di una giustizia addomesticata a misura di potenti, al contrario di quanto sancito dalla Costituzione Repubblicana ancora vigente, configura insanabile vulnus per la necessaria terzietà materiale e sostanziale, con lo studio dell’usura “a casa” del principale indiziato di attività usuraria, analogamente a corsi di formazione sui reati di mafia organizzata a Corleone, a casa di Totò Rjina o Bernardo Provenzano, Adusbef e Federconsumatori hanno inviato un corposo esposto alle maggiori cariche istituzionali italiane ed alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, denunciando il grave pericolo per le garanzie Costituzionali ed i diritti delle persone, specie se correntisti e risparmiatori, da una giustizia molto spesso ingiusta per i comuni cittadini.

Corso anti-usura per pm. In cattedra le banche, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano, 12/07/2014 pagina 10. Il problema è molto complesso. Da quando il codice penale è stato modificato e il reato di usura non è più tipico dello strozzino ma anche dei banchieri qualora applichino tassi esagerati, le nostre scienze giuridiche si arrovellano: quando si può considerare superato il tasso-soglia oltre il quale scatta il reato? Pare che dopo quasi vent'anni non siano " ancora sopiti i problemi interpretativi", e così il presidente della Scuola Superiore della Magistratura, Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, ex candidato a sindaco di Milano ed ex saggio di Giorgio Napolitano, ha avuto un'idea notevole. Ha organizzato un corso di formazione per magistrati in collaborazione con l'Abi (associazione bancaria italiana) e con la Banca d'Italia. Gente che di usura se ne intende, ovviamente, ma con il difetto di essere potenzialmente nel mirino dei magistrati che sono chiamati a formare. I Presidenti di Adusbef e Federconsumatori, Elio Lannutti e Rosario Trefiletti, hanno preso carta e penna per scrivere una lettera di protesta alle Nazioni Unite, alla Corte Europea per i diritti dell'uomo, al presidente Napolitano, al premier Matteo Renzi e al ministro della Giustizia Andrea Orlando. Chiedono che Onida sia severamente censurato, e lo fanno con parole forti: " Chi ha ordito questa turpe trovata merita di essere sollevato dagli incarichi. Tanto al fine di evitare che altri magistrati magari siano costretti in futuro a partecipare a corsi antimafia a Corleone, nelle ville di Totò Riina o Bernardo Provenzano". Il corso si tiene il 14 e il 15 luglio 2014 nella sede dell'Abi, gentilmente messa a disposizione dal presidente dell' Abi, Antonio Patuelli. Colpisce che settanta magistrati provenienti da tutta Italia vengano mandati a scuola di usura presso un' associazione che si è trovata in pochi giorni con un vicepresidente arrestato, Giovanni Berneschi ex presidente di Carige, e uno indagato, Emilio Zanetti, ex presidente di Ubi-Banca. Lo stesso Patuelli deve la nomina alle dimissioni del predecessore Giuseppe Mussari, travolto dallo scandalo Montepaschi e oggi rinviato a giudizio anche per usura. Competenza per competenza, non si capisce perché non abbiano invitato anche Mussari a spiegare ai magistrati in cerca di formazione professionale i segreti dell'usura. C'è però, tra i docenti, Paola Severino, ex ministro della Giustizia e penalista di primo piano. Prima di diventare Guardasigilli a novembre 2011, era impegnata nel processo sull'aeroporto di Ampugnano che coinvolgeva Mussari e altri esponenti del Monte dei Paschi. E proprio a causa della nomina dovette abbandonare la difesa di una banca accusata di usura. Non è dato sapere se le due giornate di aggiornamento professionale prevedano anche esercitazioni pratiche. Ci sarebbe un ottimo caso di scuola a disposizione, l'inchiesta per usura del pm di Trani Michele Ruggiero, che vede indagati, tutti insieme, il presidente della Rai Anna Maria Tarantola come ex capo della Vigilanza della Banca d'Italia, l'ex ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni in quanto ex direttore generale della Banca d'Italia, e poi i capi o ex capi di alcune della maggiori banche italiane: Luigi Abete e Fabio Gallia della Bnl, Alessandro Profumo di Unicredit e il suo successore Federico Ghizzoni, Mussari per il Montepaschi insieme all'ex vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone, di cui Severino è da sempre difensore di fiducia. Peccato solo che il pm Ruggiero non sia stato invitato al corso, poteva essere l'occasione per i vertici di Abi e Bankitalia, e per la stessa Severino, di spiegargli per le vie brevi l'eventuale esagerazione delle sue ipotesi investigative. Per Adusbef e Federconsumatori, che hanno sollevato il problema, in gioco c'è la separazione dei poteri, "il doveroso distacco tra Abi e Ordine Giudiziario il cui collante risalente nel tempo stride con un paese ad ordinamento costituzionale e democratico". Una questione antica. Nel 2010 Lannutti, da senatore, interrogò il ministro dell' Economia Giulio Tremonti e il Guardasigilli Angelino Alfano, per sapere come mai l'Abi, con il patrocinio del ministero della Giustizia, avesse "sviluppato un progetto di formazione e-learning destinato a magistrati, cancellieri, avvocati e a tutti gli operatori del settore giudiziario per favorire la conoscenza e l'adozione degli strumenti del processo civile telematico". E riproponendo il tema della società Asteimmobili, costituita dall'Abi per gestire l'esecuzione dei fallimenti. Un' altra invasione di campo. 

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

Papa Francesco contro le banche e la speculazione: "Questa economia uccide", scrive “Libero Quotidiano”. Una lunga intervista rilasciata da Papa Francesco a ottobre 2014, pubblicata oggi su La Stampa, che anticipa così parte del libro Papa Francesco. Questa economia uccide, il volume sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi. Un libro che fin dal titolo esprime il pensiero del Pontefice, che punta il dito contro il sistema economico occidentale, contro le banche, contro la speculazione.  Bergoglio muove la sua accusa contro un intero sistema senza troppi giri di parole, come nel passaggio in cui afferma: "Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria - spiega il Papa - non possono godere di un'autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo". La povertà resta il primo dei pensieri di Bergoglio, che aggiunge: "Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all'altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo estendere questa richiesta anche all'essere in pace con i nostri fratelli poveri". Nella lunga intervista, Francesco risponde anche a chi lo accusa di marxismo, e spiega: "Questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un'invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia".

Intervista a Papa Francesco: “Avere cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”. Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono disparità e povertà”. Jorge Mario Bergoglio, 78 anni, è diventato Papa con il nome di Francesco il 13 marzo del 2013, Scrivono Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi su “La Stampa”.

Anticipiamo uno stralcio di «Papa Francesco. Questa economia uccide», il libro sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli, coordinatore di «Vatican Insider», e Giacomo Galeazzi, vaticanista de «La Stampa». Il volume raccoglie e analizza i discorsi, i documenti e gli interventi di Francesco su povertà, immigrazione, giustizia sociale, salvaguardia del creato. E mette a confronto esperti di economia, finanza e dottrina sociale della Chiesa - tra questi il professor Stefano Zamagni e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi - raccontando anche le reazioni che certe prese di posizione del Pontefice hanno suscitato. Il libro si conclude con un’intervista che Francesco ha rilasciato agli autori all’inizio di ottobre 2014. «Marxista», «comunista» e «pauperista»: le parole di Francesco sulla povertà e sulla giustizia sociale, i suoi frequenti richiami all’attenzione verso i bisognosi, gli hanno attirato critiche e anche accuse talvolta espresse con durezza e sarcasmo. Come vive tutto questo Papa Bergoglio? Perché il tema della povertà è stato così presente nel suo magistero?

Santità, il capitalismo come lo stiamo vivendo negli ultimi decenni è, secondo lei, un sistema in qualche modo irreversibile?

«Non saprei come rispondere a questa domanda. Riconosco che la globalizzazione ha aiutato molte persone a sollevarsi dalla povertà, ma ne ha condannate tante altre a morire di fame. È vero che in termini assoluti è cresciuta la ricchezza mondiale, ma sono anche aumentate le disparità e sono sorte nuove povertà. Quello che noto è che questo sistema si mantiene con quella cultura dello scarto, della quale ho già parlato varie volte. C’è una politica, una sociologia, e anche un atteggiamento dello scarto. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri. E così si “scarta” quello che non serve a questa logica: è quell’atteggiamento che scarta i bambini e gli anziani, e che ora colpisce anche i giovani. Mi ha impressionato apprendere che nei Paesi sviluppati ci sono tanti milioni di giovani al di sotto dei 25 anni che non hanno lavoro. Li ho chiamati i giovani “né-né”, perché non studiano né lavorano: non studiano perché non hanno possibilità di farlo, non lavorano perché manca il lavoro. Ma vorrei anche ricordare quella cultura dello scarto che porta a rifiutare i bambini anche con l’aborto. Mi colpiscono i tassi di natalità così bassi qui in Italia: così si perde il legame con il futuro. Come pure la cultura dello scarto porta all’eutanasia nascosta degli anziani, che vengono abbandonati. Invece di essere considerati come la nostra memoria, il legame con il nostro passato è una risorsa di saggezza per il presente. A volte mi chiedo: quale sarà il prossimo scarto? Dobbiamo fermarci in tempo. Fermiamoci, per favore! E dunque, per cercare di rispondere alla domanda, direi: non consideriamo questo stato di cose come irreversibile, non rassegniamoci. Cerchiamo di costruire una società e un’economia dove l’uomo e il suo bene, e non il denaro, siano al centro».

Un cambiamento, una maggiore attenzione alla giustizia sociale può avvenire grazie a più etica nell’economia oppure è giusto ipotizzare anche cambiamenti strutturali al sistema?

«Innanzitutto è bene ricordare che c’è bisogno di etica nell’economia, e c’è bisogno di etica anche nella politica. Più volte vari capi di Stato e leader politici che ho potuto incontrare dopo la mia elezione a vescovo di Roma mi hanno parlato di questo. Hanno detto: voi leader religiosi dovete aiutarci, darci delle indicazioni etiche. Sì, il pastore può fare i suoi richiami, ma sono convinto che ci sia bisogno, come ricordava Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”, di uomini e donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al tempo stesso sono convinto che ci sia bisogno che questi uomini e queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il bene comune. Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo. Servono programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso».

Perché le parole forti e profetiche di Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo internazionale del denaro, oggi suonano per molti – anche cattolici – esagerate e radicali?

«Pio XI sembra esagerato a coloro che si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue profetiche denunce. Ma il Papa non era esagerato, aveva detto la verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono chiamati in causa dai richiami di Pio XI...».

Restano ancora valide le pagine della “Populorum progressio” nelle quali si dice che la proprietà privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune, e quelle del catechismo di San Pio X che elenca tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il defraudare della giusta mercede gli operai?

«Non solo sono affermazioni ancora valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate dall’esperienza».

Hanno colpito molti le sue parole sui poveri «carne di Cristo». La disturba l’accusa di «pauperismo»?

«Prima che arrivasse Francesco d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico. Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo” sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito, visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo nello spirito, di chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo? No, è Vangelo. La povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri. Quello del Vangelo è un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere in pace con questi fratelli poveri».

Lei ha sottolineato la continuità con la tradizione della Chiesa in questa attenzione ai poveri. Può fare qualche esempio in questo senso?

«Un mese prima di aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. (...) Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia. La Chiesa quando invita a vincere quella che ho chiamato la “globalizzazione dell’indifferenza” è lontana da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci si prenda cura l’uno dell’altro».

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

La Salva Silvio salva anche i banchieri. E Renzi perde consenso. Si allunga la lista dei beneficiari inconsapevoli del decreto fiscale. Oltre Berlusconi, la manina aiuterebbe anche i grandi banchieri, partendo da Passera e Profumo. Il governo dovrà riscrivere gran parte del decreto. E rimediare ai danni di reputazione, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. La prima settimana dell’anno per Matteo Renzi è stata un disastro. La polemica sul volo di Stato per la settimana bianca, per una sciata senza casco (come immortalato prontamente da Chi), ma soprattutto il codicillo Salva Silvio, con il mistero della manina che l’ha fatto comparire, con una dinamica ancora tutta da chiarire, nel decreto sul fisco approvato prima di Natale. Respinta al mittente la richiesta delle opposizioni, di Giuseppe Civati e del senatore Massimo Mucchetti di riferire alle camere («Gli atti del consiglio dei ministri non sono oggetto di informativa» ha sentenziato Maria Elena Boschi), l’episodio avrà ancora i suoi strascichi. In parte sulla reputazione del governo, in parte sul destino stesso del decreto, che è stato congelato ma che dovrà esser riscritto, secondo il premier dopo il voto per la successione al Quirinale. Una settimana pessima, insomma, fatta finire in anticipo solo dalle tragedie francesi, dagli attenti e dalle sparatorie e dal terrorismo che hanno giustamente cambiato l’agenda dei giornali. I danni però ci sono, o almeno così sostengono i sondaggisti. Danni al governo, e non al Pd, che tiene e anzi sale in alcune rilevazioni. Renato Mannheimer dice che «con gli scivoloni dell’ultima settimana il premier e il governo perdono tra i quattro e i cinque punti». Roberto Weber di Swg conferma: «Più che il volo di Stato è la non chiarezza sulla episodio di Berlusconi a determinare l’erosione. Come fatti in sé, e in relazione ai dati dell’economia. Nel senso che mentre il dibattito è monopolizzato dalla questioni tipo salva Berlusconi, il cittadino vede i dati della disoccupazione, quelli dell’Istat, gli indicatori economici e la sfiducia aumenta». Matteo Renzi cerca chi ha scritto il salva-Silvio, la minoranza dem riprende vigoreDel Salva Silvio però bisognerà parlare ancora. Il governo potrà anche non chiarire la genesi dell’articolo 19 bis, che introduce la soglia di non punibilità per l’evasione, senza escludere neanche la frode, e che quindi avrebbe “graziato” Silvio Berlusconi, ma del merito bisognerà comunque discutere. Come bisognerà discutere di un’altra aggiunta fatta last minute al decreto e che riguarda il comma 4 dell’articolo 4 che depenalizza le dichiarazioni fraudolente. Per alcuni critici sarebbe un regalo ai grandi banchieri, che quindi non lasciano solo Silvio Berlusconi nell’elenco dei beneficiari inconsapevoli della riforma. Tra i nomi, i classici Alessandro Profumo e Corrado Passera, coinvolti nelle partite di titoli derivati. La lista che si allunga di possibili beneficiari, poi, fa crescere in parlamento l’idea che sul decreto sul fisco il governo abbia per così dire accettato molti suggerimenti esterni, consigli estranei al ministero dell’economia, i cui tecnici non riconoscono la paternità, ma estranei anche all’ufficio legislativo di palazzo Chigi diretto dall'ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione, almeno per quanto riguarda il processo creativo, perché la fedelissima di Renzi non è certo nota per le competenze in materia fiscale.

Salva Silvio, Pier Luigi Bersani attacca Renzi: "Più sincerità e chiarezza". «Matteo dà da bere agli ubriachi» è la metafora di Bersani sugli evasori e la soglia di non punibilità del 3 per cento introdotta dal governo. E Mucchetti (Pd) chiede che il premier riferisca in aula sul mistero della “manina”, continua Luca Sappino su “L’Espresso”. Non servono molte parole a Pier Luigi Bersani per fulminare Matteo Renzi sulla vicenda del decreto sul fisco, quello del pasticcio dell’articolo 19 bis, che alza la soglia di tolleranza per la frode fiscale, ed è ormai noto come il codicillo “Salva Berlusconi”. «Renzi parla tanto di proporzionalità per l'evasione fiscale, ma mi pare che il senso sia che chi ha di più può evadere di più», aveva detto già ieri l’ex segretario, a margine della riunione dei deputati del Pd, alludendo al fatto che l’articolo non interessa solo a Silvio Berlusconi, ma anche e soprattutto i grandi gruppi industriali che quel 3 per cento lo potrebbero applicare a bilanci molto ricchi. Per Eni, ad esempio la soglia di non punibilità penale si tradurrebbe, secondo i calcoli fatti dal Sole 24 ore e da Libero, in 419 milioni di euro, per Enel in 216, Unicredit 130, Telecom 16 milioni, e così via. A "L’aria che tira", su La7, Bersani ha però detto di più: «Ci vogliono più sincerità e chiarezza. Il modo per uscire da questa situazione non è aspettare il 20 febbraio, ma affrontare subito il decreto nel prossimo consiglio dei ministri e togliere quella parte del 3 per cento». Così la voce più forte della minoranza del Pd critica la scelta del premier che vorrebbe invece congelare il testo fino a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, compiendo una forzatura delle procedure che vorrebbero l’atto approvato dal governo nelle disponibilità del Parlamento che è sovrano, entro i trenta giorni, nel determinare il calendario per arrivare alla valutazione e al suggerimento di eventuali correzioni. Questa è infatti la strada che propone la minoranza dem: Renzi lasci fare al Parlamento, raccolga le note e poi modifichi questo stesso testo. Il tutto molto prima del 20 febbraio. Il premier però preferisce fare a modo suo anche perché così, evidentemente, riesce a tenere sotto pressione Silvio Berlusconi e a tenere più ordinati i voti di Forza Italia, fondamentali nella delicata partita del Quirinale. Bersani continua il suo attacco: «Renzi ha dato un messaggio a un pezzo di Italia con quel 3 per cento: essere leggeri sul tema fiscale è come dare da bere agli ubriachi. Il punto è che concetto abbiamo di fedeltà fiscale in questo benedetto Paese. Renzi si è preso la responsabilità del decreto, la manina è la mia ha detto e ha risolto, ma io non riesco a fargli i complimenti». Ancora: «A Renzi voglio chiedere: abbiamo inventato l'evasione in proporzione? Non esiste in nessun posto al mondo una cosa così. La frode fiscale è un reato in tutto il mondo...». Bersani poi invita a non gridare al complotto degli antiberlusconiani: «Tiriamo via il riconoscimento della frode come hanno chiesto anche le associazioni degli imprenditori», nota l’ex segretario, «e non dimentichiamoci che la cosa l'ha tirata fuori il Sole 24 ore», e non qualche ex girotondino. Bersani, che evidentemente ha letto bene il giornale economico, dice anche un’altra cosa: «C'è da ripulire altro nel decreto...» aggiunge riferendosi agli altri punti controversi del testo prodotto dal governo. Oltre alla soglia percentuale di non punibilità sul reddito aziendale, infatti, c’è da rivedere, ad esempio, la depenalizzazione dell’emissione di false fatture sotto i mille euro, e l’aumento del limite da 50 mila a 150 mila per la dichiarazione infedele. Anche per questo, per Bersani, potrebbe non esser un cattiva idea che Renzi sia chiamato dalle Camera a riferire sulla vicenda della manina e di come sia stato scritto il decreto votato nel consiglio dei ministri del 24 dicembre. «Certo non guasterebbe» dice l’ex segretario. La richiesta è stata avanzata da Massimo Mucchetti, senatore dem, intervenuto in aula a titolo personale, come ha subito precisato il renziano Tonini. Per Mucchetti, Renzi dovrebbe spiegare «quale testo è stato licenziato dal Ministero; quale testo è arrivato in Consiglio dei ministri e, se ci sono state modifiche, chi le ha apportate; se in Consiglio dei ministri c'è stato dibattito, e chi è intervenuto nel dibattito; quale testo, infine è stato varato e come, in base a quali procedure, è stato poi ritirato». Il dubbio è che si sia potuta essere sì «una centralizzazione delle decisioni politiche in capo al Consiglio dei ministri, ma che poi le decisioni collegiali siano state modificate in modo monocratico, il che pone un problema di governance democratico». E sì, sarebbe forse coerente con il carattere del premier, ma non proprio gradito dalla Costituzione. La proposta è stata salutata con favore dal Movimento 5 stelle, dalla Lega e da Sinistra Ecologia Libertà. «Mi associo a Mucchetti» ha detto poi Pippo Civati, ormai lontanissimo dal governo, che oggi ha presentato con Sel una proposta per inserire il conflitto di interessi nella Costituzione: «Secondo me parla a nome di tutti gli elettori del Pd e del centrosinistra che si chiedono come siano andate le cose. Altro che manina, è una manona ed è un fatto di estrema gravità».

Visco e il club delle manette. Le colpe di Visco e della Orlandi in un impasto velenoso fatto di antiberlusconismo e voglia di colpire Renzi e le imprese, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questa storia delle depenalizzazioni fiscali che rischia di affondare proprio non ci va giù. La delega votata dal Consiglio dei ministri è inciampata nella franchigia del tre per cento. Si è attivato un impasto velenoso fatto di tre ingredienti principali: lo sperimentato antiberlusconismo mediatico, la chance per la sinistra Pd di dare una bottarella al proprio segretario e cioè Renzi, e l'ideologia antimpresa per la quale le tasse sono belle e i privati evasori. Si rischia così di buttare a mare un passo avanti in materia fiscale e penale. Il circuito dei soliti ha funzionato alla grande. La vera manina da cui è partito tutto è quella dell'ex ministro Visco: in questo caso molto visibile e pubblicata sul blog laVoce.info. Intorno a lui la cortina politica della sinistra Pd e dei suoi vecchi assistenti, a partire da Fassina. In fila i burocrati che con il Pci di un tempo e con Visco poi si sono formati. E poi l'Agenzia delle entrate: ha giocato la sua moral suasion (e qualcosa di più), con la tosta Rossella Orlandi, che dalla scuola dura e pura di Visco arriva. In un primo tempo la vicenda non è stata ben capita anche da Confindustria: in fondo fu proprio il giornale della Confindustria, in un editoriale, a celebrare l'arrivo della Orlandi. Ma la buona stampa per questo nobile circoletto di manettari (burocrati che ben vedono le manette anche per errori od omissioni fiscali) non si ferma qua. Corriere e Repubblica (quest'ultima per riflesso condizionato) fanno il resto. I maligni insinuano che non c'è praticamente azionista del Corsera immune da un problemuccio fiscale e che il direttore, in uscita, abbia voluto dare l'ennesimo segno della sua indipendenza. Molto più probabile che a contare siano stati piuttosto gli storici rapporti con la Procura di Bruti Liberati. Non è un mistero che il grande esperto di reati finanziari (risalito dopo le vicissitudini kafkiane di Robledo) e anima del nuovo costoso scudo fiscale e cioè Francesco Greco non veda di buon occhio le depenalizzazioni. Purtroppo questo club continua ad alimentare un'ideologia antimpresa che deprime investimenti e sviluppo. Si è ormai formata una giurisprudenza, un corpo di norme e consuetudini, e una classe burocratica che (spesso in buona fede e ciò è anche peggio) picchia su chi fa impresa e ha una partita Iva come su un tamburo. Come negli anni '70 i pretori del lavoro hanno contribuito a distruggere un sano rapporto di relazioni industriali e attraverso le loro interpretazioni giurisprudenziali hanno reso lo Statuto dei lavoratori una camicia di forza, così oggi la magistratura sembra essersi assunta la responsabilità storica (e forse ideologica) di combattere con ogni mezzo e ultra petita l'evasione fiscale. Per chi pensa che la nostra sia una deformazione basta sottoporsi quotidianamente alla lettura del pregevole (è detto senza ironia) bollettino dell'Agenzia delle entrate (fate però uno sforzo, voi di Fisco oggi , di scrivere anche per noi umani). Vi citiamo solo due numeri recenti. Solo pochi giorni fa l'austera pubblicazione riportava una sentenza della Cassazione di dicembre. Sentite cosa scrivono: «La sentenza 52038/2014 ha confermato che, per l'omesso versamento delle ritenute certificate, la crisi dell'impresa non scrimina il reato. A tal fine, né l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti né l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori e neppure la mancata riscossione di crediti vantati e documentati sono situazioni - anche se provate - idonee a integrare lo stato di necessità e, dunque, a escludere il dolo». Ve la facciamo semplice: se un imprenditore dimostra di essere senza una lira perché non lo hanno pagato o perché ha preferito corrispondere gli stipendi ai propri dipendenti e non versa i contributi entro 60 giorni per una cifra annuale superiore a 50mila euro, rischia la galera. Il bollettino è ancora più chiaro: «Rafforzando la linea interpretativa più severa, la Corte di cassazione, con la sentenza 52038/2014, ha spiegato come siano rari i casi in cui la crisi di liquidità scrimina il reato e quindi che è punibile per evasione fiscale l'imprenditore nonostante il mancato versamento dipenda da uno choc finanziario dell'azienda». Senza pietà. Prima si paga lo Stato e poi i dipendenti e fornitori. Sia chiaro, qua nessuno chiede di girarsi dall'altra parte e fischiettare se un imprenditore non versa i contributi. Sono infatti previste sanzioni e interessi. Si dice solo che forse la galera in questi casi non ha senso. La sentenza della Cassazione è stata pubblicata proprio mentre tutto il circoletto dei manettari si lamentava dell'indulgenza governativa in merito ai reati fiscali. Di esempi ne potremmo fare altri centomila. Ci preme ricordare un'altra decisione di queste settimane. Una leggina (benedetta) aveva previsto che quando la Guardia di finanza si presentava in azienda non potesse bloccarvi per più di trenta giorni (Articolo 12 del disatteso Statuto dei contribuenti). Una verifica che fosse durata più di un mese avrebbe reso nullo l'accertamento. Una tagliola niente male. Con un'ordinanza di novembre la Corte suprema ha deciso che il termine è ordinatorio e non perentorio. Sapete cosa vuol dire? Che siete fottuti. Dovrebbero rimanere in azienda o nei vostri uffici non più di trenta giorni (peraltro non è necessario che siano consecutivi, altra assurdità), ma se invece ci mettono le tende non succede nulla. Niente di niente. Lo Stato vi prende per i fondelli. In termini perentori, mica ordinatori.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

Falce e minareto: la predilezione della sinistra per gli islamici porta al suicidio della nostra civiltà, scrive il polemista polemologo di Giancarlo Matta. Falce e minareto: è un dato di fatto che la gente di sinistra (qui alludo principalmente ai politici dei vari ranghi) mostri una esagerata predilezione per gli islamici, contraddicendo pertanto i propri ideali, guadagnandosi il giustificato disprezzo di coloro che ragionano (anche tra i suoi elettori), e non di rado anche coprendosi di ridicolo. E probabilmente anche scavandosi la fossa (se non in senso immediatamente letterale - almeno per ora -, quanto meno in senso politico) con le proprie mani. Voglio segnalare in proposito, alcuni esempi e comportamenti persistenti:

-le Amministrazioni Locali prevalentemente di sinistra (le quali dovrebbero essere atee…), che concedono agli islamici per lo più gratuitamente o quasi, immobili per la realizzazione di moschee;

-gli Istituti Scolastici Pubblici prevalentemente diretti da persone ideologicamente di sinistra, che inibiscono le tradizioni e le celebrazioni tipiche della nostra cultura per “non offendere” gli islamici;

-le Asl prevalentemente dirette dalla sinistra, che tollerano le illecite pretese degli islamici di essere visitati da medici del sesso a loro gradito;

-gli impedimenti capziosi dei parlamentari di sinistra, alla emanazione di norme più severe di quelle peraltro esistenti (ma spesso disapplicate) in materia di abbigliamento “religioso” in luogo pubblico, nonostante le evidenti accresciute esigenze della pubblica sicurezza;

-le grottesche “reverenze” di politicanti di sinistra, porte agli islamici in occasione delle loro festività, con la concessione di spazi pubblici dove essi esigono illegittimamente la separazione fisica tra i due sessi, e addirittura vestendosi come loro;

-il perdurante silenzio delle “femministe” (ovviamente di sinistra) sulle violenze che gli islamici commettono verso le donne;

-la simpatia scomposta “a senso unico” manifestata da politicanti di sinistra verso le organizzazioni armate medio-orientali che combattono gli israeliani;

-la pelosa indifferenza dei politicanti di sinistra in materia di tutela dei minori, notoriamente spesso costretti a indossare determinati abbigliamenti e/o a rispettare determinati riti dannosi alla salute;

-l’omertà inammissibile dei politicanti di sinistra sulle alleanze dei nazisti con gli islamici, storicamente accertate;

-l’indegno riconoscimento della qualifica di “combattenti” conferito da politicanti di sinistra agli islamici terroristi che si suicidano per assassinare a tradimento civili indifesi, definendoli assurdamente “kamikaze” (mentre è storicamente noto come questi ultimi fossero dei veri militari che si sacrificavano combattendo solo contro altri militari);

-l’abdicazione tragicomica alle proprie funzioni di tutela dei lavoratori da parte dei sindacati di sinistra, in materia di igiene e sicurezza del lavoro quando a “lavorare” sono gli islamici;

-lo scriteriato incoraggiamento da parte di Amministratori Locali progressisti, delle iniziative di “nuoto islamico” = pratica che crea “disintegrazione” non certo “integrazione” nella nostra società.

-eccetera… .

Il fallimento epocale tanto del comunismo che dell’islamismo dovrebbero essere sufficientemente evidenti ovunque. Di fronte al fallimento di un “ideale” gabellato come nobile (il comunismo, la legge islamica), i rispettivi sostenitori puntano il dito contro l’elemento umano e non contro i loro ideali = “ci si deve impegnare di più, fare meglio… .” Tuttavia, a un certo punto, quando l’obiettivo mai è conseguito, e i disastri sono dinnanzi agli occhi di tutti, sarebbe logico e necessario incolpare quegli stessi ideali, e abbandonarli alla discarica della Storia. I “rossi” - comunque si chiamino - soffrono probabilmente della sindrome “cupio dissolvi”: ne consegue l’atteggiamento del “tanto peggio tanto meglio”. Gli islamici si rendono conto di essere in ritardo rispetto al resto del mondo in quasi tutti i settori dell’attività umana: una consapevolezza che è causa di disperazione e aggressività. Ambedue le forze rappresentano una minaccia per la Libertà in Italia, e in Occidente. Propongo sinteticamente un paragone storico (azzardato?): come la civiltà romana cadde -anche poiché indebolita al suo interno dal “cristianesimo”- per le aggressioni dei barbari dal nord, così la civiltà italiana rischia oggi di cadere -anche poiché indebolita al suo interno dal “comunismo”- per le aggressioni degli islamici dal Sud. L’ “amore” che molte persone ideologicamente di sinistra manifestano -con azioni e omissioni- per gli islamici (al di là dei comunque meschini interessi di “bassa corte” elettorale), “amore” al quale gli islamici replicano con odio malcelato, oltre che essere un importante punto debole da sfruttare a talento di chi combatte ambedue, è anche interessante materia di studio per psichiatri.

Nel blog Lux/ilcannocchiale ho trovato due pezzi molto interessanti che vi sottopongo e vi consiglio, se avete tempo, di visitarlo e leggere altre pubblicazioni, che sono certa troverete molto interessanti, scrive “Lisistrata”. Dal mio punto di vista sono riflessioni completamente condivisibili, ben articolate, approfondite e mai preconcette, ma analitiche e trattate con estrema intelligenza e lucidità: Perché la maggior parte della sinistra è affascinata e sta dalla parte dell'Islam. C’è una domanda che spesso mi tormenta e a cui fatico a dare una risposta: perché larga parte della sinistra sembra affascinata e spesso sta dalla parte dell’Islam? L’Islam (il termine significa “sottomissione”) è esattamente il contrario dei valori ai quali storicamente la sinistra fa riferimento; la sinistra si è sempre vantata di aver difeso gli ideali di progresso peccando semmai per eccesso e non per difetto; l’Islam è la negazione del progresso, di ogni progresso, sociale, politico, economico, scientifico. Diventa allora per me indispensabile porre alcune domande al “popolo” della sinistra.

Alle femministe (ma ce ne sono ancora? Me le ricordo bene in piazza a gridare: “è mia e me la gestisco io”) a tutti quelli, uomini e donne, che credono e si battono per la parità tra i sessi e per le pari opportunità, a chi ha condotto battaglie per il divorzio e per l’aborto dico: leggete un attimo:

Corano, IV Sura: Versetto 15: “Se le vostre donne avranno commesso azioni infami , portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d'uscita.”

Versetto 34: ”Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande”.

Sura II: Versetto 228: ”Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio.” Tale iman Mohammed Kamal Mustafa ha scritto pure un Vademecum sul modo di picchiare le mogli. E sapete di dov’è? Non si trova in Iran o in Iraq o in Pakistan, ma è consigliere della Federaciòn Espanola de Entidades Religiosas Islàmicas e l’esimio iman di Valencia, Abdul Majad Rejab, gli ha dato ragione sentenziando:”L’iman Mustafa è islamicamente corretto. Picchiare la moglie è una risorsa”, mentre l’iman di Barcellona, Abdelaziz Hazan, ha aggiunto:”L’iman Mustafa si limita a riferire ciò che è scritto nel Corano. Se non lo facesse, sarebbe un eretico”. E non stiamo parlando di terroristi, questo è l’Islam istituzionale delle moschee, è la parola di alcuni tra i più prestigiosi iman europei. Alle femministe, alle donne in genere quindi chiedo: tutto ciò non contrasta con la nostra Costituzione? La Costituzione Italiana non stabilisce l’uguaglianza tra i sessi? Non difende la libertà delle donne? Non vieta atti discriminatori? Non sostiene che i coniugi godono di uguali diritti e doveri? Avete mai fatto una manifestazione per i diritti delle donne islamiche? Non per quelle di Kabul, ma per quelle che abitano a Milano, Genova, Roma, Napoli. Oppure, perché non ne organizzate una a Rabat, o a Teheran, o a La Mecca, o a Medina, o a Damasco? Oppure i valori in cui credete non sono universali (neppure quelli della nostra Costituzione) e valgono sono per la nostra cultura? Parità tra i sessi, uguaglianza e dignità, divorzio e aborto non sono valori di “sinistra”? Allora chi li nega, chi li calpesta continuamente è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

Ai comunisti atei di una volta (ma ce n’è rimasto qualcuno?) quelli che si sarebbero mangiati i preti a colazione, quelli che il Papa non deve intromettersi, a questi mi permetto di ricordare quanto diceva Feuerbach:”La religione è l’infanzia dell’umanità. La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana”. E Marx rincarava la dose: “La religione è il gemito della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra.” A loro dunque chiedo: non è forse l’Islam un potentissimo narcotico delle masse? Il sintomo di una condizione umana e sociale alienata? Il frutto di una società malata? (sempre citando Marx) Oppure questi paradigmi sono valsi solo per la religione cristiana dell’800? Cosa ne pensate di una religione totalizzante che, di fatto, riconosce come unica legge suprema ciò che insegna il Corano, che aspira a teocratizzare ogni Stato? Ve li mangiate anche loro a colazione? Non insorgete? Perché domani potrebbero aspirare ad uno stato islamico italiano fondato sulla Sharia. Se abitaste in uno dei vari paesi islamici, come potreste far valere il vostro sacrosanto diritto a pretendere una legge fatta dagli uomini e per gli uomini? Vi siete mai chiesti che fine fareste? Non sentite ribollire il sangue nelle vene? E’ giusto che in molti paesi islamici le altre religioni siano discriminate? Fa parte della loro cultura e quindi va bene così? Dal Corano:

Versetto 85: “Chi vuole una religione diversa dall'Islàm, il suo culto non sarà accettato , e nell'altra vita sarà tra i perdenti.”

II Sura: Versetto 191: ”Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.”

Sura IV: Versetto 84: ”Combatti dunque per la causa di Allah - sei responsabile solo di te stesso e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l'acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella Sua acrimonia, è più temibile nel Suo castigo.”

Versetto 89: “Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate.” Beh certo, se applicassimo a questi versetti un’analisi testuale e una critica ermeneutica anziché prenderli alla lettera, forse non sarebbero così devastanti. Peccato però che questo non avviene o qualcuno è al corrente di un Islam moderato che interpreta il Corano con un taglio laico e ammette la critica testuale? La libertà di professare la religione che si vuole e quindi anche di professarsi apertamente ateo è un valore di sinistra? Quindi chi lo calpesta è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

E ancora: nei matrimoni misti, sapete darmi dei dati statistici su quale sia la percentuale relativa alla conversione alla fede cristiana del coniuge musulmano? E quale sia invece la percentuale opposta? Può un musulmano, liberamente, cambiare la sua religione e diventare cristiano? No, non può! E può una donna musulmana sposare un uomo di un’altra fede religiosa? NO, non può! Questo non è forse un atto discriminatorio? Considerare un’altra religione inferiore o addirittura da eliminare non è razzismo?
Ai ragazzi e alle ragazze dei centri sociali chiedo: ma se foste in un paese islamico, i vostri centri esisterebbero? Potreste andarci a bere una birra, farvi una canna, ascoltare un po’ di rock e, perché no, farvi una scopata? Perché non aprite un centro sociale in un qualsiasi paese islamico? E’ troppo “occidentale” aprire un centro sociale alternativo al modello “occidentale”? Se poi vi fanno storie, un po’ di sana disobbedienza civile. E che ci vuole, lo fate in tutta Europa non avrete certo timore a farlo là, o sì? La liberalizzazione delle droghe leggere non è forse un tema di sinistra? Ma come la pensano gli islamici in proposito? Essere contro le droghe leggere vuol dire essere di destra? Quindi l’Islam è di destra?

A tutti gli omosessuali, uomini e donne, di destra e di sinistra, chiedo: non vi pare un po’ troppo facile fare le manifestazioni a New York, a Londra, a Roma (sì, proprio dove c’è il Papa), a Parigi? Perché non farne una dove chi si dichiara omosessuale è veramente discriminato e rischia la vita o il carcere? Che so, a La Mecca (l’equivalente di Roma per i cristiani), al Cairo, a Teheran, nei territori palestinesi, perché non lottare per gli omosessuali arabi? E dei matrimoni tra omosessuali cosa ne pensano gli islamici? Avete mai provato a chiederglielo? Noi gli omosessuali dichiarati ce li abbiamo in parlamento e mi sembra giusto: avete conoscenza di qualche omosessuale che sieda in qualche parlamento di un qualsiasi stato islamico? (ma ci sono i parlamenti, lì?) Maometto, secondo la tradizione islamica, condannò l'omosessualità maschile: "Dio maledirà due volte chi commetterà il peccato di Lot". I giuristi più legati alle norme coraniche considerano che la sodomia debba essere trattata come la fornicazione e punita allo stesso modo. In molti paesi arabi è ancora prevista la pena di morte o il carcere per chi è sorpreso in atti omosessuali; in Palestina gli imam spesso emettono sentenze che scagionano un omicida che abbia ucciso un omosessuale. Secondo le antiche interpretazioni giuridiche della legge sacra, gli sposati non schiavi saranno messi a morte per lapidazione, mentre uno scapolo libero riceverà 100 frustate e sarà esiliato per un anno. Nelle sentenze che seguono i processi per sodomia appare tuttavia spesso l'accusa di "matrimonio tra uomini": questo, in riferimento alle antiche norme coraniche pare permetta ai giudici di condannare a morte anche degli omosessuali non sposati.

Quanto al lesbismo, pare che non sia esplicitamente considerato dalla legge islamica: secondo Maarten Schild, autore di "Sessualità ed erotismo maschile nelle società musulmane", il sesso tra donne è considerato in quanto "sesso fuori del matrimonio e quindi paragonabile all'adulterio", la pena tradizionale è sempre quindi la morte o le cento frustate. Abd al-Azim al Mitaani, sceicco e professore all'università religiosa di Al Azhar (Il Cairo), dice in un intervista riportata dal Manifesto del 25 ottobre 2001: "Per quanto riguarda la sodomia, la maggior parte dei dottori dell'Islam considera che sia l'attivo che il passivo devono essere messi a morte”. E precisano anche che se una bestia viene sodomizzata, l'uomo deve essere giustiziato e l'animale abbattuto. L'omosessualità è attualmente illegale in 26 paesi islamici: Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Bosnia, Iran, Giordania, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Siria, Tajikistan, Tunisia, Turkmenistan, Emirati Arabi uniti e Yemen. Tra questi, l'Iran, la Mauritania, l'Arabia Saudita, il Sudan e lo Yemen prevedono la pena di morte; il Pakistan prevede la fustigazione ed almeno due anni di carcere; in Malesia la pena arriva fino a 20 anni e negli Emirati Arabi fino a 14, mentre in Bangladesh e libia la pena è rispettivamente di 7 e 5 anni di carcere. L'Iran è comunque il paese più zelante nel reprimere l'omosessualità: dal 1980, quando i fondamentalisti hanno preso il potere sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, oltre 4000 gay e lesbiche sono stati giustiziati, stando a quanto riferisce il gruppo in esilio per i diritti dei gay, Homan.

Se questi temi sono di “sinistra”, allora chi nega tutto questo e non solo a parole, ma con la violenza, è di destra? O no? Allora l’Islam è di destra? E di quella peggiore?

A tutti i laici (e io sono tale), a quelli che sostengono che lo Stato e la religione devono restare separati, cosa ne pensate delle teocrazie? La teocrazia è la negazione della democrazia, o no? E’ vero o no che nessun paese islamico ha sottoscritto presso l’ONU la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo? E’ vero o no che nei paesi islamici la Sharia è l’unico riferimento per ciò che riguarda i diritti umani? Avete mai provato a chiedere a un islamico cosa ne pensa, ad esempio, di Dante Alighieri che ha messo Maometto all’inferno, o di Voltaire, o di Darwin e dell’evoluzionismo, o di Freud, o della psicanalisi, ecc.ecc.? Qual è il riferimento massimo, per un laico, che consente una convivenza democratica? Forse la Costituzione? E per un islamico? Forse il Corano e, di conseguenza, la Sharia? Avete mai provato a chiedere ad un islamico:”Ma se dovessi scegliere tra obbedire alla Costituzione del paese che ti ospita o a quello che ti comanda il Corano, come ti comporteresti? In caso di contrasto, a cosa dai la precedenza?” Beh, fatelo, chiedeteglielo!

Ai pacifisti senza ma e senza se, ai sostenitori di una società multiculturale, ai sostenitori dell’integrazione ad ogni costo, chiedo: ma siete sicuri che loro, gli islamici, vogliano integrarsi? Leggete per favore, il Corano punisce l’integrazione: Corano, III Sura: Versetto 12: “Di' ai miscredenti: " Presto sarete sconfitti. Sarete radunati nell'Inferno. Che infame giaciglio!".

Versetto 216: ”Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete.”

Sura IV: Versetto 74: ”Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l'altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso ,daremo presto ricompensa immensa.”

Sura V: Versetto 33: ”La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia che li toccherà in questa vita; nell'altra vita avranno castigo immenso”.

Visto che noi italiani abbiamo una crescita demografica pari a zero o poco più, mentre i musulmani che stanno qui si raddoppiano ad ogni generazione (un buon musulmano deve avere almeno 5 figli per moglie) cosa accadrà tra 50-80 anni? Cosa accadrà quando loro saranno il 50% della popolazione o forse di più? A questo, ci avete mai pensato? Cosa accadrà allora? Perché questa non è un’opinione, accadrà perché è una pura e semplice questione matematica. Se la democrazia rappresenta per loro più un mezzo piuttosto che un fine, cosa potrà accadere nel momento in cui saranno (o potranno essere) la maggioranza relativa della popolazione? Volete qualche dato: eccolo! .Considerando i regolari e gli irregolari, il numero di musulmani che vivono in Italia risulta essere stimato oltre il milione. In Europa il loro numero si attesta sui dieci milioni, ed è costantemente in aumento. Infatti, il numero dei neonati musulmani nella Comunità Europea ogni anno è pari al 10%; a Bruxelles arriva al 30% e a Marsiglia tocca il 60%. Sto esagerando? Sono paranoico? L’anno era il 1974, la sede l’Assemblea delle Nazioni Unite, il personaggio l’algerino Boumedienne: cosa disse? Ecco:”Un giorno milioni di uomini abbandoneranno l’emisfero sud per irrompere nell’emisfero nord. E non certo da amici. Perché vi irromperanno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo coi loro figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria”. Recentemente in parlamento è stata votata una legge sacrosanta che tutela gli animali in quanto esseri “senzienti”, cioè capaci di provare dolore; a prendere a calci un cane si rischia il codice penale. Agli animalisti chiedo: ma la macellazione halal praticata dagli islamici che consiste nello sgozzare l’animale ancora vivo e lasciare che muoia dissanguato in una lenta agonia, vi sembra rispettosa di un essere “senziente”? Non avete nulla da dire? Nulla da obiettare? Cosa dicono i verdi animalisti? Se da un punto di vista antropologico il relativismo culturale è una teoria che ha solide radici teoriche (in pratica dice che ogni cultura elabora modalità diverse per rispondere agli stessi fondamentale bisogni, quindi ogni cultura ha la sua dignità e ogni azione, anche la più orrenda, se inserita nella cultura d’origine assume un suo significato) cosa accade quando una cultura “trasmigra” in un altro territorio dove c’è una cultura diversa? Insomma, semplificando, se ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare, cosa accade quando c’è chi lo vorrebbe fare a casa degli altri? Fin dove arriva il confine tra ciò che può concedere l’ospite al suo ospitato? Perché anche per i cannibali mangiare l’uomo è un fatto “culturalmente normale”, ma non per questo permetteremmo ad un cannibale di mangiarsi qualcuno a casa nostra. Il principio di reciprocità (io ti permetto di fare a casa mia ciò che tu mi permetti di fare a casa tua) può essere considerato una forma di valido compromesso? Alla fine ritorno alla domanda iniziale: cosa accomuna un militane della sinistra, un comunista, un ex-comunista, un laico all’Islam? Ad un iman? Ad un ayatollah? Agli ulema? Nulla…sembrerebbe…eppure…Tu l'hai capito perché la sinistra sta dalla parte dell'Islam? “Tu lo hai capito, Lei lo ha capito perché la Sinistra sta dalla parte dell’islam?” E tutti rispondevano:”Chiaro. La Sinistra è terzomondista, antiamericana, antisionista. L’Islam pure. Quindi nell’Islam vede ciò che i brigatisti chiamano il loro naturale alleato”. Oppure:”Semplice. Col crollo dell’URSS e il sorgere del capitalismo in Cina, la Sinistra ha perduto i suoi punti di riferimento. Ergo, si aggrappa all’Islam come a una ciambella di salvataggio”. Oppure:”Ovvio. In Europa il vero proletariato non esiste più, ed una Sinistra senza proletariato è come un bottegaio senza merce. Nel proletariato islamico la Sinistra trova la merce che non ha più, ossia un futuro serbatoio di voti da intascare”. Ma sebbene ogni risposta contenesse un’indiscutibile verità, nessuna teneva conto dei ragionamenti sui quali le mie domande si basavano. Così continuai a tormentarmi, a disperarmi, e ciò durò finché m’accorsi che le mie domande erano sbagliate. Erano sbagliate, anzitutto, perché nascevano da un residuo rispetto per la Sinistra che avevo conosciuto o creduto di conoscere da bambina. la Sinistra dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei compagni morti, delle mie utopie infantili. La Sinistra che da mezzo secolo non esiste più. Erano sbagliate, inoltre perché nascevano dalla solitudine politica nella quale avevo sempre vissuto e che invano avevo sperato d’alleggerire cercando d’annaffiare il deserto proprio con chi lo aveva creato. Ma soprattutto erano domande sbagliate perché sbagliati erano  i ragionamenti o meglio i presupposti su cui esse si basavano. Primo presupposto, che la Sinistra fosse laica. No: pur essendo figlia del laicismo partorito dal liberalismo e quindi a lei non consono, la Sinistra non è laica. Sia che si vesta di nero sia che si vesta di rosso o di rosa o di verde o di bianco o d’arcobaleno, la Sinistra è confessionale. Ecclesiastica. Lo è in quanto deriva da un’ideologia che s’appella a Verità Assolute. a una parte il Bene e dall’altra il Male. Da una parte il Sol dell’Avvenir e dall’altra il buio pesto. Da una parte i suoi fedeli e dall’altra gli infedeli anzi i cani-infedeli.

La Sinistra è una Chiesa. E non una Chiesa simile alle Chiese uscite dal cristianesimo quindi in qualche modo aperte al libero arbitrio, bensì una Chiesa simile all’Islam.

Come l’Islam, infatti, si ritiene baciata da un Dio custode del Bene e della Verità.

Come l’Islam non riconosce mai le sue colpe e i suoi errori. Si ritiene infallibile non chiede mai scusa.

Come l‘Islam pretende un mondo a sua immagine e somiglianza, una società costruita sui versetti del suo profeta Karl Marx.

Come l’Islam schiavizza i suoi stessi fedeli, li intimidisce, li rincretinisce anche se sono intelligenti.

Come l’Islam non accetta che tu la pensi in modo diverso e se la pensi in modo diverso ti disprezza. Ti denigra, ti processa, ti punisce, e se il Corano ossia il Partito le ordina di fucilarti ti fucila.

Come l’Islam è illiberale, insomma. Autocratica, totalitaria, anche quando accetta il gioco della democrazia. Non a caso il 95% degli italiani convertiti all’Islam vengono dalla Sinistra o dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il 95% dei musulmani naturalizzati cittadini italiani, idem. (Il mascalzone che non vuole il crocefisso nelle scuole o negli ospedali e che ai suoi confratelli scrive Andate a morire con la Fallaci viene dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il suo compagno è stato addirittura in carcere per sospetta connivenza con le Brigate Rosse).

Come l’Islam, infine, la Sinistra è anti-occidentale. E il motivo per cui è anti-occidentale te lo dico con un brano del saggio che negli Anni Trenta il liberale austriaco Friedrich Hayek scrisse a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazionalsocialista.

Ecco qua. “Qui non si abbandonano soltanto i principi di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano  le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montagne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato. L’individualismo, il concetto di individualismo, che attraverso gli insegnamenti fornitici dai filosofi dell’antichità classica poi dal Cristianesimo poi dal Rinascimento poi dall’Illuminismo ci ha reso ciò che siamo. Il socialismo si basa sul collettivismo. Il collettivismo nega l’individualismo.  E chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale” Oriana Fallaci, “La forza della ragione” pp.221-225.

Sinistra e musulmani in piazza contro terrorismo e l'islamofobia. Migliaia in piazza Duomo a Milano contro il terrorismo. Ma anche per ribadire opposizione totale a una destra definita "razzista e portatrice di odio". Quasi che la responsabilità degli attentati fosse sua, scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Bandiere della pace, "Bella Ciao", falci e martelli. E poi Emergency, le Acli, No Tav e No Muos, curdi e attivisti pro Palestina. Tra i partecipanti alla manifestazione indetta oggi a Milano per condannare gli attentati contro Charlie Hebdo sfila il classico repertorio di sigle e movimenti della sinistra radical chic. Tra loro, un discreto numero di musulmani, molti giovani, qualche famiglia con bambini. Gli slogan sono quelli di sempre, a favore del multiculturalismo e dell'integrazione, contro la destra italiana definita "xenofoba" e "razzista". Cose già viste e riviste, oggi riproposte per l'ennesima volta in occasione della celebrazione delle vittime di Charlie Hebdo. Due le parole d'ordine: no al terrorismo e no al razzismo. Dei fondamentalisti il primo, della destra il secondo. Due parole d'ordine messe naturalmente in correlazione: il terrorismo che alimenta il razzismo è a sua volta, in parte, il prodotto di una politica intollerante e discriminatoria. Questa è la tesi soprattutto della sinistra, presente al gran completo a partire dagli alti gradi della giunta Pisapia (il sindaco non c'è, ma manda i suoi saluti): "nous sommes Charlie", prima di tutto. E poi passiamo a contrastare il pericolo verde-nero. Più diritti, più integrazione, più moschee: è questa la ricetta proposta per rispondere agli attentati di Parigi. Una ricetta che, per la verità, è la stessa degli ultimi quindici anni. A sinistra, i fatti degli ultimi giorni hanno cambiato poco, in termini di proposte. Più lineare la posizione dei musulmani (non moltissimi tra le migliaia di persone radunatisi all'ombra della Madonnina): i giovani di "Partecipazione e spiritualità musulmana" esibiscono cartelli con l'hashtag "non in mio nome". Rivendicano la differenza tra Islam e terrorismo, ma c'è anche chi non rinuncia all'idea di porre un limite alla satira, "quando offende la libertà e la sensibilità, soprattutto in campo religioso". Per il rappresentante legale del Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche Milanesi) Reas Syed l'espressione "terrorismo islamico" è un ossimoro. Syed rivendica il messaggio di pace dell'Islam e ribadisce che le azioni di chi compie attentati in nome di Allah non siano attribuibili all'Islam tout-court. Tra la sinistra radicale, però, c'è anche chi identifica il problema con la destra e l'Islamofobia. "Salvini è la barbarie e questa piazza è la risposta alla barbarie - attacca il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero - La condanna del terrorismo è nettissima e bisogna sapere che chi semina odio lavora ad alimentare queste dinamiche". Parole dure, pronunciate in una piazza dove appena tre mesi fa il leader della Lega radunava centomila persone per dire no all'immigrazione clandestina, in quella che è stata la maggiore manifestazione della destra italiana degli ultimi anni. Ora sotto le guglie del Duomo la sinistra rosso-arancio torna contarsi con gli slogan di sempre. All'indomani delle stragi parigine, le parole più emblematiche sono quelle di Cecilia Strada, presidente di Emergency e figlia di Gino: "No alla violenza e no al terrorismo". Ma anche "No a chi odia e specula sui fatti di sangue per calcolo elettorale". Porte chiuse agli "islamofobi" quindi, anche se i partiti nel mirino rappresentano milioni di italiani. D'altronde in Francia il Front National di Marine Le Pen è stato escluso dalla grande manifestazione nazionale di domani. Anche qui, in gran parte, la piazza sembra approvare. In corteo c'è posto solo per chi condanna il terrorismo. E l'islamofobia.

Così la sinistra con la kefiah ha creato l'Italia saudita. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica. Per noi è più dura che per gli altri, visto che veniamo da decenni di andreottismo islamico, un barile di petrolio a me e una licenza d'uccidere a te, che ha sminuzzato e invertito la storia, la geografia, i valori, allevando due generazioni di arraffatori politicamente corretti e ipocriti. Di quell'andreottismo furbo e affarista, sminuzzatore e insabbiatore si è nutrita una sinistra felice di mettersi la kefiah e, quando possibile, passeggiare su e giù a braccetto con Hezbollah. L'Italia è stata la patria degli intrugli più disgustosi fra servizi segreti che hanno coperto stragi senza senso apparente (Ustica? Bologna?) perché loro il senso lo conoscevano benissimo. L'Italia dei killer a caccia di dissidenti, come quelli libici con diritto di uccidere nel 1980, l'Italia di Daniele Pifano con il lanciamissili sul balcone per abbattere un aereo israeliano, l'Italia che lascia ammazzare italiani ebrei alla sinagoga e che subisce senza fiatare l'attacco a Fiumicino; l'Italia con la kefiah arafattiana, in intrallazzo libanese, in affari sottosabbia con emirati e con tiranni di ogni dimensione e sorta, perché gli affari sono affari e con la speranza che così agendo alla fine qualcuno ti è grato e l'immunità si può comperare. Errore. Nella crociata appena scatenata e di cui la Francia vede le prime ferite non si fanno prigionieri, non si scontano cambiali, non esistono club di benemerenza. L'Italia fronteggia la nuova crisi in condizioni molto peggiori della Francia che, con i suoi sei milioni di musulmani registrati e perfino autoctoni, ha almeno consapevolezza del problema. Da noi no. Da noi la crociata che ci viene scagliata contro attraverso la paura (per ora, e tocchiamo ferro) con gli insulti, con le bugie e con un sostanziale antisemitismo strisciante che fa da miccia ai fuochi fatui delle discariche sembra apparentemente lontana: come guardare un cinghiale che ti carica con un binocolo rovesciato. Le carte si sono ormai rovesciate e da crociati che fummo noi europei - noi? e che c'entriamo noi? - ora siamo la Gerusalemme assediata da truppe militari e mediatiche, tagliagole e gente pronta a farsi saltare in aria senza batter ciglio. Ce la può fare l'Italia in mezzo alla tempesta di lava, colma com'è di pregiudizi e di oblio? Abbiamo visto ieri di che cosa si tratta. La crociata che la parte più aggressiva e sincera dell'Islam ha lanciato contro l'Occidente non potrà essere respinta soltanto con i corpi speciali chiamati a recuperare ostaggi e vendicare la libertà di espressione, prima ancora che la libertà di stampa. Che si tratti di una crociata contro di noi è ormai evidente. I nuovi crociati islamici si radunano per vie visibili sentieri militari carsici elettronici, tornano addestrati nelle patrie matrigne in cui sono nati ma che odiano, e assediano la nostra Gerusalemme al cui interno si commettono delitti impronunciabili come la parità dei diritti delle donne, la loro istruzione, la graduale garanzia di una vita sessuale gioiosa nel rispetto dell'età e del libero arbitrio. E poi il più satanico dei nostri peccati: la Storia. Abbiamo incoraggiato la Storia a svolgersi separando idee e secoli, costumi e mode, abbiamo festeggiato le nostre contraddizioni. I crociati islamici chiedono con le armi in pugno che il tempo resti inchiodato su un orologio di legno in cui tutti, sempre, ovunque, vestano, parlino, agiscano, in modo tale da non rendere possibile la distinzione fra un'era e un'altra, un prima e un dopo. I nuovi crociati che ci assediano con le catapulte per rovesciarci fuochi di angoscia e fiumi di sangue nelle nostre redazioni satiriche, nelle nostre scuole, nei luoghi simbolici come le torri di Babele di Manhattan, perché non vogliono che il mondo conosca le rughe del progresso, ma soltanto la levigatezza viscida dell'immobilità. Si legge che i nuovi combattenti giovanissimi dell'Isis, o del Jihad, o di al Quaida sono «entusiasti». Ebbri di entusiasmo, febbricitanti per il desiderio di infliggere la morte, la punizione, la vista orrenda delle decapitazioni, l'immagine dei bambini uccisi uno a uno in ginocchio nelle scuole. La loro adrenalina, quella dei nuovi crociati, scorre felice e divampante nelle loro arterie pulsanti e quell'adrenalina accende la furia della distruzione. Quel che i nuovi crociati islamici vogliono, anelano, sognano, è soltanto la distruzione. Chiamano Califfato la liberazione dalla libertà, la liberazione dalla ricerca scientifica, la liberazione da Mozart, da Michelangelo, da Picasso. La liberazione dalla scienza che produce ricerca e medicine, mentre l'estro dei liberi detta letteratura, musica popolare e poesia. E - i nuovi crociati - odiano più di tutti gli ebrei che originati da Giudea e Samaria, sicché per loro un supermercato kosher è un giusto obiettivo e un bambino ebreo di sei mesi un nemico da catturare. Finora la nostra Gerusalemme assediata ha traccheggiato, finto di non capire, agito con una colpevole lentezza zavorrata dai sensi di colpa che sono il più complicato frutto della civiltà occidentale. I due fratelli Kouachi, carnefici miserabili dei giornalisti armati di sola matita, sono stati uccisi nella tipografia di Dammartin - evidentemente non si poteva far altro - malgrado la raccomandazione di prenderli vivi. Ha prevalso il criterio di salvare le altre vite umane. Ma quanti sono disposti ad ammettere che sarebbe stato etico, giusto, buono e opportuno che i due Kouachi fossero stati interrogati, se presi vivi, con tutta la crudele energia necessaria per far loro dare tutte le informazioni utili per questa guerra? Ma l'Occidente assediato è ipocrita, prova orrore per le sue stesse armi e finge di credere che i nuovi crociati siano vittime, sue vittime, e li assolve in anticipo per ogni mostruoso show in cui si spengono vite. L'Occidente si flagella per le antiche crociate di mille anni fa, ma ignora che l'urbanistica e la paesistica italiana, i paesi arroccati sulle colline difesi da un maniero sono state stravolte dai predatori islamici che per secoli hanno stuprato, schiavizzato, deportato le nostre coste. Può farcela a resistere questo nostro Paese slogato dalla furbizia? Capirà che in modo pacato e sereno, senza furie inutili o grida di guerra, si deve preparare a una guerra, deve combattere e non farsi sopraffare? I nuovi crociati contano sulla nostra storica vocazione a fare il pesce in barile, meno interessato al pesce, molto al barile.

Non siamo tutti Charlie. Siamo politicamente corretti, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Non siamo tutti Charlie. È inutile ripeterlo ossessivamente e prenderci in giro. Purtroppo, o semplicemente perché siamo diversi. Facciamocene una ragione. Siamo con Charlie Hebdo, ma non siamo Charlie Hebdo. Perché viviamo in un Paese che le vignette le cancella con la gomma dell’insofferenza e dell’arroganza, che incarcera i giornalisti e che detesta la critica. Viviamo in un Paese bigotto che vezzeggia gli islamici e minaccia di incarcerare chi sbeffeggia il capo dello Stato. Figuriamoci quanto sarebbe durato Charlie a queste latitudini; un settimanale che prende di mira Dio, Maometto e il Papa. Giovannino Guareschi è finito in galera per una risata di troppo. Difatti in Italia riviste di satira feroce e corrosiva non ce ne sono. E se ci sono, come il Vernacoliere, si dilettano a punzecchiare gli slombati politici italiani o gli innocui cattolici. Guai a toccare l’Islam. Più che per paura della vendetta dei maomettani (almeno fino a questa settimana) per il timore di finire sotto il tiro dei potenti gendarmi del politicamente corretto. La strage in redazione – in quella redazione – è un simbolo. Una sventagliata di mitra lanciata al sorriso dell’Occidente. Ci hanno buttato giù tutti i denti, ma noi dobbiamo sorridere anche sdentati. Perché quella è la nostra forza, deve essere la forza della nostra cultura. Il sorriso e l’irriverenza. Dobbiamo cercare di essere un po’ Charlie, di avere quello spirito, applicato alle nostre idee.  La solidarietà va bene. Ma togliamoci dalla testa di essere tutti Charlie. Perché dopo che ci hanno bruciato la redazione non so in quanti continueremmo a disegnare con costanza e a testa alta la nostra condanna. Mi viene in mente una frase di Ezra Pound: se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.

Le Pen e Salvini i grandi esclusi. La sinistra non li vuole in piazza. Alla faccia dell'unità nazionale: Front National e Lega restano emarginati. Sono persone non gradite. Li temono più del terrorismo? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Alla faccia dell'unità nazionale. La minaccia terroristica dovrebbe ricompattare un Paese, senza distinguo. Ma la sinistra, anzi, le sinistre di Francia e Italia fanno comunella e stabiliscono chi possa partecipare o meno alle manifestazioni di solidarietà per le vittime delle stragi jihadiste. Questi prefetti del «buonismo» hanno perciò deciso che le patenti di presentabilità non vanno rilasciate alla Lega e al Front National. Sembra che abbiano più paura di Matteo Salvini e di Marine Le Pen che dei terroristi islamici. Così alla manifestazione di ieri, organizzata dal Pd, Sel, Anpi e compagnia cantante in piazza Duomo a Milano, la Lega non è stata invitata. Stessa musica a Parigi, dove la gauche caviar ha escluso il Front National dalla grande kermesse che si terrà oggi e dove sfileranno, oltre agli esponenti della sinistra francese anche quelli nostrani, con il premier Matteo Renzi in testa. «Mi fa pena pensare che Renzi sfilerà per le strade di Parigi, quando con le sue politiche a favore dell'immigrazione di massa è complice di quello che rischia di accadere in futuro - ha detto il segretario della Lega Salvini - L'islam è pericoloso, nel nome dell'islam ci sono migliaia di persone in giro per il mondo, e anche sui pianerottoli di casa nostra, pronte a sgozzare e a uccidere». Salvini, assieme ai militanti milanesi, ha distribuito ieri le vignette satiriche di Charlie Hebdo nei pressi del Palasharp, area nella quale la giunta rossa di Milano vuole autorizzare la costruzione di una moschea. «Sono preoccupato - ha aggiunto il leader leghista - perché sia il governo Renzi sia la giunta Pisapia non hanno capito cosa stanno facendo. La Lega farà tutto il possibile affinché le moschee non siano aperte, anche con referendum». Che si tratti di temi sensibili, lo ammettono tutti. Ma la sinistra, nonostante l'acclarata emergenza, appare miope, se non cieca. E il minimizzare il pericolo attentati e negare l'evidenza sulla minaccia jihadista, come hanno scelto di fare il presidente socialista François Hollande e la sua corte salottiera, ha fatto abbassare la guardia a un intero Paese, permettendo una strage senza precedenti a Parigi. Il nostro governo vuole copiare gli errori francesi? Ci auguriamo di no. Hollande e il suo esecutivo, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, erano più preoccupati dell'ascesa del Front National che del pericolo islamico incombente. Così hanno messo la sordina a tutti gli episodi premonitori per non portare ulteriori consensi al partito in ascesa della Le Pen. «In Francia, da tempo i presidenti di sinistra hanno paura di essere accusati di razzismo quando attaccano il terrorismo - ha affermato in un'intervista a La Repubblica il tesoriere del Front National, Walleran de Saint Just - E così anche noi veniamo tacciati di xenofobia, in modo vergognoso, solo perché siamo contro i terroristi. Questo atteggiamento deprime i francesi, che si sentono poco protetti. La sinistra ha una grande responsabilità morale e politica». Quindi, in Francia come in Italia, chi denuncia apertamente le minacce del fondamentalismo viene discriminato, isolato, delegittimato. Strategia molto cara ai post comunisti. Ma sono sicuri di essere al riparo facendo gli ignavi? Credono forse che il loro «politicamente corretto» impedisca al jihadista di turno di tagliargli la gola? Poveri illusi, gli integralisti islamici hanno un'unica parola d'ordine: gli infedeli devono essere cancellati. Per questo fanno ridere quando parlano di valori, di Occidente, di unità nazionale e allo stesso tempo discriminano una parte consistente del Paese. «È squallido che con i cadaveri ancora da seppellire ci sia qualcuno che isola altri, come la Lega e la Le Pen - ha spiegato Salvini - Poi saremmo noi a strumentalizzare? Noi rappresentiamo la maggioranza degli italiani». Sì, è davvero squallido attaccare le opinioni di una partito piuttosto che condannare i terroristi islamici.

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Un divario destinato a diventare voragine. Il divario con la cultura occidentale è destinato a diventare una voragine. Gli ospiti devono osservare le nostre regole, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I fatti tragici di Francia sono l'ennesima conferma che esiste un abisso tra la cultura occidentale e quella di stampo islamico, che è sostanzialmente rimasta al Medioevo e non accenna a evolversi, anzi sta assumendo sempre di più i caratteri del fondamentalismo. Anche gli islamici immigrati da decenni si sono guardati dall'integrarsi nella nostra società e hanno conservato gelosamente abitudini e costumi atavici della loro terra, trasmettendo ai figli e ai nipoti tradizioni che collidono con le nostre. Altrimenti non si giustificherebbe che molti giovani della seconda e terza generazione, allevati e cresciuti in Europa, siano reclutati da gruppi terroristici animati dal desiderio di combattere contro le nazioni che li accolgono e che hanno concesso loro la cittadinanza con ogni diritto connesso. Non è il caso di dire che la nostra civiltà è superiore, ma non vi è dubbio che sia assai diversa e non si concili con quella improntata agli insegnamenti coranici, spesso interpretati arbitrariamente e/o pedestremente allo scopo di piegarli a scopi politici o bellici. La Bibbia contiene numerosi versi che incitano alla violenza simili a quelli del Corano, ma è indubbio che i cristiani ne abbiano offuscato il significato letterale: ora si attengono al Vangelo, considerando l'antico Testamento una sorta di libro mitologico. È altresì vero che nel secolo scorso, quindi abbastanza recentemente, la cultura occidentale ha espresso mostruosità attraverso regimi totalitari e sanguinari, il nazifascismo e il comunismo, ma è un dato che essi sono stati abbattuti o sono implosi sotto la spinta di movimenti democratici maggioritari. Non si può infine negare che dalle nostre parti abbia avuto il sopravvento l'Illuminismo, cui si deve la prevalenza dell'intelligenza personale sui dogmi religiosi, e ciò ha favorito una distinzione netta fra etica sacra e etica civile, la cui convivenza è realizzabile a condizione che non si sovrappongano, a rischio che una di esse sia annullata. Per noi occidentali sono inconcepibili sia lo Stato etico sia la teocrazia, che, invece, dominano nei Paesi dove gli islamici hanno trasformato in leggi i propri principi. Va da sé che teocrazia e democrazia sono antitetiche e, pertanto, incompatibili. I musulmani del resto, quelli immigrati nelle nazioni politicamente evolute, difficilmente riconoscono il primato dei codici democratici e obbediscono piuttosto ai precetti coranici, tramandati di padre in figlio, che stridono con il laicismo, accettato di buon grado perfino dagli italiani, per secoli succubi di un cattolicesimo oscurantista. I contrasti fra le due civiltà sono insanabili, e sembrano addirittura destinati ad accentuarsi: mentre l'Occidente progredisce anche sul piano dei diritti umani e civili, il Medio Oriente rimane fermo, ingessato nei pregiudizi. Tutto questo non significa che i cristiani europei e americani abbiano tutte le ragioni e nessun torto. Il terrorismo è un fenomeno relativamente nuovo e cominciato per ritorsione contro di noi, autori di autentiche invasioni militari in Irak, Kuwait e Afghanistan (per citarne alcune) che hanno inasprito i rapporti, esasperato gli animi e provocato centinaia di migliaia di vittime che hanno acceso lo spirito di vendetta nelle popolazioni aggredite. Sappiamo che certe iniziative belliche sono state assunte dagli Stati Uniti e alleati non con finalità umanitarie, bensì economiche: per vari lustri l'obiettivo non era liberare popoli oppressi da satrapie ed esportare la democrazia tra gente che non sa nemmeno cosa essa sia, bensì per succhiare petrolio e controllare (male) il mondo. Anche di questo bisogna tenere conto se intendiamo capire: ciò che accade oggi è la conseguenza anche di quanto accaduto in passato. Dopo di che è buona cosa persuadersi che andare d'accordo si può, ma con metodi diversi da quelli adottati sino ad ora. Il terrorismo si vince concedendo a tutti piena libertà, ma ciascuno a casa propria e non in quella di altri. E gli ospiti si comportino da ospiti e non da contestatori: si adattino allo stile di chi li ha invitati o tornino in patria. La base del rispetto è non intromettersi nelle vicende che non ci riguardano. A ogni Paese va data la facoltà di trovare al proprio interno il modo di risolvere i propri problemi, anche mediante la guerra civile. E gli Stati Uniti si mobilitino soltanto su gentile richiesta e non per ristabilire l'ordine a essi caro, ma sgradito a chi lo subisce. Viceversa saremo sempre in guerra.

Perugia, gruppo di stranieri profana una statua della Madonna. Un gruppetto di immigrati ha distrutto una statua della Vergine e ci ha urinato sopra. Ma il vescovo ammonisce: "Non è un atto di odio religioso", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Una profanazione rivoltante, che ha offeso la sensibilità di tutta Perugia. Una statua della Madonna distrutta e presa a calci da un gruppo di vandali stranieri, che sopra l'immagine sacra avrebbe anche orinato. Un uomo stava pregando davanti alla Madonnina di via Tilli, inginocchiato con la fotografia di una persona cara in mano, quando è stato aggredito da un gruppo di stranieri che lo hanno insultato e gli hanno strappato la foto dalle mani. Quindi si sono accaniti contro la statua della Vergine, scaraventandola giù dall'edicola e spezzandola in due. Quindi, racconta la Nazione, hanno aggravato l'oltraggio spingendosi fino ad orinarci sopra. Venerdì, fortunatamente, la statua è stata ricollocata nella sua collocazione originaria e sul luogo della profanazione è stato recitato un Santo Rosario di riparazione. Dalla Diocesi è arrivata una ferma condanna dell'atto sacrilego, ma anche un invito a "non attribuire questo episodio a un gesto di odio religioso". "Per l'Islam la figura di Maria è molto importante: è la Madre del profeta Gesù concepito nella verginità e la Beata Vergine è la donna più santa - ha commentato il vescovo ausiliare di Perugia-Città della Pieve, mons. Paolo Giulietti - Molti musulmani vengono in preghiera nei santuari mariani del Medio Oriente. Non si può attribuire questo gesto di vandalismo, che come ho detto va condannato in ogni senso, ad un episodio di odio religioso. E' importante non alimentare la diffidenza reciproca soprattutto in questo momento."

Complotti e teoremi: imbecilli scatenati sul web. I dietrologi sono scatenati, negano persino l'esecuzione del poliziotto: "Poco sangue", scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Un partito dell'imbecillità politicamente connotato a sinistra. È quello che sta emergendo, soprattutto sui social network, in questi giorni successivi agli attentati terroristici di Parigi. Un partito transnazionale che ha le sue propaggini nel nostro Paese e che ha una sua precisa carta d'identità «ideologica»: cercare di difendere l'Islam in quanto alternativo all'Occidente e agli Stati Uniti. Parlare di America non è un caso. Come dopo l'11 settembre anche in questi giorni su Facebook e Twitter spuntano strane manifestazioni che mettono in dubbio la veridicità dei fatti. In particolar modo, ha suscitato molti dubbi l'uccisione del poliziotto Ahmed Merabet: «Non si vede il bossolo» e «c'è poco sangue» sono i capisaldi dei complottisti. Che sono sicuri della volontà della Cia o del Mossad di creare un nemico in realtà inesistente. Certo, vista la commozione suscitata dai massacri molti tendono a frenarsi, ma alcuni non ci riescono proprio. Il caso più eclatante in Italia è stato quello del Movimento 5 Stelle: il blog di Grillo ha lasciato spazio a una considerazione del professor Aldo Giannuli che non ha messo in dubbi che la strage sia stata di matrice islamica, ma che gli attentatori siano stati «lasciati fare» da qualcuno. E fin qui siamo nella classica dietrologia all'italiana. Poi, che deputati grillini come Bernini o Sibilia (quello dei microchip) abbiano dato corda a queste tesi, enfatizzando l'omicidio dell'economista antieuro Bernard Maris nella sede di Charlie Hebdo , è un altro paio di maniche. Anche il rigoroso Fatto Quotidiano tra i blog del proprio sito internet ha ospitato l'intervento di una giornalista, Ludovica Amici, che ha scritto: «Chi paga questi jihadisti, chi li addestra e chi li arma, considerato che giravano con dei kalashnikov? I due fratelli potrebbero aver combattuto in Siria con armi fornite loro dal governo francese». Insomma, la verità sembra sempre accertata, ma potrebbe anche essere differente da quella che tutti sembrano osservare. Un po' come Piazza Fontana: dietro c'è sempre un «grande capo» che ha orchestrato tutto. Oppure, ci sono Paesi che in qualche modo si sentono discriminati, a torto o a ragione, che ne approfittano per fare propaganda. Ad esempio, una televisione russa ha sostenuto che gli attentati siano stati organizzati ad hoc per aumentare la pressione contro Mosca. Stesso discorso in Turchia dove la laicità dello Stato viene da più parti messa in discussione. Dietro la strage ci sarebbero servizi segreti deviati con lo scopo di «far crescere l'islamofobia», ha scritto il quotidiano Yeni Safak . Sempre in Turchia c'è chi vede il dittatore siriano Bashar al-Assad, nemico dichiarato dell'Isis, come ispiratore del clima da guerra fredda. E anche in Paesi moderati come la Georgia è stato hackerato il sito della catena francese di supermercati Carrefour con un messaggio eloquente: «Siamo musulmani, il Corano è il nostro libro, crediamo e lavoriamo per Dio, maledetto sia Charlie Hebdo !». Non è un caso: dappertutto l'Islam è l'ultima ancora di salvezza contro il capitalismo americano dopo il crollo dell'Urss. E torniamo così al grillino Bernini. «Non a caso tutte le guerre moderne dell'America nascono da una menzogna!», ha scritto. Come volevasi dimostrare.

La nostra lotta al terrorismo? I giudici condannano Allam. Il verdetto contro il giornalista a Milano, nei giorni degli attentati in Francia. Per le toghe ha offeso i musulmani, ma nel 2007 aveva solo predetto: "Tentano di imporci lo stato islamico", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Siamo tutti Charlie Hebdo. Però l'asticella della libertà di parola non è fissata una volta per tutte. Oscilla, può salire ma può anche scendere ed essere compressa quando le parole sono un atto d'accusa. Capita, è capitato in questi giorni drammatici innescando un cortocircuito inquietante fra la tragedia di Parigi e il palazzo di giustizia di Milano. Dove Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, è stato bacchettato per il suo j'accuse contro l'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche italiane. Nessun legame diretto, ci mancherebbe, fra l'Italia e la Francia, però una vicenda su cui riflettere. Dunque, Allam, oggi editorialista del Giornale e in passato vicedirettore del Corriere della sera , viene condannato per un articolo in cui attacca il volto più importante dell'Islam italiano. In primo grado Allam era stato assolto: i giudici del tribunale civile di Milano gli avevano fatto scudo dietro il principio della libertà di critica. Oggi quella protezione viene tolta dalla corte d'appello che capovolge il verdetto e condanna Allam a risarcire l'Ucoii. Un dietrofront clamoroso, proprio nelle ore in cui la Francia e l'Occidente vivono una delle pagine più buie della loro storia e il mondo intero si interroga sulle ambiguità dell'Islam e si chiede dove passi il confine fra l'Islam cosiddetto moderato e quello più radicale. Nel pezzo pubblicato il 4 settembre 2007 Allam racconta la storia di Dounia Ettaib, allora vicepresidente dell'Associazione donne marocchine, aggredita da alcuni connazionali vicino alla moschea di viale Jenner a Milano. Un grave episodio di intimidazione, ancora più grave perché accaduto nelle nostre strade. Allam definisce «tutti noi italiani vittime, inconsapevoli o irresponsabili, pavidi o ideologicamente collusi, che non vogliamo guardare in faccia la realtà, che temiamo al punto di essere sottomessi all'arbitrio o alla violenza di chi sta imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano». Parole, come si vede, attuali che paiono scritte dopo la tragedia del giornale satirico francese. Parole che in primo grado i giudici avevano ritenuto non censurabili perché frutto delle legittime opinioni di Allam. Ora il giudizio cambia e arriva la condanna. Nel pezzo Allam faceva anche i nomi e i cognomi di chi sosteneva le tesi dell'Islam più radicale e aveva chiamato in causa l'Ucoii: non c'è «alcun dubbio che nelle moschee e nei siti islamici dell'Ucoii e di altri gruppi islamici radicali si legittimi la condanna a morte degli apostati e dei nemici dell'Islam». Sarebbe questo il punto controverso che avrebbe portato alla condanna di Allam: per i magistrati non si tratterebbe di libertà di critica ma di diffamazione. «La verità - spiega al Giornale l'avvocato Luca Bauccio, legale dell'Ucoii- è che Allam ha scritto il falso. Non è vero che l'Ucoii dia una qualche forma di copertura alle tesi dell'Islam più violento. Anzi, l'Ucoii è l'unica associazione di matrice islamica che abbia firmato la Carta dei valori e ammessa alla Consulta dell'Islam». Il tema è difficile e scivoloso, ma certo Allam è uno degli opinionisti più acuti e duri nei confronti dell'Islam. E della minaccia che oggi le schegge militarizzate del jihidaismo rappresentano per l'Italia. L'articolo incriminato si concludeva con una domanda angosciante che otto anni dopo è ancora lì, pesante come un macigno: «Continueremo a imitare lo struzzo votato al suicidio nell'attesa che i terroristi islamici attuino la loro giustizia qui a casa nostra?» Un quesito che Allam rilancia oggi: «Io racconto la realtà dell'Islam che i tanti commentatori politically correct non vogliono sentire: l'Islam è incompatibile con la nostra democrazia e la nostra civiltà. In gioco non c'è solo la mia libertà di parola, ma quella di tutti noi».

L’urlo di Khomeini: «L’Islam è tutto, la democrazia no». La scrittrice intervistò il leader della rivoluzione iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì. Scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979. Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini. Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.

Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla. Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.» Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.

No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia. Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e...» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevaron di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».

No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente? Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».

E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare? «Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».

Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato. «No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».

Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei.  «No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà». Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.

Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra...«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»

Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla? «Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».

In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà. «Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».

Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà? «La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole...». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.

Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”. Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».

Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica. «Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.

Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?. «Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».

Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello. «Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».

Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo? «Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargan la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce». Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.

«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia...» «Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».

Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio. «Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».

Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena. «Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.

Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo...«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare». Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.

Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno? «No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».

Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute? «Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».

Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia? «Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».

«Io dico che non viene». «Se non vuol venire, non venga».

E Farah Diba? «Per lei deciderà il tribunale».

E Ashraf? «Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».

E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà. «Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».

A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico? «Che cosa, che cosa?»

Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto? «Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.

La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador? E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»

Prego? Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro? Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera). La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro). Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta. Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.

Marco Travaglio, travaso di bile: insulta Filippo Facci (e si auto-smentisce), scrive “Libero Quotidiano”. Filippo Facci attacca la "macchietta rinsecchita" Marco Travaglio, e la "macchietta rinsecchita" perde la testa. La firma di Libero ha accusato il vicedirettore del Fatto Quotidiano per l'improvvido paragone tra "editto islamico" in riferimento alle stragi parigine e l'editto "bulgaro" di berlusconiana memoria, ricordandogli che i redattori di Charlie Hebdo si guadagnavano da vivere rischiando (davvero) la vita, mentre Travaglio si guadagna da vivere recitando lo stesso copione, trito e ritrito e stratrito, ormai da vent'anni. Apriti cielo, Marco Manetta ha dato di matto. La livorosa risposta è arrivata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, in cui dà a Facci del "poveretto con le mèches" per poi aggiungere: "Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone". Peccato che il paragone lo ricordi proprio Travaglio nella riga successiva, in cui in preda all'abitudinario travaso di bile ricorda che lui ha scritto: "Quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa". Dunque, continua, "ho semplicemente sbeffeggiato l'ipocrisia di una classe politica e giornalistica", e dunque, aggiungiamo noi, ha fatto quel paragone insensato che sta cercando di negare.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il maestrino Marco Travaglio trafitto dai suoi stessi forconi. Marco Travaglio ha fatto bene a lasciare lo studio di Servizio Pubblico giovedì sera: anche se l’ha fatto senza calcoli e solo per un’alterigia da lesa maestà, per cedimento. In questo modo l’attenzione è finita sul suo delimitato scazzo con Michele Santoro e non su come ci si era arrivati: non su un’intera puntata, cioè, che aveva logorato Travaglio minuto dopo minuto e aveva alluvionato un modo di fare giornalismo e opposizione, se c’è differenza. Tutt’altro discorso meriterà un giorno Michele Santoro, che per anni si è portato la bestia in casa - accudito e viziato come un gatto siamese cui tutto è concesso - salvo accorgersi, in un momento di resipiscenza dettata dai tempi, che una bestia restava: anche quando non serve, anche quando la ragionevolezza sta palesemente da un’altra parte, anche quando, soprattutto, non è chiaro se esista ancora un pubblico (una piazza) a cui rivolgersi senza sfasciare veramente tutto. Hai voglia a dire a Travaglio - come ha fatto Santoro - che anche lui deve rispettare le regole: quali? Le regole erano che Travaglio poteva miagolare a piacimento, poteva graffiare anche le tende e il divano, tanto il padroncino alla fine lo coccolava. Se poi i tempi ora esigono un’altra sensibilità, intesa come variante dell’intelligenza, beh, giovedì sera era inutile chiederla a Travaglio: lui ha un format solo, ed è la sua egolatria. Nel rivedere l’episodio solo via internet, come avrà fatto la maggioranza, si potrebbe anche pensare a una trascurabile scossa umorale e magari funzionale agli ascolti, anche se giunta fuori tempo massimo. Non è così. L’onnipotenza del monologante è andata in crisi progressivamente, man mano che la pacatezza imbolsita del governatore Claudio Burlando distillava graniti argomentativi poggiati via via su interventi di altri, e applausini, puntualizzazioni di Santoro, battute sulla figuraccia genovese di Grillo, soprattutto il candore dei ragazzi seduti in trasmissione, quegli «angeli del fango» che hanno trafitto Travaglio coi suoi stessi forconi. Travaglio ha avuto più spazio di chiunque, non escluso il suo monologo di quasi undici minuti che al solito ha spazzolato in superficie l’universo mondo: da Renzi ai giudici in ferie, da Burlando al Mose, da Scajola alla Protezione Civile, pretesti per battutoni che Maurizio Crozza, in confronto, pare Oscar Wilde. Ma, blocco dopo blocco, tirava un’aria che lo lasciava lì come un coglione. Intanto Burlando, accusato genericamente di essere un cementificatore, convinceva con la sua aria dimessa e con un’immagine di politica intesa come arte del possibile: «Noi possiamo aggiustare quello che in passato si è fatto male, dobbiamo fare cose realistiche... La differenza tra chi fa un discorso e prende applausi, e chi governa a lungo perché ha preso voti, è questa qui: noi dobbiamo fare cose realistiche, e voi - rivolto a Travaglio - potete anche dire cose che realistiche non sono». E fin qui ci poteva anche stare. Infatti a indebolire i nervi di Travaglio è stato il successivo intervento di Stefano, un cosiddetto angelo del fango che in pratica ha difeso tecnicamente gli argomenti di Burlando. E la critica di un ragazzino pesa a Travaglio più di qualsiasi altra, perché sale dalla stessa Piazza Tahrir in cui pescano lui e Grillo. «Travaglio ha fatto un discorso che forse non vede completamente la realtà», ha detto il ragazzo, che peraltro abita dove il fiume è esondato e conosce bene il quartiere. Travaglio intanto restava lì coi suoi appuntini, il quadernino, la lezioncina imparata per l’occasione. Poi Santoro è intervenuto a difesa del ragazzo ed è pure partito l’applauso, come è meglio spiegato nel dialogo riportato in questa pagina. Burlando a un certo punto ha pure detto: «Lei, Travaglio, non è informato». E Travaglio: «Sono informatissimo». Ma era sempre più chiaro che non era vero. Travaglio era lì per fare le veci di Ferruccio Sansa, campioncino di contraddizioni diciamo così, ineleganti: difende in tv l’ex sindaco Adriano Sansa anche perché è suo figlio, ne scrive sul Fatto Quotidiano, attacca Burlando che ha attaccato suo padre, inoltre scrive anche di Grillo dopo aver arringato le genti a un V-day e dopo aver collaborato con Grillo e, peraltro, abitando affianco a Grillo, sulle colline di Sant’Ilario. Ma una parte della realtà, giovedì sera, è venuta fuori lo stesso. L’ex sindaco Adriano Sansa, negli anni Novanta, si limitò a un’opera di pulizia dei corsi d’acqua ma non proseguì i lavori anti-alluvione cominciati in precedenza da Burlando. È solo una parte della realtà, ma questo è venuto fuori durante la puntata di Servizio Pubblico. E quindi è vero.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

Lettera di Buzzi al Garantista: «Sono innocente». Caro Sansonetti, sono il famigerato Salvatore Buzzi, arrestato il 2 dicembre nell’inchiesta Mafia Capitale, che ti scrive la notte di Natale per chiederti di darmi un attimo del tuo tempo. Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi. E la gloriosa cooperativa 29 giugno, ove lavoravano 1254 persone, è stata commissariata e nessuno ha ricevuto né stipendio né tredicesima, causando gravi disagi a tutti i lavoratori, in gran parte svantaggiati. Sono stato condannato a mezzo stampa e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me? Io mi reputo una persona seria e onesta, che ha lavorato tanto per creare un gruppo cooperativo ove lavorano migliaia di persone e che non ha mai rubato nulla alle aziende che amministra. Conosco Carminati da oltre 30 anni e l’ho frequentato dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze; non ho mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne! I miei rapporti con lui sono sempre stati alla luce del sole e non ho mai nascosto la sua frequentazione, era lui il maniaco della sicurezza, ma constato che è servita a poco. Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici; casomai sono io che ho subìto qualche “delicata estorsione” da qualche solerte funzionario e/o dirigente. Sto provando a far uscire le mie ragioni e ho scritto una lunga lettera al mio avvocato, articolata sui punti più controversi, per farla avere a Rosi Bindi nella sua funzione di presidente della Commissione Antimafia della Camera. La lettera spiega analiticamente molti episodi che mi sono contestati. Non ti chiedo di credermi a priori, ma ti chiedo di chiamare il mio avvocato e documentarti anche sulle fonti della difesa, e se ti convinco anche un po’, aiutami nella mia solitaria battaglia per far valere le mie ragioni e riconquistare l’onore perduto. Certo ho detto tante parole in libertà, ma sfido chiunque nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso: e io ho avuto le microspie in ufficio e in auto per due anni. La Procura, inoltre, censura con aggettivi dispregiativi la semplice attività di lobbing, del tutto legittima. Siamo in uno Stato di diritto e non in uno Stato etico. Non voglio rubarti ancora tempo, ti chiedo solo di documentarti sulle ragioni della difesa con la serietà che ti contraddistingue. Augurandoti buone feste ti porgo i miei più cordiali saluti.

«Buzzi in galera sulla base di chiacchiere», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. All’indomani della lettera che Salvatore Buzzi ha indirizzato dal carcere di Nuoro al nostro direttore, ci è sembrato opportuno, visto che le ragioni dell’accusa sono stranote e mediaticamente avvincenti, cercare di comprendere anche le istanze della difesa, ad oggi poco esplorate, per usare un eufemismo.

«Buzzi resta in galera – ci spiega il suo legale Alessandro Diddi – sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare le esultanze proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica sui conti correnti. È in galera sulla base di chiacchiere».

«Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi», scrive Salvatore Buzzi in una lettera scritta a mano la notte di Natale dal carcere di Nuoro che è giunta al Garantista soltanto ieri «Sono stato condannato a mezzo stampa – spiega il patron della Cooperativa 29 giugno a Piero Sansonetti – e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me?».

Difficile, visto il clima di gogna mediatica venutosi a creare, ignorare anche solo parte delle accuse rivolte a Buzzi da tribune e talk di ogni genere. E ancor più difficile, dato il visibilio scandalistico suscitato da ”Mafia capitale”, porsi semplici domande come ”E se fosse tutta una montatura?”, oppure, “Ma Salvatore Buzzi che cosa ne pensa di questa inchiesta? E se ha intenzione di difendersi, su quali basi?”. Temi di questo genere sono piuttosto invisi, e suonano quasi come sacrileghi. Ma modestamente confortati dalla Costituzione, ci è parso doveroso parlare della vicenda Buzzi, con Alessandro Diddi, il legale che lo rappresenta.

Avvocato, Buzzi è attualmente detenuto nel carcere di Nuoro ed è stata respinta l’istanza di scarcerazione. Su quali basi il suo cliente resta in cella?

«Salvatore Buzzi resta in galera sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare affermazioni ed esclamazioni proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non c’è stata nessuna verifica amministrativa. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica su conti correnti e libri mastri. È in galera sulla base di chiacchiere».

Ma quali sono dunque i gravi e sufficienti indizi di colpevolezza che dovrebbero trattenerlo in carcere?

«Ogni volta che Buzzi diceva al telefono ”Abbiamo vinto!”, il carabiniere all’ascolto ne deduceva che aveva vinto grazie a una turbativa d’asta. A nessuno è venuto in mente di verificare se dalle carte risultassero irregolarità».

In assenza dei verbali di aggiudicazione, si presume che gli appalti che si è assicurato Buzzi sono frutto di azioni delittuose.

«Gioire per una gara vinta, non è la stessa cosa che gioire perché un piano criminale è andato a compimento. Le gare possono essere vinte legittimamente, e dai miei riscontri stanno emergendo numerose assurdità in proposito».

A che cosa si riferisce?

«Intrapreso lo studio dei fatti contestati, ed avuto accesso alle relative carte, mi sono imbattuto in gare d’appalto nelle quali le cooperative di Buzzi erano l’unico concorrente in lizza. Mi spiega quale utilità avrebbe il pagamento di una tangente, per una gara alla quale partecipa un solo concorrente? E in secondo luogo faccio un’altra rivelazione. Si parla di corruzione per alcune gare che, dati alla mano, non sono state vinte dalla cooperativa di Buzzi. Ma allora a che cosa sarebbe servito elargire mance così generose e tessere trame tanto diaboliche?»

Nella lettera che ci ha inviato, Buzzi ammette di aver detto “tante parole in libertà”. “Ma sfido chiunque – ha scritto nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso”. Soltanto eccessi verbali, dunque? È questa la colpa del suo cliente?

«Chi è di Roma, o ci vive da molto tempo, sa molto bene che in questa città vige una “romanitas” del tutto dissimile da quella augustea. Il linguaggio in voga, in pressoché ogni ambiente, è sempre molto colorito e guascone. Si tende a dar vita a dialoghi intercalati da eccessi caricaturali, spavalderie assortite, battutacce a volte esilaranti. E talvolta ci scappano anche improperi e si fa la voce grossa, per darsi l’aria da rodomonte. È questo che fa delle intercettazioni uno strumento talvolta pericoloso: l’interpretazione letterale di parole in libertà come tante ne diciamo tutti noi nelle conversazioni private di ogni giorno».

E ritorniamo alla domanda di prima: reputa fondata la carcerazione preventiva?

«In qualità di docente universitario, e non come suo avvocato, la reputo una scelta irragionevole. Pericolo di fuga? Non ce n’è, Buzzi è da due mesi un sorvegliato speciale. Reiterazione del reato? Un po’ complesso, visto quello che Buzzi ormai rappresenta per l’opinione pubblica. Inquinamento delle prove? Proprio no, perché tutto è stato sequestrato».

E in qualità di avvocato?

«In qualità di avvocato non posso che constatare come la nostra giurisprudenza abbia intrapreso da qualche tempo una bruttissima china. L’idea di trattenere in carcere qualcuno sulla base dei “gravi indizi di colpevolezza” è diventata piuttosto desueta. Sempre più spesso si fa strame delle garanzie che normano le esigenze cautelari. Con il risultato che noi tutti siamo meno a piede libero di quanto possiamo immaginare. Finire in prigione, è diventato più semplice di quanto ciascuno di noi si aspetta».

A un certo punto Buzzi ci scrive: «Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici». Che cosa può dirci di questi rapporti intrattenuti con la politica?

«Buzzi ha fatto versamenti legittimi e documentati a fondazioni politiche che ne hanno sostenuto le istanze. Sono state considerate erogazioni illecite e invece ce n’è regolare traccia. Buzzi ha sostenuto candidature, ha pagato eventi e manifestazioni».

Buzzi dice peraltro di non aver mai sottratto un euro dalle aziende che amministra. Nessun contraccambio da queste attività?

«Buzzi non è l’inventore geniale di un business fatto sulla pelle delle persone disagiate. Le cooperative come quelle di Buzzi lavorano nel sociale, e hanno bisogno dell’aiuto dello Stato che le finanzia nel tentativo di colmare il gap tra un libero cittadino e uno svantaggiato. Chi darebbe lavoro a ex carcerati come quelli cui Buzzi ha dato un orizzonte di vita nuova e dignitosa? È del tutto evidente che il fondatore di una cooperativa esprima la propria predilezione per questo o quel candidato più sensibile ai temi sociali. E del tutto legittimo che possa scegliere di sostenere questa persona o quell’altra. Questa si chiama democrazia, non corruzione. Siamo un Paese di grandi ipocriti».

Ci ha colpito molto un altro passaggio della lettera. Buzzi dice che non solo non ha mai corrotto, e che casomai è stato lui ”a subire qualche delicata estorsione da qualche solerte funzionario e/o dirigente”. Ne parliamo?

«Su questo aspetto devo attenermi al momento al segreto professionale. Mi limito a ricordare su tutti la vicenda dell’appalto per il Cara di Castelnuovo di Porto. Il giudice del Tar Linda Sandulli sospese l’assegnazione dell’appalto a Buzzi: deteneva quote in una società che faceva manutenzione nello stesso centro».

Lui di sinistra, Carminati di destra: quanto appeal mediatico ha avuto l’idea di larghe intese delinquenziali in questo caso?

«Buzzi è sempre stato e resta un comunista. La conoscenza di Carminati l’ha fatta in carcere trent’anni fa. Ma Buzzi lo ha frequentato solo a partire dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze».

Il suo cliente tiene a precisare che non ha «mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne».

«Tutta la vicenda si è innescata nel 2010, perché Carminati venne sospettato di aver avuto un ruolo nella rapina di un caveau. Da allora si cominciarono a conoscere vita, morte e miracoli di quest’uomo, sebbene venne riconosciuto del tutto estraneo al delitto per il quale partì la sua ”marcatura a uomo”. Intercettazione dopo intercettazione, venne il momento dell’incontro tra Buzzi e Carminati in un bar. Carminati si offrì di mediare per un credito che Buzzi doveva riscuotere. E da lì, successe il pandemonio. Se Carminati non avesse fatto capitolino in questa vicenda, altro che mafia capitale. Salvatore Buzzi avrebbe continuato a godere della fama di uomo buono, intelligente, e impegnato».

Caro Buzzi, assurdo accusarti di essere un mafioso, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Se Salvatore Buzzi fosse milanese, probabilmente lo conoscerei. Sarebbe uno dei tanti ex detenuti con cui avrei avuto contatti e collaborazione in qualche mia veste istituzionale. E la Cooperativa 29 giugno sarebbe stata una di quelle con cui avrei organizzato il lavoro, interno e esterno alle carceri milanesi di S. Vittore, Opera e Bollate, come la Cooperativa Alice e le altre. L’avrei frequentato, sarei andata a qualche pranzo come quello della famosa fotografia cui partecipò anche l’attuale ministro Poletti, magari sarei diventata sua amica, sapendo benissimo che non stavo frequentando l’oratorio della mia parrocchia. Perché i casi sono due: o si crede nella Costituzione e in tutte le leggi che predicano il reinserimento dei detenuti o non ci si crede. Nel primo caso, bisogna sapere quanto sia fondamentale il lavoro per dare speranza non solo a chi esce dal carcere di poter fare una vita normale, ma anche a tutti noi, perché sappiamo che quell’ex detenuto difficilmente commetterà ancora reati. Ben vengano quindi quelli come Buzzi cha hanno la capacità di mettere in piedi una cooperativa che dà lavoro a 1254 persone. E male, anzi malissimo fa il governo se cerca, come sta facendo, di intralciare in qualche modo questo tipo di attività. La lettera di Buzzi mi colpisce prima di tutto per questo aspetto della vicenda, perché conosco tanti “Buzzi”, ogni tanto “sfrutto” le loro capacità professionali e manuali dando loro qualche lavoretto in più, qualche aiuto a muover le mani nella direzione giusta. Ma la lettera di Salvatore Buzzi pone anche ben altri problemi: mostro, mafioso, corruttore. Questa è oggi la sua fotografia, questo sono le sue impronte digitali, il suo dna. Mostro per il solito circo mediatico-giudiziario messo in piedi da magistrati esibizionisti e giornalisti in toga. Su questo punto, caro Salvatore, non c’è speranza. Tu stesso ti sei domandato, quando eri ancora libero e rispettato, come mai sia stato arrestato Claudio Scajola per quella vicenda assurda che ha riguardato un altro mio ex collega parlamentare, Amadeo Matacena. Neanche io ho capito perché, e posso dare una sola spiegazione: se arresti, conquisti qualche titolo e qualche foto sui giornali. Altrimenti, poche righe in cronaca. Ma neanche mi convince l’incriminazione di Matacena, visto che anch’io, insieme a Vittorio Sgarbi, fui indagata per otto mesi per lo stesso reato, “concorso esterno in associazione mafiosa”. E so che è un reato inesistente. Come lo so io, lo sanno e lo dicono in tanti, così come in tanti, quelli che lo conoscono, sanno bene che Buzzi non è un mafioso. Dove sono i tartarughini, con la testa nascosta, i garantisti del Pd? Se la loro identità politica non è più quella del giustizialismo, come vent’anni fa, si facciano sentire. Se devono “far pulizia” nel Pd romano, la facciano, problema loro. Ma alzino la voce per dire che non si deve più confondere la giustizia con la morale e che vogliono uno Stato di diritto laico e rispettoso nei confronti del “signor chiunque”. Le mie esperienze, sia giudiziarie che politiche, mi hanno reso non solo sensibile, ma anche molto diffidente nei confronti delle Grandi Inchieste, soprattutto se basate sulla contestazione del reato associativo, come contenitore che tutto comprende e tutto giustifica. E mi sta molto sulle scatole un Procuratore (che non conosco ) che fa conferenze stampa e che crea un nuovo reato, l’associazione mafiosa in salsa romana, solo per poter usare tutti gli strumenti, anche persecutori, consentiti per i reati più gravi, come il 416-bis. E altrettanto non apprezzo un ministro che applica l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (che andrebbe abolito subito) a indagati che non sono neppure accusati di omicidi e stragi. Si vogliono forse creare nuovi “pentiti” come Scarantino? Purtroppo la storia giudiziaria di questo paese, se e quando fa giustizia, la fa molti anni dopo, quando la reputazione e la vita di tanti sono ormai rovinate. Ma so per esperienza che far uscire qualche voce dal silenzio e dal vocio urlante del consueto circo a volte a qualcosa serve ed è giusto farlo. Io so che Salvatore Buzzi non è un mostro e non è un mafioso. Non so se sia solo un lobbista, come lui dice, o anche un corruttore o un concusso. Questo, ma solo questo, lasciamolo alla magistratura. Ma, si spera, a una magistratura requirente normale, senza elmetto e senza selfie.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

Umberto Bossi: "Processatemi a Roma", scrive “Libero Quotidiano”. Un tempo "Roma ladrona". Oggi "processatemi a Roma". Protagonista della peculiare parabola è il Senatùr per eccellenza, Umberto Bossi, che attende di essere giudicato nel caso legato a Francesco Belisto, il tesoriere truffaldino della Lega Nord, la vicenda in cui è invischiato anche il Trota, il figlio Renzo Bossi. E' successo, infatti, che gli avvocati di Bossi (padre) abbiano presentato un'istanza per spostare nella capitale le cause pendenti tra Milano e Genova (il 29 ottobre scorso è stato deciso che per il reato di appropriazione indebita ipotizzato sia competente il tribunale di Genova). Insomma, oggi, il Senatùr chiede che a restituirgli l'onore sia il tribunale di Roma.

La Lega Nord accusata di "banda armata": 18 anni dopo, le Camicie verdi a processo, scrive “Libero Quotidiano”. A processo, diciotto anni dopo. Si tratta della paradossale vicenda che riguarda le 34 "camicie verdi" della Lega Nord per le quali è stato richiesto il rinvio a giudizio per banda armata dalla procura di Bergamo per aver "promosso, costituito, organizzato o diretto un'associazione di carattere militari". Per inciso, le Camicie verdi erano quelle che si definivano "un servizio d'ordine organizzato nell'ambito dei territori della Padania". Ora, se il gip accoglierà la richiesta, partirà il processo. L'inchiesta - Nel frattempo il leader del Carroccio, Matteo Salvini, ha detto che chiederà il risarcimento dei danni per "un processo senza senso", anche perché per la stessa imputazione stato già assolto un gran numero di leghisti, da Umberto Bossi e fino a Maroni e Calderoli. Per altri leghisti il procedimento era stato sospeso parecchie volte in attesa di responsi della Consulta. L'inchiesta era stata avviata nel 1996 dal procuratore di Verona Guido Papalia perché la maggior parte degli indagati proveniva da quella provincia. Successivamente la maggior parte dei magistrati avevano accolto l'eccezione di competenza territoriale, infatti le Camicie verdi furono fondate il 2 giugno 1996 a Pontida, in provincia di Bergamo. E dunque è là che ora il processo, dopo quasi due decenni, dovrebbe ripartire.

Lega, il processo da rifare dopo 18 anni, scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Procuratore di Verona Guido Papalia aveva diritto di indagare sulle Camicie Verdi più o meno quanto il sottoscritto ha diritto di presiedere l’assemblea dell’Onu. Cioè, nulla. Per fortuna ce ne siamo accorti in fretta: ci abbiamo messo solo 18 anni. L’inchiesta sui leghisti responsabili di «associazione militare con scopi politici»,infatti, era nata il 1996. Al Quirinale, tanto per dire, c'era Scalfaro. Nel 1996 si disputavano le Olimpiadi di Atlanta, l’inventore di Facebook Mark Zuckenberg era appena uscito dall’asilo, gli sms erano scambiati solo da pochi adepti e i telefoni cellulari erano così poco diffusi che le intercettazioni di quell’inchiesta vennero fatte tutte su telefoni fissi. Uno degli indagati, Matteo Bragantini, a quel tempo era un giovane studentello con i capelli lunghi. Oggi è un parlamentare di lungo corso con i primi segni dell’incanutimento e un po’ di pancetta. Però gli è andata meglio che a un altro dei 36 indagati, classe 1925, che nel frattempo è morto, senza nemmeno aver potuto scoprire che Papalia non aveva alcun diritto di perseguitarlo. Però adesso non prendetevela con la giustizia: per capire se un procuratore può indagare o no su un fatto ci vorrà il suo tempo, no? Bisogna esaminare le carte con attenzione, magari serve anche un sussidiario di geografia per capire i confini delle province di Verona e Bergamo. Non è che si possa far tutto semplice. E poi che volete? Diciotto anni e ci arrivano anche loro. Non lo fanno apposta a tirarla per le lunghe: lo dimostra il fatto che, appena si sono accorti che le Camicie Verdi erano state costituite a Pontida e accertato che Pontida non è provincia di Verona (promossi!), hanno predisposto il trasferimento «immediato» del fascicolo a Bergamo. Immediato, proprio così. 18 anni dopo, ma immediato. Nei tribunali mica si perde tempo. Peccato solo che in questi 18 anni, nel frattempo, sia successo di tutto. Ricorderete: udienze, ispezioni della Digos in via Bellerio, scontri con la polizia, Maroni in barella, dibattiti in Parlamento, giornali scatenati. Sull’inchiesta di Papalia (che non doveva nemmeno cominciare) è stata scritta la qualunque, compresi gli indimenticabili titoli sui «Terroristi in Camicia Verde», «Secessione a Padania armata», «Organizzazioni militari leghiste», «Verde scuro tendente al nero» intere trasmissioni di Santoro, paginate indignate dei commentatori intelligenti. Ecco: scusate, ma ci siamo sbagliati. È nato tutto da un equivoco. Anzi, da un errore. Non se n’è accorta nemmeno la Corte Costituzionale: coinvolta per cinque volte nella vicenda, per cinque volte ha rimandato il fascicolo a Verona. Cioè nel posto sbagliato. Anche alla Consulta, evidentemente, ci sono problemi con la geografia. Adesso ricomincia tutto da Bergamo. E ricomincia da zero. Dispiace un po’ per Papalia, che tutte le inchieste si porta via: nel frattempo è andato in pensione, ma il suo lavoro è stato inutile. O meglio: è stato utile solo a lui. Gli è servito a farsi un po’ di pubblicità, che fa sempre bene, e forse un po’ di carriera, arrivando a farsi nominare Procuratore Capo a Brescia. «Terun de la madonna, vuol arrestare il Va’ Pensiero», lo apostrofò Bossi. Del resto la giustizia italiana è fatta così: il procuratore di Trani mette sotto inchiesta Moody’s e Standard's&Poor, Henry John Woodcock fa sfilare a Potenza Savoia e showgirl, Raffaele Guariniello convocherebbe a Torino pure San Gennaro se solo potesse. Basta che un magistrato intravveda la possibilità di avere l’attenzione dell’opinione pubblica e zac, l’inchiesta è aperta. Tanto che problema c’è? Al massimo finisce tutto in nulla. O peggio: 18 anni dopo si scopre che l’indagine non doveva nemmeno cominciare perché Bergamo non è Verona. Che importa? Le telecamere ormai sono lontane. E gli errori della giustizia, si sa, non li paga nessuno.

Papalia e le camicie verdi: «Così non è giustizia diciotto anni sono troppi», scrive Cremonesi Marco su “Il Corriere della Sera”. «Non c'è il minimo dubbio. Una giustizia così lenta non è più giustizia». Guido Papalia è in pensione da circa un anno. Ma nel 1996, diciotto anni fa, fu lui ad avviare, da procuratore di Verona, il procedimento contro la «Guardia nazionale padana», le cosiddette Camicie verdi. Secondo i leghisti, un servizio d'ordine. Secondo varie procure, un'associazione militare. Il processo, però, non è partito: la procura di Bergamo (oggi competente sulla vecchia indagine) ha chiesto sabato al gip il rinvio a giudizio di 34 militanti di allora. Procuratore, lo avvierebbe ancora quel procedimento? «Ah, non c?è dubbio. Tra l'altro, l'ho avviato io a Verona dopo una riunione con diverse procure che si svolse a Mantova. Fu lì che si decise che il procedimento si sarebbe dovuto svolgere a Verona. Ma sul fatto che fosse motivato, dubbi non ce n'erano da parte di nessuna delle procure. E io, di dubbi, continuo a non averne: la costituzione di associazione militare, sulla base della legge del 1948, c'è in pieno».Per quei fatti, buona parte dei capi leghisti non sono stati processati in quanto parlamentari. Non è stridente?«Certo, ma fu una decisione del Parlamento italiano, che considerò quei fatti come opinioni degli eletti, libera espressione di pensiero. Ma badi che, invece, il Parlamento europeo a suo tempo sancì che i responsabili andassero processati».Molti di quei militanti oggi sono magari tranquilli padri di famiglia.«Credo anch'io. Certamente non esistono più le camicie verdi di allora. Però, le persone sono coinvolte per quei fatti di allora, sulla base di una legge vigente. Per dire: noi a suo tempo avevamo contestato anche l?attentato alla Costituzione e all'integrità dello Stato. Poi, però, la legge fu modificata e quei capi di imputazione sarebbero stati insussistenti. Ma la legge che c'è, va rispettata». La lunghezza del procedimento era inevitabile? «I processi non possono durare tanto, ce lo diciamo tutti. E non dovrebbero esistere meccanismi tanto dilatori. Però, qui non parliamo di cavilli, ma di momenti processuali che hanno determinato una stasi inevitabile, come le eccezioni di costituzionalità. Che dovrebbero essere decise immediatamente, e non dopo tre o quattro anni». E dunque, si può essere processati per fatti di quasi vent'anni fa che peraltro non hanno portato ad altri reati specifici.«Sì. Ma io credo che quando si tratterà di decidere, si terrà conto della situazione attuale. Anche psicologicamente, credo se ne terrà conto».

Lega Nord, Rosi Mauro assolta: non prese i soldi del partito. Lei attacca: "Maroni e Salvini, la pulizia non c'è stata", scrive “Libero Quotidiano”. "Altro che scope, nella Lega la pulizia non c'è stata". Sono i giorni della rivincita per Rosi Mauro: l'ex vicepresidente del Senato della Lega Nord, fedelissima di Umberto Bossi, è stata assolta dall'accusa di essersi intascata 100mila euro del partito. Peccato che prima del processo sia stata la Lega stessa a "epurarla", sull'onda dello scandalo della gestione dei soldi del partito. Prima di lei, sul patibolo, erano già saliti l'ex tesoriere Francesco Belsito e, di fatto, il fondatore e leader storico dei padani, Umberto Bossi. "La verità deve ancora venire fuori - si sfoga la Mauro sul Giornale -, ma è chiaro che un un complotto, colpirono me per affossare Bossi, per farlo fuori". Era l'aprile del 2012, la Lega stava cercando di uscire faticosamente dagli scandali giudiziari e finanziari. Bobo Maroni aveva preso in mano il partito e la prima operazione fu soprattutto mediatica: cacciare la vecchia guardia, il cerchio magico di Bossi e sostituirla con volti nuovi e puliti, tra cui quello di Matteo Salvini. Nella famosa serata delle ramazze, a Bergamo, c'erano tanti leghisti arrabbiatissimi con i "traditori" e con lei, la Mauro, salutata con cori tipo "terrona" e "Rosi p... l'hai fatto per la grana". Quella classe dirigente fu spazzata via a suon di insulti. "Mettiamola così - spiega la Mauro -, mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passio indietro e io rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?. Lui mi rispose che era una questione di opportunità politica". Da due anni con la nuova nomenklatura leghista l'ex "badante" del Senatùr non ha più rapporti: "E nessuno si è fatto vivo" per complimentarsi per l'assoluzione. E Salvini? "Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me".

Rosi Mauro: "Io assolta. E la pulizia nella Lega non c'è stata". La serata delle scope non è servita. Sono stata giustiziata per far fuori Bossi, ma molti restano al loro posto, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”.

«Me la ricordo la serata delle scope, eccome. Ecco, a Roberto Maroni direi che quello spettacolo non è servito a nulla. Io non ci sono più, ma molti di quelli che dovevano essere spazzati via sono ancora al loro posto».

Per una che è stata dipinta come la «strega nera» del Carroccio, la reazione è assai misurata. Ma lei, Rosi Mauro, ora è semplicemente «contenta».

«Contenta di una cosa che in cuor mio già sapevo».

Ovvero, che con l'uso spregiudicato dei fondi della Lega non aveva nulla a che fare. Per questo, ieri, l'ex vicepresidente del Senato è stata prosciolta dal gip di Milano. E dopo essere stata silurata dal partito senza processo e prima del processo, dopo essersi presa gli insulti dai colleghi lumbard e da una parte della platea leghista - «terrona» era il meno, qualcuno gridava «Rosi p..., l'hai fatto per la grana» - ora può voltare pagina.

Rosi Mauro, due anni fa venne «giustiziata» dal triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago.

«Mettiamola così: mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passo indietro e io mi rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?».

E cosa le venne risposto?

«Che era una questione di opportunità politica».

Ne fu convinta?

«Ma figuriamoci!».

E allora qual è la verità?

«La verità deve ancora venire fuori, ma è chiaro che fu un complotto. Colpirono me per affossare qualcun altro».

La butto lì: Umberto Bossi.

«Certo! È stato un complotto per fare fuori Bossi».

Ordito da chi?

«I responsabili sono sotto gli occhi di tutti. Quello che mi consola è che la nostra gente l'ha capito».

Ne è sicura?

«Tutte le persone del movimento che ho incontrato in quel periodo me lo dicevano: Rosi, non mollare e vai avanti».

A due anni di distanza, pensa a qualche rivalsa nei confronti del partito o delle persone che l'hanno affondata?

«Qualche querela è già partita, vedremo come andrà a finire. Altre potrebbero partire. Ma non c'è fretta, di pazienza ne ho molta».

Facile immaginare che ce ne sia voluta parecchia in questi due anni.

«Da quando è scoppiato il caso ne ho viste di cotte e di crude. Quello che mi ha fatto più male sono le cose che sono state scritte su di me. Sono finita in prima pagina, leggevo notizie incredibili che sapevo essere false. La verità è che io sono entrata nella Lega nel 1987, e non ho mai tentato di fare le scarpe a nessuno».

Oggi il giudice di Milano l'ha assolta dall'accusa di essersi intascata quasi 100mila euro del partito. Qualcuno da via Bellerio l'ha chiamata?

«Nessuno della nomenklatura si è fatto vivo. Ma non mi aspettavo diversamente, anche perché è da due anni che con queste persone ho interrotto i rapporti. Invece, con molte delle seconde linee continuiamo a sentirci. E ovviamente oggi mi hanno chiamata».

A distanza di due anni, cosa direbbe a Roberto Maroni?

«Che la famosa serata delle scope non è servita a nulla. Che quelle scope hanno funzionato male, perché la pulizia vera non c'è stata».

E al segretario Matteo Salvini? Anche lui, con toni più morbidi, chiese la sua testa.

«Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me».

Ora che questa vicenda si è chiusa, cosa farà?

«Ancora non lo so. Ma di sicuro, questo sarà un bel Natale».

I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.

I grandi processi del 2014. Dalla condanna di Amanda e Raffaele fino a quella di Alberto Stasi per l'omicidio di Chiara Poggi, 4 casi giudiziari che hanno diviso l'opinione pubblica, scrive “Panorama”. Casi trattati analiticamente nei libri di Antonio Giangrande che parlano delle città del processo, salvo che per Sarah Scazzi in cui si parla in libri ad ella dedicati.

La condanna di Amanda e Raffaele. 30 gennaio 2014: Dopo 11 ore di camera di Consiglio i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Firenze hanno condannato Amanda Knox a 28 anni e sei mesi di carcere e Raffaele Sollecito a 25 anni per l'omicidio di Meredith Kercher. Una sentenza che accoglie la tesi della Cassazione, che aveva respinto la condanna d'Appello della corte di Perugia di assoluzione per i due giovani che si sono sempre detti innocenti. Nessuno dei due imputati era in aula. Amanda si trova dal giorno dopo la sentenza di assoluzione nella sua casa a Seattle. Raffaele Sollecito invece dopo aver sostenuto la sua innocenza in tutte le fasi del processo ha preferito attendere la sentenza lontano dall'aula e dalle decine di telecamere e giornalisti che hanno affollato l'aula. Ma la battaglia legale non è ancora finita. E' certo infatti che i due condannati faranno a loro volta ricorso in Cassazione. "E' stata una bella botta, faremo ricorso, Amanda e' innocente". Così ha commentato uno dei difensori di Amanda Knox, Luciano Virga, alla lettura della sentenza. La parola fine non è stata ancora scritta. Sono già in molti a chiedersi come si comporterà il nostro paese e soprattutto come si comporteranno gli Stati Uniti in caso di richiesta di estradizione per Amanda. Soddisfatti i familiari della vittima. Il fratello e la sorella di Meredith, presenti in aula, hanno sorriso dopo la lettura della sentenza. In primo grado, a Perugia, Amanda venne condannata a 26 anni e Raffaele a 25. In Appello vennero assolti. La Cassazione ha poi annullato quella seconda sentenza ordinando un nuovo appello, quello di Firenze.

La vergogna del Processo Eternit. 19 novembre 2014. La Cassazione ha annullato senza rinvio, dichiarando prescritto il reato, la sentenza di condanna per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny nel maxiprocesso Eternit. Sono stati annullati anche i risarcimenti per le vittime. La prescrizione è maturata al termine del primo grado. Schmidheiny era stato condannato dalla Corte d'appello di Torino il 3 giugno 2013 a 18 anni di reclusione per la morte da amianto di circa mille persone, soprattutto in Piemonte. La decisione della Prima sezione penale della Cassazione ha suscitato le proteste dei numerosi familiari delle vittime dell'amianto presenti nell'Aula magna. "Vergogna, vergogna" hanno detto in tanti, urlando subito dopo la lettura del verdetto. "Il pg dice che non è possibile giudicare un disastro provocato dall'amianto perché lo si è cessato di lavorare tanti anni fa, ma si dimentica che l'amianto è una bomba a orologeria a lungo periodo: non è possibile che coloro che l'hanno innescata siano trattati come dei gran signori". Così Bruno Pesce, coordinatore dell'Afeva (associazione familiari e vittime dell'amianto) di Casale Monferrato, ha commentato la richiesta del pg della Cassazione di annullare le condanne del processo Eternit. "Siamo sconcertati, non ce l'aspettavamo", aggiunge. "Per quanto ci sforziamo di approfondire questa richiesta, continuiamo a ritenerla incomprensibile. Il problema è che vediamo ancora tanta diffusione dell'amianto sul territorio, dagli smaltimenti abusivi agli scarti dell'Eternit, dalle tonnellate e tonnellate di cemento-amianto. È veramente incredibile che non si tenga conto di questo". Paolo Liedholm, nipote di Nils, grande calciatore e allenatore svedese che vive a Casale Monferrato e ha perso la mamma nel 2008 per una grave malattia legata all'amianto, ha commentato così la sentenza della Cassazione: "Ora lo hanno stabilito con chiarezza: se si vuole uccidere qualcuno in Italia il miglior mezzo è l'amianto perché è legale". "In Svezia tutto questo non sarebbe neanche successo - precisa Liedholm- perché dopo pochi ammalati sarebbe intervenuta l'autorità amministrativa e avrebbe chiuso la fabbrica. In Italia, invece, la si tiene aperta e si fa un processo penale dopo 20 anni, quando tutto invece é prescritto..."

L'omicidio di Chiara Poggi: condannato Stasi. 17 dicembre 2014: Alberto Stasi è stato condannato a 16 anni di carcere per l'omicidio dell'ex fidanzata Chiara Poggi, uccisa a Garlasco il 13 agosto 2007. Questa la sentenza emessa dalla Corte d'Assise d'appello di Milano al termine di una camera di consiglio durata 5 ore. A Stasi non è stata comminata l'aggravante della crudeltà, contestata dalla procura generale, che aveva chiesto una pena di 30 anni. È l’esito di un percorso processuale incerto e aperto fino all’ultimo. Una storia giudiziale lunga più di sette anni, che si è combattuta senza esclusione di colpi tra difesa e parte civile, la quale finalmente ha visto riconoscere la bontà delle sue argomentazioni quando tutto sembrava perso dalla Cassazione, che ha azzerato le prime due sentenze di assoluzione e riaperto la partita. Una partita in cui un ruolo centrale l’ha giocato la prova scientifica, chiamata a mettere pezze sulle diverse toppe dell’indagine, ma che come spesso accade nei delitti di sangue si è rivelata fonte di dubbi piuttosto che di certezze.

Caso Scazzi: i ricorsi dopo l'Appello. Il 14 novembre 2014 scorso, le porte di un'aula di giustizia si sono riaperte a Taranto per l’ennesima udienza del processo d'appello sulla morte di Sarah Scazzi. In quella stessa aula di giustizia è entrato ancora da uomo libero solo Michele Misseri, oggi sessantenne, padre di Sabrina e marito di Cosima. In primo grado la Corte di Assise di Taranto gli ha inflitto otto anni di reclusione ritenendolo colpevole di concorso in soppressione di cadavere. Intanto Sabrina oggi ha 28 anni, è in carcere da più di quattro e con la prospettiva di finire lì i suoi giorni perchè ha sulle spalle una condanna all'ergastolo. La madre 59 anni, è entrata nella stessa cella della figlia pochi mesi dopo. Fu Misseri a confessare il delitto e a far ritrovare i resti della povera Sarah, ma pochi giorni dopo chiamò in correità la figlia indicandola, di fatto, come la reale autrice dell'omicidio. Misseri è il "perno" di tutta l'inchiesta e del processo, anche se il giudizio di primo grado ha visto la condanna di nove imputati accusati di reati diversi. Tutti hanno fatto ricorso, ma per un imputato la Corte di assise di appello dovrà dichiarare l'estinzione del reato perchè Cosimo Cosma, nipote di Michele Misseri, al quale erano stati inflitti sei anni per concorso in soppressione di cadavere, è morto il 7 aprile scorso per una grave malattia. Gli altri imputati che hanno cercato di far valere le loro ragioni dinanzi ai giudici di appello sono Carmine Misseri, fratello di Michele, condannato a 6 anni per concorso in soppressione di cadavere; l'ex legale di Sabrina, Vito Russo jr, al quale vennero inflitti 2 anni per favoreggiamento personale; e infine altri tre condannati per favoreggiamento, Giuseppe Nigro, Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano. 

Tutta la verità sul delitto di Sarah Scazzi.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande.

Caso Scazzi, intervista allo scrittore Antonio Giangrande che da avetranese ha scritto due libri: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese” e “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. La condanna e l’appello. Il resoconto di un avetranese”.

Due libri sul caso Sarah Scazzi. Interi reportage che raccontano un omicidio e tutto ciò che lo circonda “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keaton dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande. Risultato? “Un processo da rifare e due persone, Sabrina e Cosima, non legalmente in carcere indipendentemente dal fatto che siano colpevoli o no”. Un analisi approfondita, quella dello scrittore, dalle confessioni ai processi, dall’analisi dei personaggi alle intercettazioni ambientali e telefoniche. Giangrande è anche presidente dell’associazione Contro tutte le mafie ed è da anni che si occupa del caso Scazzi e di altri processi che ritiene “non correttamente svolti”.

Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

«Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. Eppure la presunzione d'innocenza è quasi una bestemmia, un lusso che non possiamo permetterci quando s'accende la sarabanda mediatica attorno - e dentro - al dolore e all'orrore di un delitto terribile e la “voglia di giustizia” diventa slogan buono per qualche striscione da appendere a favore di telecamera.  «Assassina/o, devi morire», gridano i popolani fuori le caserme o i commissariati. Urla e insulti da parte della gente che si raccoglie in folla per godersi lo spettacolo e vedere da vicino la “colpevole di turno”. Ma questi non hanno niente da fare?E’ successo a Cosima Serrano, Sabrina Misseri, a Veronica Panarello.  Anche Anna Maria Franzoni aveva sentito quelle urla la prima volta che l’avevano portata in prigione pochi giorni dopo la morte del piccolo Samuele. Le scene che abbiamo visto a Cogne e ad Avetrana, per citare solo due dei casi più famosi di cronaca nera degli ultimi anni, dovrebbero spingere, con un pizzico di cinismo, a non stupirsi più di tanto delle urla scagliate contro Veronica Panarello, accusata dell'omicidio del figlio Loris, al momento del suo arrivo nel carcere di piazza Lanza a Catania. In carcere, questo odio sociale, espresso a ruota libera sul web («devi morire», «ci vuole la pena di morte»), è ancora più duro. Il carcere non è solo un luogo di pena. E’ la realtà che credevi non esistesse, e che adesso appartiene alla tua vita. In effetti, i giornalisti stazionano nei piccoli centri con aggiornamenti costanti relativi all’evoluzione del caso di cronaca  e riportando qualsiasi notizia utile a farne parlare. Ma qual è l’utilità della ripetizione continua e morbosa di immagini di volti straziati dal dolore? Volti di mostri che potrebbero anche non essere tali. Qual è, dunque, la linea che separa la cronaca dall’accanimento? Il confine entro il quale la notizia secca viene preservata dal divenire puro e semplice gossip? Venti anni di “telenovelas” e di “politica del qualunquismo”, somministrato a suon di sorrisi, hanno reso questo confine labile, estremamente labile. L’accelerazione della rete, poi, ha esasperato e dilatato a dismisura un fenomeno complesso ma certo inarrestabile. Nonostante ciò, il problema resta. Resta il problema di comprendere dove arriva, realmente, la cronaca, cioè la narrazione dei fatti, per garantire alle persone strumenti di comprensione e dove, invece, comincia la speculazione. Come nel caso della notizia del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi, data al programma televisivo di Rai3 “Chi l’ha visto?”, mentre in collegamento diretto da Avetrana c’era la madre della ragazza. Gli arrestati sono innocenti fino a prova contraria. E non basta dirlo, come hanno fatto alcuni conduttori tv che nel frattempo speculano sulla morte delle vittime, bisogna anche praticarlo. In Procura e sui giornali. Ma qui vogliamo provare a ragionare per assurdo. E ci chiediamo: ma anche se fossero  colpevoli, meriterebbero di essere insultati e linciati, come stanno facendo media e cittadini-spettatori? Se sono colpevoli, anzi poiché sono colpevoli – dicono gli urlatori senza conoscere atti e fatti – non devono stare in carcere solo pochi anni, devono stare in galera per sempre. «Dovete – dice questo coro di giustizieri – buttare la chiave». Accusati ma innocenti fino a prova contraria. Accusati, ma non ancora definitivamente colpevoli davanti alla legge. Eppure, i media li hanno già condannati. Quello che importa in questo contesto non è se sia colpevole o innocente. Quello che importa qui è che ogni giorno, accendendo la tv o la radio, sfogliando un qualsiasi quotidiano cartaceo o online, veniamo a sapere di particolari, di dettagli di ogni interrogatorio, di ogni domanda posta dagli inquirenti, di ogni risposta data o non data: informazioni riservate inerenti ad atti di indagine che dovrebbero essere coperte dal segreto professionale. Bene. Qui non c’è reato? Mi chiedo come sia possibile questa totale mancanza di umanità. In nome delle vittime si giustificano i sentimenti peggiori: la vendetta, la violenza, l’odio. Ci si crede superiori a chi si condanna. È come se, nel giorno del giudizio, si stesse dalla parte di Dio a decidere chi deve essere punito e chi premiato. Il male appartiene all’altro, al mostro, a cui non si riesce a guardare con un po’ di umanità e di amore. La Costituzione italiana parla di reinserimento per il reo, di una seconda possibilità che deve essere offerta a chiunque. In questi casi di cronaca mediatica lo Stato di diritto sparisce, la Costituzione diventa un ricordo lontano. Si ritorna alle società barbare, all’occhio per occhio, dente per dente. Anni e anni di giustizialismo hanno cambiato la testa delle persone. Siamo davanti a un mutamento antropologico e cognitivo profondo. Ogni tanto sembra di cogliere segnali di un ravvedimento, di un ritorno a principi di civiltà. Ma poi ci accorgiamo che la storia più prossima ci racconta invece che stiamo attraversando un’epoca buia, senza pietà e senza capacità di identificarci con gli altri: con il loro dolore, ma anche con le loro parti buie, con le loro sofferenze ma anche con quella cattiveria che c’è nell’essere umano. Negandola diventiamo ancora peggiori. Ci sentiamo la parte buona della società, i migliori, e da questo ingannevole pulpito spariamo le nostre sentenze. Ci si crede superiori a chi si condanna, come se venissimo da Marte. Da un altro pianeta. Ma siamo italiani e lo rimarremo per sempre. Nessuno è migliore di un altro in questa Italia. Decine di miei saggi in anni di studio sociologico tendono a dimostrarlo. Uguali nella devianza. Siano essi giudici, che giudicati.  Le donne che hanno aspettato le loro simili uscire in manette, con lo smartphone in mano per fare le foto, non hanno avuto dubbi sulla loro colpevolezza – lo ha detto la tv, lo dicono i giudici – non hanno avuto pietà per donne come loro, per le loro paure e fragilità. Ci si chiederà ma le vittime che fine fanno in questo discorso? Non interessa che siano state uccise? Certo che interessa e che dispiace molto. Ma non è rinunciando alla presunzione di innocenza, né evocando la vendetta che li si riporta in vita. Non è così che li si piange. Il linciaggio e l’odio che vediamo esibirsi rendono solo questa società peggiore».

Lei ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

«Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti, compresi quelli favorevoli alle imputate. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia laurea in Giurisprudenza presa in soli due anni a Milano, con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista, mi ha reso immune da ogni condizionamento. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo è dal 1998 che non mi abilitano alla professione di avvocato in un esame di Stato che come tutti i concorsi pubblici ho provato con i miei libri essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione».

Ha scritto due libri sul caso Scazzi. Su cosa si è basato?

«Nei miei libri su Sarah racconto i fatti attraverso tutti i documenti del processo e riporto, citandone gli autori, questioni interessanti affrontate in modo imparziale».

Imparziale? In che senso?

«Faccio una considerazione per renderne l’idea. Il processo, per opportunità, non doveva tenersi a Taranto, ma solo l’avvocato Coppi ha avuto il coraggio di chiedere la rimessione del processo in altra sede per legittimo sospetto che i giudici non fossero sereni nel giudicare. La Cassazione ha respinto. Non tutti sanno, però, che la norma in oggetto è sempre disapplicata dagli ermellini. Sia mai che si leda l’infallibilità delle toghe. Comunque tutti gli avvocati di Sabrina, e ne ha cambiati tanti, son concordi nel credere alla sua innocenza, compresa Francesca Conte. Lo stesso discorso vale per i criminologi esperti presenti in tv, come Massimo Picozzi od Alessandro Meluzzi. Di conseguenza cade l’accusa per Cosima, per la quale addirittura non c’è nient’altro che un sogno».

Quindi giudici non sereni, e gli avvocati?

«Per quanto riguarda gli avvocati mi chiedo come abbiano fatto tutti i principi del foro ad arrivare ad Avetrana ed a proporsi in modo gratuito. L’avvocato Russo è stato convocato a rendere conto del suo operato, gli altri, no. Per quanto riguarda i consulenti tecnici invece, c’è da dire che chi è partito a sostenere una parte è finito ad avvantaggiarne un’altra. La criminologa Roberta Bruzzone, con il primo avvocato di Michele Misseri, Daniele Galoppa, è accusata dallo zio Michele di averlo indotto a dire il falso ed ad accusare la figlia. Alessandro Meluzzi consulente della famiglia Scazzi, sicuro della colpevolezza di Sabrina, cambia repentinamente idea e da tempo è convinto della sua innocenza».

Mentre i magistrati?

«Per quanto riguarda i magistrati c’è da sottolineare che in appello il sostituto procuratore generale, Pina Antonella Montanaro, è lo stesso Pubblico Ministero del caso Sebai. Il serial killer non creduto, ma condannato per l’unico omicidio per il quale non vi erano stati trovati colpevoli. Per gli altri delitti ci sono condannati che in carcere si professano innocenti. Il Giudice a latere, Susanna De Felice è il giudice che ha assolto Niki Vendola. La Procura di Taranto è invece rappresentata da Pietro Argentino, indagato per falsa testimonianza in quel di Potenza. La falsa testimonianza è quel reato di cui si accusano tutti i testimoni che hanno reso dichiarazioni che non erano in linea con la tesi accusatoria».

Insomma dubbi sulla serenità di giudizio. Li ha potuti verificare in altre occasioni?

«Recentemente la Corte di Appello ha accolto la richiesta dell’accusa di sospendere i termini di custodia cautelare. Strano. La dottoressa Montanaro, non appena ha avuto la parola dal giudice, si è premurata di chiedere di far restare le due donne in carcere. A suo dire la richiesta è d’obbligo perché il processo sarà particolarmente complesso. In un secondo grado di giudizio di natura cartolare e con ampie richieste delle difese respinte, come si fa a dire che il processo sarà particolarmente complesso, anziché chiedere al giudice di verificare, più avanti, se davvero il processo sarà talmente complesso da superare i termini di custodia cautelare? Motivo per cui la sua richiesta sarebbe dovuta essere respinta anche se le difese hanno obiettato solo con un gesto simbolico, con una reprimenda per l’intempestiva richiesta della PG».

Ma questo non porta a dire che le due donne, condannate in primo grado all’ergastolo, siano in carcere ingiustamente. Ci sono elementi invece che potrebbero sostenere questa tesi?

«Ovviamente. In un processo indiziario, appunto gli indizi, per formare una prova devono essere gravi, precisi e concordanti. E questo non risulta. Orari tirati da tutte le parti; testimonianze contraddittorie, dubbie e/o oniriche, perizie contestate ed incomplete. Ma non stiamo qui ad arzigogolare su veri o presunti indizi fonte di condanna, o veritieri o meno convincimenti personali di magistrati, avvocati e consulenti tecnici e sorvoliamo su efficaci o meno interpretazioni delle intercettazioni ambientali e telefoniche. Soffermiamoci su un fatto in particolare e fondamentale».

Quindi c’è un fattore più importante di tutti questi?

«Certo. In ogni Ordinamento Giuridico mondiale la confessione di un evento di cui se ne dichiari la paternità è considerata la prova regina. Ad Avetrana abbiamo un reo confesso che, a sostegno inequivocabile della sua confessione, ha fatto trovare il corpo della vittima del reato da lui confessato. Tale confessione è reputata dall’accusa e dalle parti civili e dichiarata dalla Corte d’Assise di primo grado inattendibile. Diverso è invece l’atteggiamento nei confronti della versione accusatoria nei confronti di Sabrina: attendibilissima. Le dichiarazioni di Michele sono credibili solo a convenienza».

E così sarebbe Michele l’assassino?

«Non posso dirlo ma una cosa in particolare mi preme affermare. Michele può essere considerato responsabile reo confesso del delitto o bugiardo patentato. Sabrina può essere considerata efferata assassina o innocente sacrificale. Tutto ciò è opinabile basando il giudizio su vani indizi: non precisi, non certi, non concordanti. Ma su Cosima cosa c’è? Il sogno di un fioraio, che viene contestato dalle testimonianze di chi, invece, nello stesso momento del rapimento ha visto Sarah libera, viva e vegeta. E ciò basta a far marcire in carcere un essere umano».

Quindi Cosima sarebbe un’altra vera vittima di tutto questo?

«Io credo che, siano essi innocenti o colpevoli, i protagonisti della vicenda meriterebbero un processo equo da parte di magistrati non influenzati per colleganza di Foro da eventuali errori commessi nelle fasi precedenti dai colleghi d’accusa e di giudizio. Anche nella prospettazione del reato. Si è escluso per principio l’omicidio colposo o l’omicidio preterintenzionale. Perché? Perché di esseri umani discutiamo in questa intervista e si discute nei fascicoli di causa. Non di inchiostro nero su carta bianca. E perché solo di verità si nutre la giustizia e la rimembranza della povera piccola Sarah».

Ma lei si ritiene innocentista?

«Io non sono innocentista. Non sono neanche colpevolista. Ma da degno giurista sono un semplice garantista e spero, nel profondo del cuore, che lo siano Magistrati e Media. Ed ognuno, con la propria verità, siano molto vicini alla verità storica. Purtroppo io dispero. Sin dalle prime fasi, ripeto a dire, che tutti saranno condannati a Taranto, in primo ed in secondo grado. Sarà la Cassazione a Roma, in lontani lidi, a rinfrancare la giustizia. La Suprema Corte non potrebbe non vedere i travisamenti di questo processo: che la Corte d'Assise sia stato presieduto da Cesarina Trunfio, vicino all’ufficio della pubblica accusa, quale ex sostituto procuratore di Taranto; che un giudice popolare sia stato sostituito in corso di dibattimento per aver manifestato il proprio pregiudizio; che i giudici abbiano fatto richiesta di astensione, dopo che un loro fuori onda era stato diffuso dalle tv; che siano state ignorate le sentenze della Cassazione che per due volte ha “annullato provvedimenti di custodia cautelare emessi nei confronti di Sabrina Misseri per mancanza di sufficienti indizi di colpevolezza”, tanto per citarne alcuni. E poi l’abominio totale. Se un giudice avesse già giudicato Giovanni Buccolieri, magari dichiarandolo innocente perché davvero spinto a firmare un verbale che non conteneva la verità, come poteva esistere un processo d'appello basato solo su quel sogno trasformato in realtà? E questa è la contraddizione delle contraddizioni. Un processo minore che dovrebbe essere celebrato prima per capire se il maggiore ha motivo di esistere, visto che il minore funge da stampella che sorregge l'accusa nel maggiore, invece inizierà solo il 2 marzo 2015 di fronte al giudice monocratico di Taranto e forse non sarà neppure celebrato, perché si porterà avanti sino alla prescrizione, ormai sicura, data la durata delle indagini, per fare in modo che non incida in alcun modo nel processo maggiore. Da non dimenticare poi, le speculazioni della Rai su Sarah Scazzi. Un processo pubblico che diventa cosa privata. La Rai impedisce l’uso pubblico delle immagini del processo di primo grado per il delitto di Sarah Scazzi. Un aspetto che i giornalisti stanno bene attenti a non approfondire. La Rai si è aggiudicata l’esclusiva televisiva del processo più mediatico della storia: a quale costo? A chi sono andati i diritti tv per le riprese esclusive del processo a Taranto? Al solo privilegio della tv di Stato in dispregio della libera concorrenza, o qualcuno ci ha guadagnato, perlomeno in visibilità? I difensori di Sabrina e Cosima si sono duramente opposti alla riprese televisive del processo e, in particolare, delle loro assistite. La Procura si è dimostrata favorevole alle riprese, così come la famiglia di Sarah. Cesarina Trunfio, presidente della Corte d’Assise di primo grado, ha stabilito il divieto di ripresa per tutte le telecamere, tranne per quelle della trasmissione "Un giorno in Pretura", in onda su Rai3. Il programma poi si impegnerà ad inoltrare le riprese alle altre trasmissioni. Per quanto riguarda la trasmissione integrale del dibattimento, sarà consentita a definizione del processo, e quindi dopo la sentenza di primo grado. Perché questa discriminazione mediatica? Perché questo uso monopolistico del diritto di cronaca? La Rai ha cessato ogni rapporto con youtube, dove i suoi video erano visibili nel suo canale predisposto e da cui si potevano estrapolare o inserire nelle pagine di terzi, previo rispetto dell’indicazione di autore e testata. Poca remunerazione dissero. Oggi chi vuol visionare i video Rai deve purgarsi con 30 secondi di pubblicità e comunque l’utente non può scaricare il filmato con le immagini del processo, alla faccia dell’impegno dell’inoltro alle altre trasmissioni. A prescindere dall’obbligo posto dalla magistratura tarantina, c’è un articolo, nella legge sul diritto d’autore, che rappresenta, mutata mutandis, quello che in altri paesi del mondo viene chiamato fair use e fair dealing: è l’art. 70 della Legge 22 aprile 1941 n. 63, che al primo comma recita: “Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all’utilizzazione economica dell’opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l’utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali.” Questa norma è la massima espressione del concetto di libera utilizzazione. Eppure la Rai contesta ogni video riprodotto da terzi su Youtube senza scopo di lucro ed a fini di critica, cronaca, divulgazione scientifica, a costo di far chiudere i suoi canali, reclamando la violazione del Copyright: “Dopo aver esaminato la contestazione, Rai ha deciso che il reclamo per violazione del copyright è ancora valido”. Così avvisa Youtube dopo la segnalazione della contestazione. La Rai è un’azienda pubblica e di pubblico dominio sono le sue opere. Anche perchè gli utenti, in qualità di contribuenti fiscali e pagatori del canone, finanziano la Rai e sono di diritto soci e quindi proprietari delle opere prodotte dall’emittente di Stato. Perché speculare su un delitto, impedendo da divulgazione delle fasi del processo, fregarsene delle norme sul diritto d’autore, disobbedire agli ordini del giudice di Taranto e far finta di niente? Le fasi del processo sul delitto di Avetrana non devono cadere nell’oblio, ma devono essere visionate e ben conosciute per poter trarre giusto giudizio senza mediazione opinabile».

Senza dimenticare, però il caso Cucchi. Ilaria Cucchi: «Sì, a volte ho pianto, ma non mi fermerò mai», scrive Manuela Saraceno su “Il Garantista”. Incontro Ilaria Cucchi in un quartiere popolare di Roma, un luogo vivace ma allo stesso tempo dimenticato: il Pigneto. Tra uno spritz, un boccone e brevi interruzioni di gente comune che le si avvicina per un abbraccio o una semplice parola di conforto, inizia la nostra chiacchierata.

L’abbiamo vista in tv, nel programma “Questioni di famiglia” in onda su RaiTre. Come è andata nei panni dell’inviata?

«Per me è stata un’esperienza bellissima, anche se breve. Mi ha trasmesso emozioni molto forti e mi ha consentito di raccontare le storie quotidiane di gente comune. Purtroppo la trasmissione è stata chiusa perché gli ascolti sono andati male, ma sono felice di averne fatto parte e per questo devo ringraziare coloro che mi hanno voluta lì».

È stata scelta come inviata perché in quel momento faceva notizia?

«Non credo, anzi escludo assolutamente qualunque tipo di strumentalizzazione da parte loro. La proposta di RaiTre è arrivata a fine settembre 2014, quindi prima della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma. Eravamo quattro inviati, tutti con la propria storia alle spalle. Probabilmente questi cinque anni e ciò che è successo a Stefano mi hanno reso una persona diversa da quella che ero prima, più diretta, più sensibile a certi temi. Credo che siano questi i motivi per cui mi hanno scelta».

Si è avuta l’impressione che una volta ottenuta la partecipazione alla trasmissione il caso Cucchi sia finito nel dimenticatoio. È così?

«Intende dire che è come se dopo l’inizio della trasmissione io abbia smesso di pensare a mio fratello?»

Alcuni hanno mosso anche questa critica. La hanno accusata di utilizzare la vicenda di Stefano per fare carriera in tv.

«Intanto ti dico che non ho mai utilizzato la trasmissione per pubblicizzare alcunché. La mia pagina ufficiale conta qualcosa come trentacinquemila visualizzazioni, e ciò senza che io l’abbia mai sponsorizzata o pubblicizzata. Mi hanno accusata di strumentalizzare la morte di mio fratello. È vero, ho strumentalizzato la morte di Stefano, ma non per sete di successo! L’ho fatto perché fino a cinque anni fa non sapevo, ad esempio, quale fosse la realtà delle carceri; come tante persone ne avevo sentito parlare distrattamente, ma avevo sempre pensato che in fondo fosse qualcosa che non mi avrebbe mai riguardato. Dopo quello che è successo a Stefano ho capito che non potevo più far finta di niente e che d’indifferenza si può morire. Il mio compito – è l’unico senso che posso dare a quello che mi è capitato – è fare in modo che tanti sappiano e che sempre meno persone decidano di voltarsi dall’altra parte. Se strumentalizzare serve a questo, ben venga».

Quali iniziative state pensando di realizzare per ricordare Stefano?

«Intanto a pochissimi giorni dalla sentenza, e questo forse non tutti lo sanno, abbiamo dato inizio ad un progetto meraviglioso che interessa i licei romani. Quasi ogni giorno racconto la mia esperienza a ragazzi che mi ascoltano in silenzio per ore e che sono veramente straordinari; sono loro che arricchiscono me, e non il contrario, perché mi regalano la speranza che prima o poi le cose cambieranno. Inoltre per mantenere vivo il ricordo di Stefano, grazie all’aiuto del Comune di Roma e della Regione Lazio, stiamo cercando di portare avanti un progetto importante che dovrebbe chiamarsi “La Casa di Stefano”. Io e la mia famiglia possediamo un vecchio casale che si trova a San Gregorio da Sassola. È un luogo al quale siamo particolarmente legati, perché apparteneva a mio nonno e perché è lì che è sepolto mio fratello. L’idea è quella di creare un luogo in cui i ragazzi che escono dalle comunità di recupero per tossicodipendenti possano trovare un futuro, possano trovare delle motivazioni e quindi anche un lavoro. È tutto ancora a livello embrionale, però la nostra idea è questa».

Come avete vissuto in famiglia i giorni di custodia cautelare di Stefano?

«Ti posso parlare delle sensazioni di quei sei giorni. La prima è stata quella di rabbia nei confronti di Stefano per averci traditi; per noi, in quel momento, il vero problema non era la possibile reclusione in carcere, ma la droga. Ciò che credevamo uscito per sempre dalle nostre vite in realtà era tornato e forse anche in maniera peggiore di prima. Dopo la rabbia c’è stata la preoccupazione per Stefano chiuso in carcere, per come poteva vivere quei momenti, per quello che lo aspettava».

In un’intervista ha dichiarato che “Stefano è morto perché la giustizia non è uguale per tutti”. Di cosa è morto Stefano?

«Stefano è morto di ingiustizia, perché subito dopo essere stato pestato nei sotterranei del Tribunale, è stato per circa un’ora in un’udienza davanti a un pubblico ministero ed a Giudici che non l’hanno guardato in faccia, che non hanno ascoltato la sofferenza della sua voce. Loro dicono che guardavano dall’altra parte e quindi non hanno visto l’imputato che era in quell’aula, io ho ascoltato la registrazione dell’udienza e ti assicuro che dalla voce di Stefano si capisce benissimo che sta male, che è sofferente. Più volte si scusa, perché non riesce a parlare, eppure queste persone lo hanno mandato in carcere come “albanese senza fissa dimora” sulla base di un verbale sbagliato, in cui l’unica cosa esatta era il suo nome: Stefano Cucchi. Stefano era lì, davanti ai loro occhi ed è morto perché abbiamo una giustizia che non si preoccupa neanche di guardare in faccia chi sta mandando in carcere».

È considerata una donna forte, ma le è mai capitato di perdere le speranze?

«Mai, assolutamente mai. Anzi dopo ogni batosta la volontà di non fermarmi, di non abbassare la testa, aumenta sempre di più. Paradossalmente è così. Sarò un’ingenua, ma credo che arriverà il momento in cui finiranno le ingiustizie, in cui qualcuno si renderà conto che non si può continuare in eterno a negare l’evidenza. Devo confessare però, che subito dopo la sentenza del 31 ottobre di quest’anno, dopo cinque anni nei quali difficilmente avevo versato una lacrima perchè sentivo di non potermi fermare a piangere, ho avuto un momento nel quale ho voluto, per qualche tempo, vivere quelle mie sensazioni e quel mio dolore insieme ai miei affetti, in maniera intima. Ciò non vuol dire che io mi sia arresa o che intenda farlo. Io non mi fermo».

Ha dichiarato che la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma rappresenta un “fallimento dello Stato”. Crede ancora nella giustizia e nelle Istituzioni?

«Ci credo, perché la giustizia non è quella che ha conosciuto Stefano e non è quella che abbiamo conosciuto noi in primo grado. Non ce l’ho con i giudici, altrimenti non andrei in quelle aule per chiedere giustizia, dico semplicemente che quelle indagini erano sbagliate e tutte volte ad affermare una verità precostituita».

Per questo motivo ha fatto un esposto nei confronti di Paolo Arbarello, consulente dei pm nell’inchiesta sulla morte di Stefano?

«Ho fatto un esposto perché questa persona si è presa gioco di noi. A incarico appena ricevuto, già dichiarava alle telecamere del Tg5 che era un caso di colpa medica e che sarebbe stato suo compito dimostrarlo. Quelli erano segnali chiari, non doveva essere un caso di responsabilità dello Stato, doveva sembrare una morte naturale, al massimo una morte per colpa medica, ma sicuramente non bisognava tirare in ballo altri tipi di responsabilità. Questo perché chiedere allo Stato di inquisire e giudicare sé stesso è una delle cose più difficili che si possa fare, significa chiedere di ammettere che il sistema non funziona».

A proposito di colpa medica, è vero che avete accettato dall’ospedale Sandro Pertini un risarcimento milionario?

«È vero, abbiamo accettato questo risarcimento perché rappresenta un riconoscimento della responsabilità medico-sanitaria. Nel momento in cui ci è stato proposto l’accordo ci era stato chiesto di estenderlo anche agli altri imputati e di rinunciare ad ogni diritto anche per i futuri gradi di giudizio. Bene, noi abbiamo accettato a condizione che l’accordo non riguardasse gli altri imputati e che ci fosse consentito di continuare la nostra battaglia processuale. Abbiamo fatto ciò perché siamo convinti che ci siano delle responsabilità scomode, che continuiamo a pretendere che vengano accertate».

Segue con particolare attenzione il caso Magherini. Riccardo, come Stefano, rientra nell’immaginario collettivo tra coloro che “se la sono cercata”. Crede che il suo caso, nonostante le molte testimonianze ed i video, avrà gli stessi risvolti di quello di suo fratello?

«Credo di no, credo che siamo in un momento di svolta, prima di tutto nell’immaginario collettivo. Se è vero che la gente per proteggersi tende sempre a dire “beh lui in fondo se l’è cercata, era un tossicodipendente e gli è capitato”, oggi sempre più persone si rendono conto che non è così, che siamo tutti potenzialmente a rischio. Ricordo il 3 marzo di un anno fa, quando morì Riccardo. Ricordo che non si parlò di quella vicenda e che io stessa, in un primo momento, fui perplessa perché passò la notizia di un ragazzo che era morto perché fatto di cocaina. Oggi fortunatamente la gente si ribella, non ci sta più. Vengono fatti i video e le persone sono disposte ad intervenire anche in prima persona. Ci sono tante testimonianze e non si possono ignorare. Alla famiglia Magherini, così come alla mia ed a quelle di molte altre vittime del sistema, viene fatta una doppia violenza. Le nostre famiglie sono chiamate in prima persona, nonostante il dolore e la drammaticità dell’evento, a mettersi sul fronte se vogliono sperare di arrivare alla verità; ci viene chiesto di farci carico del compito che spetterebbe invece allo Stato ed alle Istituzioni: quello di fare chiarezza. Prendi il caso di Stefano, per dimostrare a tutti che le cose stavano in maniera diversa, che non si trattava di una morte naturale, abbiamo dovuto fare quelle foto. Se non le avessimo fatte, staremmo ancora a parlare di caduta dalle scale».

Il Procuratore Capo di Roma, Giuseppe Pignatone, ha garantito che studierà tutto il fascicolo di Stefano, ed in presenza di nuovi elementi si è reso disponibile a riaprire le indagini. Finalmente verranno accertate le responsabilità? Il vento sta cambiando?

«Sono felice di questo, però so cosa è stata la nostra vita per cinque anni, per cinque anni siamo stati presi in giro! Mi auguro che questa volta ci sia la volontà e la forza di cambiare il vento, di fare in modo che finalmente la verità su queste morti sia più importante di tutto, più importante di questi meccanismi che a noi vittime non devono appartenere e non devono riguardare».

Cosa pensa della proposta di liberalizzare le droghe leggere?

«Mi fa terribilmente paura. Qualcuno, forse anche tu, ti spettavi una risposta diversa da me. Io sono una madre, ho due bambini: Giulia che ha sei anni, e Valerio che ne ha dodici ed inizia ad uscire con i suoi amici. Per lui inizia la crisi preadolescenziale. Ci riflettevo stamattina, è tutto molto più precoce rispetto a quando ero bambina io, adesso la sola idea che mio figlio possa incappare nelle amicizie sbagliate, e questo può succedere comunque, e possa ottenere la droga in modo semplice, possa usarla, mi fa venire la pelle d’oca. Forse hanno ragione quelli che dicono che le droghe leggere vanno liberalizzate, ma da mamma mi fa paura. In tanti si aspettavano che io dicessi che Stefano è morto perché esistevano quelle leggi. Ci tengo a precisare che sono contenta che non esista più la legge Fini-Giovanardi, ma non dirò mai che Stefano è morto a causa di quella legge. La Fini-Giovanardi esisteva, Stefano ne era a conoscenza ed ha commesso un errore: l’ha violata. Era giusto, quindi, che fosse arrestato, quello che non doveva succedere è tutto il resto che non c’entra nulla con le leggi che esistevano in quel momento».

Avete ricevuto sin da subito grande solidarietà, soprattutto dalla gente comune; quanto questo vi ha aiutato e vi aiuta a combattere la vostra battaglia?

«È stato fondamentale, perché quando accadono queste vicende si viene immediatamente assaliti dalla sensazione di essere soli. Il sostegno delle persone comuni ci ha reso più sopportabile la solitudine, e l’indignazione della gente, la presa di posizione delle persone, hanno consentito che non si stendesse un velo sulla vicenda di Stefano, come quasi sempre accade in questi casi».

Come avete accolto la notizia che il Comune di Roma intitolerà una strada a Stefano?

«È meraviglioso, il mio sogno è che Via Golametto, quella piccola stradina che porta alla Città Giudiziaria, venga intitolata: Via Stefano Cucchi. In tal modo tutti gli avvocati, le forze dell’ordine, gli agenti penitenziari, tutti coloro che passano lì ogni mattina, potrebbero ricordarsi di Stefano, dell’ultimo tragitto che ha fatto a piedi nella sua vita».

Che lavoro faceva e che lavoro fa ora, e in che cosa la sua vita è cambiata, se è cambiata, dopo ciò che è successo a Stefano?

«Continuo a fare esattamente quello che facevo prima, lavoro nello studio di famiglia, mio papà è geometra ed io faccio l’amministratore di condominio. La mia vita da questo punto di vista non è cambiata, la porto avanti magari con più fatica di prima, però è rimasta assolutamente la stessa. In più mi sono investita di un ruolo secondo me importantissimo, quello di farmi portatrice di queste realtà e lo faccio perché da quando ho capito di cosa stiamo parlando non riesco più a voltarmi dall’altra parte».

C’è ancora la tv ed il giornalismo nel futuro di Ilaria Cucchi?

«Chiaramente non sono una giornalista, né pretendo di essere considerata tale. Nel corso di questi cinque anni ho capito quanto i mezzi di informazione siano fondamentali nelle nostre vicende, perché se non ci fosse l’informazione pubblica queste storie finirebbero tutte e immediatamente nel dimenticatoio, nel silenzio. Quello che posso dirti è che in me c’è la ferma volontà di utilizzare tutti i mezzi che mi saranno concessi per continuare a parlare di quanto è accaduto a Stefano».

SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.

Sliding Doors è un film che tratta una tematica affascinante: il Destino, le sue sottili trame e le coincidenze di cui si serve per sovvertire la vita della gente. Una pellicola che gioca sull'eterno interrogativo dei "ma" e dei "se", sulle occasioni mancate e sugli infimi particolari che possono cambiare la nostra vita. Sliding Doors vuol essere un'ironica e paradossale riflessione sull'importanza del caso nella nostra vita: basta un banale imprevisto e il corso dell'esistenza può subire una virata decisiva. Accade a volte che grandi o piccole disgrazie si rivelino alla lunga circostanze provvidenziali e viceversa. Forse non c'è la necessaria profondità nell'affrontare un tema così controverso e impegnativo come il rapporto tra il caso e la necessità nelle vicende umane, ma probabilmente e più semplicemente il film (nella miglior tradizione della commedia cinematografica) ci consegna l'ottimistica e bonaria morale che non bisogna mai scoraggiarsi di fronte alle difficoltà, tanto prima o poi le cose si sistemano.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Sliding Doors è un film del 1998 diretto da Peter Howitt, al suo esordio alla regia. Il film prende spunto da un'idea del regista polacco Krzysztof Kieślowski, che aveva trattato il tema del destino nel suo film del 1981 Destino cieco. Helen è una giovane donna che lavora nelle pubbliche relazioni ed è fidanzata con Gerry. Dopo essere stata bruscamente licenziata, si dirige in tutta fretta verso la metropolitana. Un aspetto molto importante della storia è che sull'ascensore andando via dal posto di lavoro le cade un orecchino e James glielo raccoglie. In quel momento la sua vita si divide in due dimensioni parallele:

Helen prende la metropolitana sulla metropolitana rincontra James che le ha appena raccolto l'orecchino in ascensore e cominciano a parlare (da prima Helen abbastanza scontrosa ma poi si scusa) e rincasando prima del tempo trova il fidanzato a letto con l'ex fidanzata Lydia; così si rifà una vita con l'affascinante James conosciuto su quella metropolitana. Si accorge poi di essere rimasta incinta e quando va a riferirlo a James scopre dalla sua segretaria che è all'ospedale con la moglie a trovare sua mamma. Helen è disperata e quando James la trova le spiega che sta ottenendo il divorzio e finge d'essere sposato per non recare troppo dolore alla madre in ospedale. I due si chiariscono e riconfermano i loro sentimenti reciproci. Subito dopo, mentre Helen attraversa la strada, passa un mezzo che la investe.

Helen perde la metropolitana e, chiamato un taxi, subisce un tentativo di scippo che la fa rincasare più tardi. Trova sì il fidanzato solo, ma anche indizi del passaggio di un'altra donna (l'ex fidanzata Lydia) come per esempio 2 bicchieri di brandy posti sul comodino di fronte la finestra e Gerry, per nascondere il tutto getta uno dei 2 bicchieri in un cestino offrendo la bibita a Helen come scusa. Ottiene un lavoro come cameriera e conduce una vita piena di sacrifici, sentendosi male diverse volte sul lavoro scopre così di essere incinta ma non trova mai il momento di dirlo al fidanzato Gerry, che la tradisce nuovamente. Lei lo scopre perché Lydia li chiama entrambi a casa sua (a loro insaputa) per riferire loro d'essere incinta di Gerry. Helen sconvolta scappa, Gerry la insegue e, litigando con lui, cade dalle scale.

A questo punto le due storie si ricollegano: Helen è in ospedale e i medici dicono al fidanzato (James nel primo caso e Gerry nel secondo) che ha perso il bambino (i due ragazzi in entrambe le storie non sanno che Helen aspettasse un bambino da loro) ma che lei si riprenderà. Helen che prese la metropolitana nella prima storia, invece muore nelle braccia del suo nuovo amore James, mentre l'altra della seconda storia si riprende. La Helen della seconda "storia" incontra James in ospedale sull'ascensore, poiché anche lui uscendo da lì dopo esser andato a trovare sua mamma. A Helen cade l'orecchino e lui glielo raccoglie, come nella prima versione, come se la seconda storia andasse a confluire nella prima.

MILANO. CRISAFULLI E BARILLA'. Milano, i boss e l’errore giudiziario. “La vita cambiata senza sapere un cazzo”, scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. I fratelli Crisafulli, intercettati in carcere nell'ambito dell'operazione Pavone eseguita oggi, raccontano come andarono i fatti che portarono alla condanna di Daniele Barillà. Innocente e assolto dopo sette anni di galera ingiusta. La storia riscritta dalle intercettazioni. Succede ascoltando i dialoghi in cella tra i fratelli Crisafulli, Biagio e Alex, boss di peso della malavita milanese coinvolti oggi nell’operazione Pavone 4 coordinata dal pm Marcello Musso. Al centro c’è un clamoroso errore giudiziario che a metà anni Novanta ha condannato l’imprenditore Daniele Barillà, che sarà assolto nel 2000, ma solo dopo aver scontato sette anni di galera. E’ il 28 gennaio 2007, quando Alex Crisafulli dice al fratello: “Ti saluta Carlos Bianchi quello che hanno arrestato della Tipo rossa nel ’92. Quello dei 50 chili che manteneva i contatti ti ricordi?”. Quindi commenta: “Il fatto della Tipo che casualità”. Risponde Biagio: “Una vita cambiata senza saper un cazzo”. Sì perché le cose vanno così: il giorno di San Valentino del 1992 è in corso un pedinamento del Ros. Si segue una Punto con il carico di droga e una Tipo amaranto che fa da staffetta. A un certo punto la Tipo esce a uno svincolo e contemporaneamente entra in scena quella di Barillà che inconsapevolmente si mette dietro all’auto dei trafficanti. Scatta l’arresto alla base del quale c’è un errore degli investigatori: non aver annotato la targa della Tipo amaranto giusta. Risultato: l’imprenditore viene fermato, con lui anche il monzese Carlo Bianchi. Torniamo allora a quell’anno. Il primo take dell’agenzia Ansa è delle 17,23 del 25 febbraio 1992. Si dà conto dell’operazione Pantera, inchiesta anti-droga condotta assieme dal Ros di Genova e di Milano. A coordinare l’operazione c’è Francesco De Caprio, il capitano Ultimo che un anno dopo darà scacco matto a Totò Riina. Sotto la Madonnina nessuno si sorprende. Da pochi giorni è scoppiata Mani Pulite. Mario Chiesa è stato arrestato mentre tentava di gettare nel water una mazzetta. In quel 1992, così, i 288 chili sequestrati al porto di Livorno passano in sordina. La stampa s’interessa poco al maxi-sequestro e ai collegamenti tra la malavita milanese e i cartelli colombiani. Per molti, però, si aprono le porte del carcere. Anche per Daniele Barillà. É accusato di aver contribuito a trasportare, fungendo da staffetta, 51 chili di droga. Quando lo portano in caserma è la vigilia di San Valentino. Quelli del Ros non hanno dubbi: la sua Tipo amaranto è l’auto che seguiva la Punto con la droga a bordo. Nessun dubbio e così per Barillà la giustizia corre veloce. Primo grado, Appello e Cassazione in pochi anni. Risultato: 15 anni di carcere. Ne sconterà sette, dopodiché la corte d’Appello di Genova annullerà la sua condanna dopo aver accettato la sua richiesta di revisione del processo. E’ un clamoroso errore giudiziario ratificato dalla Cassazione che concederà un maxi-risarcimento a Barillà. Una vicenda incredibile sulla quale i fratelli Cisafulli si dilungano. Commenta Biagio: “Tu sei lì che stai facendo le tue solite cose…”. Alex riprende: “Lui in un modo io invece la fortuna dall’altra, perché io inconsapevolmente me ne sono andato”. Dentino ricorda: “Ti ho chiamato io, eravamo al ristorante quella sera ti ricordi? Era tardi eravamo già a tavola!”. Quindi i due boss passano a discutere di chi fece quell’inchiesta. Dice Dentino: “Tutti i cani erano su questa operazione no? Una furia di cani quei carabinieri”. E poi c’era quel maresciallo “che era un infiltrato”. E poi quel Michele Riccio, che all’epoca comandava il Ros di Genova e che solo anni dopo finì coinvolto in processi di mafia. E poi c’è quel De Caprio che fece la Duomo connection e che, racconta Alex Crisafulli, depose in aula sulla questione di Barillà. “Questo è arrivato tutto come un pentito incappucciato, ha parlato di me, della Duomo Connection: Crisafulli quando l’ho incontrato avevo la certezza morale che andasse là a comprare la droga però non avevo le prove… “. E del resto del coinvolgimento di Alex Crisafulli e anzi del fatto che probabilmente su quella Tipo poi smarcatasi c’era lui, ne parla anche la moglie Daniela D’Orsi. E’ il 10 marzo 2007 e in tv sta andando in onda la fiction della Rai proprio sul caso Barillà. “C’era in tv, è risarcimento record per quello lì che è stato arrestato al posto di Alex! (Crisafulli Alessandro)”. Ma se ora Barillà abita in Spagna e si è rifatto una vita, sua nipote Francesca Barillà assieme alla madre Miriam Favorido è finita nella rete del Ros. Entrambe accusate di traffico di droga per aver gestito due batterie per conto del clan calabrese dei Muscatello.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

Italiani, popolo di maleducati: non lasciamo passare i pedoni

Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. I conducenti più corretti sono i lombardi. I colleghi romani sono i più indisciplinati, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Il 60,5% degli automobilisti italiani non si fermano davanti al pedone che attraversa sulle strisce o al semaforo. È la drammatica media calcolata dall'Associazione sostenitori amici della polizia stradale (Asaps) monitorando 2mila "tentativi di attraversamento" in cinque delle più importanti città italiane. I conducenti più corretti (o meno scorretti, a seconda dei punti di vista) sono quelli lombardi, il 47% dei quali rispetta il diritto di precedenza del pedone, mentre i colleghi romani sono i più indisciplinati: il 45% rispetta i semafori ma solo il 15% le strisce. Per ogni città presa in analisi (Milano, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) l’Asaps ha testato 200 tentativi di attraversamento sulle strisce e 200 in presenza di semaforo. Nel complesso, a Firenze dà la precedenza ai pedoni il 43% degli automobilisti, a Palermo il 39%, a Napoli il 38%, nella Capitale il 30%. Percentuali basse, che calano ulteriormente se si prendono i considerazione i soli passaggi "zebrati": a fermarsi, in questo caso, è appena il 22% dei conducenti milanesi, il 18% dei fiorentini e dei napoletani, il 12% dei palermitani. "Nei momenti del rilevamento - premette Giordano Biserni, presidente dell’Associazione - non erano presenti nelle vicinanze agenti della polizia locale, questo per certificare la spontaneità del gesto". Sarebbe interessante, tuttavia, poter analizzare quante multe vengono elevate a carico di automobilisti che non rispettano la precedenza del pedone. "Secondo l’articolo 191 del Codice della strada - continua Biserni - il conducente di un veicolo che non dà la precedenza ad un pedone che attraversa (o è nell’imminenza di farlo) sulle strisce è passibile di una contravvenzione da 162 a 646 euro e della decurtazione di 8 punti dalla patente". Una sanzione che potrebbe avere un’indubbia efficacia se fosse attuata costantemente. I frequenti investimenti di pedone hanno quasi sempre conseguenze tragiche. Come ricorda l’Asaps, sono 549 i morti e 21.234 i feriti complessivi nel 2013 e quasi il 30% travolti proprio sugli attraversamenti protetti. Mentre nei primi undici mesi del 2014 sono già 43 i morti e 363 i feriti (solo fra i pedoni) causati da pirati della strada.

Se fosse solo quello.

Quei nostri marò, ostaggi degli indiani ma anche di una verità indesiderata. Il caso dei due fucilieri di Marina, "trattenuti" in India, in qualità più di ostaggi che di imputati, si rivela oramai ogni giorno come una miniera di "anomalie", cioè; per parlar chiaro, di porcate. Ed ogni giorno di più il "grido di dolore" per la loro sorte, la parola d'ordine "riportiamoci a casa i nostri marò" si rivelano un espediente ambiguo e truffaldino per coprire situazioni e persone che con tali mezzi sono finora riusciti a tenersi fuori anche dai più naturali interrogativi che il caso prepotentemente propone siano loro rivolti, scrive Mauro Mellini su “Brindisi Report”. La giustizia indiana, lo abbiamo detto, scritto e ripetuto, non sta facendo una gran bella figura in tutta questa vicenda. Anzi, bisogna constatarlo senza che se ne possa trarre, oltre che un auspicio poco confortevole per la sorte di quei due nostri connazionali, e neanche un po’ di sollievo per i paragoni con le cose e lo stato della giustizia nostrana, si sta dimostrando ancora peggiore di quest’ultima. Il che non ha bisogno di commenti. Gli Indiani non sembra che abbiano alcuna fretta ed alcuna voglia di giudicare i due fucilieri di Marina italiani. Sarà magari per le stratosferiche somme incassate per risarcimenti e cauzioni, sarà perché temono di vedersi “sgonfiare” tra le mani un caso che essi hanno sbandierato come un’aggressione alla loro Nazione, un gesto razzista di sopraffazione, certo è che stanno facendo abbastanza per dare l’impressione che, tutto sommato, avrebbero preferito che i due non tornassero in India. E non sembrano troppo preoccupati di lasciar intendere che si tratta proprio di ostaggi e non di imputati in custodia cautelare. Da parte italiana le “anomalie” e le ambiguità sono assai maggiori. Se è vero che il tempo trascorso dal fatto ed il perdurare di quello strano stato di sequestro di persone è scandaloso anche per chi è abituato alle cose italiane, è certo però che, intanto, malgrado il clamore che di tanto in tanto si riaccende sulla vicenda, l’informazione in Italia sulle modalità del malaugurato incidente, sulle questioni e le responsabilità che esso implica, in ordine agli avvenimenti anche successivi alla sparatoria (rientro della nave in acque territoriali indiane, ad esempio, tempestività della notizia dell’accaduto alle diverse Autorità italiane etc.) è assai limitata ed evanescente. Gridare “ridateci i marò”, evitando però di mettere in chiaro di fronte al mondo e di fronte all’ONU, ai nostri alleati ed ai cointeressati alla lotta alla pirateria circostanze essenziali del fatto addebitato ai due militari è cosa a dir poco strana. E stranissima in un Paese come l’Italia in cui la cronaca nera si pasce abitualmente di tutto il materiale probatorio dei processi e formula giudizi e sentenze in fatto ed in diritto fin dalle prime battute delle vicende, che poco o nulla si sappia dei particolari del luttuoso incidente, del comportamento addebitato ai due militari (se vi è un addebito vero e proprio) di quello del capitano della nave e degli altri ufficiali di essa, delle comunicazioni con le Autorità italiane. Per non parlare, poi dei comportamenti successivi. Un’altra considerazione. Una parte notevole delle circostanze, specie successive all’incidente, sono pervenute alla stampa solo perché sottolineate dal Ministro degli Esteri, Ambasciatore Terzi di Sant’Agata, le cui dimissioni, per il “siluramento” della sua iniziativa (l’unica certa e, a quel che ci consta, seria) per “riportare a casa” i due militari sono state scioccamente ed arrogantemente liquidate definendole “irrituali”. Terzi è “rimasto sulla breccia” della polemica che altri sembrava voler eludere a tutti i costi, con il silenzio, le ambiguità e le “coperture” di una retorica rancida. Questo significa che si stanno delineando, oramai, due posizioni: quella che cerca di “tacitare” le vittime, stampa, cittadini che vogliono verità e quella, ancora esigua e che si cerca di far passare per una “impuntatura” di un ministro non confermato nella sua carica, di chi vorrebbe giuocare a carte scoperte. La nostra tesi che molti, specie al Ministero della Difesa, temono più la presenza ed il processo in Italia dei due marò che una conclusione ingiusta e precostituita di un loro processo in India, trova ogni giorno conferma ed indizi. Anzitutto quello del silenzio sulle prescrizioni impartite ai militari. Vorremmo sbagliarci, ma non è facile che ciò possa avvenire. La verità. Come al solito è più difficile da vedere che non il suo contrario. Ma credo che, intanto, possiamo esigere che la stampa non si volti dall’altra parte. Pare che qualcuno si dia un gran da fare a convincere giornalisti, opinione pubblica e, magari, le famiglie dei due militari che non bisogna prendere e portar avanti iniziative, diradare le nebbie dell’ambiguità. Ma rinunziare persino all’intervento della Croce Rossa Internazionale, evitare di “internazionalizzare” il caso. Tutta questa gente, in sostanza, si sta adoperando perché i nostri militari accettando la sorte degli ostaggi, diventino ostaggi, oltre che degli Indiani, di eventuali corresponsabili di Via XX Settembre. Dove pare che si abbia interesse a non affrontare la questione delle regole e delle istruzioni di servizio dei due marò, della loro assenza o inadeguatezza. Doppiamente ostaggi dunque. Come tali, del resto ricevuti beffardamente (purtroppo) al Quirinale. Peggio di questo non sembra che altro possa scoprirsi.

Mauro Mellini, 87 anni, avvocato, è stato deputato e uno dei fondatori del Partito Radicale, e componente del Consiglio superiore della magistratura. Ha fondato la rivista "Giustizia Giusta", e continua ad occuparsi dei grandi temi della società italiana producendo una vasta pubblicistica e saggistica.

Wu Ming: i due marò, quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto, scrive “DielleMagazine”. Una delle più farsesche “narrazioni tossiche” degli ultimi tempi è senz’altro quella dei “due Marò” accusati di duplice omicidio in India. Fin dall’inizio della trista vicenda, le destre politiche e mediatiche di questo Paese si sono adoperate a seminare frottole e irrigare il campo con la solita miscela di vittimismo nazionale, provincialismo arrogante e luoghi comuni razzisti. Il giornalista Matteo Miavaldi è uno dei pochissimi che nei mesi scorsi hanno fatto informazione vera sulla storiaccia. Miavaldi vive in Bengala ed è caporedattore per l’India del sito China Files, specializzato in notizie dal continente asiatico. A ben vedere, non ha fatto nulla di sovrumano: ha seguito gli sviluppi del caso leggendo in parallelo i resoconti giornalistici italiani e indiani, verificando e approfondendo ogni volta che notava forti discrepanze, cioè sempre. C’è da chiedersi perché quasi nessun altro l’abbia fatto: in fondo, con Internet, non c’è nemmeno bisogno di vivere in India! Verso Natale, la narrazione tossica ha oltrepassato la soglia dello stomachevole, col presidente della repubblica intento a onorare due persone che comunque sono imputate di aver ammazzato due poveracci (vabbe’, di colore…), ma erano e sono celebrate come… eroi nazionali. “Eroi” per aver fatto cosa, esattamente? Insomma, abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere per Giap una sintesi ragionata e aggiornata dei suoi interventi. L’articolo che segue – corredato da numerosi link che permettono di risalire alle fonti utilizzate – è il più completo scritto sinora sull’argomento. Ricordiamo che in calce a ogni post di Giap ci sono due link molto utili: uno apre l’impaginazione ottimizzata per la stampa, l’altro converte il post in formato ePub. Buona lettura, su carta o su qualunque dispositivo.

Il 22 dicembre scorso Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, i due marò arrestati in Kerala quasi 11 mesi fa per l’omicidio di due pescatori indiani, erano in volo verso Ciampino grazie ad un permesso speciale accordato dalle autorità indiane. L’aereo non era ancora atterrato su suolo italiano che già i motori della propaganda sciovinista nostrana giravano a pieno regime, in fibrillazione per il ritorno a casa dei «nostri ragazzi”, promossi in meno di un anno al grado di eroi della patria. La vicenda dell’Enrica Lexie, la petroliera italiana sulla quale i due militari del battaglione San Marco erano in servizio anti-pirateria, ha calcato insistentemente le pagine dei giornali italiani e occupato saltuariamente i telegiornali nazionali. E a seguirla da qui, in un villaggio a tre ore da Calcutta, la narrazione dell’incidente diplomatico tra Italia e India iniziato a metà febbraio è stata – andiamo di eufemismi – parziale e unilaterale, piegata a una ricostruzione dei fatti distante non solo dalla realtà ma, a tratti, anche dalla verosimiglianza. In un articolo pubblicato l’11 novembre scorso su China Files ho ricostruito il caso Enrica Lexie sfatando una serie di fandonie che una parte consistente dell’opinione pubblica italiana reputa verità assolute, prove della malafede indiana e tasselli del complotto indiano. Riprendo da lì il sunto dei fatti. E’ il 15 febbraio 2012 e la petroliera italiana Enrica Lexie viaggia al largo della costa del Kerala, India sud occidentale, in rotta verso l’Egitto. A bordo ci sono 34 persone, tra cui sei marò del Reggimento San Marco col compito di proteggere l’imbarcazione dagli assalti dei pirati, un rischio concreto lungo la rotta che passa per le acque della Somalia. Poco lontano, il peschereccio indiano St. Antony trasporta 11 persone. Intorno alle 16:30 locali si verifica l’incidente: l’Enrica Lexie è convinta di essere sotto un attacco pirata, i marò sparano contro la St. Antony ed uccidono Ajesh Pinky (25 anni) e Selestian Valentine (45 anni), due membri dell’equipaggio. La St. Antony riporta l’incidente alla guardia costiera del distretto di Kollam che subito contatta via radio l’Enrica Lexie, chiedendo se fosse stata coinvolta in un attacco pirata. Dall’Enrica Lexie confermano e viene chiesto loro di attraccare al porto di Kochi. La Marina Italiana ordina ad Umberto Vitelli, capitano della Enrica Lexie, di non dirigersi verso il porto e di non far scendere a terra i militari italiani. Il capitano – che è un civile e risponde agli ordini dell’armatore, non dell’Esercito – asseconda invece le richieste delle autorità indiane. La notte del 15 febbraio, sui corpi delle due vittime viene effettuata l’autopsia. Il 17 mattina vengono entrambi sepolti. Il 19 febbraio Massimiliano Latorre e Salvatore Girone vengono arrestati con l’accusa di omicidio. La Corte di Kollam dispone che i due militari siano tenuti in custodia presso una guesthouse della CISF (Central Industrial Security Force, il corpo di polizia indiano dedito alla protezione di infrastrutture industriali e potenziali obiettivi terroristici) invece che in un normale centro di detenzione. Questi i fatti nudi e crudi. Da quel momento è partita una vergognosa campagna agiografica fascistoide, portata avanti in particolare da Il Giornale, quotidiano che, citando un’amica, «mi vergognerei di leggere anche se fossi di destra». Che Il Giornale si sia lanciato in questa missione non stupisce, per almeno due motivi:

1) La fidelizzazione dei suoi (e)lettori passa obbligatoriamente per l’esaltazione acritica delle nostre – stavolta sì, nostre – forze armate, impegnate a «difendere la patria e rappresentare l’Italia nel mondo» anche quando, sotto contratto con armatori privati, prestano i loro servizi a difesa di interessi privati. Anomalia, quest’ultima, per la quale dobbiamo ringraziare l’ex governo Berlusconi e in particolare l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, che nell’agosto 2011 ha legalizzato la presenza di militari a difesa di imbarcazioni private. In teoria la legge prevede l’uso dell’esercito o di milizie private, senonché le regole di ingaggio di queste ultime sono ancora da ultimare, lasciando il monopolio all’Esercito italiano. Ma questa è – parzialmente – un’altra storia.

2) Il secondo motivo ha a che fare col governo Monti, per il quale il caso dei due marò ha rappresentato il primo grosso banco di prova davanti alla comunità internazionale, escludendo la missione impossibile di cancellare il ricordo dell’abbronzatura di Obama, della culona inchiavabile, letto di Putin, della nipote di Mubarak, dell’harem libico nel centro di Roma e tutto il resto del repertorio degli ultimi 20 anni. Troppo presto per togliere l’appoggio a Monti per questioni interne, da marzo in poi Latorre e Girone sono stati l’occasione provvidenziale per attaccare l’esecutivo dei tecnici, mantenendo vivo il rapporto con un elettorato che tra poco sarà di nuovo chiamato alle urne. E’ il tritacarne elettorale preannunciato da Emanuele Giordana al quale i due marò, dopo la visita ufficiale al Quirinale del 22 dicembre, sono riusciti a sottrarsi chiudendosi letteralmente nelle loro case fino al 10 gennaio quando, secondo i patti, torneranno in Kerala in attesa del giudizio della Corte Suprema di Delhi.

Qualche esempio di strumentalizzazione? Margherita Boniver, senatrice Pdl, il 19 dicembre riesce finalmente a fare notizia offrendosi come ostaggio per permettere a Latorre e Girone di tornare in Italia per Natale. Ignazio La Russa, Pdl, il 21 dicembre annuncia di voler candidare i due marò nelle liste del suo nuovo partito Fratelli d’Italia (sic!). L’escamotage, che serve a blindare i due militari entro i confini italiani, è rimandato al mittente dagli stessi Latorre e Girone, irremovibili nel mantenere la parola data alle autorità indiane.

LA QUERELLE SULLA POSIZIONE DELLA NAVE E UNA CURIOSA “CONTROPERIZIA”

La prima tesi portata avanti maldestramente dalla diplomazia italiana, puntellata dagli organi d’informazione, sosteneva che l’Enrica Lexie si trovasse in acque internazionali e, di conseguenza, la giurisdizione dovesse essere italiana. Ma le cose pare siano andate diversamente. Il governo italiano ha sostenuto che l’Enrica Lexie si trovasse a 33 miglia nautiche dalla costa del Kerala, ovvero in acque internazionali, il che avrebbe dato diritto ai due marò ad un processo in Italia. La tesi è stata sviluppata basandosi sulle dichiarazioni dei marò e su non meglio specificate «rilevazioni satellitari”. Secondo l’accusa indiana l’incidente si era invece verificato entro il limite delle acque nazionali: Girone e Latorre dovevano essere processati in India. Nonostante la confusione causata dal campanilismo della stampa indiana ed italiana, la posizione della Enrica Lexie non è più un mistero ed è ufficialmente da considerare valida la perizia indiana. La squadra d’investigazione speciale che si è occupata del caso lo scorso 18 maggio ha depositato presso il tribunale di Kollam l’elenco dei dati a sostegno dell’accusa di omicidio, citando i risultati dell’esame balistico e la posizione della petroliera italiana durante la sparatoria. Secondo i dati recuperati dal GPS della petroliera italiana e le immagini satellitari raccolte dal Maritime Rescue Center di Mumbai, l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, nella cosiddetta «zona contigua». Il diritto marittimo internazionale considera «zona contigua» il tratto di mare che si estende fino alle 24 miglia nautiche dalla costa, entro le quali è diritto di uno Stato far valere la propria giurisdizione.

Il capoverso qui sopra è stato molto criticato, ma nella sostanza riassume la posizione dell’India sulla «zona contigua», posizione ribadita ieri dalla Corte suprema di New Delhi: «The incident of firing from the Italian vessel on the Indian shipping vessel having occurred within the Contiguous Zone, the Union of India is entitled to prosecute the two Italian marines under the criminal justice system prevalent in the country.» Quest’aspetto verrà approfondito nel prossimo post di Miavaldi. Anche in quest’occasione, i media italiani hanno disinformato pesantemente, ripetendo a tamburo che secondo l’India l’incidente “non è avvenuto in acque territoriali”, senza però dire come proseguiva il discorso, e quindi cosa significhi. Secondo la Corte suprema l’incidente non è avvenuto nelle acque territoriali e perciò non è competenza dello stato del Kerala, ma è avvenuto nella “zona contigua”, sulla quale l’India – intesa come nazione tutta – rivendica la giurisdizione. Per questo il processo è stato spostato dal livello statale a quello federale.

A contrastare la versione ufficiale delle autorità indiane – che, ricordiamo, è stata accettata anche dai legali dei due marò e sarà la base sulla quale la Corte suprema indiana si pronuncerà – è apparsa in rete la ricca controperizia dell’ingegner Luigi di Stefano, già perito di parte civile per l’incidente di Ustica. Di Stefano presenta una serie di dati ed analisi tecniche a supporto dell’innocenza dei due marò. Chi scrive non è esperto di balistica né perito legale – non è il mio mestiere – e davanti alla mole di dati sciorinati da Di Stefano rimane abbastanza impassibile. Tuttavia, è importante precisare che Di Stefano basa gran parte della sua controperizia su una porzione minima dei dati, quelli cioè divulgati alla stampa a poche settimane dall’incidente. Dati che, sappiamo ora, sono stati totalmente sbugiardati dalle rilevazioni satellitari del Maritime Rescue Center di Mumbai e dall’esame balistico effettuato dai periti indiani. Nella perizia troviamo stralci di interviste tratti dal settimanale Oggi, fotogrammi ripresi da Youtube, fermi immagine di documenti mandati in onda da Tg1 e Tg2 (sui quali Di Stefano costruisce la sua teoria della falsificazione dei dati da parte della Marina indiana), altre foto estrapolate da un video della Bbc e una serie di complicatissimi calcoli vettoriali e simulazioni 3d. Non si menziona mai, in tutta la perizia, nessuna fonte ufficiale dei tecnici indiani che, come abbiamo visto, hanno depositato in tribunale l’esito delle loro indagini il 18 maggio. Di Stefano aveva addirittura presentato il suo lavoro durante un convegno alla Camera dei deputati il 16 aprile, un mese prima che fossero disponibili i risultati delle perizie indiane! In quell’occasione i Radicali hanno avanzato un’interrogazione parlamentare al ministro degli Esteri Terzi, chiedendo sostanzialmente: «Ma se abbiamo mandato i nostri tecnici in India e loro non hanno detto nulla, perché dobbiamo stare a sentire Di Stefano?» Il lavoro di Di Stefano, in definitiva, è viziato sin dal principio dall’analisi di dati clamorosamente incompleti, costruito su dichiarazioni inattendibili e animato dal buon vecchio sentimento di superiorità occidentale nei confronti del cosiddetto Terzo mondo. Se qualcuno ancora oggi ritiene che una simile perizia artigianale sia più attendibile di quella ufficiale indiana, cercare di spiegare perché non lo è potrebbe essere un inutile dispendio di energie. Di Stefano in persona è intervenuto nei commenti qui sotto… e mal gliene incolse. Oltre a ulteriori, serissimi dubbi sulla sua “analisi tecnica”, ne sono emersi anche sul suo buffo curriculum, sulla sua laurea (si fa chiamare “ingegnere” ma non risulta lo sia), sui suoi trascorsi e su precedenti, non meno raccogliticce “perizie”. Dulcis in fundo: presentato come tecnico super partes, in realtà Di Stefano è un dirigente del partitino neofascista Casapound. Suo figlio Simone è il candidato di Casapound alla presidenza della regione Lazio. Con Casapound, Di Stefano anima un “comitato pro-Marò”. Dopo che la discussione/inchiesta ha portato alla luce queste cose, Di Stefano è stato raggiunto dal Fatto quotidiano e ha ammesso di non essere andato molto più in là di una ricerca sul web, di non aver mai avuto contatti diretti con fonti indiane e di aver ricevuto alcuni dati da analizzare da giornalisti italiani suoi amici, omettendo di verificarli alla fonte primaria. Costui si aggirava da anni al centro o alla periferia di inchieste cruciali (Ustica, Ilva etc.), presentato dai media mainstream e dalle destre (fascisti e berluscones) come “esperto”, senza che nessuno avesse mai pensato di verificarne i titoli, la reale competenza, i metodi impiegati e chi gli dava copertura politica. Eppure non sarebbe stata un’inchiesta difficile, tant’è che per scoprire certi altarini sono bastati due giorni di discussione seria su un blog. Naturalmente, sia Di Stefano sia i suoi amici di estrema destra, dopo aver accusato il colpo, han cercato di rispondere facendo il free climbing sugli specchi e gridando al complotto internazionale ai loro danni.

UNGHIE SUI VETRI: «NON SONO STATI LORO A SPARARE!» 

Altra tesi particolarmente in voga: non sono stati i marò a sparare, c’era un’altra nave di pirati nelle vicinanze, sono stati loro. Nel rapporto consegnato in un primo momento dai membri dell’equipaggio dell’Enrica Lexie alle autorità indiane e italiane (entrambi i Paesi hanno aperto un’inchiesta) si specifica che Latorre e Girone hanno sparato tre raffiche in acqua, come da protocollo, man mano che l’imbarcazione sospetta si avvicinava all’Enrica Lexie. Gli indiani sostengono invece che i colpi erano stati esplosi con l’intenzione di uccidere, come si vede dai 16 fori di proiettile sulla St. Antony. Il 28 febbraio il governo italiano chiede che al momento dell’analisi delle armi da fuoco siano presenti anche degli esperti italiani. La Corte di Kollam respinge la richiesta, accordando però che un team di italiani possa presenziare agli esami balistici condotti da tecnici indiani. Gli esami confermano che a sparare contro la St. Antony furono due fucili Beretta in dotazione ai marò, fatto supportato anche dalle dichiarazioni degli altri militari italiani e dei membri dell’equipaggio a bordo sia dell’Enrica Lexie che della St. Antony. Staffan De Mistura, sottosegretario agli Esteri italiano, il 18 maggio ha dichiarato alla stampa indiana: «La morte dei due pescatori è stato un incidente fortuito, un omicidio colposo. I nostri marò non hanno mai voluto che ciò accadesse, ma purtroppo è successo». I più cocciuti, pur davanti all’ammissione di colpa di De Mistura, citano ora il mistero della Olympic Flair, una nave mercantile greca attaccata dai pirati il 15 febbraio, sempre al largo delle coste del Kerala. La notizia, curiosamente, è stata pubblicata esclusivamente dalla stampa italiana, citando un comunicato della Camera di commercio internazionale inviato alla Marina militare italiana. Il 21 febbraio la Marina mercantile greca ha categoricamente escluso qualsiasi attacco subito dalla Olympic Flair. A questo punto possiamo tranquillamente sostenere che:

1) l’Enrica Lexie non si trovava in acque internazionali; 

2) i due marò hanno sparato. Sono due fatti supportati da prove consistenti e accettati anche dalla difesa italiana, che ora attende la sentenza della Corte suprema circa la giurisdizione.

Secondo la legge italiana ed i suoi protocolli extraterritoriali, in accordo con le risoluzioni dell’Onu che regolano la lotta alla pirateria internazionale, i marò a bordo della Enrica Lexie devono essere considerati personale militare in servizio su territorio italiano (la petroliera batteva bandiera italiana) e dovrebbero godere quindi dell’immunità giurisdizionale nei confronti di altri Stati.

La legge indiana dice invece che qualsiasi crimine commesso contro un cittadino indiano su una nave indiana – come la St. Antony – deve essere giudicato in territorio indiano, anche qualora gli accusati si fossero trovati in acque internazionali.

A livello internazionale vige la Convention for the Suppression of Unlawful Acts Against the Safety of Maritime Navigation (SUA Convention), adottata dall’International Maritime Organization (Imo) nel 1988, che a seconda delle interpretazioni, indicano gli esperti, potrebbe dare ragione sia all’Italia sia all’India.

La sentenza della Corte Suprema di New Delhi, prevista per l’8 novembre ma rimandata nuovamente a data da destinarsi, dovrebbe appunto regolare questa ambiguità, segnando un precedente legale per tutti i casi analoghi che dovessero verificarsi in futuro. Il caso dei due marò, che dal mese di giugno sono in regime di libertà condizionata e non possono lasciare il Paese prima della sentenza, sarà una pietra miliare del diritto marittimo internazionale.

IMPRECISIONI, DIMENTICANZE, SAGRESTIE E ROMBI DI MOTORI

In oltre 10 mesi di copertura mediatica, la cronaca a macchie di leopardo di gran parte della stampa nazionale ha omesso dettagli significativi sul regime di detenzione dei marò, si è persa per strada alcuni passaggi della diplomazia italiana in India e ha glissato su una serie di comportamenti “al limite della legalità” che hanno contraddistinto gli sforzi ufficiali per «riportare a casa i nostri marò». In un altro articolo pubblicato su China Files il 7 novembre, avevo collezionato le mancanze più eclatanti. Riprendo qui quell’esposizione. Descritti come «prigionieri di guerra in terra straniera» o militari italiani «dietro le sbarre», Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in realtà non hanno speso un solo giorno nelle famigerate carceri indiane. I due militari del Reggimento San Marco, in libertà condizionata dal mese di giugno, come scrive Paolo Cagnan su L’Espresso, in India sono trattati col massimo riguardo e, in oltre otto mesi, non hanno passato un solo giorno nelle famigerate celle indiane, alloggiando sempre in guesthouse o hotel di lusso con tanto di tv satellitare e cibo italiano in tavola. Tecnicamente, «dietro le sbarre» non ci sono stati mai. Un trattamento di lusso accordato fin dall’inizio dalle autorità indiane che, come ricordava Carola Lorea su China Files il 23 febbraio, si sono assicurate che il soggiorno dei marò fosse il meno doloroso possibile: «I due marò del Battaglione San Marco sospettati di aver erroneamente sparato a due pescatori disarmati al largo delle coste del Kerala, sono alloggiati presso il confortevole CISF Guest House di Cochin per meglio godere delle bellezze cittadine. Secondo l’intervista rilasciata da un alto funzionario della polizia indiana al Times of India, i due sfortunati membri della marina militare italiana sarebbero trattati con grande rispetto e con tutti gli onori di casa, seppure accusati di omicidio. La diplomazia italiana avrebbe infatti fornito alla polizia locale una lista di pietanze italiane da recapitare all’hotel per il periodo di fermo: pizza, pane, cappuccino e succhi di frutta fanno parte del menu finanziato dalla polizia regionale. Il danno e la beffa.» Intanto, l’Italia cercava in ogni modo di evitare la sentenza dei giudici indiani, ricorrendo anche all’intercessione della Chiesa. Alcune iniziative discutibili portate avanti dalla diplomazia italiana, o da chi ne ha fatto tristemente le veci, hanno innervosito molto l’opinione pubblica indiana. Due di queste sono direttamente imputabili alle istituzioni italiane. In primis, aver coinvolto il prelato cattolico locale nella mediazione con le famiglie delle due vittime, entrambe di fede cattolica. Il sottosegretario agli Esteri De Mistura si è più volte consultato con cardinali ed arcivescovi della Chiesa cattolica siro-malabarese, nel tentativo di aprire anche un canale “spirituale” con i parenti di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori morti il pomeriggio del 15 febbraio. L’ingerenza della Chiesa di Roma non è stata apprezzata dalla comunità locale che, secondo il quotidiano Tehelka, ha accusato i ministri della fede di «immischiarsi in un caso penale», convincendoli a dismettere il loro ruolo di mediatori. Il 24 aprile, inoltre, il governo italiano e i legali dei parenti delle vittime hanno raggiunto un accordo economico extra-giudiziario. O meglio, secondo il ministro della Difesa Di Paola si è trattato di «una donazione», di «un atto di generosità slegato dal processo». Alle due famiglie, col consenso dell’Alta Corte del Kerala, vanno 10 milioni di rupie ciascuna, in totale quasi 300mila euro. Dopo la firma, entrambe le famiglie hanno ritirato la propria denuncia contro Latorre e Girone, lasciando solo lo Stato del Kerala dalla parte dell’accusa. Raccontata dalla stampa italiana come un’azione caritatevole, la transazione economica è stata interpretata in India non solo come un’implicita ammissione di colpa, ma come un tentativo, nemmeno troppo velato, di comprarsi il silenzio delle famiglie dei pescatori. Tanto che il 30 aprile la Corte Suprema di Delhi ha criticato la scelta del tribunale del Kerala di avallare un simile accordo tra le parti, dichiarando che la vicenda «va contro il sistema legale indiano, è inammissibile.» Ma il vero capolavoro di sciovinismo è arrivato lo scorso mese di ottobre durante il Gran Premio di Formula 1 in India. In un’inedita liaison governo-Il Giornale-Ferrari, in poco più di una settimana l’Italia è riuscita a far tornare in prima pagina il non-caso dei marò che in India, dopo 8 mesi dall’incidente, era stato ampiamente relegato nel dimenticatoio mediatico. Rispondendo all’appello de Il Giornale ed alle «migliaia di lettere» che i lettori hanno inviato alla redazione del direttore Sallusti, la Ferrari ha accettato di correre il gran premio indiano di Greater Noida mostrando in bella vista sulle monoposto la bandiera della Marina Militare Italiana. Il primo comunicato ufficiale di Maranello recitava: «[…] La Ferrari vuole così rendere omaggio a una delle migliori eccellenze del nostro Paese auspicando anche che le autorità indiane e italiane trovino presto una soluzione per la vicenda che vede coinvolti i due militari della Marina Italiana.» La replica seccata del Ministero degli Esteri indiano non si fa attendere: «Utilizzare eventi sportivi per promuovere cause che non sono di quella natura significa non essere coerenti con lo spirito sportivo.» Pur avendo incassato il plauso del ministro degli Esteri Terzi, che su Twitter ha gioito dell’iniziativa che «testimonia il sostegno di tutto il Paese ai nostri marò», la Scuderia Ferrari opta per un secondo comunicato. Sfidando ogni logica e l’intelligenza di italiani ed indiani, l’ufficio stampa della casa automobilistica specifica che esporre la bandiera della Marina «non ha e non vuole avere alcuna valenza politica.» In mezzo al tira e molla di una strategia diplomatica improvvisata, così impegnata a non scontentare l’Italia più sciovinista al punto da appoggiare la pessima operazione d’immagine del duo Maranello-Il Giornale, accolta in India da polemiche ampiamente giustificabili, il racconto dei marò – precedentemente «dietro le sbarre» –  è continuato imperterrito con toni a metà tra un romanzo di Dickens e una sagra di paese. Il Giornale, ad esempio, esaltando la vittoria morale dell’endorsement Ferrari, confida ai propri lettori che «i famigliari di Massimiliano Latorre, tutti con una piccola coccarda di colore giallo e il simbolo della Marina Militare al centro appuntata sugli abiti, hanno pensato di portare a Massimiliano e a Salvatore alcuni tipici prodotti locali della Puglia: dalle focacce ai dolci d’Altamura per proseguire poi con le orecchiette, le friselle di grano duro.» L’operazione, qui in India, ha raggiunto esclusivamente un obiettivo: far inviperire ancora di più le schiere di fanatici nazionalisti indiani sparse in tutto il Paese. Ma è lecito pensare che la mossa mediatica, ancora una volta, non sia stata messa a punto per il bene di Latorre e Girone, bensì per strizzare l’occhiolino a quell’Italia abbruttita dalla provincialità imposta dai propri politici di riferimento, maltrattata da un’informazione colpevolmente parziale che da tempo ha smesso di “informare” preferendo istruire, depistare, ammansire e rintuzzare gli istinti peggiori di una popolazione alla quale si rifiuta di dare gli strumenti e i dati per provare a capire e pensare con la propria testa.

PARLARE A CHI SI TAPPA LE ORECCHIE

In questi mesi, quando provavamo a raccontare la storia dei marò facendo due passi indietro e includendo doverosamente anche le fonti indiane, ci sono piovuti addosso decine di insulti. Quando citavamo fonti dai giornali indiani, ci accusavano di essere «come un fogliaccio del Kerala»; quando abbiamo provato a spiegare il problema della giurisdizione, ci hanno risposto «L’India è un paese di pezzenti appena meno pezzenti di prima che cerca di accreditarsi come potenza, ma sempre pezzenti restano. E un pezzente con soldi diventa arrogante. Da nuclearizzare!»; quando abbiamo cercato di smentire le falsità pubblicate in Italia (come la memorabile bufala di Latorre che salva un fotografo fermando una macchina con le mani e si guadagna le copertine indiane come “Eroe”) ci hanno dato degli anti-italiani, augurandoci di andare a vivere in India e vedere se là stavamo meglio. Ignorando il fatto che, a differenza di molti, noi in India ci abitiamo davvero. Quando tutta questa vicenda verrà archiviata e i marò saranno sottoposti a un giusto processo – in Italia o in India, speriamo che sia giusto – sarà bene ricordarci come non fare del cattivo giornalismo, come non condurre un confronto diplomatico con una potenza mondiale e, soprattutto, come non strumentalizzare le nostre forze armate per fini politici. Una cosa della quale, anche se fossi di destra, mi sarei vergognato. Dopo mesi e mesi di propaganda a senso unico e rintocchi assordanti di una sola campana, quest’articolo è stato un sasso nello stagno. E’ il più “socializzato” della storia di Giap ed è stato ripreso in lungo e in largo per la rete. La discussione qui sotto è partecipata e ricchissima di spunti, approfondimenti, correzioni, precisazioni, conferme, rilanci, rivelazioni, scoperte. “Pare un film di 007″, ha scritto un commentatore sbigottito, riferendosi ai colpi di scena che si susseguivano rapidi. Mentre scriviamo, si sfiorano ormai i 300 commenti, con decine di sotto-discussioni ramificate, compresa la vera e propria inchiesta collettiva su metodi e titoli del dicentesi ingegner Di Stefano. Leggere tutto quanto è appassionante, ma anche impegnativo e non tutti hanno il tempo di farlo. Ci ripromettiamo, noi e Matteo Miavaldi, di preparare e pubblicare un secondo post, che aggiorni, faccia il sunto della discussione, affronti i punti critici, tenga accese le braci di un’informazione diversa sul caso. — fonte: wumingfoundation.com

"Marò sacrificati a interessi economici. Ora ci pensi l'Onu". L’ex ministro Terzi: siamo in una giungla, il governo si rivolga all’Onu, scrive Lorenzo Bianchi su “Il Quotidiano Nazionale”. «L’Italia evita le vie maestre del diritto e sceglie invece i sentieri della giungla. Questa è la mia sintesi sulla questione dei marò». Giulio Terzi di Sant’Agata, già ambasciatore a Washington, ha lasciato la carica di ministro degli Esteri il 26 marzo dell’anno scorso quando si decise di rimandare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone in India. L’ex titolare della Farnesina ripete ancora oggi che quella decisione fu presa sulla spinta di interessi economici. «Lo disse chiaramente il presidente del consiglio Mario Monti nel suo intervento del 27 marzo. Cambiammo una posizione enunciata a tutto il mondo con i comunicati dell’11 e del 18 marzo 2013. Furono infatti gli indiani a violare gli affidavit. La Corte Suprema di Nuova Delhi aveva detto che i due paesi dovevano avviare consultazioni sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto Marittimo, in sigla Unclos, articolo 100. Noi eravamo disponibili. L’India disse che non se ne discuteva neppure».

Invece?

«Il 21 marzo la posizione del governo italiano fu ribaltata nel giro di poche ore».

Come mai non sono state coinvolte le Nazioni Unite?

«Ho informato il segretario generale del Palazzo di Vetro Ban Ki moon a Londra a margine della conferenza sulla Somalia, 8 o 9 giorni dopo il sequestro dei nostri fucilieri. Fu una trappola nella quale caddero la squadra navale e il comando operativo interforze che autorizzarono la Lexie ad andare a Kochi. Fui informato dalla difesa solo 5 o 6 ore dopo».

Come mai?

«Non si è mai capito il motivo del ritardo».

In ogni caso quale fu la risposta di Ban Ki moon a Londra?

«Mi disse: la questione deve essere risolta secondo il diritto internazionale. Me lo ha ripetuto almeno venti volte».

Quindi l’arbitrato internazionale, che l’Italia invece ha lasciato cadere.

«Torniamo all’Unclos, prevede una procedura di 30 giorni per avere misure cautelari, ossia l’affidamento dei marò a un Paese terzo, fino alla decisione della corte di Amburgo sul merito, in due o tre mesi. Su questa base a metà marzo avevamo deciso di trattenere Latorre e Girone in Italia. Invece poi per un anno e mezzo non si è fatto nulla».

Perché?

«Per non smentire l’operato di Monti. La cosa si è trascinata fino al governo di Renzi. È un motivo politico. Il progetto di internazionalizzazione è finito. L’unica volta nella quale Renzi dice di aver parlato dei marò è stato al G 20 di Brisbane in un corridoio con Modi durante una pausa caffè, senza un incontro bilaterale. Avremmo una potenzialità enorme di risolvere il pasticcio».

Come?

«Sollevando la questione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La lotta alla pirateria è all’ordine del giorno almeno ogni due o tre mesi. In ogni caso l’Italia potrebbe chiedere una discussione dopo un’azione preparatoria con i paesi nostri amici, gli Usa per esempio. Come si fa la lotta alla pirateria senza l’immunità funzionale ai militari che vi partecipano?».

Altre vie?

«Mi risulta che durante il governo Letta sia stata sondata a Ginevra la ex alta Commissaria dell’Onu Navi Pillay. Mi consta che la porta fosse aperta, ma non è stato fatto nulla. Infine c’era un terza possibilità».

Quale?

«L’8 luglio scorso il presidente della Croce Rossa Internazionale Peter Maurer ha inviato una lettera alla presidenza del consiglio e ai ministeri interessati sul caso dei fucilieri di marina. Citava considerazioni umanitarie. Offriva i suoi buoni uffici. Non c’è stata nessuna risposta. Latorre è stato male, si sa di sofferenze psicologiche di Girone. Pensi con quale maggior peso sarebbe sollevata la questione».

Si torna agli interessi.

«Vorrei che qualcuno dichiarasse pubblicamente i motivi per i quali un anno e mezzo fa c’è stata quella decisione».

Arrestate lo Stato, scrive Andrea Cangini su “Il Quotidiano Nazionale”. In una nazione così evidentemente incline al sotterfugio e al reato c’è bisogno anche di un’informazione manettara e moralista, inflessibile in scena e sempre arrabbiata. Un giornale di denuncia, una denuncia giudiziaria. Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che lo spirito del «Fatto quotidiano» rappresenta la punta estrema di un sentimento largamente diffuso poiché politicamente corretto. Si è persa la terza dimensione, quella all’interno della quale la politica diventava grande percorrendo col mento all’insù le terre alte del potere, dell’interesse nazionale, della guerra e dello Stato. Ma politica, potere, interesse nazionale, guerra e Stato sono parole cadute in disgrazia, ormai prive di senso o dall’accezione negativa. Non resta allora che il moralismo giudiziario. L’esibita pretesa di schiacciare la politica sul terreno delle buone maniere, della coerenza assoluta, del codice penale e della rettitudine estrema. Rettitudine sconosciuta alle vite degli uomini, e dunque estranea anche alla quotidianità dei suoi profeti. Ma non è certo colpa di Marco Travaglio, di Antonio Padellaro o di Peter Gomez se per avere fatto sesso con una donna consenziente l’uomo più influente del mondo quindici anni fa è finito sotto processo del Congresso americano e di un Tribunale – sempre a favore di telecamere, s’intende – e per l’intera durata di quel duplice giudizio la Storia si è fermata e la cronaca abbondantemente sfamata. Dice: il punto è che Bill Clinton mentì alla nazione. E con questo? Davvero qualcuno pensa che un leader politico, il presidente degli Stati Uniti, addirittura, dica o possa dire sempre e solo la verità? Pretenderlo, è un segno di follia. Un’ossessione evidente. Eppure, solo in pochi colsero l’assurdità del «caso Lewinsky». Lo spirito del «Fatto» è dunque lo spirito del tempo, un tempo la cui letteratura sono i rotocalchi di gossip e i verbali delle procure. Un tempo fatto apposta per sputtanare la politica e svuotare gli Stati. Può anche essere un’idea, ma nessuno, neanche i colleghi del «Fatto», sa indicare alternative possibili. I «tecnici»? Abbiamo già dato. I magistrati? Ne faremmo volentieri a meno. Diciamo che ci sono bastate le avanguardie: i Di Pietro, i De Magistris, gli Ingroia... Se ne esce solo con una retorica politica, e in mancanza d’altro la retorica nazionale va sempre bene: è comunque un appiglio grazie al quale i leader politici possono eventualmente elevarsi. Ma la politica ha bisogno di simboli. Tutti hanno bisogno di simboli, e anche di eroi. La divisa è un simbolo; il soldato in divisa un’annunciazione di eroismo. Non ci vuole molto a capire che da quando sono prigionieri in India «i due marò» hanno cessato di essere due uomini in carne e ossa e sono diventati un unico simbolo, il simbolo della forza e della credibilità dello Stato italiano nel mondo. Ma per quelli del «Fatto», che in questi termini ieri ne hanno scritto, sono solo due italiani «accusati di omicidio». In galera, dunque, mettiamo direttamente in galera lo Stato.

“Il Mercato dei Marò”  è un’opera che narra la gestione di un avvenimento internazionale “tutto italiano”, come lo definisce  l’autore del libro l’Avvocato Mauro Mellini, proponendoci l’analisi di una vicenda assurda, forse unica nella storia moderna di uno Stato di diritto quale dovrebbe essere l’Italia, Patria di antiche tradizioni giuridiche, storiche e culturali, scrive Fernando Termentini su “Libero Reporter”. Un testo che stigmatizza l’assenza dello Stato nell’affrontare eventi  che dopo  più di 1000 giorni ancora presentano punti oscuri…E’  la storia evidente di come l’Italia abbia delegato le proprie funzioni sovrane ad uno Stato Terzo, affidandogli la gestione di un’azione giudiziaria indebita nei confronti di due militari italiani, due Sottufficiali della Marina Militare italiana, Fucilieri della prestigiosa Brigata S.Marco, incaricati dal Parlamento di assolvere compiti di contrasto alla pirateria marittima. Un racconto che ci propone un dramma che coinvolge due cittadini italiani e le loro famiglie e che cela “verità nascoste”, quelle che il 22 marzo 2013 hanno suggerito al Governo Monti di dare corso all’estradizione passiva di due nostri connazionali, consegnandoli nelle mani di un Paese in cui è prevista la pena di morte. Un’azione di “contrasto dissuasivo”, quella dei due Sottufficiali incaricati di garantire protezione anti pirateria ad  un a nave battente Bandiera italiana  ed in navigazione in acque internazionali,  durante la quale sarebbero stati uccisi due poveri pescatori indiani secondo quanto affermato, ma mai provato, dallo Stato Federale indiano del Kerala. Il Mercato dei Marò ci propone pagina dopo pagina questi ed altri dubbi a cui dopo 1000 giorni non è stata data ancora una risposta logica e convincente. Piuttosto confermano come lo Stato stia negando qualsiasi tutela a due suoi cittadini, peraltro titolari di uno  “status” particolare, quello di militari in servizio. Perplessità mai chiarite fin dal giorno successivo ai fatti, il 16 febbraio 2012, quando  un Comando Militare acconsentì che l’Armatore della nave  autorizzasse la petroliera a rientrare  in acque territoriali indiane, consegnando di fatto  i due Fucilieri di Marina  alla giurisdizione indiana.  Un atto di assenso dato sulla linea di Comando Operativo mai chiarito e reso noto solo il 17 ottobre del 2012 dall’allora Ministro della Difesa Gianpaolo Di Paola, Ammiraglio in quiescenza. Un chiarimento ufficializzato dal Ministro dopo  8 mesi dagli eventi, perché costretto a rispondere ad una precisa interrogazione parlamentare. Un testo quello scritto dall’Avvocato Mellini, che propone anche spunti di carattere giuridico che aiutano a comprendere come la vicenda dei due Fucilieri di Marina, nata da disposti legislativi nazionali in parte imprecisi, è portata avanti dalle Istituzioni senza alcun riferimento al Diritto Internazionale ed alle Convenzioni sul diritto del mare. Un’analisi anche delle versione dei fatti, quella indiana e quella italiana, che aiuta  ad individuare  i lati oscuri di una vicenda che coinvolge da oltre 1000 giorni i  due Marò. Una storia assolutamente italiana e peculiarmente italiana nel momento che improvvisamente agli eventi si accavallano notizie di tangenti internazionali. Fatti che coinvolgono, peraltro, un’importante realtà industriale italiana, Finmeccanica e che hanno portato a livello istituzionale di  considerare Massimiliano Latorre e Salvatore Girone  “merce di baratto” con l’India, con un approccio che l’autore definisce a ragione “un vero e proprio atto di tradimento”. “Il Mercato dei Marò”, non è, quindi, un testo solo narrativo, ma una vera e propria denuncia della scarsa efficacia di come le Istituzioni stanno gestendo una vicenda di risonanza internazionale. Potrebbe essere il testo della scenografia di una tragicommedia  in cui protagonisti e comparse si scambiano i ruoli senza che nulla accada. E’, invece, il resoconto di una storia recente  ancora non terminata dominata dall’ipocrisia con cui è stata gestita la sorte di due nostri concittadini ai vari livelli istituzionali fino ad arrivare ad una non meglio connotata posizione del Presidente Napolitano quale Capo supremo delle Forze Armate. Un testo che denuncia anche l’assenza inaccettabile dell’Europa assolutamente disattenta alla sorte dei due cittadini europei proponendo la triste realtà che una volta “ripartiti i due Marò, restano, invece, “affaristi e cialtroni”. Il Mercato dei Marò è, in sintesi, la storia di un baratto senza fine, dove la merce di scambio non sono i sacchi colmi di grano o le gerle piene di frutta di un tempo. Piuttosto, due uomini, due cittadini italiani colpevoli di servire lo Stato, ma dallo Stato abbandonati per motivi ancora occulti.  Un mercanteggiare che dura ormai da più di 1000 giorni e dopo le dimissioni dell’Ambasciatore Terzi e la fine del Governo Monti si connota, sempre di più, come una “contrattazione di fronte ad un bicchiere di thè”, nelle migliori tradizioni di un Suck arabo.  Qualcosa di unico nella storia moderna e forse irripetibile, dove emergono, come ben delineato nel testo,  figure politiche italiane che riconoscono di fatto la giurisdizione indiana “concordando” una modesta sentenza da scontare in Italia. “Un premio” per i due militari per aver adempiuto al loro dovere nel rispetto delle  “regole d’ingaggio”  e da una necessità di legittima difesa”. Uno scenario fosco in cui emergono possibili interessi  personali anche di ex Ministri il cui parere fu determinante quando fu deciso di restituire all’India Massimiliano Latorre e Salvatore Girone quel fatidico 22 marzo 2013, oggi titolari di cariche di prestigio o prossimi ad assumere leadership politiche. Nel frattempo, Il “mercato” continua a danno della sovranità nazionale italiana e propone al mondo un’Italia sempre più timida nell’affermare i propri diritti ed a tutelare quelli dei propri cittadini. I due Marò sono lontani dalla loro Patria e dalle loro famiglie da quasi tre anni, colpevoli solo di aver detto  “OBBEDISCO” e, questo, non è più accettabile. E’ tempo, invece, che il baratto in corso sia messo in liquidazione e l’Italia si riappropri delle sue tradizioni storiche, culturali e giuridiche, con soluzioni anche suggerite da “Il Mercato dei Marò”. Dobbiamo essere grati all’Avvocato Mauro Mellini per essersi voluto cimentare in un impegno gravoso affrontandolo senza compromessi, ma privilegiando la massima trasparenza ed onestà intellettuale, tipica di coloro che rifiutano il compromesso privilegiando il diritto. Grazie Mauro !

Chi è il Generale Termentini? Ho frequentato l’Accademia Militare e lavorato come Ufficiale dell’Arma del Genio per 40 anni. Ho partecipato a missioni di Peace Keeping in Somalia, Bosnia, Mozanbico e quale esperto nel settore della bonifica dei campi minati e degli ordigni esplosivi in Kuwait, Bosnia, Pakistan per l’Afghanistan in occasione della Operation Salam. Una volta congedato ho fornito consulenza nel settore della bonifica ad ONG ed alle Nazioni Unite.

Napolitano doveva abdicare per dire finalmente la verità su giudici e Marò. Solo ora che va via dal Quirinale alza i toni sui grandi nodi della giustizia, scrive Francesco Carta su “La Notizia Giornale”. Ci ha impiegato otto anni Giorgio Napolitano per togliersi i sassolini dalla scarpa. Anzi, macigni veri e propri, considerando la forza delle parole usate contro un potere, quello della magistratura, per anni immune da accuse o critiche di ogni sorta. Ora, invece, il capo dello Stato, nelle vesti di presidente del Csm, non ha usato mezzi termini davanti al plenum dei magistrati. E allora, sebbene avesse precisato che “non spetta al capo dello Stato” valutare la “riforma della giustizia”, ha poi esordito proprio premendo sulla necessità di riformare il sistema. In modo organico. Dando vita ad un processo innovatore che ridia efficienza alla macchina della giustizia”. Tutto questo, tenendo però fermo un principio: “La politica e la magistratura non devono percepirsi come mondi ostili” e non devono orientare i loro rapporti nel segno del “reciproco sospetto”. Insomma, basta con l’eterna “lotta” tra magistratura e politica. Bisogna tornare a collaborare. E per farlo il primo passo è abbandonare il “protagonismo” di certi giudici. Se infatti da una parte “è fondamentale l’azione repressiva dei pm e della polizia”, è pur vero che “l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario” si garantiscono solo con “comportamenti appropriati“, cioè evitando “cedimenti a esposizioni mediatiche o a tentazioni di missioni improprie”. Cosa che, dice ancora Napolitano, accade spesso, dato che non si possono non “segnalare comportamenti impropriamente protagonistici e iniziative di dubbia sostenibilità assunti, nel corso degli anni, da alcuni magistrati della pubblica accusa”. Lo sforzo, dunque, dev’essere indirizzato al superamento di ogni ostilità. Affinchè questo accada, però, è necessario che sia la magistratura per prima a cambiare atteggiamento. A cominciare dalle tante correnti interno al corpo dei giudici che spesso sfiancano la stessa integrità delle toghe. “Le correnti – ha detto infatti il numero uno del Csm – sono state e devono essere ambiente qualificato di crescita, formazione e dibattito, in direzione di un miglioramento complessivo della funzione giudiziaria”. Insomma, formazione, integrità, trasparenza. E imparzialità. Ecco perché è necessario che il sistema giudiziario sia affidato “ad un organo indipendente e imparziale, che garantisce la regole della civile convivenza e la stessa credibilità delle istituzioni democratiche. Questi valori vengono posti in dubbio in presenza di ingiustificate lungaggini, sia in campo civile che penale”. Ecco, allora, che si torna al punto di partenza: è necessaria una riforma. Napolitano lo sa. E ora anche i giudici. L’assicurazione di un processo “rapido e corretto” per i marò ricevuta un anno fa dall’ambasciatore indiano “è rimasta una frase”. Duro l’attacco del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ieri, in collegamento con il marò, Salvatore Girone, in India. “Ci sono state prove molto negative, scarsa volontà politica di dare una soluzione equa e un malfunzionamento della giustizia indiana che non è solo italiana”, ha aggiunto il Capo dello Stato. Non sono mancati, poi, i plausi e l’elogio nei confronti di Girone: “Sono molto colpito dalla serenità mostrata da lei e dalle vostre famiglie”. Il quale ha contraccambiato immediatamente l’affetto espresso dal capo dello Stato: “Sono ancora fiducioso nelle nostre istituzioni nonostante tutto quello accaduto”.

La coerenza è merce rara, ma in Italia la conosce solo la mafia, scrive Eugenio Scalfari su “La Repubblica”. Qualche tempo fa, prendendo spunto dalle parole pronunciate da papa Francesco che giudicava la povertà come il più grave male che affligge il mondo degli umani, dedicai il mio articolo a quel tema il quale non si limita a dividere gli abitanti del nostro pianeta in ricchi e poveri. Da questa (crescente) diseguaglianza nascono una serie di altri malanni: la sopraffazione, le più varie forme di schiavitù sia pure chiamate in modi diversi, l'invidia, la gelosia, la corruzione, il malgoverno, le rendite parassitarie e perfino guerre e sanguinose rivoluzioni. Anche oggi utilizzerò parole recentissime di Francesco che hanno come tema la coerenza. "Gli uomini e le donne  -  ha detto  -  dovrebbero comportarsi in modo coerente con il loro pensiero e la loro visione della vita, ma purtroppo molto spesso le cose non vanno così. Accade che coloro che si dichiarano cristiani e pensano di esserlo, nella realtà vivono da pagani mettendosi sotto i piedi ogni straccio di coerenza. Questo è un peccato gravissimo e non deve più accadere. La Chiesa sarà molto vigile su questo peccato di incoerenza che ne provoca molti altri, fuori dalla Chiesa ma anche dentro la Chiesa". Francesco ha detto queste parole dal balcone del Palazzo Apostolico ad una piazza gremita e quando ha pronunciato la frase sulla gravità del peccato di incoerenza ha gridato quelle parole a voce altissima con quanto fiato aveva in corpo. Questo è dunque il tema sul quale oggi vi intratterrò: la coerenza, la sua frequentissima violazione e i danni gravi che ne derivano. Ed ora la coerenza. Mi è rimasto meno spazio di quanto pensassi ma qualcosa dirò. Noi non siamo un Paese abitato da persone coerenti. Parlo naturalmente di coerenza nei rapporti con la società e quindi con la vita pubblica e le istituzioni che la rappresentano. Noi non amiamo lo Stato, non amiamo le Regioni (che del resto fanno poco o nulla per meritarselo). Non amiamo i giudici e i loro tribunali. Insomma non amiamo chi emette regole alle quali dovremmo attenerci. Detestiamo le tasse e cerchiamo di evaderle. Noi amiamo il "fai da te". È una libertà? Certo è una grande e importante libertà, ma con un limite: la puoi applicare in pieno purché non danneggi gli altri e la società che tutti ci contiene. Le mafie prosperano in Italia perché i capi ottengono completa obbedienza e rispetto dello statuto dell'organizzazione e ai riti di iniziazione. Se li tradiscono li aspetta il giudizio del capo e la punizione da lui decretata. Perciò, salvo rare eccezioni, i mafiosi sono coerenti. I non mafiosi no. L'esercito ausiliario della mafia è fatto da non mafiosi il cui "fai da te" ha scelto quella zona grigia che tiene un piede dentro la scarpa mafiosa ed uno fuori. Senza di loro la mafia conterebbe assai poco ma con loro conta moltissimo. Le mafie sono Stati nello Stato perché lo combattono ma ci vivono dentro. Le persone coerenti della nostra vita pubblica sono molto poche. Li chiamiamo "padri della Patria", una buona definizione, ma quanti sono da quando nacque lo Stato unitario? Certamente Mazzini, Garibaldi, Cavour lo furono. In modi diversi e spesso conflittuali ma l'obiettivo era unico. Gran parte della Destra storica che andò al governo dopo la morte di Cavour, e lo tenne per sedici anni costruendo lo Stato unitario nel bene e nel male, merita quel titolo: Ricasoli, Sella, Minghetti, Fortunato, Silvio Spaventa, Nitti e in tempi più recenti Einaudi, De Gasperi, Parri, La Malfa, Di Vittorio, Trentin, Lama, Adriano Olivetti, Calamandrei, Berlinguer, Raffaele Mattioli, Menichella, Pertini, Ciampi, Napolitano. Ma poi ci furono scrittori e personaggi da loro creati, in Italia e in Europa, che sono esempi di coerenza. Pensate a padre Cristoforo dei "Promessi Sposi" e pensate a Jean Valjean dei "Miserabili" di Victor Hugo. Ed alcuni santi, specialmente monaci, a cominciare da Francesco d'Assisi e Benedetto. Sembrano tanti questi nomi e molti altri me ne scordo. Ma gli incoerenti sono una massa, senza nome e senza volto ma una quantità che esiste in ogni Paese del mondo. Qui da noi è una moltitudine, una popolazione che vuole ignorare la sua storia e vivere il presente ignorando passato e non riuscendo ad immaginare futuro. Se i docenti delle nostre scuole partissero dal concetto della coerenza e lo applicassero nel bene e nel male ai fatti accaduti, credo farebbero un'opera santa e fornirebbero un'educazione che costituisce la base di un Paese civile.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

Un reportage su come la stampa ha presentato ed enfatizzato un evento mediatico giudiziario.

Blitz contro neofascisti, 14 arresti. Nel mirino politici, magistrati e sedi Equitalia, scrive “La Stampa”. Il gruppo clandestino aveva elaborato un piano per “minare la stabilità sociale” del Paese e voleva anche fondare un “proprio” partito. 14 persone arrestate e 48 indagate. È il bilancio dell’operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros, denominata “Aquila Nera”, che hanno scoperto un gruppo clandestino che, richiamandosi agli ideali del disciolto movimento neofascista “Ordine Nuovo”, progettava «azioni violente contro obiettivi istituzionali». Il piano degli indagati era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti da compiersi su tutto il territorio nazionale al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e dall’altro un’ opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito». Il gruppo si proponeva di uccidere politici “senza scorta”, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e compiere attentati nei confronti di Questure, Prefetture e far saltare le sedi di Equitalia con il personale dentro. Gli arresti sono avvenuti tra L’Aquila, Montesilvano, Chieti, Ascoli Piceno, Milano, Torino, Gorizia, Padova, Udine, La Spezia, Venezia, Napoli, Roma, Varese, Como, Modena, Palermo e Pavia. Nell’ordinanza di custodia cautelare si contestano i reati di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e associazione finalizzata all’incitamento, alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tentata rapina.  I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa, guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pm, Antonietta Picardi, avviata nel 2013 dai carabinieri del Ros. In particolare, le indagini sono partite attorno al gruppo “Avanguardia ordinovista” guidato da Stefano Manni, 48 anni, originario di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano, fino a dieci anni fa era nell’Arma dei carabinieri. Vanta un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. “Avanguardia ordinovista” intratteneva contatti con altri gruppi di estrema destra con cui, secondo i militari del Ros, intendeva unirsi nel processo di destabilizzazione e lotta politica quali i “Nazionalisti Friulani”, il “Movimento Uomo Nuovo” e la “Confederatio”.  Tra gli indagati anche Rutilio Sermonti, già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, prolifico scrittore e artista. È considerato una delle figure più note nel panorama degli intellettuali di estrema destra. Scrivono i Ros: «Sermonti fornisce sostegno ideologico alla struttura avendo inoltre redatto un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione esplicitamente ispirato all’epoca fascista. E incita i sodali del gruppo "all’offensiva"». Stando a quanto dichiarato in conferenza stampa dal generale Mario Parente, Comandante Nazionale dei Ros, e dal Procuratore della Repubblica dell’Aquila, Fausto Cardella, il gruppo avrebbe «utilizzato il web ed in particolare il social network Facebook come strumento di propaganda eversiva, incitamento all’odio razziale e proselitismo». A tal riguardo Manni aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale, in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva invece le progettualità eversive del gruppo. Secondo quanto si è appreso sarebbero coinvolti anche due aquilani. Il gruppo necessitava di armi per poter realizzare i propri scopi. Ne aveva recuperate alcune sotterrate dopo l’ultima guerra mondiale, altre le aveva acquistate in Slovenia tramite contatti locali. Un ulteriore approvvigionamento era stato studiato tramite una rapina ai danni di un collezionista, poi sventata da uno stratagemma dei militari. Tra i progetti sfumati, hanno riferito gli investigatori, anche quello di assassinare il noto ordinovista, Marco Affatigato, ritenuto “infame” poiché asseritamente legato ai servizi segreti. Affatigato, esponente di Ordine Nuovo dal 1973 al 1976, è attualmente latitante in quanto accusato di «associazione sovversiva». Durante le indagini sono state utilizzate anche persone sotto copertura. «Noi crediamo di essere arrivati prima che l’organizzazione entrasse in azione, i progetti c’erano, non potevamo correre il rischio di scoprire dopo quanto fossero concreti», ha detto il procuratore distrettuale antimafia dell’Aquila, Fausto Cardella. «Abbiamo verificato che il comportamento e le condotte degli indagati rientravano nella fattispecie dell’articolo 270 bis, e abbiamo agito di conseguenza - ha continuato -. Per la prima volta abbiamo applicato la norma che prevede la presenza di agenti infiltrati, che hanno avuto un ruolo molto importante, assieme alle intercettazione e agli altri strumenti investigativi utilizzati». Cardella sottolinea che «la procura nazionale antimafia ha gli strumenti, tutte le potenzialità per creare un coordinamento più stretto tra le procure, serve una norma, un legge che gli dia facoltà a farla». Ha poi spiegato anche che «le non precisate azioni eversive erano in cantiere anche in Abruzzo, dove era la base operativa». 

“Uomini degenenerati, Stato tuteli l’igiene”. La folle Costituzione di Sermonti, scrive Andrea Cumbo su “Il Fatto Quotidiano”. Aberrante ogni attività che faciliti le donne a lavorare". Dal divieto di possedere tv private alla contrarietà all produzione di energia se non "quella umana o animale". Ecco l'Italia progettata da Rutilio Sermonti, l'ideologo del “Nuovo fronte politico italiano”. "Lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare alla parte femminile della popolazione un crescente accesso alle attività economiche retribuite". Sono quindi promossi corsi di economia domestica destinate a qualificare professionalmente la preziosa attività di casalinga. Così recitano gli articoli 14 e 15 dello “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, scritto da Rutilio Sermonti, 94enne ex repubblichino, considerato l’ideologo del gruppo neofascista “Avanguardia ordinovista”, finito il 23 dicembre nelle rete dei Ros, che hanno arrestato 14 membri nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”. Sermonti è ancora lucidissimo e la sua idea di una nuova Carta Costituzionale, composta di 85 articoli (leggi) , benché possa sembrare poco incline ai progressi degli ultimi settant’anni, è molto seria. Il capitalismo e la meccanizzazione sono il nemico numero uno della società, che deve muoversi per limitarne i danni. Così, nell’articolo 18, si legge che lo Stato deve privilegiare l’igiene sulla medicina: “Secoli di sviluppo economico finalizzato al profitto hanno provocato un modello di sviluppo gravemente pregiudizievole per l’integrità psico-fisica”. Tanto che non esistono più uomini e donne “completamete sani”, a differenza che tra le altre specie, per le quali “i rari menomati vengono prontamente eliminati dalla selezione naturale. Lo Stato ha il dovere di contrastare tale tendenza degenerativa”. Per igiene si intende proprio la preservazione di questi danni, causati dalla “ridicola pretesa di dominare la natura e di fare tutto spingendo un bottone“. Del progresso, insomma, il gruppo guidato da Stefano Manni non vuole saperne. La parola chiave è risparmio energetico: al bando ogni attività di “aumento di energia artificiale disponibile diversa da quella umana o di animali domestici, tranne che non sia strettamente indispensabile”. Per questo gli orari lavorativi verranno anticipati per sfruttare la luce solare e sarà prevista “l’educazione del pubblico attraverso vacanze che non siano a centinaia di chilometri”, per limitare il trasporto su gomma. La luce elettrica verrà limitata nelle campagne, al pari della programmazione h24 in televisione. Le trasmissioni saranno disponibili solo per alcune ore, dopodiché l’apparecchio, non importa se a schermo piatto o meno, dovrà essere spento. E proprio la disciplina dell’uso del mezzo televisivo avrebbe risolto il più grande conflitto d’interessi degli ultimi venti anni: l’articolo 70 vieta espressamente ai privati il possesso di una rete televisiva. Al contrario, è permesso l’uso commerciale degli altri mezzi stampa (radio e carta stampata, internet non è contemplato nella Costituzione) purché non svolgano azione persuasiva contraria a quella deliberata dalla Camera delle Funzioni. Quest’ultima è l’organo legislativo dell’ordinamento progettato dai neofascisti, dove tutti, anche i semplici cittadini, possono portare avanti proposte, per le quali, tuttavia, è esclusa la modalità del voto a maggioranza. Stando al restyling delle “leggi fascistissime” del ’25 e del ’26, chi promulga le leggi è il presidente della Camera delle funzioni, una sorta di neo-Duce scelto dalla stessa, che decade solo per morte o invalidità. “Le c.d. tornate elettorali – si legge infatti nelle disposizioni transitorie – non esistono più e le designazioni del popolo avvengono in modo continuo, meditato a ragion veduta e silenzioso”. Cosa si intenda per “silenzioso”, Sermonti non l’ha ancora spiegato. Nel testo viene riversata anche l’ideologia dei neofascisti sui diritti civili. “Viene tutelata la famiglia che nasce dalla comune volontà di due persone di sesso diverso che stipulano tra loro un patto indissolubile e di reciproca dedizione. Si denomina matrimonio”, recita l’articolo 28, da cui si evince una scarsa inclinazione ai cambi di nomenclatura. “Al padre è affidata la rappresentanza della famiglia nei rapporti con terzi ritenendosi il maschio più idoneo a tali funzioni”, si legge negli articoli seguenti, mentre il “divorzio è previsto solo in presenza di requisiti oggettivi, tra cui non figura la volontà dei coniugi in caso di presenza di figli minorenni”. Nell’Italia di Avanguardia ordinovista ritornerebbe anche la legalizzazione della prostituzione. Obbligatorio, si intende, il controllo sanitario.

Inchiesta “L’Aquila nera”. Ecco chi sono gli aspiranti terroristi di “Avanguardia Ordinovista”. «Progettavano attentati anche contro magistrati ed Equitalia», scrive Alessandro Biancardi su “Prima da Noi”. Due anni di indagini, indagini effettuate anche monitorando le pagine personali dei social network degli indagati e ascoltando le loro telefonate. Secondo la procura aquilana oltre i proclami e le frasi offensive, i propositi violenti c’era e il gruppo capeggiato da Stefano Manni, ex carabiniere marchigiano residente a Montesilvano, era pronto a colpire davvero. Il gruppo si identificava con la sigla “Avanguardia Ordinovista” e quale “Centro Studi Progetto Olimpo”, scuola politica di area neofascista. Secondo la procura de L’Aquila, pm Antonietta Picardi, si tratta della moderna riedizione del Movimento Politico Ordine Nuovo, che nasceva proprio quale omonimo “Centro Studi”. Il piano degli indagati nell'ambito dell'operazione del Ros che ha portato agli arresti disposti del gip dell'Aquila era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall'altro un' opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro "nuovo" partito».

I PROTAGONISTI.

STEFANO MANNI: IL PARENTE DI GIANNI NARDI. Secondo i carabinieri del Ros Manni, 48 anni, residente a Montesilvano, è il capo indiscusso dell’organizzazione. Nato ad Ascoli Piceno, ma residente a Montesilvano, è un ex sottufficiale dei carabinieri, congedato per infermità dopo oltre un decennio di servizio attivo. Il fatto di essere un ex militare è utilizzato dal Manni per accreditarsi quale conoscitore di dinamiche investigative, di addestramenti militari. Manni si vantava anche di una parentela con il terrorista Gianni Nardi. I due potrebbero avere una parentela alla lontana considerando che le rispettive famiglie sono originarie di Venarotta, piccolo comune dell’ascolano. Peraltro, i Carabinieri hanno rilevato come l’uomo, dopo essere stato congedato dall’Arma dei Carabinieri, sia stato assunto dalla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi. La storia di Gianni Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chieie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi (che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia), morì in un incidente d’auto che, all’epoca, destò particolari sospetti circa l’accidentalità dell’evento. Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio. Su Facebook Manni era molto attivo, con un profilo palese ed altri fake utilizzati per amplificare i messaggi divulgati dal primo ad un circolo ristretto di collaboratori. Due le cerchie di seguaci: una conosciuta di persona, un’altra no. Il linguaggio utilizzato con gli uni o gli altri appare differente: nella dimensione pubblica su Facebook Manni è esplicito nell’esporre quelle che ritiene essere le problematiche della società contemporanea, ma vago e generico nelle intenzioni e proposte di “soluzione”. Nel ristretto del privato cerchio degli affiliati, esplicitandava invece la via violenta da intraprendere per stabilire «il nuovo ordine sociale». Il doppio livello, ha ricostruito la Procura, vi è anche nelle operazioni di verifica dei soggetti con ‘gli amici’ con i quali entrare in contatto: una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare (in almeno un caso, un utente sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione).

MARINA PELLATI: LA CONVIVENTE. Marina Pellati, 49 anni, anche lei residente a Montesilvano, è la convivente di Manni. Secondo gli investigatori avrebbe effettuato proselitismo utilizzando principalmente Facebook, dove è registrata con numerosi profili anche utilizzando identità fittizie, compresa quella di un fantomatico “generale dei Carabinieri di 71 anni” che garantirebbe sostegno ideologico al suo gruppo tramite una pagina Facebook denominata “Nuovo Centrostudi Ordine Nuovo”.

RUTILIO SERMONTI: L’AUTORE DELLA “COSTITUZIONE”. Rutilio Sermonti, 93 anni, di Ascoli Piceno viene definito come l’ideologo del gruppo. Già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, scrittore e artista è considerato una delle figure più importanti nel panorama degli intellettuali di destra. A conoscenza, tramite Manni, dell’esistenza dell’associazione e della progettualità della stessa fornisce sostegno ideologico «riconoscendo la legittimità secondo il proprio pensiero dei fini perseguiti, incitandone l’operatività». É autore di un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista. Il documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento. Sermonti si avvale della collaborazione di Mario Mercuri, 80 anni di Petritoli, Ascoli Piceno, anche lui indagato, che organizza incontri con Manni e altri operativi ed è, a sua volta, promotore di una fondazione.

LUCA INFANTINO. Luca Infantino, 33 anni di Legnano (Milano), secondo gli inquirenti sarebbe il co-promotore dell’organizzazione e starebbe allo stesso livello di Manni. «Condivide ogni aspetto strategico dalle condotte volte al proselitismo», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «le verifiche di nuovi associati, la programmazione di azioni violente, la realizzazione di un disegno politico formale parallelo». Manni ipotizza la creazione di una dimensione politica ufficiale e legittimata da far crescere parallelamente al progetto eversivo, Infantino compie i primi passi per la costituzione di tale contesto ufficiale, fondando il “Centro Studi Progetto Olimpo” e la “Scuola Politica Triskele”. Realtà da ritenersi regolari –sostengono gli stessi investigatori- che servivano per fare proseliti.

MARIA GRAZIA CALLEGARI. Lei, originaria di Varese, è strettissima collaboratrice di Manni. Componente della ristretta cerchia di soggetti che, nell’ambito dell’associazione, ha diritto di espressione in ordine ad ogni tematica, compresa la valutazione delle azioni da compiere e delle modalità esecutive. Manni le ha affidato il compito di verifica dei profili Facebook di simpatizzanti, nonché della verifica di secondo livello incontrando personalmente potenziali nuovi “operativi” da arruolare. «Ha espresso più volte disponibilità all’azione in prima persona», chiariscono i Ros.

KATIA DE RITIS: LA CONSIGLIERA COMUNALE. Katia De Ritis, 55 anni di Lanciano, viene identificata dai carabinieri come un importantissimo punto di riferimento di Manni. Come Infantino, si dedica alla vita politica pubblica ma contemporaneamente «lavora sottotraccia». In tal senso, è presente nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale; in tale veste, è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito (Chieti). Alla dimensione politica pubblica affianca una parallela attività clandestina eversiva, sostengono gli inquirenti, e rappresenta per Manni «un punto di riferimento sia per la promozione di incontri programmatici tra affiliati, che per l’individuazione di strategie e obiettivi». Secondo la procura vanta contatti con militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia” operante a Roma. Nell’ultimo periodo d’indagine secondo la procura si è spesa per «individuare obiettivi fisici da colpire e canali per il reperimenti di armi da fuoco e per i contatti con altri gruppi operativi».

PANDOLFINA DEL VASTO: L’AMICO CON L’ARSENALE. Emanuele Lo Grande Pandolfina del Vasto, 63 anni, originario di Palermo ma residente a Pescara avrebbe invece espresso disponibilità a compiere azioni anche da solo, vista la lentezza alla messa in atto di azioni violente da parte del Manni, considerata persona «troppo riflessiva». Secondo gli inquirenti avrebbe dato dimostrazione della sua determinatezza mettendo in atto le fasi prodromiche alla rapina ai danni un cacciatore, suo amico.

FRANCO LA VALLE E FRANCO MONTANARO. Franco Montanaro, 46 anni di Roccamorice, appartenente a Condeferatio, un’organizzazione autonoma e radicata in tutta Italia, ha ritenuto, dicono gli inquirenti, di dover agganciare Manni e il suo nuovo gruppo per la commissione di azioni violente. La Valle, Montanaro e Manni si conoscono almeno dal novembre 2001, data in cui hanno partecipato a un Forum a Fara Filorum Petri in provincia di Chieti.

LUIGI DI MENNO DI BUCCHIANICO. Luigi Di Menno Di Bucchianico, 47 anni di Lanciano, è in possesso di porto d’armi per uso sportivo. «Nei suoi ideali vede un intervento violento contro personalità dello Stato (sia esse nazionali che locali)», scrivono gli inquirenti, «finalizzato alla dimostrazione di una strategia della tensione e alla dimostrazione della loro esistenza». Secondo la ricostruzione degli inquirenti ha messo a disposizione del gruppo le sue idee e i suoi obiettivi in una riunione tenuta nell’ottobre 2014 presso l’abitazione della De Ritis e avrebbe mostrato insofferenza per la lentezza della messa in azioni da parte di Manni.

FRANCO GRESPI. Franco Grespi , 52 anni di Milano, secondo quanto analizzato dai carabinieri del Ros, si sarebbe invece occupato del reperimento di fondi per l’acquisto di armi, fornendo disponibilità per azioni violente (rapine, omicidi, acquisto di armi tramite canali illegali stranieri). In particolare, il Grespi «si é occupato del reperimento di esplosivi e armi da fuoco, per le quali ha intessuto contatti con fornitori stranieri; ha dato la disponibilità per essere l’esecutore materiale dell’attentato a Marco Affatigato e per rapine presso supermercati e abitazioni private».

ORNELLA GAROLI. Ornella Garoli, 53 anni anche lei di Milano e compagna di Grespi avrebbe invece dato la sua disponibilità alla commissione di azioni violente; «oltre a commentare sulla chat la sua posizione ideologica, ha operato sopralluoghi presso supermercati abruzzesi finalizzati alle rapine e si è prestata a essere una delle persone che dovevano compiere la rapina presso l’abitazione di un cacciatore che deteneva l’arsenale».

NICOLA TRISCIUOGLIO. Trisciuoglio, 53 anni di Napoli, pur non avendo un ruolo verticistico in seno all’associazione, viene considerato dagli investigatori comunque interno al gruppo, «sostenitore sul piano della condivisione ideologica». Ex avvocato napoletano, radiato dall’ordine degli avvocati partenopeo nel 2005, ha svariati precedenti per truffa, estorsione ed altro, nonché pregiudizi per reati di istigazione all’odio razziale ed apologia al fascismo. Ha fondato il “Movimento Uomo Nuovo” e il movimento politico “Identità Nazionale”. Concorda con il Manni l’attuazione di un disegno eversivo stragista.

VALERIO RONCHI. Valerio Ronchi, 48 anni di Mariano Comense si è reso disponibile all’azione violenta. Anch’egli su sia su Facebookche in conversazioni telefoniche ha affermato che l’unica soluzione per le problematiche italiane è l’attuazione di azioni violente atte a destabilizzare lo Stato. Ha partecipato unitamente alla convivente, Giuseppa Caltagirone, al primo incontro della Scuola Politica Triskele organizzato da Luca Infantino con il beneplacito di Stefano Manni, tenutosi a Milano l’8 febbraio 2014. Dall’intercettazione ambientale effettuata dal R.O.S dei Carabinieri, Valerio Ronchi ha ribadito, anche in quell’occasione, la necessità dell’attuazione di azioni violente indirizzate «non solo contro le strutture».

Arrestati i neofascisti del terzo millennio. "Riprenderemo la strada dell'Italicus". Gli arrestati fanno parte di un gruppo di estrema destra che si rifà al movimento Ordine Nuovo. Dai verbali emerge il loro piano eversivo: la loro rivoluzione nera, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros coordinato dalla procura dell'Aquila: 14 gli arresti in varie regioni italiane nei confronti di un gruppo che si richiama agli ideali del disciolto movimento neofascista «Ordine Nuovo» e che progettava azioni violente contro obiettivi istituzionali. Tra gli arrestati Rutilio Sermonti. L'ideologo, reduce Repubblichino, ex Ordinovista, tra i fondatori del Movimento sociale e candidato con Forza nuova alle provinciali di Latina nel 2009. È lui l'intellettuale che aveva il compito di scrivere una Costituzione fascista. «É autore infatti di un documento denominato “ Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare. «Tale documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento». Sermonti in contatto con gli arrestati è considerato “il Vate”, il “Mentore”. A casa del repubblichino sono stati organizzati vari summit dell'organizzazione. Uno degli incontri è avvenuto anche a Milano, nello studio dell'archeologo, studioso del nazifascimo, Giancarlo Cavalli. In tutto sono 55 gli indagati, e tutti accusati di essere promotori di un’associazione denominata “Avanguardia Ordinovista”, « tramite la creazione di un CENTRO STUDI “PROGETTO OLIMPO” che richiama gli ideali del disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, alla quale partecipano con il proposito del compimento di atti di violenza (tramite attentati a Equitalia, magistrati e forze dell’ordine) al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e poi introdursi tramite un’apparente attività lecita di partecipazione alle elezioni con il partito da loro creato, all’interno dell’ordine democratico quale unica soluzione alla destabilizzazione sociale», si legge nel mandato di cattura. «Un piano eversivo “studiato a tavolino”» proseguono gli inquirenti, basato su un doppio binario: «da un lato la previsione di atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall’altro un’opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito, da loro costituito, che dovrebbe rappresentare per lo Stato l’unica soluzione alla disfatta e alla strategia del terrore». L'organizzazione era strutturata su un doppio livello: simpatizzanti, raccolti principalmente su Facebook e un circolo ristretto di collaboratori. Se sulla pagina del social network si facevano proclami generici di rivoluzione nera, era nel privato che il progetto prendeva forma: «Nel privato cerchio degli affiliati, veniva esplicitata la via violenta da intraprendere per stabilire il nuovo ordine sociale». Un doppio livello messo in piedi anche nella verifica dei soggetti con i quali il gruppo di estremisti entrava in contatto: «Una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare». Per i sospetti infiltrati il piano prevedeva la soluzione finale: l'uccisione. «In almeno un caso, un soggetto sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione» continuano gli investigatori. Alla cellula eversiva sono state trovare anche armi e si è scoperto che stava progettando un omicidio contro Marco Affatigato, ex  di Ordine nuovo sospettato di far parte dei servizi segreti. La sua colpa è quella di essere «infame», di aver tradito i camerati. Il piano di morte non verrà però portato a termine. Un quadro pesante. Ipotesi inquietanti. Che fanno ripiombare il Paese negli anni della strategia della tensione. Tra gli arrestati c'è Stefano Manni, ex carabiniere in congedato per infermità. Lui vanta parentele con uno dei leader di Ordine Nuovo, il terrorista Gianni Nardi.«I due potrebbero avere una parentela alla lontana» annotano i militari del Ros. Un elemento che confermerebbe tale vicinanza tra i due è, secondo la procura e i Carabinieri, l'assunzione di Manni, dopo il congedo, «alla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi». La storia dell'ex ordinovista Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato, tra l'altro, per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi(che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia). Nardi morì in un incidente d’auto. «Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio» si legge nell'ordinanza. Tra di loro gli indagati ricordano gli anni delle bombe. Evocano una nuova strategia, «credo sia il caso di riprendere la strada dell'Italicus...ma su ampissima scala...Nicola questo è un popolo che non merita nulla, l'ultima dimostrazione l'abbiamo data, che io sono italiano e quindi l'abbiamo data, con il non funerale di Priebke». E sempre sulla strategia da adottare Manni dice: «L'unico modo legale...è ..è....l'unico modo...non è legale....ma l'unico modo, è destabilizzare fortemente la situazione colpendo obiettivi ma mirati no le stazioni». Il braccio destro di Manni è Luca Infantino che ha una sua idea di organizzazione: deve avere una « struttura organica schematica e militare, con idee precise e obiettivi programmati, facendo presente che l’atto eversivo deve essere fattibile ed è necessario trovare gente disponibile ad effettuarlo. La gente disponibile ad attuare il piano ci sarebbe ed anche le armi starebbero arrivando, ma, fino a quando non si hanno persone di fiducia, le armi, non ha intenzione di farle arrivare» scrivono i detective. Nei suoi dialoghi e scritti Infantino ribadisce più volte la necessità «dell’individuazione degli obiettivi da colpire e nella fattispecie Equitalia, Banche, Poste, Prefetture, Uffici regionali e Statali, precisando che le azioni compiute non devono essere indicative della provenienza politica, pertanto non bisogna colpire la Kienge perché altrimenti verrebbe individuata l’area politica responsabile dell’azione. Quest’ultima deve essere simultanea e potrebbe colpire le città di Roma, Milano e Firenze per creare una punta di terrore, in quanto solo due bombe ad Equitalia non verrebbero commentate sui media». Tra le centinaia di intercettazione, ce ne sono alcune in cui i neofascisti ragionano su come portare avanti le azioni violente. Anche contro gli imprenditori dell'accoglienza: «Vedi Forza Nuova ha identificato, come si dice, identificato, li ha resi pubblici, tutti gli alberghi, le strutture che li stanno ospitando, con loro faremo i conti dopo,tu hai un albergo, hai giocato sulla pelle degli italiani, ospitando i baluba, facendo dare 50 euro al giorno ai baluba io non ti ammazzo, ammazzo i figli tuoi a futura memoria, affinchè tu abbia un ricordo indelebile per tutta la vita, hai tradito il popolo italiano, il popolo italiano ti ripaga scannandoti tuo figlio davanti agli occhi, quando dico scannandoti non intendo una (incomp) tagliare da qui a qui (poco comp) faremo i conti dopo , adesso è fondamentale colpirli dove si aggregano, è fondamentale colpirli dove si aggregano». Colpire per uccidere. È questa secondo la procura l'aspetto più pericoloso dell'organizzazione fascista. «Vedi Lui’….se tu mi dici è mi mandano in servizio senza benzina e poi li scorti, devi morire, sei un poliziotto devi morire, sei un carabiniere devi morire, devi morire perché tu hai tradito il tuo popolo a vantaggio del (...) non c’è una pena alternativa…tu mi dirai che ti metti ad ammazzare tutte le Forze dell’Ordine, si, ma io non credo che siano tutte, perché oggi tu stai pagando 30 mila euro al mese per una Fornero che senza fare nulla va a fare shopping», continua il duce versione 2.0 Stefano Manni. «Noi, si è sempre stati, “puri e duri”, non l'abbiamo promesso, ma appena ci riuniremo torneremo! Siamo rimasti pochi, ma bastiamo!» così un'ex ordinovista sulla pagina facebook del movimento di Manni. «Io personalmente attendo il via, ho sete di vendetta, ma non voglio fare la scheggia impazzita, uccideremo con efferatezza!!! Vendetta!!», scrive un altro. Infine non mancano i riferimenti al gruppo fascista romano Militia fondato da Maurizio Boccacci, ex leader del movimento politico occidentale. Katia De Ritits infatti, una delle indagate, è un importantissimo punto di riferimento di Manni. E come un'altro dei personaggi sotto inchiesta, Infantino, «attua l’esposizione ad una vita politica pubblica parallelamente all’esecuzione di un disegno eversivo e clandestino». È presente infatti nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale. Con questa formazione è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito, provincia di Chieti. Per Manni è il contatto con i militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia”già finita sotto processo per ricostituzione del partito fascista. Altri contatti d'area spuntano in Friuli. Uno degli indagati spiega di aver preso contatti con i Nazionalisti friulani, «e ho allargato un pò di contatti... sono i Nazionalisti Friulani, sono ben predisposti, belli decisi». Insomma, un nucleo nero che puntava a fare davvero la guerra allo Stato.

Manifesto dell'eversione nera. Tra le intercettazioni spunta il sermone neofascista dell'ideologo repubblichino che voleva riscrivere la Costituzione, continua Giovanni Tizian. In una delle riunioni a casa di Rutilio Sermonti, quest'ultimo spiegava ai suoi adepti il senso della loro loro lotta. «In Italia è in atto uno stato-fantoccio, voluto dai nemici della nazione, col favore degli sciagurati antifascisti, traditori per vocazione, oltre al fatto che la stragrande maggioranza degli Italiani non conosce altro che quello». Per questo, scrivono gli inquirenti, diventa, indispensabile attuare l’azione di lotta contro lo Stato e solo «la distruzione dello status-quo, permetterebbe la creazione di un nuovo Stato, definito Repubblica dell’Italia Unita, per il quale l’anziano si è prodigato nel formulare un dettagliato Statuto». Un proclama della rivoluzione neofascista. «Noi che, da legionari nel cuore, al male non opponiamo piagnistei ma il combattimento. E' il momento, io grido, di battere sugli scudi. E' il momento, perchè il popolo è alla disperazione (e se la merita!). E' il momento, perchè il baratro sta per inghiottire il mondo intero, a cominciare dagli stessi criminali. E' il momento, perchè la Terra medesima ci ha intimato lo sfratto. La lotta per distruggere lo stato-fantoccio deve quindi divenire prioritaria e senza quartiere, con tutti i mezzi disponibili e tutti quelli escogitabili, salvo solo quelli incompatibili con la nostra intima natura. […] E non si chiami, quella da noi bandita, guerra civile, perchè per guerra civile s'intende quella tra due parti di una stessa patria, e i nostri nemici, con l'autentica Patria italiana non hanno nulla a che fare, e sono solo la squallida serva della plutocrazia mondiale, assassina e suicida sotto i nostri occhi».

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare. 

Avanguardia Ordinovista: neofascisti tutti da ridere, scrive Alessandro D’Amato su “Nextquotidiano”. Progettavano attentati e compravano armi per azioni terroristiche. Eppure gli indagati nell'operazione Aquila Nera non sembravano brillare da altri punti di vista: «Quella nemmeno sa dove sta di casa il comune», dice il sindaco di Poggiofiorito parlando di una consigliera arrestata. Volevano 10, 100, 1000 Occorsio. Progettavano attentati ad Equitalia «con i dipendenti dentro». Ma da quello che si legge nelle risultanze di indagine su Aquila Nera, quelli di Avanguardia Ordinavista sembrano più un esercito di rintronati che un gruppo pronto ad azioni terroristiche. Gli arrestati nell’ambito dell’operazione sono: Stefano Manni, 48 anni, di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano (Pescara); Marina Pellati (49), di Varese, residente a Montesilvano; Luca Infantino (33), di Legnano (Milano), Piero Mastrantonio (40) dell’Aquila; Emanuele Pandolfina Del Vasto (63) di Palermo, residente a Pescara; Franco Montanaro (46) di Roccamorice (Pescara); Franco La Valle (51) di Chieti; Maria Grazia Callegari (57) di Venezia, residente in provincia di Torino; Franco Grespi (52) di Milano, residente a Gorizia; Ornella Garoli (53) di Milano, residente a Gorizia; Katia De Ritis (57) di Lanciano (Chieti). Ai domiciliari sono finiti Monica Malandra di 42 anni dell’Aquila, Marco Pavan (30) di Venezia, residente a Padova e infine, Luigi Di Menno di Bucchianico 47enne di Lanciano (Chieti). La base operativa era Montesilvano (Pescara).

AVANGUARDIA ORDINOVISTA: NEOFASCISTI TUTTI DA RIDERE. Gli indagati sono 44 in tutto. I reati contestati sono associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, associazione finalizzata all’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi nonché tentata rapina. I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa (guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pubblico ministero Antonietta Picardi) è stata avviata, nel 2013, dal R.O.S. nei confronti di un’associazione clandestina denominata Avanguardia Ordinovista che, “richiamandosi agli ideali del disciolto movimento politico neofascista “Ordine Nuovo” e ponendosi in continuità con l’eversione nera degli anni ’70, progettava azioni violente nei confronti di obiettivi istituzionali, al fine di sovvertire l’ordine democratico dello Stato”. Eppure, se si va a cercare su internet le risorse online degli aspiranti terroristi, si trovano soltanto cose di cui sorridere. L’associazione eversiva smantellata dai Carabinieri del Ros nell’ambito dell’operazione Aquila nera è «connotata da caratteristiche di evidente pericolosità, avente il programma di porre in atto azioni violente e attentati in maniera tale da destare allarme, spaventare la comunità civile e indurre a credere da un lato nella necessità di un cambiamento sociale e politico, dall’altro nella capacità del gruppo di realizzare tale cambiamento», si legge nell’ordinanza di custodia emessa dal Gip dell’Aquila Romano Gargarella, secondo il quale si tratta «della classica ‘strategia della tensione’, avente fine, scopi e modalità di tipo terroristico. Tanto che è risultato dalle loro stesse parole esplicitate in conversazioni private o anche attraverso facebook che gli adepti sono disposti a compiere atti criminali eclatanti pur di realizzare il loro programma». Ma nei fatti quello che riuscivano a fare era pubblicare post contro l’allora ministro Cécile Kyenge e contro Laura Boldrini e aizzare a commettere atti di violenza nei confronti di persone solo perché perché appartenenti ad un diverso gruppo nazionale, etnico o razziale.

L’IDENTIKIT SOCIAL DEGLI ARRESTATI. Stefano Manni, ex carabiniere, è considerato l’ideologo del gruppo. Sul suo profilo Facebook scrive di essere un membro dell’OVRA (la polizia segreta fascista che lavorava alla repressione dell’antifascismo), mentre la sua foto profilo sul social network era quella di un Babbo Natale che faceva il saluto romano, mentre nell’immagine di copertina c’era almeno la Buonanima. L’ordinanza fa anche sapere che Manni era solito utilizzare fake per mettere in rilievo i suoi “pensieri” sui social network. Tra le sue referenze c’era quella di essere parente di Gianni Nardi, terrorista fascista attivo negli anni Settanta. Manni, fa sapere l’ordinanza, aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva le progettualità eversive del gruppo. Poi c’è Katia De Ritis, considerata uno dei pezzi grossi dell’organizzazione perché è consigliere comunale a Poggiofiorito. Ebbene, sentite come ha reagito oggi Corino Di Girolamo, sindaco della cittadina in provincia di Chieti, quando gli hanno fatto sapere dell’arresto. «Quella neanche sa dove sta di casa il comune. Pensa, eletta nella minoranza, vota tutti i nostri provvedimenti di maggioranza. Con Poggiofiorito non c’entra niente, sono solo dei nazisti», dice parlando del vicesegretario di Fascismo e Libertà. Eletta nello scorso maggio nel consiglio comunale «ma con 149 voti totali», puntualizza il sindaco, la De Ritis «sta là e non dice mai una parola, lei e il suo collega. Si sono infilati nelle elezioni per via del fatto che l’altra opposizione (di centrosinistra ndr) non si è presentata. Ma io lo dicevo ai cittadini: non li votate che sono degli scatenati, dei nazisti. E invece questo è un paese di pazzi… non mi dite niente. E ora li hanno arrestati. Quindi mi sa che al prossimo consiglio comunale del 29 dicembre non si farà vedere, vero?».

SE QUESTO È UN IDEOLOGO. Infine c’è Rutilio Sermonti. Secondo l’accusa, aveva un ruolo di indirizzo ideologico, in particolare di “estensore di una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista”. Residente nella provincia di Ascoli Piceno, ex aderente a Ordine Nuovo, Sermonti sul suo sito si presenta come «coniugato in seconde nozze, con moglie e figlio universitario a carico». E se ci tiene a farlo sapere, ci sarà un perché. Ma questo arzillo 93enne ha lasciato Ordine Nuovo quando è stato dichiarato fuorilegge, in seguito è stato vicino a Pino Rauti e si è occupato di ambiente per il Movimento Sociale Italiano prima di mollare il partito e continuare a seguire Rauti nelle sue scarse fortune elettorali dopo la svolta di Fiuggi e la nascita di Alleanza Nazionale. E’ anche, per soprannumero, un contestatore del darwinismo, giusto per capire con chi abbiamo a che fare. Ideologo? «A grandi linee è come negli anni ’70, solo che con la tecnologia avanzata dobbiamo stare molto più attenti», dicono in uno stralcio di una intercettazione ambientale dei Ros dei Carabinieri, raccolta nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”, due soggetti indagati. L’argomento della conversazione e’ la strategia del gruppo che si ispirava agli ideali del disciolto movimento neofascista Ordine Nuovo. «C’è una struttura e da li non si scappa – dice uno dei due all’interno di un’auto, jeans e giubbotto nero -. Chi c’è sopra dirà tu fai questo… tu fai quello… perché poi comunque c’e’ una strategia». L’organizzazione non trascurava nemmeno la ricerca del consenso: «Gli obiettivi già praticamente ci sono – spiega ancora il soggetto intercettato -, il fatto è che, qualora il popolo ha un problema e quelli la non lo possono risolvere, il popolo non va piu’ belante da loro. Cercherà altri punti, qualcuno li dovrà aiutare». Tutto qui.

«I nuovi ordinovisti? Cantavamo insieme le canzoni delle SS». Rutilio Sermonti, repubblichino 93enne, fratello dell’attore Vittorio, è l’ ideologo dei neofascisti: «Ma quali miei adepti, sono solo chiacchieroni», scrive Fabrizio Caccia, inviato a Colli del Tronto (Ascoli Piceno) su “Il Corriere della Sera”. Lo troviamo intento a disegnare un lupo, «l’animale per eccellenza simbolo di ferocia e violenza, non è così?», ironizza Rutilio Sermonti, 93 anni e la mano ancora ferma, col pennino che tratteggia alla perfezione l’animale digrignante sotto lo sguardo fiero della sua seconda moglie, Krisse, Clarissa, nata in Finlandia e «sposata davanti al sole, con rito solo nostro, in cima al Monte Pellecchia, in Abruzzo, a 2 mila metri d’altezza, molto vicino al nido delle aquile...». La notte del 22 dicembre a casa sua sono arrivati i carabinieri: «Erano le tre, dormivamo - ricorda Sermonti -. Si sono messi a fare luce con le torce contro le nostre finestre. “Aprite!” ci dicevano. E noi due, spaventatissimi: “Neanche per sogno, ora chiamiamo la polizia”. Alla fine ci hanno convinti, sono entrati e si sono messi a perquisire la casa, portando via il computer. Bene, io dico, perché nel mio computer c’è tutta la verità. E quello che penso è scritto nei miei libri». Secondo la Procura dell’Aquila, invece, sarebbe proprio lui - l’ex repubblichino, tra i fondatori del Movimento Sociale Italiano e poi di Ordine Nuovo - l’ideologo di «Aquila Nera», il grande vecchio che avrebbe ispirato con le sue teorie rivoluzionarie il progetto terroristico della banda di «Avanguardia ordinovista», il gruppo di neo-fascisti che avrebbe voluto sovvertire la Repubblica a colpi di attentati, rapine e omicidi. Ma lui non ci sta: «Avanguardia ordinovista? Mai sentita nominare. La verità è che io sono l’ideologo di tanti che non conosco, che leggono i miei libri e poi chissà cosa gli viene in mente. E chi sarebbero i miei adepti? L’ex carabiniere Stefano Manni e sua moglie Marina? Sì, ora ricordo, son venuti più volte qui a casa mia...». La signora Clarissa rammenta che venivano «quasi in adorazione», il signor Manni, la moglie e altri che i coniugi Sermonti chiamavano «il gruppo di Pescara». «Vennero da noi tre o quattro volte, erano simpatici, amichevoli, poi mettevano su Facebook le mie foto e i miei testi». E passavano le ore a farsi raccontare da Rutilio i tempi della guerra o di quando giurò davanti al Duce allo Stadio dei Marmi il 28 ottobre 1938. E qualche volta cantavano anche, tutti insieme, le canzoni fasciste («Diventiamo tutti eroi con la morte a tu per tu») oppure delle SS («Waffen Waffen Waffen»), ma senza mai accennare a propositi bellicosi, come quello di uccidere i politici e gli extracomunitari e addirittura replicare la strage dell’Italicus e «carbonizzare» il capo dello Stato. «Chi è Stefano Manni? Solo un millantatore - s’indigna Rutilio Sermonti sulla sua sedia a rotelle -. Un chiacchierone che riempiva i discorsi di fregnacce e bla-bla-bla. Uno a cui piaceva sentirsi qualcuno. Ma per essere qualcuno bisogna fare qualcosa e lui non ha mai fatto niente. Manni il deus ex machina dell’organizzazione? Ma scherziamo, al massimo della macchina del caffè...». Il vecchio pittore e scrittore, autore con Pino Rauti di «Una storia del fascismo», confessa di sentirsi preso in giro: «Manni l’ultima volta mi promise mille euro per dare alle stampe il mio ultimo libro “Non omnis moriar”, ma il suo bonifico ancora l’aspetto e due mesi fa gli scrissi al computer un elenco di insulti che i carabinieri potranno riscontrare. Da quel giorno chiusi con lui». Rutilio Sermonti è fratello di Giuseppe lo scienziato e Vittorio l’illustre dantista: «Giuseppe mi ha telefonato appena saputa la notizia dal telegiornale, con Vittorio non ci vediamo da sette anni e mi piacerebbe tanto riabbracciarci, come quando un tempo ci vedevamo a Roma al ristorante di mio nipote Andrea, il figlio di Giuseppe, a Trastevere». Oggi fanno impressione i suoi racconti dal fronte jugoslavo, dopo l’8 settembre, lui arruolato nella Schutzpolizei («Gli ufficiali tedeschi amavano ripetere: con Sermonti non si muore...»). Senza l’ombra di un pentimento, neppure un dubbio sul fatto di essersi schierato coi nazisti. Anzi mostra con orgoglio la croce di ferro della Wehrmacht appesa al muro, vicino a un manifesto di Julius Evola e a una foto in bianco e nero di Pio Filippani-Ronconi («Mio grande amico») con l’uniforme delle Waffen-SS. «È vero, sono un ideologo - conclude Sermonti -. Ma non della violenza! Uccisi della gente, in guerra, con la mitragliatrice: ma appunto solo in guerra uccidere è legittimo, per me! La violenza popolare io l’ho prevista, mai incoraggiata».

Ritratto degli aspiranti terroristi: un ex carabiniere e un gruppetto di chiacchieroni, scrive Ugo Maria Tassinari su “Il Garantista”. Il caso di … è brutto dirlo ma credo sia il caso di riprendere la strada dell’Italicus [...] ma su ampissima scala [...] “Nicò io purtroppo l’ho scritto… l’ho scritto più di una volta… ogni volta che l’ho scritto mi è costato un ban, io la vedo, tanto lo sto dicendo io, non lo sta dicendo Nicola Trisciuoglio, è giunto il momento di colpire, ma non alla cieca, tipo la stazione di Bologna, tra l’altro non attribuibile a noi, quell’opera d’arte, vanno colpiti precisi obiettivi banche, prefetture, questure, uffici di equitalia, uffici delle entrate, con i dipendenti dentro, è brutto dirlo Nicò ma è arrivato il momento di farlo, ma farlo contestualmente non a Pescara e fra otto mesi a Milano, no, una mattina alle 8.20, contemporaneamente 500 persone premono 500 telecomandi”. Questa intercettazione, immediatamente diffusa anche in formato video su youtube dal Ros dei Carabinieri (che hanno un ottimo ufficio stampa, va riconosciuto) è il punto di fuoco dell’intera inchiesta che ha portato ieri all’arresto di 14 militanti neofascisti in un blitz partito dall’Aquila e che vede tra i 44 indagati anche un intellettuale nero del prestigio di Rutilio Sermonti, antico sodale di Pino Rauti (ha 93 anni). A parlare è il capo indiscusso dell’organizzazione, Stefano Manni, un carabiniere congedato per infermità (lui stesso parla di aver subito un ictus da aneurisma, invocandolo come possibile esimente per i suoi reati) con una forte vocazione alla menzogna: tant’è che dopo aver annunciato un programma così impegnativo “buca” un appuntamento a Napoli con Trisciuoglio perché deve andare a vedere la recita natalizia della figlia. Ma con il camerata si giustifica con un fermo a opera dei carabinieri per la sua attività su Internet. È sottile il confine tra il palco virtuale di facebook, dove i due sono bravi a fare proselitismo, e la realtà. E anche se gli enunciati terrificanti sembrano millanterie di due chiacchieroni da bar come fai a non porti il dubbio che il delirio possa produrre effetti di realtà? Siamo ancora sotto choc per l’afroamericano di Baltimora che dopo aver sparato alla fidanzata annuncia su Instagram che vendicherà i fratelli ammazzati dalla polizia razzista. E va a New York dove uccide due cops: un latino e un cinese …Questa è gente – mi segnala in tempo reale uno dei miei tanti informatori – capaci di scatenare un flame su internet contro una camerata di bell’aspetto colpevole di aver espresso compassione per gli immigrati, a colpi di frizzi e lazzi sulla sua passione per la dotazione organica dei “negri”. E le diverse sigle dei gruppi ultrafascisti menzionati nell’ordinanza di custodia non risultano aver prodotto altro che l’elezione di qualche consigliere comunale in paesini di poche centinaia di abitanti o convegni che guadagnano due colonne in cronaca locale solo se c’è il boicottaggio di rito dell’antifascisteria.Il dato di fatto o, se volete, il problema è che il blitz aquilano porta per la prima volta alla ribalta una forma specifica di associazione liquida che non si limita – come a suo tempo Stormfront – a esprimere opinioni atroci ma annuncia l’intenzione di passare agli atti. La prima associazione sovversiva 2.0, quindi. E tra le tante cose curiose c’è un’anomalia notevole. Noi tendiamo ad associare la rete alla gioventù. Be’, i 14 arrestati sono tutti ultratrentenni: tre nati negli anni ’50, 7 nel decennio succes- sivo, due soltanto nei formidabili anni ’70, altrettanti all’inizio dei terribili ’80… Se ci aggiungiamo che il presunto ideologo è nato prima del fascismo…Gli aspetti grotteschi o apertamente ridicoli (come i cimeli della seconda guerra mondiale da utilizzare come armi) sono evidenti eppure anche un ipergarantista come me e sistematico coltivatore del pregiudizio negativo contro le “grandi retate” ha un minimo di difficoltà a liquidare il tutto come una buffonata. Perché in casi del genere il rasoio di Occam non funziona, né le regole della razionalità “economica” che orientano l’agire dei criminali “sani di mente”. Certo fa ridere un capo che dichiara di aver lavorato per l’Ovra (vedi il profilo di Manni su facebook) e poi progetta l’omicidio di Marco Affatigato perché è “uomo dei servizi segreti”. Ma il suo interlocutore nella famosa telefonata delle “stragi in serie” non è uno scemo del villaggio. La sua organizzazione di sostegno ai detenuti ha sviluppato forti legami con la Curia napoletana, tanto da trovare ospitalità per le sue iniziative in un convento della periferia orientale di Napoli. A uno dei convegni di “Uomo nuovo” ho partecipato anch’io come relatore. E al mio fianco sedeva un rispettato detenuto di lungo corso, l’ergastolano Mario Tuti… Non se ne sono accorti i carabinieri che hanno operato contro la nuova “spectre” nera ma un filone dell’indagine abruzzese porta alla variante napoletana del sistema Buzzi, tra San Gennaro e Pulcinella.

Avanguardia Ordinovista: mammamia quanto somigliano ai colonnelli di Monicelli e Tognazzi! Scrive Riccardo Paradisi su “Il Garantista”. Per capire qualcosa di questa eversione nera con epicentro in Ascoli Piceno che pretendeva di rovesciare l’ordine democratico vagheggiando al telefono di attentati a magistrati, banche e sedi d’Equitalia sarebbe utile rivedersi Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, parodia irresistibile del golpe del principe Valerio Borghese con uno strepitoso Ugo Tognazzi nelle vesti di Beppe Tritoni, ex professore di ginnastica alla Farnesina. Un mitomane che passa giorni e notti a organizzare un colpo di stato che puntualmente fallisce e che finisce nei tavolini dei bar di Roma a vendere piani di golpe agli africani. Di questo Stefano Manni, 48 anni, che si occupava del reclutamento e del reperimento dei fondi dell’organizzazione Avanguardia ordinovista si sa che vantava un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, era uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Intendiamoci questo Manni, fino a 10 anni fa un sottufficiale dell’Arma, congedato per infermità, non è una personcina a modo. E’ un incitatore d’odio, un potenziale violento, uno che trafficava in armi e cose losche. Da qui a vedervi il regista di un colpo di spalla alla democrazia però ce ne passa. Tanto più che il ruolo di ideologo dell’organizzazione sarebbe stato rivestito da Rutilio Sermonti, un uomo di 93 anni, che vive in povertà, un reduce ormai quasi completamente sordo. Sermonti è indagato per aver scritto uno “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, l’accusa che gli viene rivolta è di avere immaginato «una nuova costituzione repubblicana basata su un ordine costituzionale di ispirazione marcatamente fascista». I congiurati di Vogliamo i colonnelli si vedono in una riunione a porte e finestre chiuse sul litorale di Santa Severa in una villetta di proprietà della contessa Lamatrice alla presenza del colonnello greco Andrea Automaticos finanziatore dell’impresa. ”Una riunione che passerà alla storia” dice Beppe Tritoni che fa mettere tutto a verbale compresa la discussione sul nome in codice da dare all’impresa. «Or-po: ordine e potere» è la proposta che si leva dalla riunione. «Sarebbe più esatto Famiglia e Valore» dice un altro. Ma poi gli si fa notare che le iniziali sono ”Fa-va” e non è il caso. Alla fine viene approvata la formula ”Volpe ne- ra” su proposta di Tritoni. Provvedimenti che dovrà prendere il nuovo regime: ripristino della pena di morte, riapertura dei casini, disciplina tra gli studenti con lo slogan: ”parlate solo quando siete interrogati”, rieducazione per gli omosessuali. All’esigenza manifestata di un soggetto in grado di stendere un piano operativo si mette a verbale che «necessita uomo con ampiezza di vedute, scaltrezza, capacità di sintesi tattica- strategica». Un uomo che sappia con le parole giuste lanciare l’appello alla maggioranza silenziosa ”ma non sorda al richiamo della patria”. «Ho un’idea semplicemente geniale – dice il colon- nello Aguzzo – perché non il maresciallo Eliseo Talloni». «Ma è vivo?» Dice il notista del verbale, «Mi par bene sia nato il 25- 4-1887». Risposta di Aguzzo: «Ho avuto l’onore di vederlo a Montecatini nell’ottobre scorso, bevve quattro bicchieri senza battere ciglio, una roccia, lucido, vigile a mio avviso l’uomo giusto». Ecco.

Storia dei sei fratelli Sermonti e dei giudici astuti, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Quella dei fratelli Sermonti è una storia davvero intrigante. Sono sei fratelli, quattro maschi e due femmine. Nati tra l’inizio e la fine degli anni venti. Di alcuni di loro sappiamo poco, ma pare che sia tutta gente ingegnosa e non molto conformista. Sappiamo qualcosa di più dei tre più famosi: uno scienziato, che si chiama Giuseppe ed è uno dei massimi genetisti italiani, ma non è darwinista (neanche creazionista, per fortuna…) e perciò ogni tanto viene contestato nelle università; Giuseppe ha 89 anni. Poi c’è un letterato, che si chiama Vittorio, famoso per le sue letture di Dante, scrittore, giornalista, pensatore, romanziere insegnante e un po’ poeta. Ha 85 anni. E’ stato il professore di italiano, al Tasso di Roma, di ragazzini come Paolo Mieli e Valerio Veltroni. E’ quello che conosco meglio, perché negli anni 80 ho lavorato con lui all’Unità, lo portò Reichlin e lo mandava anche a scrivere pezzi di cronaca nera (grandiosi i suoi reportages da Vermicino, dove stava morendo nel 1981, il piccolo Alfredino Rampi). Simpaticissimo, Vittorio, carismatico, coltissimo, ha sposato una figlia di Suni Agnelli, Samaritana, e ne ha avuto un figlio, Pietro, che è un attore piuttosto famoso. Poi c’è questo Rutilio, che ha 94 anni, è fascista da quando era ragazzino, ha fatto il volontario a Salò, ha partecipato alla fondazione del Msi, ma poi il Msi gli sembrava moderato e allora ha partecipato alla fondazione di Ordine Nuovo. Infine ci sono due signore e unaltro fratello maschio dei quali non so dirvi nulla. Rutilio, il fratello maggiore, è considerato – mentre viaggia verso i cento anni – un terrorista pericoloso. Da chi? Dai magistrati, poveretti. Rischia una condanna a 20 anni di galera. Se dovrà scontarli tutti uscirà a 114 anni, ma se otterrà gli sconti per buona condotta, forse, a 110 sarà fuori. A me pare che questi fratelli Sermonti – comunisti, fascisti, scienziati – siano tutti un po’ scombiccherati. Vittorio – che è un tifoso fradicio della Juventus, era amico di Boniperti, sa a memoria anche la formazione che vinse lo scudetto nel 1960, con Sivori Nicolè e Charles, e a casa sua aveva un campetto di calcetto invece del giardino – racconta che quando erano piccoli – lui aveva sei anni – il padre li riuniva e gli leggeva Dante, con voce roboante. Pure il padre doveva essere un bel tipino. La lettura di Dante quando si è troppo acerbi può avere vari effetti. A qualcuno provoca amore per Dante (e per Vittorio è stato così) qualcun altro lo spinge alla ribellione estrema – perché per un ragazzino Dante può essere molto molto noioso, specie il canto su Pia dei Tolomei – fino alla scelta fascista e ordinovista. Di qui a pensare che un signore di 94 anni sia pericoloso, ce ne passa. E se si legge la sfilza di capi di imputazione decretati dai magistrati, si scopre che sono praticamente tutti reati di opinione, o ”tentativi”. Certo, le opinioni di questi 14 fascisti sono orripilanti. Ma siamo sicuri che in un paese libero, nel 2014, debba esistere ancora il reato di opinione, come esisteva ai tempi del fascismo? No, perché alla fine uno non capisce più chi siano i fascisti…

L’Aquila nera: fascisti su Marte, ma via Facebook, scrive  Nanni Delbecchi su “Il fatto Quotidiano”. Nemmeno i fascisti sono più quelli di una volta. Il che, per un Paese fondamentalmente fascista da sempre, è una bella mazzata, da gettare nel dubbio anche Pasolini. Bei tempi – per le camicie nere – quelli in cui Ordine Nuovo trescava con i Servizi, seminava stragi, progettava golpe e, insomma, le trame erano una cosa seria. “Trama nera, trama nera, sol con te si fa carriera”, cantava fiero il gruppo Gli amici del vento. Caro, vecchio Ordine Nuovo. Ma che dire di questi neoavanguardisti ordinovisti sgamati dall’operazione “Aquila Nera”, capitanati dall’ex carabiniere Stefano Manni, infiltrata di peso nelle istituzioni una consigliera comunale di Poggiofiorito (e ho detto Poggiofiorito), agenti provocatori sparpagliati per tutte le province d’Italia, gemellati con Militia Christi e base operativa a Montesilvano, prova evidente che anche il terrorismo ha scoperto la delocalizzazione? Costoro si richiamavano alla famigerata organizzazione neofascista in continuità con l’eversione degli Anni Settanta, e per questo sono stati incarcerati, ci mancherebbe. Ma certo che, se si vanno a vedere i loro progetti e soprattutto le loro radici, ci si trova di fronte a un declino clamoroso. Farneticazioni omicide di Mein Kampf a parte (non a caso amate anche da Manni e compagnia), il pensiero di destra mescola da sempre orrore e profondità. Un calderone ribollente a base di teoria della razza, culto delle élite, superomismo, cicli cosmici, fiamme, rune e asce bipenni in cui tra tanta paccottiglia ci si può imbattere anche in Nietzsche, Heidegger, Guenon, Céline, Tolkien e, ci vogliamo rovinare, anche in Evola e Malaparte. Ma quelli di “Aquila nera” più che della terra degli Hobbit sembrano frequentatori di Il mio hobby; nel loro caso il ciclo non è cosmico, ma decisamente comico. Sognavano di uccidere Giorgio Napolitano o in subordine almeno Pier Ferdinando Casini. Ma nella pratica quotidiana avevano anche obiettivi più alla mano, come coprire di insulti gli extracomunitari sui social network, un occhio di riguardo per l’ex ministro Cécile Kyenge con virile sprezzo della macumba. E poi, l’hobby prediletto: progettare rapine e attentati proprio come se fossero modellini di aeroplani. Dal sogno nel cassetto, “riprendere la strada dell’Italicus su ampia scala”, a quello più realistico ma anche creativo l’attentato a Equitalia “con i dipendenti dentro” (tutta un’altra cosa, diciamolo, se i dipendenti sono in pausa pranzo). Se tanto mi dà tanto, il cerchio dei riferimenti culturali si restringe parecchio. Addio Nietzsche, Guenon e Céline. Il Pantheon di Manni parte da Calderoli e Borghezio, passa per Ben Hur (“Siamo figli di Roma imperiale. Siamo eredi di un glorioso passato”), il reality I re della griglia (“Voglio sentire odore di carne bruciata”), il capo della Spectre che sogna di distruggere il mondo schiacciando un pulsante, il Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte, alla conquista del Pianeta rosso al grido di battaglia di “A mali estremi, estrema destra”, e si conclude trionfalmente con gli ufficiali nostalgici reclutati dall’onorevole Giuseppe Tritoni (alias Ugo Tognazzi) in Vogliamo i colonnelli di Monicelli. Certo che per essere delle aquile nere volavano piuttosto basso. Un momento però; c’era anche l’ideologo di riferimento, il padre nobile del “nuovo ordine nuovo”, seppure non nuovissimo di suo, visti i 94 anni compiuti. L’ex repubblichino Rutilio Sermonti, che si era evoluto dai tempi di Salò al punto da confezionare una Carta costituzionale nei cui articoli venivano messi nero su bianco il divieto ai diritti politici e l’obbligo per le donne di restarsene dentro casa, ai fornelli. Insomma, questi camerati con uso cucina che discutevano i loro progetti eversivi su Facebook (però sui canali riservati agli amici, le precauzioni non sono mai troppe) e sognavano la dittatura per via costituzionale, sono oltre i Fascisti immaginari descritti da Luciano Lanna e Filippo Rossi e anche oltre i Fascisti su Marte. Questi sono fascisti economici, taroccati da qualche fabbrichetta clandestina. Nella Storia, dice Marx, le tragedie ritornano in forma di farsa, ma questi avanguardisti sono peggio nella farsa che nella tragedia. Aridatece i colonnelli.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

Il 41 bis a Carminati è ferocia e demagogia, scrive Piero Sansonetti su  “Il Garantista”. Il ministro della Giustizia, l’altro giorno, ha detto sì alla richiesta della Procura di Roma e ha affibbiato il 41 bis, cioè il carcere duro, a Massimo Carminati, il presunto capo di “Mafia Capitale”, ex componente prima dei Nar e poi della banda della Magliana. Il 41 bis è un articolo del regolamento carcerario del tutto incostituzionale, perché prevede un trattamento inumano e degradante di alcuni detenuti. È illegale. E tuttavia è piuttosto frequente. Viene deciso dal ministro su richiesta dei Pm. È riservato a chi è sospettato di una dozzina di delitti – elencati nel regolamento – tra i quali, ovviamente, non compare la corruzione politica o la concussione, né il percepimento o l’elargizione di tangenti. C’è invece l’associazione mafiosa. Per la precisione il 41 bis nasce con lo scopo di combattere la mafia. E nasce come misura temporanea e d’emergenza. Dura da 22 anni. Recentemente, sul nostro giornale, un magistrato come Ingroia – che certo non appartiene, diciamo così, alla piccola schiera dei magistrati liberali – ha spiegato che il 41 bis serve a impedire che alcuni boss possano comunicare con l’organizzazione mafiosa e dare ordini e continuare a dirigere l’attività di Cosa Nostra o della ’ndrangheta o della camorra. E sulla base di questo principio Ingroia in persona aveva chiesto che fosse revocato il 41 bis a Provenzano, visto che non è più in grado di dare ordini a nessuno. Per dare il carcere duro a Carminati si sono inventati il reato di associazione mafiosa. È chiarissimo che il gruppetto che organizzava le tangenti a Roma – se sarà riconosciuto colpevole – svolgeva una normalissima azione illegale, senza uccidere, senza compiere attentati, e senza nessunissimo collegamento né con Cosa Nostra né con la ’ndrangheta. Se il 41 bis serve a interrompere il collegamento tra arrestato e mafia organizzata, che c’entra Carminati? Niente. Il 41 bis serve solo a coprire, con un po’ di spettacolo, un po’ di fumo, il flop di una inchiesta che finora non ha prodotto niente di niente, salvo qualche arresto, con pochi indizi e senza prove, e lo spargimento di sospetti un po’ su tutti.

Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre 2014 con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatto dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre  astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.

Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.

Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.

"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".

L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?

"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".

Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".

Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?

"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".

E cosa disse a Buzzi?

"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".

E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?

"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".

Cosa che fece?

"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".

E cosa gli disse?

""Ma chi mi hai mandato?"".

E lui?

""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".

Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?

"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".

La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.

"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".

La storia, dunque, è chiusa?

"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".

Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).

Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché neces­ari a realiz­are un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.

L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.

Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici  voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.

Comunque se i politici onesti son questi?

«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.

Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro. L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.

QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.

Bambini, restate in cella, il pulmino costa troppo, scrive Luigi Lori su “Il Garantista”. In questi giorni l’Atac ci ha comunicato a sorpresa che il servizio di navetta per il trasporto dei bambini da 0 a 3 anni “detenuti” con le loro madri nella Sezione Nido della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia di cui ci occupiamo da vent’anni a questa parte con la nostra associazione, sarebbe stato interrotto a partire dal 1 gennaio 2015. La motivazione – dice la presidente Gioia Passarelli – consisterebbe nel taglio dei fondi destinati al servizio sociale di Roma Capitale da parte del Comune, tanto che l’Atac avrebbe messo in vendita le vetture destinate a questo tipo di convenzioni. La conseguenza – immediata di questa decisione che ci sconcerta e anche ci indigna – sarebbe che a partire da sabato 3 gennaio i bambini che vivono in carcere senza alcuna colpa, oltre a quella di essere nati, non potrebbero più usufruire dell’unico giorno da passare “in libertà” fuori dal carcere insieme ai volontari della nostra associazione, che da più di vent’anni li va a prendere con il pullman dell’Atac, messo a disposizione dal Comune di Roma. Oggi è stata presentata dal sindaco Marino la nuova giunta – continua la Passarelli – e la nuova assessora ai servizi sociali, Francesca Danese, presidente del Centro servizi volontariato del Lazio. Dal suo staff abbiamo avuto assicurazione che la Danese si occuperà al più presto dell’incresciosa vicenda, ma noi continueremo a vigilare fino a che il servizio non sarà ripristinato e per questo chiediamo il supporto della stampa e delle altre associazioni di volontariato che si occupano di carcere. E’ di ieri , d’altra parte, il sostegno che ci è giunto dal presidente Napolitano – ricorda la Passarelli – quando si è riferito nel suo discorso al Csm al “mancato e lungimirante impegno di tutte le Istituzioni per dare attuazione alla legge n. 62 del 2001. Una legge firmata da Anna Finocchiaro che prevedeva che i bambini non dovessero più entrare in carcere insieme alle loro madri, attraverso l’istituzione degli istituti a custodia attenuata e le case famiglia protette , per la quale – ha detto Napolitano – «non vi è forse stato un sufficiente investimento strutturale ed una visione integrata di assistenza e sostegno per i figli dei detenuti».

Quando in prigione ci vanno i bambini. Non ci sono dati certi. Ma si calcola che i minori che transitano ogni anno dietro le sbarre siano 100mila. In Europa sono 1 milione e mezzo. Le loro madri, assieme ai detenuti disabili, ai malati cronici e a quelli con disturbi psichiatrici, rappresentano un universo di cui si parla poco e a cui è negato il diritto ad una pena alternativa previsto dalla legge. Eppure sarebbe un bel risparmio per lo Stato che ogni giorno spende 80 euro per detenuto. Una realtà che rischia di peggiorare con i nuovi tagli imposti dalla spending review, scrivono Giuseppe De Bello ed Alice Gussoni su “la Repubblica”.

Per i più deboli la condanna è doppia di Alice Gussoni. Lili ha 33 anni, cinque dei quali passati tra carcere e domiciliari. A pagare per i suoi errori sono stati anche i figli, allontanati subito dalla madre. Tutti tranne il piccolo S., che all'epoca non aveva neanche un anno e l'ha seguita in cella per quasi nove mesi. Qui, probabilmente anche a causa della scarsa igiene, si è ammalato di una grave infezione respiratoria che lo ha costretto quasi sempre a letto, obbligandolo a dosi massicce di cortisone fino alla scarcerazione della mamma. S. è solo uno dei tanti piccoli detenuti, vittime dello stesso sistema che non permette a molti stranieri di usufruire delle misure alternative perché privi di domicilio. Le case famiglia sono la loro unica possibilità, ma in una metropoli come Roma si riducono a 6 unità abitative, per un totale di 36 posti disponibili per l'intera popolazione carceraria del lazio che arriva a 5mila 680 presenze, di cui 2395 stranieri (dati Dipartimento amministrazione penitenziaria al 31 ottobre 2014). Questi posti oltretutto non possono essere assegnati alle madri con minori a carico, le persone con disabilità fisiche, i malati cronici e i detenuti affetti da disabilità mentale. A Milano la situazione è leggermente diversa e a occuparsi della gestione è il privato sociale. Le case sono attrezzate per accogliere tutte le categorie di bisognosi, ma i posti sono sempre meno: dal 2003 a oggi infatti sono scesi da 60 a soli 19 a fronte di 7.697 detenuti, di cui 3.387 stranieri. Nel territorio di Napoli e Salerno invece non sono contemplati  interventi di questi tipo, quindi per i detenuti non esistono case famiglia. Stessa situazione anche in Sicilia mentre in Trentino Alto Adige il servizio è svolto dalle associazioni di volontariato cattoliche, che gestiscono 2 case famiglia per un totale di 23 posti in tutto. In mancanza di un censimento ufficiale i dati, raccolti a campione tramite interviste dirette ai comuni italiani, forniscono il quadro di un'Italia spaccata a metà ma nell'insieme ancora molto lontana dal risolvere i reali problemi del sistema carcerario. Mai come oggi questa istituzione è stata al centro di profonde riflessioni sullo stato del diritto, che al suo interno sembra essere sospeso in virtù di una legge non scritta che non risparmia neppure i più deboli. Emanuele Goddi, operatore della coop Pid, che gestisce la casa famiglia Don Puglisi di Roma, evidenzia come spesso, per mancanza di strutture ricettive adeguate, persino i disabili non riescano a ottenere l'affidamento ai servizi sociali: "Per loro si dovrebbero prevedere dei presidi medici, o comunque personale specializzato presente sul posto 24 ore su 24. Al momento invece chi soffre di handicap più o meno grave è residente in un braccio attrezzato alla bene e meglio, dove le barriere architettoniche sono enormi". In carcere sia chi ha subito un'amputazione sia i detenuti con ridotta capacità motoria sono assistiti dai così detti piantoni, ovvero altri detenuti che in cambio di un piccolo compenso, uno stipendio mensile che si aggira sui 150 euro, si prestano ad aiutare come possono i loro compagni di cella.  Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria non ha reso disponibili dati ufficiali, ma secondo una rilevazione dell'Università di Perugia del 2012 compiuta su 7 regioni a campione, circa il 44% di loro si troverebbe in reparti con evidenti barriere architettoniche. Stessa sorte per i malati cronici, come chi è affetto da HIV (circa il 3,8% dell'intera popolazione carceraria) o da malattie allo stadio terminale: il grave stato di salute è riconosciuto come incompatibile con il regime carcerario (articoli 146 e 147 del Codice penale), ma proprio per lo stesso motivo molti vengono giudicati idonei alla detenzione. Le cure che ricevono in carcere vengono infatti considerate ottimali, quindi, anche se rimane loro poco da vivere, restano dentro. E' una legge spietata, ma il carcere, ammette lo stesso Luigi Pagano, vicedirettore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, è prima di tutto punitivo e poi rieducativo: "L'incompatibilità non è riconosciuta automaticamente, è una dichiarazione di natura giuridica che spetta al magistrato e si basa anche sulla diagnosi che viene fornita dal medico, ma in primo luogo sulla pericolosità del soggetto". Ancora oggi, a quasi due anni dal richiamo della Corte europea per i diritti dell'uomo che ha sanzionato l'Italia per le condizioni inumane e di sovraffollamento in cui vivevano i detenuti (la popolazione carceraria superava del 140% i posti disponibili), quelli che rimangono in cella sono soprattutto loro, i più bisognosi di assistenza medica e di un ambiente salubre. Eppure i dati parlano di un netto miglioramento: la popolazione carceraria è diminuita di circa 12mila unità e l'ultimo censimento, datato 31 ottobre 2014, fotografa una occupazione dei posti in carcere del 109,8%, ovvero 54.207 detenuti quando i posti sarebbero solo 49.397, anche se la disponibilità effettiva, secondo il X rapporto dell'Osservatorio Antigone, sarebbe nettamente inferiore, pari a circa 37mila unità. Dal 2011 a oggi, stando ai numeri forniti dal ministero della Giustizia, i detenuti che hanno ottenuto le misure alternative sono aumentati da 19.139 a oltre 30.000, risolvendo nel breve periodo una crisi strutturale che investiva praticamente tutti gli istituti penitenziari. Ma a sbloccare una situazione drammatica è stato soprattutto il ricorso alla detenzione domiciliare che certamente va bene per chi non deve essere seguito o necessiti di particolari cure mediche. Ottenere di scontare la custodia in casa, cautelare o definitiva che sia, resta infatti la soluzione più semplice rispetto all'assegnazione ai servizi sociali o alle comunità terapeutiche. Anche perché i fondi per queste strutture sono sempre stati pochi e con la spending review sono stati ulteriormente ridotti (Milano è l'unica città italiana ad avere un Centro di Mediazione al Lavoro, mentre a Roma nel 2013 per il lavori di pubblica utilità sono stati spesi 138mila euro, il 20% in meno rispetto ai due anni precedenti, e a Napoli la convenzione è ancora ferma allo stato embrionale). Molto scarsi anche gli investimenti delle Regioni per le case famiglia, nonostante la convenienza economica sotto questo punto di vista sia evidente: solo nel 2013 per ogni detenuto ospitato in queste strutture la spesa media sostenuta dalle casse pubbliche è stata di poco meno di 37 euro al giorno e di 40 euro quella per le comunità terapeutiche, medicine incluse, contro i 123 euro spesi all'interno delle carceri. La considerazione che il carcere sia anche un deterrente per le cattive abitudini, che spesso si associano al contagio di malattie come Aids o epatite C, fornisce la convinzione che tra le celle determinate iniziative sanitarie siano attivate con più efficacia. Ma resta il fatto che i tossicodipendenti sono ancora il 32% dei detenuti (fonte Simspe) e circa il 20% fra quelli che assumono droghe ha iniziato proprio in carcere, come indica una ricerca su base europea svolta dall'Emcdda, l'European monitoring center for drug and drugs addicted. L'affidamento alle comunità terapeutiche rimane l'ultima spiaggia, e solo un detenuto su sei riesce ad ottenere questa misura alternativa, mentre i posti rimangono vuoti a causa della paralisi del sistema, come denunciato dall'associazione Saman. Enzo Saulino, psichiatra e presidente per il Lazio del Forum Nazionale Diritto alla salute in carcere, spiega che "la discrezionalità del giudice impedisce che le nostre valutazioni siano determinanti". "Si ha paura - sottolinea - di sbagliare e di rimettere in libertà un potenziale criminale, perché un errore simile fa molto più scalpore di un detenuto che muore dietro le sbarre". Il vicedirettore del Dap Pagano precisa ulteriormente: "Si devono mettere insieme due concetti, quello di punizione e di rieducazione, che se uno li volesse sviluppare compiutamente rischiano di essere antitetici".  Il trattamento penitenziario in Italia è stato però spesso condannato dai tribunali internazionali per non essere "conforme ad umanità" né rispettoso "della dignità della persona", come promette invece l'articolo 1 dell'Ordinamento penitenziario (L.354/75). Gli stessi ospedali psichiatrici giudiziari, condannati già dalla legge Basaglia del '78, avrebbero dovuto chiudere definitivamente nel 2013, ma di deroga in deroga sono ancora in funzione. Luoghi dove si contano numerosi casi di "ergastoli bianchi": pene che si sono perpetrate oltre il limite previsto perché nessuno poteva - o voleva - assumersi il rischio di rilasciare soggetti potenzialmente pericolosi. Ancora una volta la soluzione potrebbero essere le case famiglia, ma mancano le strutture e i soldi per gestirle. Ivan Battista, coordinatore dell'Ufficio Detenuti del Dipartimento Politiche sociali di Roma, suggerisce di assegnare all'istituzione nuove case famiglia dai beni confiscati alla mafia. Un'idea che nasce anche dalle ultime cifre fornite dal Comune di Roma, secondo cui i beni immobili sottratti alla criminalità sarebbero ben 334 solo nel Lazio, di cui però finora solo uno è stato adibito a questo scopo. Pochi anche i fondi destinati alla costruzione degli Istituti a Custodia attenuata per le madri, i così detti Icam, per i quali le Regioni hanno previsto un impegno medio di 500mila euro. Finora ne sono stati realizzati solo tre in tutta Italia (Milano, Venezia e Senorbi in Sardegna), anche se in proposito le associazioni di volontariato sollevano molti dubbi. Gioia Passarelli, presidente della onlus 'A Roma Insieme', da anni impegnata a favore dei figli delle detenute, spiega perché: "L'idea di partenza era quella di rendere l'ambiente più adatto alla presenza dei minori che accompagnano le madri, ma a parte l'abolizione delle divise per gli agenti e i corridoi colorati, i bambini non potranno comunque essere portati a scuola o passare l'ora d'aria in un parco, e - in caso di emergenza sanitaria urgente - essere accompagnati dalla madre". Gli Icam sono e restano delle carceri a tutti gli effetti che sottostanno all'ordinamento penitenziario. Da gennaio 2014 inoltre l'età dei minori che potranno restare vicini al genitore è stata innalzata dai 3 ai 10 anni, con le tragiche conseguenze che si possono immaginare: "Molti di loro non hanno mai visto com'è fatto un prato - continua Gioia Passerelli - e si spaventano se devono camminarci sopra. I primi anni di vita sono fondamentali per la crescita e loro li passano reclusi negli istituti". Della stessa opinione anche Lia Sacerdote dell'associazione Bambini senza sbarre, firmataria insieme al Garante per l'infanzia e l'adolescenza e il Ministero della Giustizia di un Protocollo d'Intesa a tutela dei diritti dei 100 mila bambini e adolescenti che entrano nelle carceri italiane ogni anno. Loro l'iniziativa della creazione di uno "Spazio Giallo" a San Vittore, dove, grazie al lavoro di psicologi ed educatori si cerca di rendere comprensibile l'esperienza del carcere ai piccoli visitatori. La mancanza di strutture ricettive è un problema che tocca molti. Sempre secondo le stime fornite dall'Osservatorio Antigone, il 6,4% dei detenuti ha una condanna di scarsa rilevanza penale (inferiore a un anno), quindi assolutamente compatibile con le misure alternative, mentre la percentuale sale a 9,4% se si considerano solo gli stranieri, e addirittura arriva al 26,8% quando si considerano le donne. Il 100% dei detenuti invece ha diritto a uno spazio vitale minimo fissato sopra i 3 mq, sotto i quali viene riconosciuto lo stato di inumanità della detenzione (sentenza Torreggiani 8 gennaio 2013).

Senza cure né assistenza, ecco i casi più gravi di Alice Gussoni.

Romolo, 70 anni, rinchiuso in Opg dal 1976 fino al 2006. Nel gergo dei detenuti gli ergastoli bianchi equivalgono a un fine pena mai, senza possibilità di appello o sconti. La condanna di Romolo è stata questa. Rinchiuso in un Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) nel '76 perché dormiva in macchina, è entrato in istituto con una pena irrisoria. Sottoposto a una perizia psichiatrica annuale, la sua scarcerazione è stata rimandata di anno in anno. Nessun giudice o revisore si è mai voluto prendere la responsabilità di certificare l'avvenuta guarigione, perché questa decisione avrebbe potuto portare problemi. Problemi che sono rimasti rinchiusi insieme a Romolo per 30 anni, uscito con l'indulto del 2006, senza più alcun riferimento parentale o sociale, senza più alcuna possibilità di rifarsi una vita. Di casi simili gli ospedali psichiatrici ne sono pieni.

Claudio B., 46 anni, recluso a Regina Coeli in attesa di cure mediche urgenti. Uno dei motivi per cui viene riconosciuta l'incompatibilità con il regime carcerario (articolo 47 comm.2 ) è l'esigenza di un trattamento che non sia possibile ricevere nell'ambiente carcerario, per favorire il recupero, totale o parziale, dello stato di salute. Il 21 aprile 2014 Claudio B., detenuto a Rebibbia Nuovo Complesso, è vittima di un banale incidente. Inciampa, cade malamente, i suoi arti inferiori rimangono paralizzati. Una dinamica che ha dell'incredibile, ma il trauma subito non è irreversibile, potrebbe tornare a camminare, se solo facesse fisioterapia. Dopo due mesi finalmente ottiene il trasferimento al Centro clinico del Regina Coeli, ma anche questa struttura non è attrezzata per affrontare il suo caso. Claudio rimane qui per altri tre mesi, fino al 20 settembre, quando viene nuovamente trasferito, questa volta a Velletri. Ma ancora una volta le cure indispensabili per non perdere l'uso delle gambe non possono iniziare: i medici si dichiarano non all'altezza e così viene rimandato al Regina Coeli, dove ancora oggi è in attesa di ricevere l'assistenza adeguata.

Giacomo, 6 anni, 5 dei quali passati in carcere con sua madre. La legge 62 del 2011, entrata in vigore dal 1° gennaio 2014, prevede l'innalzamento dell'età dei bambini che possono restare con i genitori detenuti dai 3 ai 6 anni, purché la pena venga scontata in un Istituto a custodia attenuata madri, anche detti Icam. Giacomo di anni ne ha 6, e tutte le sere da quando ha 1 anno ha sentito il rumore dei cancelli che si chiudevano prima di andare a dormire. Di Icam a Firenze non ne esistono e lui ha vissuto da recluso insieme alla madre nel reparto femminile del carcere di Sollicciano, dove non c'è neanche il nido e gli orari di apertura e chiusura delle celle sono gli stessi per adulti e bambini. Giacomo è cresciuto in simbiosi con la madre. Ora che finalmente è uscito è stato affidato ai servizi sociali, ma è troppo grande per affrontare una nuova vita senza il trauma.

Lili, 33 anni, ha scontato 9 mesi nella sezione nido insieme al suo piccolo. Quando uno dei due genitori si trova in carcere ha diritto a ricevere la visita dei familiari più stretti una volta a settimana. Lili ha tre figli e per 9 mesi è stata rinchiusa a Rebibbia nella sezione Nido, insieme al piccolo S., che all'epoca aveva solo 7 mesi. Ammalatosi quasi subito di una grave forma allergica, S. ha subito una dura terapia a base di cortisone e antibiotici, durata per l'intera permanenza in Istituto. Durante tutto questo periodo Lili non è mai riuscita a incontrare gli altri due figli di 2 e 5 anni affidati allo zio. Finalmente riesce a ottenere i domiciliari e porta i figli a trovare il padre, anche lui rinchiuso a Rebibbia Nuovo Complesso. Per quasi cinque anni il giovedì diventa il giorno rituale per riunire la famiglia nell'area verde del carcere. Da due mesi a questa parte però gli agenti di custodia negano al piccolo S. il diritto a entrare per la visita settimanale. Il cognome risulta infatti diverso, anche se se ne sono accorti solo ora. Il riconoscimento da parte del padre non è stato possibile, perché arrestato prima che il piccolo nascesse. Ironia della sorte, lui che è stato ospite del nido nello stesso istituto dove si trova recluso il padre, ora è diventato un estraneo e può entrare solo una volta al mese.

Gli ergastoli bianchi degli Opg di Giuseppe Del Bello. Il disastrato panorama della psichiatria campana, e in particolare di Napoli, paradigma del disagio territoriale, oggi, rischia di diventare ancor più drammatico a causa dell'emergenza Opg, gli ospedali psichiatrici da chiudere entro il 31 marzo 2015. E i pazienti, da smistare altrove. Dove? Questo, nonostante le istituzioni parlino di ambiziosi progetti, non è stato ancora deciso. O, almeno, programmato. In tutta la regione di "ristretti" ce ne sono circa 270 e gli Opg sono due. Il primo, a Napoli, è il vecchio Sant'Eframo (chiuso nel 2008 perché fatiscente e degradato, con un'ala quasi interamente crollata) e poi inglobato nel carcere di Secondigliano, dove occupa un reparto ad hoc per 110 pazienti. Di questi, 72 sono stati avviati al Ptri (Progetto terapeutico riabilitativo individuale) nell'ottica della dimissione entro il 31 marzo. Per loro si prospetta un trasferimento in strutture Asl o riabilitative convenzionate, cioè private che lavorano per conto della Regione. Con tanti saluti al risparmio e a un'assistenza dignitosa. Ad accogliere i 38 rimanenti, invece, dovrebbero essere le uniche due Rems (Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza) esistenti in Campania, a Calvi Risorta (Caserta) e a San Nicola Baronìa (Avellino). Mini-lager sotto mentite spoglie. Rinnovamento-beffa lo definiscono i medici. Nell'altro Opg, il Saporito di Aversa in provincia di Caserta, i reclusi sono circa 160, ma tranne tre o quattro (il "mostro di Posillipo" che faceva a pezzi le donne dopo averle violentate è stato rinchiuso qui per vari anni) nessuno è ritenuto pericoloso e, quindi, destinato a un regime detentivo in senso stretto. Ma le Rems, come osserva il presidente dell'Associazione "Sergio Piro" (recentemente scomparso e continuatore in Campania della scuola psichiatrica basagliana) Francesco Blasi, non andrebbero "prese in considerazione perché lo schema-carcere è lo stesso degli Opg". Quindi centri di reclusione, e non di recupero. Ergastolo "bianco". E Fedele Maurano, direttore del Dipartimento di salute mentale della Asl Napoli 1 è dello stesso avviso: "Sono contrario alle Rems e ne ho già parlato con il manager Ernesto Esposito. Anche lui è d'accordo". Servirebbe quindi una sistemazione alternativa che però ancora non si conosce nei dettagli, nonostante Esposito rassicuri sulla possibilità di sistemare i pazienti di sua competenza in centri di accoglienza tipo case famiglie. D'altronde, le condizioni in cui versa la salute mentale a Napoli non promette nulla di buono per il futuro. "In Italia si contano 600mila soggetti tra schizofrenici e bipolari", rivela Blasi, "in Campania siamo a quota 60mila. Qui a Napoli, già per questi pazienti, l'assistenza è carente". In città, si contano dieci servizi di salute mentale, in cui lavorano in media, dieci medici. In tutto, un centinaio di specialisti. Insufficienti. Ma sono gli errori di chi lo ha preceduto che adesso Esposito tenta di correggere. Come quello di eliminare i turni di assistenza notturna e festiva, ritenuti "spesa inutile, da sopprimere" e da sostituire, col 118. L'attuale manager è corso ai ripari, creando i "poli notturni" a cui afferiscono i cento medici da allertare in caso di necessità. Ovviamente, senza nessuna garanzia di continuità assistenziale: il contrario di quanto recita la legge emanata dalla stessa Regione, la 183 scritta da Piro, che sanciva il diritto all'assistenza 24 ore su 24. "Ci vorrebbero dei centri-crisi dotati di infermieri, medici reperibili, e uno o due posti letto", dice Blasi, "dove trattenere un paziente per un giorno massimo due, ma senza il ricovero". Frequenti gli episodi di malasanità. A Capri, l'ultimo allarme risale a maggio quando il dirigente del servizio avverte che sull'isola "almeno 7-8 sono le potenziali vittime di mancata assistenza". Un degrado graduale che vede i comuni di Capri e Anacapri serviti da un solo medico: una volta ogni 15 giorni, a rotazione. E le urgenze? Anche di giorno, si risolvono chiamando il 118 e l'ospedale Capilupi, sprovvisto di psichiatri e di posti-letto dedicati. Oltre a Blasi e Maurano, ci sono anche altri soggetti pronti ad alzare la voce. Per esempio, il Comitato di Lotta che la settimana scorsa ha presidiato il reparto di ricovero afferente all'ospedale San Gennaro (vedi video). "Bisogna rompere il muro di silenzio", dice la madre di un ex paziente, "Qui dentro, a maggio è morto un giovane. Tutti sanno che venivano (il personale è stato quasi totalmente sostituito dopo la tragedia, ndr) utilizzate manette, corde e farmaci che annullano la personalità". Per il comitato di Lotta, parla Enrico de Notaris, psichiatra allievo di Sergio Piro: "Combattiamo il concetto di follia come malattia organica. E anche contro la repressione che ne scaturisce. Il repartino di degenza e l'unità Salute mentale, secondo lo spirito della 180 di Franco Basaglia non erano solo strutture ambulatoriali, ma anche di raccordo col quartiere. Oggi questi luoghi sono solo dispensatori di farmaci dove non si combatte il disagio, ma si annullano le persone somministrandogli dosi inappropriate. Praticamente, una camicia di forza "'chimica'". Il Comitato (psichiatri, psicologi, familiari, specializzandi, disoccupati e volontari), opera su più fronti. Per esempio, con la creazione di una farmacia sociale: si raccolgono i medicinali inutilizzati per metterli a disposizione di chi si presenta munito di prescrizione. Poi ci sono le attività: dal gruppo di espressione (scrittura, liberi movimenti del corpo, disegni, foto e produzione video): "linguaggi creativi per imparare che il disagio può esprimersi anche in altri modi e non necessariamente attraverso il sintomo". L'ultima iniziativa, ricorda de Notaris, è stata l'istituzione dell'Osservatorio della salute mentale: "C'era anche la delibera del Comune, ma l'assessora alla sanità voleva utilizzarla per inserire personale suo, e questo avrebbe svuotato di significato il progetto. Da allora tutto è rimasto solo sulla carta". Con questi presupposti, la Campania si prepara a voltare pagina. Si accinge a riscrivere una storia che rischia di essere stata già letta troppe volte.

QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.

«Venti bambini scomparsi per un’ingiustizia di Stato». Lorena Morselli racconta la sua odissea durata 16 anni. Poi l’assoluzione «Mai più visti i miei figli ma non sono gli unici “rapiti” in quell’errore giudiziario» di Alberto Setti su “La Gazzetta di Modena”. «Ci sono venti bambini della Bassa modenese scomparsi nel nulla, “rapiti” a causa di un grossolano errore di Stato. Venti bambini che le loro famiglie non hanno più visto. Neppure il genitore di Massa che venne assolto fin da subito, senza tutto il calvario che abbiamo passato noi. Ecco, il mio pensiero oggi va a quei bambini, compresi i nostri figli. Bambini che, dopo tanto tempo, hanno quasi trent’anni...». A Salernes, nella Francia del Sud dove vive da quasi vent’anni con il quinto figlio Stefano, Lorena Morselli si sfoga così. Dopo l’assoluzione del 4 dicembre in Cassazione a Roma, ha preparato il suo Natale andando e venendo dalla sua Italia, dalla sua Massa Finalese. Viaggi per incontrare i parenti che le sono rimasti, gli avvocati, o anche solo per partecipare alle trasmissioni televisive che ora, dopo tanto tempo, ne raccontano l’incredibile, drammatica vicenda. Quella di una madre accusata prima di non essersi accorta che i primi quattro figli venivano rapiti dai parenti nella notte, nel palazzone dove vivevano, in pieno centro a Massa, per essere condotti nei cimiteri, a partecipare dei più incredibili abusi pedofilo-satanisti. Poi, a fronte delle rimostranze per quelle accuse strampalate, imputata di avere assistito inerme e collaborativa al marito che abusava sistematicamente di quei figli. Fantasie senza prove, cancellate dopo 16 anni da una giustizia talmente lenta e credulona da essere comunque ingiustizia. «Ora vivo e agirò perchè quello che è accaduto a me non accada mai più ad altri», dice con convinzione Lorena. Consapevole che purtroppo non sarà così, perchè esperienze identiche ne erano accadute prima nel mondo civile e anche dopo, in Italia. Esperienze che finiscono per rivelarsi un favore di Stato enorme ai pedofili, quelli veri. L’unica, inevitabile, azione possibile non sarà il pur necessario ristoro mediatico di questi giorni, ma una controffensiva nel campo stesso - quello giudiziario - che le ha sconvolto la vita, strappandole anche il marito Delfino, deceduto di crepacuore un anno fa proprio a Salernes dove si era recato a trovare moglie e figlio. Delfino, come molti alri in questa storiaccia, è stato vinto dal dolore di una battaglia interminabile, prima di saperla vinta. Così i legali di Lorena stanno preparando una azione di risarcimento. Imbarazzante per la giustizia, un’azione temuta e tenuta lontana con certi giri di parole che si colgono nelle prime sentenze che hanno fatto crollare il muro di quella vicenda incredibile. Non tutto il muro, va detto, perchè nel frattempo, nella maturazione di una consapevolezza, c’è chi una condanna - tanto indiziaria quanto definitiva - non è riuscito a schivarla. «Alla questione del risarcimento stanno lavorando gli avvocati, in questa fase preferisco non se ne parli. Ogni volta che abbiamo lottato per la verità qualcuno si è prodigato per impedirlo, screditandoci», dice Lorena, chiudendo il discorso sul maxi risarcimento. Perchè lei, la maestra dell’asilo parrocchiale, 55 anni oggi, su certe cose vorrebbe anche mettere la pietra della rassegnazione: «Qui in Francia, dove sono stata accolta benissimo e con sincerità, me la cavo facendo le pulizie. Non ho mai pensato di tornare in Italia ad insegnare, o di farlo qui. Il trauma è stato tale che pensare di accudire i bambini di altri genitori, sapendo come è facile trovarsi in un inferno, ti toglie ogni forza». Anche quella di tornare in Italia: «Per ora la mia vita è qui, a Salernes. Lo faccio per Stefano. Per salvarlo dai Servizi Sociali sono fuggita, e lui è cresciuto qui. Gli amici, la sua vita sono qui. E io mi adeguo, perchè la gente mi ha accolto con rispetto e dignità. Un domani, vedremo, ma dovrà essere lui a decidere...». A Massa Lorena tornerà anche il 28 dicembre: «Siamo stati invitati dal parroco, don J. Jacques, alla Messa di ringraziamento che sarà celebrata domenica alle 10.30. Spero ci sarà anche don Ettore, che ci è stato sempre vicino. A Finale associazioni di genitori hanno chiesto di indicare il modo per aiutarmi», aggiunge Lorena ringraziando. A Massa ci sarà anche per salutare sua mamma Lina, che ha 81 anni e in questa vicenda si è vista sconvolgere la vita: il marito morto Enzo di dolore, la nuora morta in carcere, il genero Delfino morto a Salernes dopo uno dei suoi tanti viaggi verso la Francia... Poi la tragedia dei nipoti scomparsi. «Dei sette nipoti che ha - chiosa Lorena - l’unico rimasto è Stefano. Mia madre, che non è mai stata indagata, gli altri sei non li ha mai potuti rivedere. I regali che gli faceva recapitare venivano rispediti indietro... C’è voluta e ci vuole solo la sua immensa fede, per resistere a tutto questo». Il pensiero va così a quel 12 novembre del 1998, più di sedici anni fa. L’ultima volta che Lorena e Delfino hanno visto i loro bimbi da genitori. «Alle 5.30 del mattino ci siamo trovati la polizia in casa. C’era l’ispettore Pagano che ci leggeva stralci dell’ordinanza del tribunale, senza che capissimo nulla. Ci ritrovammo in Commissariato a Mirandola, io ero nell’anticamera con i miei bambini, Delfino era salito con la psicologa Mambrini. Nella stanza con noi c’era anche la Donati, la giovane psicologa da cui è partito tutto questo... Facevano di tutto per provocarci, per accusarmi di essere una madre insensibile in quanto non volevo separarmi dai bambini. Li guardavo, quei bambini. Ero sconvolta, capivo che non li avrei mai più rivisti. Loro piangevano, sconvolti, così vinta da quelle provocazioni salii anch’io le scale. Mi trovai davanti Delfino che piangeva e Burgoni dell’Ausl che mi leggeva il decreto del tribunale, nel quale ci accusavano di non averli accuditi, consentendo che venissero prelevati di notte e portati nei cimiteri. Avevano creduto ai racconti della mia nipotina, allontanata a sua volta dalla famiglia, a sua volta sconvolta e confusa come sarebbero stati poi tutti i bambini di questa vicenda. Chiesi per l’ultima volta di vedere i miei figli, ma mi fu negato. Il resto lo sapete». Ma da madre Lorena si preoccupa ancora. «È stato un dramma anche per loro e per quello che sono stati indotti a dire e pensare. Oggi il più piccolo ha vent’anni, la più grande 27. So che non hanno di certo avuto una vita facile, so che qualcuno sta trovando un lavoro, ma che risultano ancora studenti, ciò che consente agli affidatari di ricevere gli indennizzi. Vorrei far loro sapere che la mamma è qui, innocente e che li pensa sempre. Come il loro fratello Stefano, che aspetta di conoscerli e di riconciliarsi».

Pedofilia, trappola infernale. Il “detective” Giovanardi e l’orrore giudiziario che uccise don Giorgio, scrive Cristina Giudici su "Il Foglio". Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere. E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedo-pornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorso 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché “il fatto non sussiste”, si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante. A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario “che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri”, precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato, ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria. Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri. Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere. Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto “regista” della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto. Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati. “Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana”, ricorda Giovanardi, “ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria. In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire”. Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? “Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede”, spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta. Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che “credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna. Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario – dice – ma non ci sono mai riuscito”. Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto: “Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?”. Riposta: “Sì”. “Ma poteva essere anche un sindaco?”. Risposta: “Sì”. “O anche un prete?”. Risposta: “Sì”. “Poteva chiamarsi Giorgio?”. Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore”. Incalza Giovanardi: “Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri”. Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. “E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato”, conclude Giovanardi. “Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe”.

BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.

Libro in difesa di Brega Massone appoggiato dall’ordine dei medici. Presentazione in concomitanza con il processo d’Appello. Il chirurgo pavese è stato condannato a 15 anni di galera. La moglie «Vicenda kafkiana. Lui è convinto che la verità verrà a galla», scrive Manuela Marziani su “Il Giorno”. L'unica certezza al momento è una condanna a 15 anni e 6 mesi. È la pena inflitta in primo grado a Pier Paolo Brega Massone, ex primario della Clinica Santa Rita. Secondo i giudici, il chirurgo toracico accusato di avere inutilmente operato una novantina di pazienti per ricavarne un profitto personale, è colpevole di falso, truffa e lesioni dolose aggravate. Il caso era scoppiato nel giugno 2008, quando la Santa Rita era stata ribattezzata “clinica degli orrori” e il medico pavese dipinto come un mostro. «E se il mostro fosse innocente?», si domandano ora due giornaliste, Giovanna Baer e Giovanna Cracco, che hanno scritto una controinchiesta sul processo in libreria in concomitanza con l’avvio del processo d’Appello previsto per domani. «Un’attenta lettura delle carte del processo solleva molti interrogativi — sostengono le giornaliste —. Le consulenze mediche dell’accusa presentano lacune, eppure sono quelle della difesa a essere ritenute “inattendibili”. E il tribunale non ha disposto una perizia super partes». Domani alle 21 nel collegio Santa Caterina, su iniziativa del presidente dell’Ordine dei medici di Pavia Giovanni Belloni, il libro sarà presentato per la prima volta dalle autrici, e dell’avvocato del chirurgo Luigi Fornari. Tra il pubblico ci sarà la moglie del chirurgo, Barbara Magnani, che si divide tra il suo lavoro in ufficio, il ruolo di mamma e quello di moglie che due volte alla settimana va a colloquio con il marito a San Vittore. «È una vicenda kafkiana — dice lei — perché alcuni pazienti di mio marito che si erano presentati con indicazioni chirurgiche poste da altri. Inoltre, per alcuni interventi è stato condannato nel penale e assolto nel civile». Altro sull’aspetto giudiziario Barbara non racconta. Parla di sé e del marito come di una «coppia normale, che si era conosciuta all’università e sposata 14 anni fa per andare a vivere nella casa lasciata dai genitori di lei e trascorrere le vacanze nella casa acquistata dai genitori di lui». «La chirurgia era la sua passione di mio marito — ripete — e i migliori chirurghi sono dalla sua parte, come alcuni pazienti, mentre non biasimo gli altri che hanno ricevuto l’invito a costituirsi parte civile nel processo e hanno accettato di farlo». Oggi Barbara Magnani vive con il suo stipendio da dipendente pubblico «ma nella disgrazia ho trovato tanti aiuti. I miei genitori mi aiutano, mentre avvocati e consulenti hanno letto la documentazione e accettato di difendere mio marito senza presentarmi ancora una parcella che non potrei pagare. Intanto lui in carcere lavora alla sua difesa con forte convinzione: prima o poi la verità verrà a galla».

Quelle condanne di Fabrizio Corona e Brega Massone, scrive Ornella Viviani, su “Il Corriere della Sera”. Caro Beppe, Fabrizio Corona, lo sappiamo, si è beccato una condanna superiore a quelle di molti assassini, mafiosi o terroristi. Forse parte di questa severità può essere stata causata dall’atteggiamento sprezzante e scanzonato da lui tenuto in aula in tutti i processi, gli spezzoni più significativi dei quali abbiamo potuto vedere nella trasmissione “Un giorno in pretura”. Qualcosa di analogo dev’essere accaduto al chirurgo Pier Paolo Brega Massone, condannato all’ergastolo con l’accusa di aver operato inutilmente dei pazienti (azione, evidentemente, commessa solo da lui nella storia delle cliniche private…). Sempre grazie alla meritoria trasmissione Rai (rivedibile a http://alturl.com/b8pxb ), nonché alla recente docufiction colpevolista “L’infiltrato”, abbiamo appreso che le magistrate inquirenti avevano ascoltato Brega Massone mentre nelle intercettazioni le definiva “criceti rompicoglioni”, e abbiamo visto che, in aula, egli ribatteva, alle loro domande invero assai naif dal punto di vista medico (del tipo “Perché non faceva l’ago aspirato, se i falsi positivi sono solo il dieci percento?”), con l’alterigia e il tono canzonatorio che a volte possiamo essere indotti ad assumere se un interlocutore mostra totale incompetenza del nostro lavoro ma pretende di farci la predica (io sono ingegnere, non medico, ma conosco la situazione). Gli stessi periti del Pubblico Ministero, del resto, non erano chirurghi e non avevano consultato le lastre degli accertamenti diagnostici: si limitavano a leggere gli scarabocchi delle cartelle cliniche. Inoltre, essi proclamavano diagnosi bianco-o-nero come non ne sentiamo mai in medicina quando si è di fronte a un tumore o a una malattia complessa: le loro opinioni erano piane, semplici e lineari, come se tutto fosse chiaro e ovvio. E Brega Massone rideva loro in faccia in tribunale. Il mio consiglio a chi, colpevole o no, dovesse trovarsi preso nella macchina della giustizia? Remissività, umiltà e sottomissione…

Brega Massone: gogna mediatica di Rai 3, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione”. Ancora una volta giustizia mediatica, un nuovo un tassello all’incivile ma radicata e ben collaudata pratica di celebrare i processi in tv e far strame dei più elementari e civili diritti del cittadino sanciti dalla nostra Carta Costituzionale: Rai 3 ha programmato per la prima serata di sabato 13 dicembre una docu-fiction sul caso di Pierpaolo Brega Massone, il chirurgo milanese, ex primario della Clinica Santa Rita, convenzionata con sistema sanitario nazionale, accusato di quattro omicidi volontari (per cui è stato condannato in primo grado all’ergastolo) e di 45 casi di lesioni gravi e truffa (per cui è stato condannato a 15 anni e mezzo), ora agli arresti cautelari ed in attesa di sentenza di secondo grado rispetto alla prima sentenza di condanna all'ergastolo. Che Brega Massone sia o meno colpevole sarà l’ultimo grado di giudizio a decretarlo, ma una cosa è certa ed è la responsabile mancanza di alcuna remora o esitazione del sistema mediatico, in questo caso specifico di Rai 3, a sacrificare sull’altare dell’audience il rispetto per un individuo i processi a cui carico sono ancora da concludere. E’ ormai la regola, da qualche decennio a questa parte, la vocazione del sistema informativo ad azzerare sotto i riflettori della gogna mediatica il principio della presunzione di innocenza. E quello che andrà in onda sabato prossimo è l’ennesimo, vergognoso siparietto pronto per aprirsi alla claque del pubblico a casa e tristemente destinato ad aggiungersi a quella cultura intrisa di show ed esibizione che Guy Debord definiva “La societè du spettacle”. L’imputato sarà processato e condannato, una volta di più, non in un'aula di tribunale in nome della legge ma su una rete televisiva del servizio pubblico in nome dell’audience. Ora, non è certo questa la sede adatta per entrare nel merito di un processo, quello che si è celebrato e deve ancora terminare nell’aula del tribunale vero, che comunque presenta evidenti incongruenze e solleva legittimi interrogativi. A cominciare dal mistero per cui, nel corso dei tre procedimenti civili intentati da tre pazienti che non si erano costituiti parte civile nei processi penali optando per la richiesta di risarcimento danni per aver subito operazioni ritenute inutili, il consulente d’ufficio nominato dal giudice civile ha affermato la assoluta correttezza dell’operato del chirurgo con conseguente rigetto delle richieste di risarcimento. E addirittura in uno di questi casi, sempre in base al parere del consulente d’ufficio (che è sempre esterno, indipendente e diverso nei vari processi) nel processo civile è stata stabilita l’assoluta correttezza del chirurgo, mentre nel processo penale gli è stato dato l’ergastolo. E poi perché i giudici penali, nonostante le ripetute richieste difensive, non hanno voluto acquisire agli atti le consulenze d’ufficio disposte nei processi civili terminati tutti in modo favorevole all’imputato, limitandosi ai pareri del consulente che fa capo alla Procura? Ecco cosa può aggiungere in questo quadro una ulteriore gogna televisiva? “Gravi danni - spiega l’avvocato Vincenzo Vitale, uno dei difensori di Brega Massone - potrebbero anche derivarne ai familiari e soprattutto alla figlia dodicenne poiché dagli spezzoni già mandati in onda, appare chiaro che la fiction dipingerà nuovamente il chirurgo come un mostro assetato di denaro ed incurante dei pazienti a lui affidati”. Ma il rischio più grande non riguarda l’influenza negativa fatalmente indotta sui telespettatori. Ad essere condizionati negativamente dalla ‘narrazione televisiva’ di una docu-fiction mandata in onda con processi ancora da celebrare potrebbero essere coloro che, oggi spettatori, domani saranno chiamati a fare da giudici popolari nel processo d’appello, che si terrà nel 2015 a carico di Brega Massone. Tanto più che le autorità carcerarie negarono al chirurgo il permesso di rispondere ad un’intervista da trasmettere alla fine del docu-film. Come dire che nel processo mediatico l’accusato deve rassegnarsi a subire la demonizzazione senza possibilità di difesa. Gli avvocati della Rai, in risposta alla notifica del ricorso già presentato dai legali di Brega Massone che chiedevano di bloccare la trasmissione poiché le responsabilità penali del medico ancora non sono state accertate con sentenze definitive, ad ottobre avevano assicurato che la docu-fiction non sarebbe stata mandata in onda il prossimo 31 ottobre. Cosa ha spinto la Rai a tornare sui suoi passi dopo due mesi? Già che siamo in epoca di controlli e controlli mancati ricordiamo che l’Agcom nel 2008 ha deliberato un ‘Atto sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive’ incardinata proprio sulla “tendenza di alcuni programmi televisivi a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie vicende giudiziarie in corso... per cui si crea un foro mediatico alternativo in cui il linguaggio televisivo si sostituisce a quello ben diverso del procedimento giurisdizionale…tanto che la tutela della dignità umana e il diritto al giusto processo garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari vengono piegati e la gogna mediatica può diventare essa stessa una condanna preventiva inappellabile e indelebile”. Al momento i difensori di Brega Massone hanno inviato una diffida formale in forma legale al direttore di Rai 3, Andrea Vianello, al direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, al presidente Rai Anna Maria Tarantola, alla società che produce il docu-fiction e AverMedia Company e per conoscenza al ministro della Giustizia, al capo dello Stato e al Garante dei detenuti della Regione Lombardia. In attesa che il sistema mediatico-giudiziario, con le sue regole, le uniche, a quanto sembra, da rispettare, diano un’ulteriore prova di voler garantire un’illusoria e strabica esigenza di trasparenza ed imparzialità che spesso si riduce ad una messinscena destinata a consentire alle procure di calcare il palco su cui esercitare e veder riconosciuto il loro primato. Questa, però, è la strada maestra per ampliare il solco tra cittadini e le garanzie costituzionali tra cui la presunzione di innocenza e per piegarsi alle forzature sia della giustizia penale sia dell’informazione, che ad essa, con prassi ormai sperimentata, fa da grancassa mediatica.

Brega Massone condannato in Tv. Nonostante le diffide Raitre trasmetterà il film prima che i giudici abbiano emesso una sentenza definitiva, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Magari, signora Brega, è una fiction garantista...«Non credo proprio, mi è bastato vedere il promo in televisione. Per loro, mio marito è il mostro, punto e basta».Barbara Magnani è la moglie di Pierpaolo Brega Massone, il chirurgo della clinica Santa Rita, condannato all'ergastolo per la morte di quattro pazienti. Una vicenda già di per sè delicata e controversa, dove si sono intrecciate indignazione popolare, un po' di scandalismo giornalistico, perizie mediche e questioni di diritto: e in cui ora fa irruzione un altro elemento di scontro. Sabato prossimo, alle 21, su Raitre verrà trasmessa una docufiction - ovvero una ricostruzione tra il reale e il recitato - del «caso Santa Rita». Al centro, ovviamente, lui: il dottor Brega Massone. Il «mostro». Peccato che per ora contro il chirurgo non ci sia una condanna definitiva. Non sono arrivati a conclusione né il processo per le lesioni ad ottanta pazienti, per cui è stato condannato in appello a quindici anni; né tantomeno quello per omicidio volontario, per i quattro pazienti morti dopo l'intervento. Ed è inevitabile chiedersi se sia corretto dare per vero e assodato ciò che i giudici devono ancora vagliare; e se la docufiction non rischi di influenzare i giudici e soprattutto i giurati che sulle colpe di Brega Massone devono ancora esprimersi. Durante la lavorazione, i produttori del programma avevano chiesto al medico un'intervista da inserire nella «scaletta», Brega aveva accettato, ma la direzione delle carceri aveva bloccato tutto. Così la fiction è andata avanti senza di lui. Il programma doveva andare in onda già in ottobre, ma i legali del chirurgo avevano presentato un ricorso alla magistratura e la Rai aveva fatto retromarcia. Invece martedì scorso, alle undici di sera, mentre guardava la tv uno dei legali di Brega si è visto sfilare il «promo» che annunciava per sabato sera la messa in onda. Ieri dallo staff legale è partita una diffida all'indirizzo della Rai, ma finora è rimasta senza risposta. Salvo nuove retromarce, sabato «Operazione clinica degli errori» verrà trasmesso all'interno del programma di Rai 3 «L'Infiltrato». La richiesta dei legali era che, fermo restando il diritto di cronaca e persino le esigenze della fiction, «Operazione clinica degli errori» andasse in onda solo dopo la conclusione della vicenda processuale nata dall'inchiesta della procura milanese su quanto accadeva alla «Santa Rita». Ma si tratta di una conclusione tutt'altro che prossima. Il troncone che vede Brega accusato di lesioni volontarie ai danni dei pazienti era approdato in Cassazione, ma qui il presidente della sezione e uno dei giudici hanno deciso di astenersi, e l'udienza è stata rinviata a data da destinarsi; mentre per le quattro accuse di omicidio volontario il processo d'appello è già stato assegnato a una sezione della Corte d'assise, presieduta dal giudice Sergio Silocchi, ma ancora non si sa quando potrà iniziare. Ed è soprattutto in questo processo che gli esiti sono aperti, perché è la prima volta che l'imputazione di omicidio volontario viene contestata in un processo per colpa medica. I giudici di primo grado hanno condiviso la linea della Procura: gli interventi erano inutili e Brega aveva messo in conto che i pazienti potessero morire, e questo lo rende un assassino. Ma la partita non è ancora finita, e fin dove si siano spinte le colpe del chirurgo la giustizia non l'ha ancora detto.

Brega Massone: gli errori nella fiction. I legali del chirurgo criticano la ricostruzione del processo. È un documento di parte ma interessante: racconta quanto sia fragile il diritto alla difesa, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. La lettera è datata 18 dicembre ed indirizzata ad Andrea Vianello, direttore di Rai3, ma anche a una serie di altri destinatari: dal Presidente della Repubblica al ministro della Giustizia, dal direttore della Rai al presidente della Commissione parlamentare di vigilanza. A scriverla sono Luigi Fornari e Vincenzo Vitale, i due legali di Pierpaolo Brega Massone, il chirurgo milanese che il 9 aprile scorso è stato condannato in appello all'ergastolo per la morte di alcuni pazienti e che ora aspetta il giudizio di Cassazione. Nella lettera, dal loro punto di vista, gli avvocati contestano una serie di presunti errori della fiction su Brega Massone, andata in onda con notevole successo di audience lo scorso 13 dicembre nella trasmissione L'infiltrato. Ma cercano soprattutto di sollecitare una riflessione sulle «gravi conseguenze che la trasmissione avrebbe ed ha comportato rispetto ai diritti processuali del nostro assistito, sottoposto a un massacro mediatico senza precedenti sin dal 2008, quando,  arrestato, venne subito condannato da stampa e televisioni all’insegna dello slogan “clinica degli orrori”. Il documento, che inevitabilmente è espressione di parte, è peraltro interessante per comprendere le ragioni di chi si consideri vittima di quella che viene definita la gogna mediatico-giudiziaria. Per questo ve lo proponiamo quasi integralmente:

Egregio dottor Vianello, Spett. Rai3, Preme osservare che – come Rai3 sapeva e sa – a oggi, alla fine del 2014, il dott. Brega Massone non è stato giudicato in via definitiva e si trova tuttora in stato di custodia cautelare. Non ci soffermiamo, in questa missiva, sulle conseguenze devastanti che una trasmissione del genere, che ha toccato - in maniera gratuita e inessenziale rispetto ai fini del ‘racconto’ - anche aspetti della vita familiare, può avere avuto sulla serenità e sulla tenuta psichica della figlia dodicenne del dott. Brega Massone. Sul piano più strettamente legale, non può esservi dubbio che l’avere presentato - SENZA NESSUN CONTRADDITTORIO - una trasmissione chiaramente orientata alla colpevolezza degli imputati anche riguardo alle gravissime accuse di omicidio, avrà un'enorme influenza sulle persone che saranno chiamate a giudicare come giudici popolari il dott. Brega Massone e i suoi coimputati nel processo d'appello che si svolgerà prossimamente a Milano. La stessa cosa è avvenuta, certamente, quando poche settimane prima dell’inizio del processo di primo grado vennero trasmesse tre puntate di "Un giorno in pretura" (trasmissione di solito esemplare nel presentare, seppur in sintesi, prospettive processuali contrapposte) in cui vennero presentati esclusivamente stralci delle deposizioni dei pazienti e dei consulenti della Procura, senza nessuno spazio per testi e consulenti della difesa del dott. Brega Massone e dei coimputati. Eppure, a giornalisti professionisti dovrebbe essere noto che l'influenza dei 'media' sul convincimento dei giudici (non solo popolari) è studiata da tempo dai criminologi di tutto il mondo e non è un'invenzione della difesa del dott. Brega Massone; così come Vi è sicuramente noto che esiste in Italia un principio costituzionale, prezioso per tutti noi (nessuno escluso), di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Per darVi un'idea di cosa sia stata nel processo Santa Rita l'influenza dei media, ci limitiamo a menzionare un episodio: in una delle prime udienze del dibattimento in Corte d'Assise il presidente della Corte, dovendo decidere sull'ascolto in aula delle 'famose' conversazioni telefoniche del dott. Brega Massone, ebbe a dire che la questione non aveva senso, posto che quelle telefonate erano da tempo note a tutti i membri della Corte, per essere state più volte trasmesse da televisione, riportate sui giornali, circolate in rete ecc.ecc (la trascrizione è a Vs. disposizione). Risentirle in aula sarebbe stata - disse con schiettezza il presidente - "una presa in giro". Nessuna "autorizzazione" di un Tribunale civile a trasmettere una fiction, quand'anche esistesse, potrebbe 'coprire' una così evidente alterazione delle normali dinamiche processuali: il mancato ascolto in aula di conversazioni telefoniche per sopravvenuta inutilità, causata da martellamento mediatico!  Ora, quegli stessi frammenti di conversazioni, estrapolati da colloqui lunghissimi e spesso complessi, saranno entrati (o, una volta recuperati in rete, entreranno), grazie all’”Infiltrato”, nelle orecchie e nella mente dei sei giurati popolari che costituiranno la Corte d’Assise d’Appello. Ed anche degli stessi giudici togati. Nello stesso tempo, nella docufiction del 13.12 non è stata spesa mezza parola sul fatto - che avrebbe davvero meritato l’interesse di un servizio pubblico, come tale imparziale ed equilibrato - che i casi contestati al dott. Brega Massone, nei tre processi penali di merito che sono stati fin qui celebrati, non sono mai stati sottoposti alla valutazione di periti super partes, scelti non dal Pubblico Ministero ma dal Tribunale o dalla Corte d'Appello. Di fatto, le sentenze di condanna si sono basate esclusivamente sui pareri dei consulenti tecnici della Procura di Milano (gli unici che hanno avuto un ruolo nella docufiction), nonostante che a favore del nostro assistito si siano espressi, a titolo gratuito come si usa fare fra colleghi, esperti di chiarissima fama: un nome per tutti, quello del prof. Massimo Martelli, per decenni primario dell'Ospedale Forlanini di Roma, autore di migliaia di interventi di chirurgia toracica (e medico di grande umanità, da tutti riconosciuta). Quello che viene normalmente disposto anche per i più banali danni da incidenti stradali - una consulenza super partes, resa da periti scelti dal giudice - è stata più volte negata al dott. Brega Massone e agli altri imputati del processo, poi condannati a pene molto pesanti per imputazioni di estrema gravità. Di tutto questo nella docufiction non c’è traccia, anche se sarebbe stato facile (e doveroso per un giornalismo indipendente) utilizzarne almeno qualche minuto per far sentire voci diverse da quelle dei consulenti dell’accusa. Ci sono, invece, oltre a parecchi errori, grossolane omissioni, che dimostrano l’ottica acritica ed unilaterale dell’intera operazione. Errori e omissioni quanto mai dannosi per il nostro assistito, posto che quanto ‘sentenziato’ dalla docufiction televisiva rischia di essere recepito, più o meno consciamente, come “verità” dai membri (non togati) della Corte che pronuncerà la sentenza d’appello nel secondo processo. Se la docufiction fosse stata realizzata con lo scrupolo professionale dovuto, e quindi tenendo conto (oltre che dei dati auditel) anche degli interessi degli imputati (presunti innocenti), non sarebbe sfuggito il rilievo processuale essenziale degli argomenti che seguono (al pari di altri che qui non citiamo) e sarebbero state evitate approssimazioni non tollerabili:

-la dott.ssa Galasso, le cui telefonate ‘accusatorie’ occupano una buona parte della trasmissione, in dibattimento ha riconosciuto che il loro contenuto era esagerato e risentiva di dicerie all’interno dell’ospedale che erano dettate da invidia professionale. In aula, sotto giuramento, la Galasso ha espresso il proprio rammarico al dott. Brega Massone per le espressioni usate;

-di una presunta “denuncia per plagio” (con riferimento alla redazione di pubblicazioni scientifiche del dott. Brega Massone) non è mai esistito alcun riscontro processuale;

 -allo stesso modo, non vi è mai stata traccia processuale, sotto forma di denuncia, indagini, processi, di “manomissioni” e “falsi”, presentati al solito come dati di realtà, che il nostro assistito avrebbe perpetrato nella cartella clinica del sig. Schiavo. E la questione è di grande delicatezza, visto che si tratta di uno dei casi su cui è stata costruita un’imputazione di omicidio volontario;

-la sig.ra Zito, che nel corso di un’intervista inserita nella docufiction, ha stigmatizzato il comportamento del dott. Brega Massone che, a suo dire, la avrebbe sottoposta a interventi inutili, durante la causa civile da lei intentata per il risarcimento del danno è stata sottoposta ad una CTU (consulenza tecnica d’ufficio, in sostanza a una perizia svolta da medici scelti dal giudice, quindi disinteressati e imparziali) che ha attestato la correttezza di tutti e tre gli interventi svolti dal dott. Brega Massone, anche e soprattutto sotto il profilo delle indicazioni chirurgiche;

Lo stesso è avvenuto rispetto all’unica altra paziente (la sig.ra Maria De Pol) che, pur essendo “persona offesa” nel processo penale, ha scelto di agire per il risarcimento dei danni in una separata causa civile: anche in quel caso, consulenti d’ufficio indipendenti e ovviamente diversi da quelli utilizzati dai giudici penali per motivare le condanne, hanno attestato l’assoluta correttezza – anche e soprattutto sul tema delle indicazioni chirurgiche – dell’operato del dott. Brega Massone e della sua equipe.

Ma – ripetiamo – gli esempi potrebbero moltiplicarsi: l’inesistente mutilazione del seno subita da una ragazza diciottenne; la disinvolta accusa di “eliminazione delle prove”, formulata dall’Infiltrato senza alcun rispetto per risultanze dibattimentali di segno opposto; l’omissione, nella estemporanea consulenza telefonica del dott. Legnani al notaio Pipitone, della circostanza, riferita dallo stesso Legnani durante la conversazione, che egli non aveva ancora preso visione di lastre e tac. ...) Tutte queste cose, che dovrebbero fare rabbrividire o almeno preoccupare tutti noi, l'opinione pubblica non le ha mai sapute e continua a non saperle: evidentemente non interessano a Rai3, che ha preferito cavalcare - dopo sei anni e mezzo, il sabato sera in prima serata – le suggestioni del "mostro" e della "clinica degli orrori", che meglio si prestano ad assecondare gli appetiti di un pubblico desideroso solo di un comodo quanto odioso capro espiatorio. Temi noiosi e demodé come i principi costituzionali e la tutela che, in un sistema civile, spetta a qualsiasi persona (nessuna esclusa) sottoposta a processo penale, per il “servizio pubblico” possono aspettare...Nel riservarci di intraprendere tutte le iniziative tese alla tutela dei diritti – anche costituzionali – del dott. Brega Massone, porgiamo distinti saluti. Milano, 18 dicembre 2014 Avv. prof. Luigi Fornari   Avv. prof. Vincenzo.

Gli avvocati di Brega Massone scrivono a Rai3 «Avete creato il mostro, ci batteremo in ogni sede», scrivono Luigi Fornari e Vincenzo Vitale su  “Il Garantista”. Egregio dottor Vianello, spettabile Rai3, in risposta alla vostra missiva del 12.12, nel confermare i contenuti della diffida e della mail inviatevi dagli scriventi facciamo presente che il ricorso (ex art. 700 cpc) cui fate riferimento fu proposto per sospendere la trasmissione de L’infiltrato che, da notizie telefoniche forniteci da Rai3, era programmata per il 31.10. All’udienza del 27.10, la Rai nel costituirsi fece presente che la trasmissione non era in programmazione per il 31. Ovvio che il provvedimento emesso dal Tribunale non venne impugnato, posto che il dott. Brega Massone non aveva alcun interesse a farlo (il 31.10 la trasmissione non c’è stata, né risultava programmata in un’altra data) e posto che gli argomenti contenuti nella motivazione – parzialmente da voi estrapolati nella missiva del 12.12 – avevano, con tutta evidenza, un valore meramente teorico e generale. Di certo, gli argomenti di cui sopra non valevano ad autorizzare, a ”legittimare” la trasmissione del 13.12, su cui non si è mai formato alcun contraddittorio col dott. Brega Massone: la questione non è stata infatti dedotta in alcun ricorso difensivo per assenza dei tempi necessari per instaurare un ricorso in tempi utili. Nessuna ”temerarietà” nelle iniziative della difesa del dott. Brega Massone, quindi, ma solo il tentativo dei suoi legali di sollecitare una vostra doverosa riflessione sulle gravi conseguenze che la trasmissione del 13.12 avrebbe ed ha comportato rispetto ai diritti processuali del nostro assistito, sottoposto a un massacro mediatico senza precedenti sin dal 2008, quando, appena arrestato, venne subito condannato da stampa e televisioni – in modo acritico e in virtù di informazioni parziali ed unilaterali, recepite dalle autorità inquirenti – all’insegna dello slogan “clinica degli orrori”. Preme osservare che – come Rai3 sapeva e sa – ad oggi, alla fine del 2014, il dott. Brega Massone non è stato giudicato in via definitiva e si trova tuttora in stato di custodia cautelare. Non ci soffermiamo, in questa missiva, sulle conseguenze devastanti che una trasmissione del genere, che ha toccato – in maniera gratuita e inessenziale rispetto ai fini del “racconto” – anche aspetti della vita familiare, può avere avuto sulla serenità e sulla tenuta psichica della figlia dodicenne del dott. Brega Massone. Sul piano più strettamente legale, non può esservi dubbio che l’avere presentato – senza nessun contradditorio – una trasmissione chiaramente orientata alla colpevolezza degli imputati anche riguardo alle gravissime accuse di omicidio, avrà un’enorme influenza sulle persone che saranno chiamate a giudicare come giudici popolari il dott. Brega Massone e i suoi coimputati nel processo d’appello che si svolgerà prossimamente a Milano. La stessa cosa è avvenuta, certamente, quando poche settimane prima dell’inizio del processo di primo grado vennero trasmesse tre puntate di Un giorno in pretura (trasmissione di solito esemplare nel presentare, seppur in sintesi, prospettive processuali contrapposte) in cui vennero presentati esclusivamente stralci delle deposizioni dei pazienti e dei consulenti della Procura, senza nessuno spazio per testi e consulenti della difesa del dott. Brega Massone e dei coimputati. Eppure, a giornalisti professionisti dovrebbe essere noto che l’influenza dei “media” sul convincimento dei giudici (non solo popolari) è studiata da tempo dai criminologi di tutto il mondo e non è un’invenzione della difesa del dott. Brega Massone; così come vi è sicuramente noto che esiste in Italia un principio costituzionale, prezioso per tutti noi (nessuno escluso), di presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva. Per darvi un’idea di cosa sia stata nel processo Santa Rita l’influenza dei media, ci limitiamo a menzionare un episodio: in una delle prime udienze del dibattimento in Corte d’Assise il presidente della Corte, dovendo decidere sull’ascolto in aula delle “famose” conversazioni telefoniche del dott. Brega Massone, ebbe a dire che la questione non aveva senso, posto che quelle telefonate erano da tempo note a tutti i membri della Corte, per essere state più volte trasmesse da televisione, riportate sui giornali, circolate in rete ecc.ecc (la trascrizione è a vostra disposizione). Risentirle in aula sarebbe stata – disse con schiettezza il presidente – «una presa in giro». Nessuna ”autorizzazione” di un Tribunale civile a trasmettere una fiction, quand’anche esistesse, potrebbe “coprire” una così evidente alterazione delle normali dinamiche processuali: il mancato ascolto in aula di conversazioni conversazioni telefoniche per sopravvenuta inutilità, causata da martellamento mediatico! Ora, quegli stessi frammenti di conversazioni, estrapolati da colloqui lunghissimi e spesso complessi, saranno entrati (o, una volta recuperati in rete, entreranno), grazie all Infiltrato, nelle orecchie e nella mente dei sei giurati popolari che costituiranno la Corte d’Assise d’Appello. Ed anche degli stessi giudici togati. Nello stesso tempo, nella docufiction del 13.12 non è stata spesa mezza parola sul fatto – che avrebbe davvero meritato l’interesse di un servizio pubblico, come tale imparziale ed equilibrato – che i casi contestati al dott. Brega Massone, nei tre processi penali di merito che sono stati fin qui celebrati, non sono mai stati sottoposti alla valutazione di periti super partes, scelti non dal Pubblico Ministero ma dal Tribunale o dalla Corte d’Appello. Di fatto, le sentenze di condanna si sono basate esclusivamente sui pareri dei consulenti tecnici della Procura di Milano (gli unici che hanno avuto un ruolo nella docufiction), nonostante che a favore del nostro assistito si siano espressi, a titolo gratuito come si usa fare fra colleghi, esperti di chiarissima fama: un nome per tutti, quello del prof. Massimo Martelli, per decenni primario dell’Ospedale Forlanini di Roma, autore di migliaia di interventi di chirurgia toracica (e medico di grande umanità, da tutti riconosciuta). Quello che viene normalmente disposto anche per i più banali danni da incidenti stradali – una consulenza super partes, resa da periti scelti dal giudice – è stata più volte negata al dott. Brega Massone e agli altri imputati del processo, poi condannati a pene molto pesanti per imputazioni di estrema gravità. Di tutto questo nella docufiction non c’è traccia, anche se sarebbe stato facile (e doveroso per un giornalismo indipendente) utilizzarne almeno qualche minuto per far sentire voci diverse da quelle dei consulenti dell’accusa. Ci sono, invece, oltre a parecchi errori, grossolane omissioni, che dimostrano l’ottica acritica ed unilaterale dell’intera operazione. Errori e omissioni quanto mai dannosi per il nostro assistito, posto che quanto “sentenziato” dalla docufiction televisiva rischia di essere recepito, più o meno consciamente, come “verità” dai membri (non togati) della Corte che pronuncerà la sentenza d’appello nel secondo processo. Se la docufiction fosse stata realizzata con lo scrupolo professionale dovuto, e quindi tenendo conto (oltre che dei dati auditel) anche degli interessi degli imputati (presunti innocenti), non sarebbe sfuggito il rilievo processuale essenziale degli argomenti che seguono (al pari di altri che qui non citiamo) e sarebbero state evitate approssimazioni non tollerabili: – la dott.ssa Galasso, le cui telefonate “accusatorie” occupano una buona parte della trasmissione, in dibattimento ha riconosciuto che il loro contenuto era esagerato e risentiva di dicerie all’interno dell’ospedale che erano dettate da invidia professionale. In aula, sotto giuramento, la Galasso ha espresso il proprio rammarico al dott. Brega Massone per le espressioni usate; – di una presunta “denuncia per plagio” (con riferimento alla redazione di pubblicazioni scientifiche del dott. Brega Massone) non è mai esistito alcun riscontro processuale;- allo stesso modo, non vi è mai stata traccia processuale, sotto forma di denuncia, indagini, processi, di “manomissioni” e “falsi”, presentati al solito come dati di realtà, che il nostro assistito avrebbe perpetrato nella cartella clinica del sig. Schiavo. E la questione è di grande delicatezza, visto che si tratta di uno dei casi su cui è stata costruita un’imputazione di omicidio volontario; – la sig.ra Zito, che nel corso di un’intervista inserita nella docufiction, ha stigmatizzato il comportamento del dott. Brega Massone che, a suo dire, la avrebbe sottoposta a interventi inutili, durante la causa civile da lei intentata per il risarcimento del danno è stata sottoposta ad una Ctu (consulenza tecnica d’ufficio, in sostanza a una perizia svolta da medici scelti dal giudice, quindi disinteressati e imparziali) che ha attestato la correttezza di tutti e tre gli interventi svolti dal dott. Brega Massone, anche e soprattutto sotto il profilo delle indicazioni chirurgiche. Lo stesso è avvenuto rispetto all’unica altra paziente (la sig.ra Maria De Pol) che, pur essendo “persona offesa” nel processo penale, ha scelto di agire per il risarcimento dei danni in una separata causa civile: anche in quel caso, consulenti d’ufficio indipendenti e ovviamente diversi da quelli utilizzati dai giudici penali per motivare le condanne, hanno attestato l’assoluta correttezza anche e soprattutto sul tema delle indicazioni chirurgiche – dell’operato del dott. Brega Massone e della sua equipe. Ma – ripetiamo – gli esempi potrebbero moltiplicarsi: l’inesistente mutilazione del seno subita da una ragazza diciottenne; la disinvolta accusa di “eliminazione delle prove”, formulata dall’Infiltrato senza alcun rispetto per risultanze dibattimentali di segno opposto; l’omissione, nella estemporanea consulenza telefonica del dott. Legnani al notaio Pipitone, della circostanza, riferita dallo stesso Legnani durante la conversazione, che egli non aveva ancora preso visione di lastre e tac. Ma non le hanno viste, del resto, neppure i consulenti del Pm. il cui parere è stato utilizzato, senza disporre perizie, per infliggere pene elevatissime agli imputati. Tutte queste cose, che dovrebbero fare rabbrividire o almeno preoccupare tutti noi, l’opinione pubblica non le ha mai sapute e continua a non saperle dopo due ore di pseudodocumentario: evidentemente non interessano a Rai3, che ha preferito cavalcare – dopo sei anni e mezzo, il sabato sera in prima serata – le suggestioni del ”mostro” e della ”clinica degli orrori”, che meglio si prestano ad assecondare gli appetiti di un pubblico desideroso solo di un comodo quanto odioso capro espiatorio. Temi noiosi e demodé come i principi costituzionali e la tutela che, in un sistema civile, spetta a qualsiasi persona (nessuna esclusa) sottoposta a processo penale, per il “servizio pubblico” possono aspettare… Nel riservarci di intraprendere tutte le iniziative tese alla tutela dei diritti – anche costituzionali – del dott. Brega Massone, porgiamo distinti saluti.

Brega Massone: come si difende l'imputato più odiato d'Italia. Dalla sua cella, per la prima volta, parla Pier Paolo Brega Massone, il chirurgo milanese condannato in primo grado per 4 omicidi volontari e per avere effettuato interventi inutili per incassare le parcelle, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Anche i mostri hanno diritto alla difesa. E Panorama dà spazio alle ragioni di Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario della clinica Santa Rita di Milano al centro di una vicenda giudiziaria senza precedenti in Italia. Era un luminare della chirurgia toracica, oggi è per tutti un uomo accusato e in parte già condannato di avere effettuato su pazienti anziani e malati terminali, "con una serialità impressionante", operazioni chirurgiche del tutto inutili e dannose al solo scopo di ottenere il profitto dei rimborsi del Servizio sanitario nazionale. Brega Massone, in primo grado, ha avuto inflitto un ergastolo con tre anni di isolamento diurno per l’omicidio volontario di quattro pazienti e per lesioni in una quarantina di casi. Questa condanna si somma a quella a 15 anni e mezzo per concorso in 79 casi di lesioni, truffa e falso, ancora in attesa di verdetto in Cassazione. C’è poi la pena non scritta, tutta italiana, che lo tiene in carcere da 6 anni (salvo due pause di 9 mesi complessivi) in regime di carcerazione preventiva. Perché non c’è alcuna condanna definitiva. È la moglie Barbara Magnani che, su richiesta di Panorama, dà voce al marito "per spezzare" dice "il circuito perverso del processo mediatico che non gli lascia scampo". Così, a colloquio con la consorte, il detenuto risponde alle domande poste da Panorama, offrendo al lettore la "sua parte di verità".

Dottor Brega Massone, lei è probabilmente l’imputato più odiato d’Italia: come convive con questa idea?

«È un macigno pesantissimo, costruito dalla procura e ingigantito dai media. L’accusa in realtà non si fonda su prove reali o su una perizia super partes, ma unicamente su parole stralciate dalle telefonate. Convivo con questo macigno perché non mi riconosco nel "Mostro" e continuerò a non riconoscermi tale fintantoché a definirmi così saranno solo i consulenti pagati della procura. In molti casi costoro hanno omesso che i pazienti mi erano stati inviati con un’indicazione chirurgica definita da altri medici; non hanno visionato direttamente le radiografie; non hanno visitato i pazienti. I miei consulenti sono professionisti validi, lavorano gratuitamente e solo per convinzione, e sostengono la bontà del mio operato».

Insomma, la sua condanna sarebbe soltanto una questione di consulenze?

«Lo è innanzitutto. È normale che io sia stato condannato all’ergastolo senza aver ottenuto una perizia super partes? Se i giudici sono così convinti della mia colpevolezza, perché non sentono anche consulenti diversi da quelli della procura? In sede civile alcuni medici hanno condotto perizie che mi scagionano, sebbene per quegli stessi casi io sia stato condannato in sede penale da un tribunale che non ha accolto quei risultati».

Una sentenza di primo grado le attribuisce senza dubbi l’omicidio volontario di 4 pazienti.

«Il Tribunale di Milano ha creduto alle accuse sulla base di perizie condotte da un medico di base senza alcuna esperienza in chirurgia toracica. Ma in entrambi i processi hanno sempre respinto la mia richiesta di una perizia super partes. Gli atti medici sono stati valutati dai magistrati: domani i medici giudicheranno forse gli atti dei giudici? In udienza il giudice ha affermato che "la medicina non è una scienza". Con quale sicumera mi è stato dato l’ergastolo?»

Salvo una breve pausa, lei è in carcere dal 9 giugno 2008. Le pesa?

«Mi hanno condannato il giorno stesso dell’arresto, per me non esiste la presunzione d’innocenza. È stata messa in atto una strategia mediatica studiata a tavolino. La mia carcerazione è stata voluta per impedirmi la difesa».

È così difficile difendersi dal carcere?

«È impossibile: le celle sono di 8 metri quadrati per 3 o 4 persone. Non c’è lo spazio per computer o cartelle, non si può interloquire facilmente con consulenti e legali. Il carcere ti tortura psicologicamente e fisicamente. Mia madre è morta mentre ero in cella, anche se i termini per la custodia cautelare erano scaduti da 4 mesi. La Cassazione ha dichiarato illegittimo l’atto con cui la Procura generale e la Corte d’appello di Milano l’avevano disposta. Ma mia madre non tornera».

Crede che nel suo caso le esigenze cautelari abbiano assunto una dimensione spropositata?

«Per tenermi dentro mi hanno contestato il rischio di reiterazione del reato, sebbene mai nessun direttore sanitario mi avrebbe riammesso in una sala operatoria. Hanno addotto il pericolo di fuga, ma io ho sempre presenziato a tutte le udienze e non ho approfittato dei periodi di libertà. Fuggire per me sarebbe un’ammissione di colpa. Ho una figlia e una moglie alle quali voglio dimostrare la mia integrità morale. Non mi sono mai stati concessi neppure i domiciliari».

Nelle intercettazioni alcuni colleghi le chiedono conto di operazioni a loro parere inutili: è uno scenario che fa orrore. A lei fa orrore?

«I giornali hanno riportato soltanto stralci tagliati ad arte dalla procura. Mi hanno attribuito tante falsità. Le percentuali dei miei interventi su casi rivelatisi poi benigni rientrano nella media di tutte le casistiche operatorie: dal 10 al 40 per cento. Nel mio caso sono finiti sotto accusa strumentalmente tutti i pazienti appartenenti al 10 per cento di benignità; tutti gli altri, un migliaio, sono stati tralasciati. Un esempio: ho operato 50 pazienti con distrofia bollosa e due mi vengono contestati; ho operato un centinaio di versamenti pleurici e circa 20 mi vengono contestati. Nessuno ha voluto ascoltare telefonate e testimonianze che avrebbero offuscato l’immagine del "Mostro"».

Lei è in pace con se stesso?

«Nella mia carriera avrò commesso certamente errori, come succede a chi lavora, ma ho sempre agito in scienza e coscienza per il bene dei pazienti».

Secondo i pm, lei non avrebbe mai avuto un ripensamento e le mancherebbe "il senso dell’umana pietà".

«La requisitoria dei pm è stata teatrale, a sicuro effetto mediatico. Io chiedo ancora perché i giudici non abbiano voluto concedermi una perizia super partes. I miei consulenti sostengono l’esatto opposto di quelli dei pm. Se il giudice è terzo, perché non ha un dubbio? La letteratura scientifica è a mio favore, ma i giudici non hanno voluto considerare neanche quella. Il senso dell’umana pietà, in termini scientifici, vuol dire "palliazione": evitare inutili sofferenze e assicurare una morte dignitosa a chi è già destinato».

La accusano anche di un’avidità senza limiti. Come risponde a questo?

«Forse il pm non aveva fatto i conteggi esatti prima di avanzare le accuse per dolo economico. La mia équipe di chirurgia toracica aveva come compenso il 9 per cento lordo di ogni Drg (il sistema di calcolo della spesa attribuito a ogni diverso tipo di operazione, ndr), mentre il 91 per cento era trattenuto dalla clinica nella figura del suo amministratore unico che ha patteggiato 4 anni e 4 mesi. Il pm mi ha definito "megalomane", ma non c’è psichiatra che certifichi la mia megalomania. Il pm sostiene che, "checché ne dica il mio commercialista" io avrei incassato 300 mila euro sulla base del fatto che la clinica aveva avuto 3 milioni».

Perché, non è così?

«Il 9 per cento è pari a 270 mila lordi, da dividere fra i 3 componenti dell’équipe. Al netto delle tasse, l’importo percepito da noi 3 era di 151 mila euro. Poniamo pure che io in qualità di primario ne prendessi il 65 per cento: la mia retribuzione sarebbe stata di 98 mila euro».

Quindi?

«Quindi, secondo l’accusa, per guadagnare 1.000 euro in più al mese io avrei deliberatamente rischiato quanto mi è successo. Non è un caso che nelle fasi finali del processo lo stesso pm abbia precisato di non aver quantificato il lucro sostenendo che io avrei effettuato gli interventi più "per megalomania" che per trarne profitto».

Può essere che lei abbia commesso qualche errore?

«Posso aver sbagliato. Ma ho sempre agito in buona fede, certamente non per i motivi che vengono addotti. Per una bassa percentuale della mia casistica operatoria sono stato sottoposto a una gogna mediatica senza precedenti. Ho sempre cercato di fare il mio lavoro con la massima dedizione, alcuni me lo hanno riconosciuto in tribunale. Altri hanno avuto reazioni diverse, li comprendo perché chiunque resta turbato quando un tribunale formula accuse così pesanti. I pazienti non c’entrano. Quando finalmente un giudice "illuminato" mi concederà la perizia super partes, potrò dimostrare loro che non hanno sbagliato a riporre in me la fiducia e la vita».

Una donna ha raccontato in lacrime ai cronisti di essersi dovuta rivolgere a diversi specialisti per ricostruire il seno dopo i suoi interventi...

«La procura e i giudici hanno nascosto la verità ai giornali. Nei confronti della signora in questione non provo rancore, ma profonda tristezza per il modo in cui ha distorto la verità. La signora mi ha chiesto i danni, e com’è prassi nel procedimento civile ho ottenuto la perizia super partes affidata a 2 professori. Entrambi, dopo aver esaminato la documentazione e il seno della signora, mi hanno scagionato per tutti e tre gli interventi per i quali invece sono stato condannato in sede penale».

C’è un ragazzo affetto da tubercolosi che lei avrebbe operato per un tumore al polmone. Ma il tumore non c’era.

«Non esistono pazienti con tubercolosi diagnosticata che il chirurgo operi per un "sospetto tumore". Esistevano invece pazienti con noduli polmonari sospetti o indeterminati, che al termine dello studio preoperatorio meritavano un accertamento istologico sicuro. È quanto accaduto in questo caso. Quei pazienti seguirono il percorso perché nessun esame precedente risultò positivo per la tubercolosi. Solo il prelievo istologico da me effettuato consentì la diagnosi certa di tubercolosi, che fu regolarmente denunciata e trattata. Non si può partire dalla fine della terapia per trovare colpe».

Come trascorre il tempo in carcere?

«Ho passato giornate a cercare di ricordare, di ricostruire le cartelle cliniche. Solo nel 2013 l’amministrazione penitenziaria mi ha concesso l’uso di un computer. Il carcere è uno spreco di risorse umane gettate in una cella e dimenticate, nell’assoluta mancanza di rispetto per la persona e a danno dell’utilità pubblica».

Che cosa le manca di più, in cella?

«La mia famiglia. Non mi è mai stato permesso, nemmeno in regime di custodia cautelare, di usufruire del regime domiciliare, mentre i miei due colleghi, Fabio Presicci e Marco Pansera, hanno goduto di libertà assoluta. Non ho potuto beneficiare nemmeno dei permessi che la legge prevede per un detenuto recidivo. Non mi è stato concesso di veder crescere mia figlia: aveva 5 anni quando sono stato arrestato, ora ne ha 11. Ho perso tutto di lei».

Lei denuncia accanimento nei suoi confronti. Ma come se lo spiega?

«La storia della "Clinica degli orrori" ha scatenato un boom mediatico e io sono finito nel tritacarne senza possibilità di replica. I giornali cercavano solo notizie contro di me. Una mia paziente, per pubblicare uno scritto in mia difesa, ha dovuto pagare lo spazio su un giornale».

Ha mai pensato di farla finita?

«No. Non posso arrendermi, per me stesso e per la mia famiglia. Devo continuare a lottare, nella speranza che prima o poi arrivi un giudice a far luce su un caso divenuto molto delicato non solo per me ma per l’intera classe medica»

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

Quando i magistrati amministrano la giustizia ed anche l'economia.

Nel corso di un procedimento penale, il Giudice per le indagini preliminari, su richiesta del Pubblico ministero che conduce le indagini, può disporre, a titolo cautelare, il sequestro preventivo ai sensi dell'art. 321 e segg. Cod.proc. pen., di patrimoni, aziende, titoli, conti correnti, beni mobili ed immobili di cui è consentita anche la confisca. In tale ipotesi, al fine di assicurare la custodia, la conservazione e l'amministrazione dei beni in sequestro, il Giudice che ha disposto il sequestro, nelle more dello svolgimento delle occorrenti indagini e dell'istruzione del processo, allorquando sia sequestrata una o più aziende cui assicurare la continuità del ciclo produttivo ed i livelli occupazionali, procede alla nomina di un Amministratore di riconosciute esperienza e professionalità, ai sensi dell'art. 12 sexies, I, III e IV comma bis, DL 306/1992 convertito con modificazioni in legge 356/92. Tale disposizione normativa che regola i poteri e le facoltà concessi all'Amministratore Giudiziario è definita “norma di collegamento” atteso che essa richiama il disposto normativo di cui agli artt. 1 e segg. della legge fondamentale (Rognoni-La Torre) 575/65 e successive modificazione e integrazioni; in particolare delle disposizione che interessano la gestione e la destinazione dei beni sequestrati o confiscati. L'Amministratore Giudiziario opera in stretto rapporto con il Giudice, definito Giudice Delegato alla misura applicata, il quale autorizza, tra gli altri, di volta in volta ed a seguito delle relazioni/Istanze scritte dall'Amministratore Giudiziario, il compimento degli atti di straordinaria amministrazione. L'Amministratore Giudiziario, nello svolgimento del suo incarico, è altresì obbligato al deposito di relazioni e di rendiconti periodici relativi all'attività svolta e, all'atto della definizione del procedimento, alla redazione del rendiconto finale nonché – in ragione degli esiti del detto procedimento - alla restituzione dei beni all'avente diritto o, nell'ipotesi in cui venga disposta la confisca, alla consegna all'Erario ed in tale ipotesi egli può assumere l'incarico di Amministratore Finanziario.

Credo di spiegarmi l’idolatria verso i magistrati dei comunisti e dei penta stellati para comunisti (perché chi è comunista, è cattivo ed invidioso dentro). Loro pensano, non avendo niente da perdere in termini di proprietà, che i “padroni” sono tali sol perché rubano. Se poi questi padroni ladri sono del sud Italia, ecco presentati al mondo i mafiosi. Da ciò deriva per i sinistroidi la voglia di dire “quello che è tuo, è mio, quello che è mio, è mio”. Per gli effetti ai comunisti serve un potere che sia al di sopra di quello economico-finanziario. Pensano di avere dalla loro parte i magistrati che li vendicano punendo i padroni. Per questo li assecondano in tutti i loro voleri. In questo modo i comunisti vedono nemici ovunque, ove non vi sia condivisione delle loro vedute. Non pensano, i fessi, che facendo così alimentano le ingiustizie sociali. Uno, perché in carcere ci sono solo indigenti, spesso innocenti. Due, perché in Italia il vero potere lo detengono i magistrati. Tre, dove vi è povertà, vi è ignoranza, quindi non si è liberi di conoscere per scegliere. In questo caso non si parla di democrazia, ma di magistocrazia. Inoltre, né i magistrati, né i comunisti vengono da Marte. Ergo, nel marcio italico si è tutti uguali. E' necessario non guardare fuori, ma guardarsi dentro. E non alimentare leggende metropolitane in simbiosi con i propri simili. Basta aprire al mondo il proprio cervello.

Da sempre auspico la realizzazione di una figura super partes che tuteli verità e giustizia. Un difensore civico giudiziario che abbia il potere del magistrato, ma che non sia uno di loro, corporativamente influenzabile. Uno che abbia il potere di aprire quel fascicolo e scoprire cosa c'è dentro. Altrimenti quel fascicolo rimasto chiuso cristallizza una verità mistificatrice.

La verità raccontata da un’altra prospettiva contro i maestrini dell’informazione, spesso di sinistra ed ammanicati con i magistrati. Ed i leghisti ci sguazzano nella verità artefatta.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it,  Lulu.com, CreateSapce.com e Google Libri.

“La mafia è stata corrotta dalla finanza. Prima aveva una sua morale, chiamiamola così”. Beppe Grillo a Palermo il 26 ottobre 2014 per lo “Sfiducia day” contro il governatore della Sicilia Rosario Crocetta ha parlato così davanti al Parlamento regionale, scrive "Il Fatto Quotidiano". “Tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza”, ha detto Grillo. “Il primo sa che è fuori legge, l’altro si assolve perché è dentro il sistema”. E ancora: “Se il Giappone mette la prostituzione e la droga nel Pil, allora io voglio che la mafia si quoti in borsa”. Parole provocatorie duramente criticate da più parti. Il primo è stato lo stesso Crocetta: “E’ uno xenofobo, omofobo e filomafioso che cerca i voti di Cosa nostra e che vuole consegnare la Sicilia ai vecchi gruppi di potere”. Ma a condannare la presa di posizione anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino (“Stia più attento con le parole”) e Maria Falcone, sorella del giudice Giovanni Falcone (“Insulto a tutte le vittime). Nel dibattito sono intervenuti anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: (“Parole prive di fondamento e di cultura del fenomeno”) e il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci (“Mafia e moralità sono un ossimoro”). “Che cos’è la mafia?”, ha detto Grillo dal palco di Palermo. “E l’onestà? E’ un tic nervoso. A me non fa paura la disonestà commerciale ed economica. Non mi scandalizza più di tanto chi ruba. Mi fa paura chi è disonesto intellettualmente. E’ la disonestà culturale di questo Paese che è in ginocchio. Io dico queste cose da 20 anni”. Il leader del Movimento 5 stelle ha attaccato poi politica e finanza: “La mafia è stata corrotta dalla finanza. Non metteva bombe nei musei o uccideva i bambini nell’acido. La mafia aveva una sua morale, chiamiamola "una sua morale". Ora non c’è più niente. E’ stata corrotta da dentro dalla finanza, dai soldi, dalle multinazionali, dagli affari. Cos’è oggi un’associazione a delinquere? Da chi è formata? Ve lo dico io: da un uomo d’affari. E tra un uomo d’affari e un mafioso non c’è quasi nessuna differenza. L’unica differenza è che il mafioso sa che è fuori legge, mentre l’imprenditore si assolve perché è dentro il sistema che gli permette quelle cose lì”. La colpa secondo Grillo è di chi si crede assolto perché è dentro il sistema: “Chi c’è dietro? Un uomo d’affari, un politico, un banchiere, un commercialista, un notaio, un poliziotto e un magistrato. A volte non c’è nemmeno un delinquente dentro l’associazione a delinquere. Quando sei dentro non te ne accorgi più, sei dentro un sistema. In Parlamento si ritengono galantuomini quelli che non rubano. Ce ne sono. Ma sono dentro un sistema che accettano ed è peggio quel galantuomo lì di quello che ruba”. E qui una nuova provocazione: “La mafia bisognerebbe quotarla in borsa come hanno fatto in Giappone. Visto che loro nel Pil ci mettono droga e prostituzione, io voglio che la mafia si quoti in borsa. E vuoi vedere che se investi guadagni anche? Vedrete i titoli di domani dei giornali: "Grillo a favore della mafia. Bisogna investire sulla mafia”. Il fenomeno mafioso secondo Grillo è cambiato nel tempo: “Il concetto di mafia è cambiato molto. Qui in Sicilia è rimasto poco: qualche pizzo, qualche sparatoria. Ma adesso la grande mafia è a fare i grandi lavori con i soldi dati dall’Unione europea destinati al mezzogiorno invece vengono usati da imprese e lavoro solo nel settentrione e nel centro Italia. Il leader M5s è tornato poi ad attaccare Giorgio Napolitano: “Avremmo vinto se non avessimo avuto questo presidente della Repubblica. Adesso hanno impedito a Riina e Bagarella di andarci vicino. Ma per proteggerli, perché dopo il 41 bis trovarsi un Napolitano bis…”.Non sono mancati gli attacchi politici alle parole di Grillo, dal presidente dell’Udc, Giampiero D’Alia fino al vicepresidente del Pd, Claudio Martini. “Le sue”, ha commentato D’Alia, “sono dichiarazioni deliranti che si commentano da sole. Ma non è che per caso sta chiedendo con modo antico i voti a Cosa Nostra?”. Duro anche Martini: “Basta offendere le istituzioni, Grillo vaneggia”. I 5 stelle invece, ribadiscono che il discorso del leader è stato manipolato: “Ancora una volta”, dice il capogruppo al Senato Alberto Airola, “la disinformazione di regime manipola un intervento di Beppe Grillo, storpiando il senso delle sue parole sulla mafia e sulla lotta alla mafia. Ancora una volta una pletora di ipocriti, politici e cortigiani, si straccia le vesti e simula indignazione. Dov’erano i professionisti dell’indignazione, così scandalizzati da una frase di Beppe Grillo che non hanno nemmeno capito, quando si abbassavano le pene per il reato di voto di scambio?”.

Dura le reazione del governatore Rosario Crocetta: “La mafia non ha mai avuto una condotta morale. Cosa nostra ha sterminato bambini anche nel passato e la novità degli intrecci con gli affari è solo una stupidità storica di chi non conosce la mafia. Invece di parlare della mafia Grillo torni a fare i suoi show. Non si avventuri su questo terreno. Quando uno parla della mafia con la disinvoltura con cui lo fa Grillo, dicendo che bisogna quotarla in borsa, questi affari se li vada a fare a Genova”. Sulle dichiarazioni del leader del Movimento 5 stelle si è espressa anche Rita Borsellino, sorella del giudice Paolo Borsellino ed ex europarlamentare: “Beppe Grillo dovrebbe stare un po’ più attento con le parole, sapendo che fa opinione e che le sue parole hanno un peso specifico nell’opinione pubblica. Gli chiedo di documentarsi meglio prima di sparare giudizi come battute da un palco. Non mi piace essere classificata come categoria io non sono solo sorella di una vittima di mafia ma una cittadina, una palermitana che ha vissuto quei terribili anni delle stragi. La sua battuta è dovuta all’ignoranza, nel senso di ignorare, alcuni fatti accaduti nella nostra terra”.  Un’opinione condivisa anche da Maria Falcone, sorella del giudice assassinato da Cosa Nostra nella strage di Capaci: “E’ un insulto a tutte le vittime di Cosa Nostra. Il signor Grillo mostra di non conoscere il significato della parola mafia. Tratta con leggerezza un argomento che ha creato tanto dolore e tanti morti, dimentica il sacrificio di Giovanni Falcone e delle altre vittime di Cosa nostra”.

A criticare Grillo anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi: “Chi afferma che la mafia ‘aveva una sua morale’ non ha mai capito cosa è la mafia. Cosa nostra ha sempre ammazzato vittime innocenti. Ricordo a Grillo che tra le vittime dei boss ci sono stati, tanti anni fa, anche sindacalisti. Uno su tutti, Placido Rizzotto. Sono affermazioni prive di ogni fondamento e di cultura del fenomeno….”. Così anche il procuratore facente funzione di Palermo Leonardo Agueci: “Le parole mafia e moralità sono un ossimoro, sono due concetti in radicale contrasto che non possono essere accostate. Su questo c’è davvero poco da aggiungere… Rimane il discorso che vale per tutti i politici cioè, che a combattere la mafia a parole e ad applicare patenti di mafiosità e antimafiosità sono tutti bravi, poi vanno messi alla prova. E vale pure per il M5S”.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta».

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

E' finita come doveva finire, visto che in appello perfino il procuratore Santamaria aveva chiesto l'assoluzione. Il tribunale, però, aveva deciso di arrivare a giudizio, condannando gli stilisti Stefano Dolce e Domenico Gabbana a un anno e sei mesi di reclusione per evasione fiscale. Condanna che oggi la Cassazione ha cancellato in via definitiva per che gli imputati "non hanno commesso il fatto". Insieme ai due stilisti è stato assolto anche il commercialista Luciano Patelli, scrive “Libero Quotidiano”. L'accusa di omessa dichiarazione dei redditi riguardava la società Gado, all'epoca dei fatti con sede in Lussemburgo, per gli anni 2004 e 2005. Secondo la tesi accusatoria della procura di Milano, la Gado sarebbe stata un caso di esterovestizione, basata in Lussemburgo solo per pagare meno tasse ma di fatto amministrata in Italia. La società era stata creata per la gestione dei marchi, tra cui Dolce&Gabbana, D&G Dolce e Gabbana, ceduti alla Gado dai due creatori di moda. La contestazione nei confronti della società - e degli imputati - era di non aver pagato tasse per un imponibile di 200 milioni di euro. In primo grado Dolce e Gabbana erano stati condannati a un anno e otto mesi ciascuno, con riduzione come detto di due mesi in appello. oggi l'assoluzione dopo oltre due anni di processo. Nel luglio 2013 il Comune di Milano aveva negato l'uso di uno spazio pubblico ai due stilisti perchè "evasori".

Prosciolti con la formula perché il fatto non sussiste Vito Gamberale, ex amministratore delegato di F2i; Mauro Maia, partner in F2i; e Vinod Sahai, il procuratore speciale di Srei Infrastructure Finance Ltd Behari, scrive “Il Corriere della Sera” il 24 ottobre 2014. Lo ha deciso il gup Anna Maria Zamagni davanti al quale si è tenuta l’udienza preliminare del procedimento per turbativa d’asta relativo alla vendita da parte del Comune nel dicembre 2011 del 29,75% della Sea a F2i. «La giustizia si è avverata in Italia, abbiamo sofferto per due anni e mezzo». Così l’ex ad di F2I, Vito Gamberale, ha commentato la sua assoluzione. «L’Italia non può tenere in piedi un giudizio di questo genere per due anni - ha spiegato - e oggi è venuto fuori che non c’era nulla, il vuoto torricelliano, e oggi rendiamo grazie alla giustizia italiana». Poi ha sferrato un attacco a Pisapia:«Il sindaco di Milano è un pover’uomo, con che faccia si è presentato come parte lesa... Milano merita altro».

L’origine dell’indagine. L’inchiesta sulla vendita della azioni Sea per cui si è tenuta l’udienza preliminare a Milano a carico del presidente del fondo F2i, Vito Gamberale e di altre due persone nasce dalla trasmissione, nell’ottobre del 2011 da parte della Procura di Firenze a Milano di un’intercettazione di tre mesi prima nella quale Gamberale parlava con il manager di F2i Mauro Maia (anche lui imputato nell’udienza preliminare). Pochi giorni dopo, Bruti mise quell’intercettazione in un fascicolo che assegnò al dipartimento reati economici guidato da Francesco Greco, che il 2 novembre lo affidò a un pm del suo pool, Eugenio Fusco. Il 6 dicembre 2011, Fusco segnalò a Bruti la necessità di trasmettere il fascicolo al dipartimento di Robledo, perché si poteva ipotizzare una turbativa d’asta. Bruti Liberati tre giorni dopo avvertì Robledo che gli avrebbe girato il fascicolo, ma alla fine gli assegnò l’indagine solo il 16 marzo 2012 e, dunque, con un ritardo di almeno tre mesi.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

Venerdì 24 ottobre 2014 si tiene a Taranto la conferenza prefettizia tra il Prefetto, Umberto Guidato, il dirigente dell’Ufficio ordine e Sicurezza Pubblica, sostituito dal capo di Gabinetto, Michele Lastella e le associazioni antimafia operanti sul territorio della provincia di Taranto. In quell’occasione è intervenuto il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, oltre che scrittore e sociologo storico, che da venti anni studia il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSapce.com e Google Libri.

Il dr Antonio Giangrande ebbe ad affermare che nuovi fenomeni si affacciavano nel mondo dell’illegalità: l’usura di Stato con Equitalia, l’usura bancaria e, per la crisi imperante, l’usura pretestuosa, ossia la denuncia di usura per non pagare i fornitori. E comunque la mafia segue il denaro, ed al sud denaro ne è rimasto ben poco.

Il prefetto ed il suo vice, in qualità di rappresentanti burocratici del sistema statale prontamente hanno contestato l’esistenza dell’illegalità para statale e para bancaria, mettendo in dubbio l’esistenza di indagini giudiziarie che hanno svelato il fenomeno.

Eppure La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: Un fenomeno odioso, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

A conferma di ciò mi sono imbattuto nel servizio di TeleJato di Partinico (Pa) del 21 ottobre 2014 che al minuto 31,32 il direttore Pino Maniaci spiega: «Ci occupiamo ancora una volta di beni sequestrati. Questa mattina una audizione al Consiglio Superiore della Magistratura, scusate in Commissione Nazionale Antimafia, alla presenza della Bindi, alcuni procuratori aggiunti e pubblici ministeri di Palermo stanno parlando di Italgas. Quelli di Italgas è tutto un satellite ed una miriade di altre società che ci girano intorno, dove dovranno spiegare come mai le misure di prevenzione di Palermo hanno deciso di mettere sotto amministrazione giudiziaria questa società a livello nazionale. Sapete perché? Perché un certo Modica De Mohac, già il nome è quanto dire, altosonante, ha venduto, mentre le società erano sottosequestro. Dovevano essere semplicemente essere amministrate e per legge non toccate. E per legge in un anno si deve redimere se quel bene va confiscato definitivamente o restituito ai legittimi proprietari. I Cavallotti di Belmonte Mezzagno, assolti con formula piena dall’accusa di mafia, da ben 16 anni hanno i beni sottoposti a sequestro. 16 anni!! Dottoressa Saguto, 16 anni!!! Il Tribunale può violare la legge? In questo caso, sì. E che cosa è successo? Le imprese, le ditte, i paesi che sono stati metanizzati dai Cavallotti, da Modica De Mohac, naturalmente sotto la giurisdizione delle misure di prevenzione della dottoressa Saguto, ha venduto questa metanizzazione, ha venduto queste società all’Italgas. E lì, dopo si è scoperto, che essendoci le società dei Cavallotti, guarda caso l’Italgas è infiltrata mafiosa. E cosa si fa? Si sequestra l’Italgas! Sono quei paradossi tutti nostri. Tutti siculi. Dove, sinceramente, chi amministra la giustizia, che commette queste illegalità la fa sempre da padrone e la fa sempre franca. Ma è possibile? In Sicilia sì!! Vediamo i particolari nel servizio. “Italgas alcuni mesi fa è stata sequestrata e messa sotto tutela, cioè affidata alle cure di amministratori giudiziari ed ispettori che entro 6 mesi dovrebbero verificare se nell’azienda ci sono o ci sono stati infiltrazioni mafiose. La Guardia di Finanza, non si sa se ispirata dal giudice che si occupa dell’ufficio di misure di prevenzione (sapete chi è? La solita dottoressa Saguto, ha trovato che alcuni pezzi di attività delle società erano stati rilevati presso le aziende Cavallotti di Belmonte Mezzagno che si occupavano di metanizzazione. Ma da qui 16 anni sono sotto sequestro. L’operazione di trasferimento degli impianti di metano dei vari comuni venduti in parte all’Italgas per un importo di 20 milioni di euro ed un’altra parte prima alla Coses srl, azienda posta sotto sequestro, amministrata dal Modica, tramite una partita di giro contabile avvenuto nel 2007 per un importo di 2 milioni di euro. Poi gli stessi impianti, dopo essere stati in possesso della Coses srl vengono rivenduti sempre alla Italgas per un importo di 5 milioni di euro. E dopo aver incassato la somma, la stessa Comest Srl, amministrata sempre dal Modica, provvede a trasferire i ricavati della vendita degli impianti di metano nelle società riconducibili ad esso stesso ed ai suoi familiari. Questa manovra è avvenuta semplice al Modica, in quanto alla Comest srl era ed è confiscata e definitivamente passata al demanio. Il Prefetto Caruso, quando era direttore dell’amministrazione dei beni sequestrati e confiscati, accortosi delle malefatte del Modica De Mohac, ha provveduto a sollevare il Modica da tutti i suoi incarichi per poi affidarli ad altri amministratori del tribunale di Palermo. E’ chiaro che l’operazione di vendita, come prescrive la legge, deve essere fatta con il consenso del giudice che ha nominato l’amministratore stesso e quindi la solita dottoressa Saguto dovrebbe essere al corrente di quanto oggi la Commissione Antimafia vorrebbe sapere, avendo convocato il procuratore aggiunto di Palermo Dino Petralia, il Pubblico Ministero Dario Scaletta ed il pubblico ministero Maurizio De Lucia. Non è chiaro quanto c’entrano  i magistrati in tutto questo e perché non ha interrogato il magistrato che invece c’entra. In Italia funziona proprio così. Per complicare quest’indagine è stata associata un’altra indagine che non c’entra con i fratelli Cavallotti e che riguarda una serie di aziende a suo tempo del tutto concorrenziali  con quelle degli stessi Cavallotti e che facevano capo a Ciancimino, al suo collaboratore prof. Lapis  ed ad un altro suo socio. Le notizie trasmesse dalla stampa lasciano credere invece che le aziende dei Cavallotti sono ed agiscono assieme a quelle di Ciancimino e che l’infiltrazione mafiosa che riguarda due cose diverse sia invece la medesima cosa. Staremo a vedere se passati 6 mesi di controllo e l’Italgas potrà tornare a distribuire il suo gas senza pagare di tasca sua il solito amministratore giudiziario e se l’attività persecutoria che si accanisce sui fratelli Cavallotti, assolti, ricordiamo, in via definitiva ma sempre sotto il mirino della solita dottoressa Saguto, possa continuare all’infinito per tutta la settima generazione. Per quanto riguarda l’audizione del giudice Scaletta, egli ha avuto in mano le indagini che riguardavano la discarica di Clin in Romania. Una parte della quale, la cui proprietà è stata attribuita a Ciancimino è amministrata dal solito re degli amministratori giudiziari, Cappellano Seminara, che è sotto processo per aver combinato alcuni imbrogli nel tentativo di impadronirsi di una parte di quella discarica. Ma fermiamoci. Il discorso è così complesso che siamo convinti che la Commissione Antimafia preferirà metterlo da parte e lasciare tutto come si trova  per non scoprire una tana di serpi o per non aprire il coperchio di una pentola dove c’è dentro lo schifo distillato. Per una volta non soltanto di distilleria Bertollini. (Parla la Bindi: La Commissione ha registrato un fallimento sui beni confiscati. Non è così. Non abbiamo registrato un fallimento perché i risultati sono stato ottenuti e non perché questa è la città dove metà dei beni sequestrati  della mafia sono in questa città e le misure di prevenzione e la gestione di questi beni che è stata fatta in questa città e di questa regione ha fatto scuola in tutta Italia.) Sono quei bordelli tutti siculi, sai perché? Ti trovi nella terra del Gattopardo: cambiare tutto per non cambiare un cazzo….»

Chiarificatrice è l’'inchiesta di Salvo Vitale del 31 marzo 2014 su “Antimafia 2000”.  Beni confiscati, così non funziona. E’ una storia che parte da lontano, cioè dal 1982, quando, quattro mesi dopo l’uccisione di Pio La Torre, venne approvata la legge Rognoni-La Torre, (in sigla RTL) che consentiva il sequestro e la confisca dei beni mafiosi. Aggredire i mafiosi nei loro patrimoni era l’obiettivo del nuovo strumento. Dopo  14 anni, a seguito della raccolta di un milione di firme, organizzata dall’associazione Libera, veniva approvata la legge 109/96 che disponeva l’uso sociale dei beni confiscati, una sorta di restituzione ai cittadini di ciò che era stato loro sottratto con la violenza e l’illegalità. Ultimo atto, nel 2011, l’approvazione della cosiddetta legge Alfano che dava o tentava di dare una sistemazione definitiva a tutte le norme sull’argomento e creava l’Agenzia Nazionale ai beni confiscati alla mafia, con sede a Reggio Calabria, che avrebbe dovuto occuparsi gestione dei beni attraverso l’iter dal sequestro alla confisca. Pur riconoscendo che esistono ancora grossi limiti, la legge è ritenuta una delle più avanzate al mondo ed è stata presa a modello per la recente approvazione della normativa europea. Quello dei beni giudiziari è un vero affare, se si tiene conto che il numero dei  beni confiscati è, ad oggi, di 12.946, cifra in continua evoluzione, di cui 1.708 aziende e che di questi, circa il 42,60%  pari a  5.515 è in Sicilia, particolarmente in provincia di Palermo (1870). Si tratta di un patrimonio da alcuni approssimativamente stimato in due miliardi di euro, ma La Repubblica (22 marzo 2012) parla di 22 miliardi di euro, il Giornale di Sicilia (6 febbraio 2014) di 30 miliardi, di cui l’80% nelle mani delle banche. Di queste aziende solo 35 sono in attivo e solo il 2% genera fatturati. E’ un immenso patrimonio comprendente supermercati, ristoranti, trattorie, residence, villaggi turistici, distributori di benzina, fabbriche, impianti minerari, fattorie, serre, allevamenti di polli, agriturismi, cantine, discoteche, gelaterie, società immobiliari, centri sportivi, pescherecci, stabilimenti balneari e anche castelli. Quasi tutti falliti. Molte le difficoltà di carattere finanziario, con i lavoratori da mettere in regola e il pagamento dei contributi arretrati ai dipendenti che i boss facevano lavorare a nero, Sopravvive solo qualche azienda, alle cui spalle c’è una grande struttura, come Libera, che può tornare a fatturare, ma, dice Franco La Torre, figlio di Pio, “finché si tratteranno le aziende di proprietà delle mafie come aziende normali, il meccanismo messo in moto dallo Stato non funzionerà mai”. Un fallimento totale di cui nessuno si dichiara responsabile.

Limiti. Quali sono i limiti? Innanzitutto i tempi molto lunghi che passano dal sequestro alla confisca. Poiché all’atto del sequestro il bene è “congelato”, in genere si  fa ricorso, da parte del tribunale competente, alla nomina di un amministratore giudiziario. E’ questo il primo punto debole: nella maggior parte dei casi si tratta di persone del tutto incompetenti, senza alcuna capacità manageriale, di titolari di studi commercialistici o di studi legali di cui spesso le Procure si servono per alcune indagini, e che sono in buoni rapporti con il magistrato incaricato di fare le nomine. L’incompetenza di queste persone ha portato al fallimento del 90% delle aziende sotto sequestro, alla rovina economica di parecchie famiglie che nelle aziende trovavano lavoro e alla crisi dell’indotto  che gira attorno all’azienda, anche perché, e questo è un altro limite, le aziende sotto sequestro possono  e devono riscuotere crediti, ma non possono saldare debiti se non al momento della sentenza che ne sancisca la definitiva sistemazione. La conclusione a cui si arriva facilmente e a cui arrivano le parti danneggiate è che con la mafia si lavorava, con l’antimafia c’è la rovina economica, ed il messaggio è devastante nei confronti di chi dovrebbe rappresentare lo Stato. La valutazione economica del bene confiscato è fatta da un apposito perito, nominato sempre dal tribunale, al quale spetta un compenso apri all’1% del valore del bene da valutare. Spetta al titolare o al proprietario del bene l’onere della prova sulla provenienza del bene, ovvero l’obbligo di dovere dimostrare che il bene è stato costruito, realizzato, gestito senza violazione della legge. Al giudice spetta invece dimostrare i reati di cui è accusata la persona penalmente sotto inchiesta.  In tal senso si dà alla magistratura un notevole potere e, molto spesso succede di trovare beni confiscati, senza che i proprietari abbiano  ancora riportato particolari condanne penali per associazione mafiosa, oppure altri beni sotto sequestro dopo che i loro titolari sono stati assolti, anche in via definitiva. Per non parlare di debiti e mutui accesi con le banche, che lo stato non si premura di rimborsare e che quindi finiscono co il lasciare il bene nelle mani delle banche stesse. La dichiarazione di fallimento e la messa in liquidazione dei beni confiscati è la strada più facile per gli amministratori, perché li esonera dall’obbligo della rendicontazione e consente loro di “svendere” mezzi, attrezzature, materiali, anche con fatturazioni non conformi al valore reale dei beni, girando spesso gli stessi beni ad aziende collaterali legate agli stessi amministratori giudiziari: per fare un esempio banale, Andrea Modìca da Moach, uno dei più grossi esperti in queste partite di giro a suo favore, degne di scatole cinesi, liquidatore della Comest dei fratelli Cavallotti, ha messo in vendita un camion con gru per 600 euro, girandolo alla ditta D’Arrigo di Borgetto, di cui è ugualmente amministratore, e quando i proprietari hanno denunciato l’imbroglio al giudice  per le misure di prevenzione, la cosa è stata sistemata facendo passare il tutto per una sorta di noleggio.

L’audizione di Caruso. Nell’audizione alla Commissione Antimafia, fatta il 18 gennaio 2012, il  prefetto Caruso, al quale è stata affidata la gestione dell’Agenzia dei beni confiscati alla mafia che ha sede a Reggio Calabria, dice: “Altre criticità riguardano la gestione degli amministratori giudiziari, per come si è svolta fino ad ora…., l’amministratore giudiziario tende, almeno fino ad ora, a una gestione conservativa del bene. Dal momento del sequestro  fino alla confisca definitiva – parliamo di diversi anni, anche dieci – l’azienda è decotta. Siccome compito dell’Agenzia è avere una gestione non solo conservativa, ma anche produttiva dell’azienda, abbiamo una difficoltà di gestione e una difficoltà relativa a professionalità e managerialità che, dal momento del sequestro, posso individuare e affiancare all’amministratore giudiziario designato dal giudice. In tal modo, quando dal sequestro si passerà alla confisca di primo grado, sarà possibile ottenere reddito da quella azienda….. Facendo una battuta, io ho detto che, fino ad ora, i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente. Ometto di dire quanto succede in terre di mafia quando l’azienda viene sequestrata, con clienti che revocano le commesse e con i costi di gestione che aumentano in maniera esponenziale. Ricollocare l’azienda in un circuito legale, infatti, significa spendere tanti soldi, perchè il mafioso sicuramente effettuava pagamenti in nero e, per avere servizi o commesse, usava metodi oltremodo sbrigativi, sicuramente non legali, e aveva la possibilità di fare cose che in una economia legale difficilmente si possono fare. Siamo in attesa dell’attuazione dell’albo degli amministratori giudiziari, nella speranza di avere finalmente persone qualificate professionalmente alle quali poter rivolgersi e di avere delle gestioni non più conservative ma produttive dell’azienda”.

Il decreto del 6 settembre 2011 n.159 ha, anzi aveva previsto l’istituzione di un albo pubblico degli amministratori, con l’individuazione delle competenze gestionali, l’indicazione del numero delle nomine assegnate e delle competenze in denaro incassate, ma questa norma, per quattro anni è stata accantonata, perché toglie di mano al giudice che dispone delle nomine, il notevole potere di agire a proprio arbitrio e consente che certi passaggi oggi secretati, restino solo a conoscenza o siano a disposizione del Presidente dell’Ufficio che dispone le misure di prevenzione  e del suo diretto superiore, il Presidente del tribunale, e non  diventino di pubblico dominio. Qualche corso di formazione per amministratori giudiziari è stato organizzato dall’Afag  a Milano, e un master a Palermo nel 2013, da parte del DEMS, ma tutto è sfumato nel nulla. Solo il 24.1.2014 è stato finalmente scritto il regolamento per la formazione dell’albo, il quale avrebbe dovuto  diventare diventare operativo dopo l’8 febbraio, ma ancora non se ne sa nulla, addirittura qualcuno dell’Antimafia Nazionale lo ha ritenuto inopportuno: questo regolamento se nasce, nasce monco, nel senso che non prevede alcuna norma sulle retribuzioni degli amministratori e non prevede l’indicazione degli incarichi affidati, i quali, per strane ragioni di privacy, rimangono secretati e nelle mani dei magistrati. Si sa che il numero degli amministratori giudiziari nominati dal tribunale è di circa 150, molti dei quali titolari di più incarichi, grazie a chi ne dispone la nomina. Proprio il prefetto Caruso qualche giorno fa ha messo il dito sulla piaga, disponendo la revoca di alcuni “amministratori” intoccabili: "Alcuni hanno ritenuto di poter disporre dei beni confiscati come "privati" su cui costruire i loro vitalizi. Non è normale che i tre quarti del patrimonio confiscati alla criminalità organizzata siano nelle mani di poche persone che li gestiscono spesso con discutibile efficienza e senza rispettare le disposizioni di legge. La rotazione nelle amministrazioni giudiziarie è prevista dalla legge così come la destinazione dei beni dovrebbe avvenire entro 90 giorni o al massimo 180 mentre ci sono patrimoni miliardari, come l'Immobiliare Strasburgo già del costruttore Vincenzo Piazza, con circa 500 beni da gestire, da 15 anni nelle mani dello stesso professionista che, per altro, prendeva al tempo stesso una parcella d'oro (7 milioni di euro) come amministratore giudiziario e 150 mila euro come presidente del consiglio di amministrazione. Vi pare normale che il controllore e il controllato siano la stessa persona?". Tutto ciò ha provocato le rimostranze del re degli amministratori Gaetano Seminara Cappellano, titolare di uno studio con 35 dipendenti,  detto “mister 56 incarichi”, amministratore di 31 aziende, tra cui proprio la Immobiliare di Via Strasburgo, della quale gli è stata revocata la delega. Il nuovo incarico è stato affidato al prof. universitario Andrea Gemma, del quale si è subito diffusa la falsa notizia che lavora nello studio della moglie di Alfano. Nuovi amministratori sono stati nominati al posto di Andrea Dara (Villa Santa Teresa Bagheria, un impero con 350 dipendenti e un fatturato annuo di 50 milioni di euro) e Luigi Turchio, amministratore dei beni di Pietro Lo Sicco: l’incarico per la liquidazione è stato affidato a all'avvocato Mario Bellavista che (come ha lui stesso obiettato) in un passato lontano è stato difensore di fiducia  di Lo Sicco per qualcosa in cui la mafia non c’entrava: per questo motivo, qualche giorno dopo Bellavista si è dimesso. Non devono essere piaciute al PD le dichiarazioni del prefetto Caruso il quale, tramite Rosy Bindi e su sollecitazione di qualche parlamentare siciliano, è stato convocato urgentemente per un’audizione alla Commissione Antimafia, con l’accusa, già frettolosamente evidenziata da Sonia Alfano, di mettere in cattiva luce l’operato dei magistrati che si occupano di Antimafia. Anche L’ANM, la potente associazione dei magistrati, si è schierata contro Caruso sostenendo che, invece di rilasciare dichiarazioni sull’operato dei magistrati delle misure di prevenzione,  avrebbe dovuto rivolgersi ai magistrati stessi, i quali così avrebbero potuto e dovuto giudicare se stessi. In tempi del genere, potrebbe sembrare che parlare del cattivo operato di alcuni magistrati, sia come fare un favore a Berlusconi che sui magistrati ha sempre detto peste e corna. Questo “fare muro” attorno ai magistrati palermitani, anche quelli che hanno gestito i loro uffici e i loro compiti come una personale bottega, con scelte e preferenze opinabili, finisce con l’avallare la cattiva gestione del settore, coperto, come si vede, da protezioni che stanno molto in alto. Qualche illuminato politico ha dichiarato addirittura che “parlare male dei magistrati significa fare un favore alla mafia”.   Caruso si è difeso sostenendo di non avere a disposizione né uomini, né mezzi, né strumenti legali per affrontare con successo l’intero argomento dei beni confiscati: ma tira voce che, se non si dà una regolata, potrebbe anche perdere il posto: “ In tal senso la Commissione Antimafia è stata  a Palermo il 17, 18. 19 febbraio, per godere di qualche giornata di sole e lasciare le cose come stanno rimuovendo quel rompiscatole di Caruso. Ciò che emerge, ha detto la Bindi, è che l’Agenzia ai beni confiscati dovrà subire alcuni interventi”. E, per quanto si può supporre, non si tratterà di interventi migliorativi, ma punitivi. Interessante una lettera che l’avv. Bellavista ha inviato a Rosy Bindi, nella quale sostiene  che “concentrando l’attenzione sulla mia posizione si sia tentato di sviare la Sua attenzione dall’opera meritoria del Prefetto Caruso che sta scoperchiando pentole mai aperte….  Mi meraviglia come Lei, invece di insistere sul nome Bellavista, non abbia chiesto quale magistrato ha autorizzato alcuni Amministratori a ricoprire 60 o 70 incarichi. Quale magistrato abbia autorizzato pagamenti di parcelle per milioni di euro. (Le faccio presente che una legge della Regione Siciliana, limita i compensi per gli amministratori pubblici a 30000 euro lordi per i presidenti dei cda.), se vi siano familiari di magistrati o di amministratori che hanno ricoperto o ricoprono cariche o incarichi all’interno delle amministrazioni giudiziarie. Se qualche amministratore giudiziario si trovi in conflitto di interessi attuale e non di 14 anni fa. Il Prefetto Caruso  la mafia ha combattuto sulla strada e non da una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza. Onorevole Presidente, credo che molto più del Dott. Caruso, sia certa magistratura a delegittimare se stessa, quando per difendere le proprie posizioni alza un muro e persiste in comportamenti che rischiano di apparire illegittimi. Sono certo che la Sua intelligenza non cadrà nella trappola del depistaggio già usata durante i tempi bui della prima Repubblica della quale Lei è stata una Autorevole Protagonista”. Nessun dubbio su colui cui fa riferimento Bellavista.
In appoggio all’operato di Caruso si è schierata la CGIL, ma anche il sindacato di polizia Siulp, mentre Equitalia, che dovrebbe essere depositaria di un fondo di due miliardi provenienti dai beni di proprietà dei mafiosi, mostra qualche difficoltà a documentare e a restituire quello di cui dovrebbe essere in possesso. Da parte sua il prefetto Caruso ha detto: “Io lavoro da 40 anni con i giudici e nessuno mi può accusare di delegittimarli. Ho solo detto quello che non va nel sistema”.

Proposte. Da quando nel 2011 è stato approvato il Codice Antimafia, diverse sono state le proposte di modifica, in particolare per la parte che riguarda la gestione patrimoniale. Ultima in ordine di tempo, ma sicuramente la più complessa e strutturata, viene da una  Commissione , istituita nel 2013 dal governo Letta, per studiare il problema dell'aggressione ai patrimoni della criminalità organizzata e presieduta dal Segretario Generale della Presidenza del Consiglio Garofoli, che già si era occupato del tema della corruzione. Nel gennaio 2014 la Commissione, con la partecipazione, fra gli altri, dei magistrati Gratteri, Cantone e Rosi, presenta una relazione di 183 pagine in cui si evidenziano le principali criticità in tema di gestione dei beni e si propongono possibili soluzioni e innovazioni legislative, dall'ampliamento del ruolo e della dotazione di uomini e mezzi dell'Agenzia, all'affiancamento di figure manageriali per la gestione delle aziende, dall'anticipo della verifica dei crediti alla regolamentazione degli amministratori giudiziari. Particolare attenzione nella relazione Garofoli trovano le proposte della CGIL, che si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, ribattezzata "Io riattivo il lavoro", sostenuta a loro volta da Libera, ARCI e Avviso Pubblico. Al centro delle modifiche portate avanti dal sindacato ci sono proprio le aziende ed in particolare la tutela dei lavoratori e dei livelli di occupazione. "Due i punti di forza imprescindibili" dice Luciano Silvestri, responsabile Sviluppo e Legalità CGIL "il primo è la creazione dei tavoli di coordinamento presso le prefetture, che dovrebbero coinvolgere parti sociali, istituzioni e società civile nel monitoraggio e nella gestione delle aziende fin dalla fase del sequestro; il secondo è il fondo di rotazione, da finanziare con i soldi (tanti) del Fondo Unico Giustizia e con cui finanziare la fase di "legalizzazione" delle aziende poste in amministrazione statale. Dopo aver raccolto migliaia di firme, la proposta del sindacato è giunta in Commissione Giustizia alla Camera con relatore Davide Mattiello, deputato PD con un lungo trascorso di militanza antimafia. Chissà se e come i due percorsi riusciranno ad incontrarsi!. Il governo, tra i suoi tanti annunci di principio,  ha comunicato che trasformerà in decreti legge molti dei suggerimenti della Commissione Garofoli e che lo farà in tempi brevi. Nel dibattito si inserisce anche Confindustria, in particolare la sezione siciliana, che sta mettendo mano ad alcune autonome proposte, stranamente assonanti con quelle dell'on. Lumia. Per ora nulla è troppo chiaro perché, dicono i responsabili: "Ci stiamo lavorando", ma da uno studio elaborato nel 2012 dall'Università di Palermo e da alcune dichiarazioni più recenti dei rappresentanti degli imprenditori, oltre che di alcuni magistrati applicati alle misure di prevenzione di Palermo e Caltanissetta, a loro notoriamente vicini, si deduce che le aree di principale interesse saranno tre: l'inserimento di figure manageriali all'interno delle procure, la riduzione del ruolo dell'Agenzia per i beni confiscati alla sola fase della confisca definitiva e la verifica dei crediti: c'è chi spinge per anticiparla ad inizio sequestro e chi invece vorrebbe procrastinarla addirittura alla confisca definitiva, complicando ulteriormente la vita a chi onestamente vanta crediti nei confronti di aziende sotto sequestro e che in conseguenza di amplissimi buchi creati da queste fatture non pagate rischia il fallimento. A prima vista sembra si tratti del tentativo, degli industriali siciliani, di mettere le mani su quel che resta dell’economia siciliana per operare l’ennesima rapina: non si vuole dire no al tribunale nel privarlo della nomina del suo amministratore e si istituisce un’altra figura con un altro stipendio: nessuna attenzione e nessuna garanzia è prevista per i posti di lavoro dell’azienda. Fra l’altro, da quando Ivan Lo Bello, già presidente di Confindustria Sicilia ha proposto l’espulsione degli imprenditori che pagano il pizzo, tutti gli industriali siciliani fanno professione di antimafia e trovano magari qualcuno da denunciare come estorsore, tanto per farsi una verginità e lavorare, oltre che col consenso di Cosa Nostra, anche con la protezione dello stato. Non è detto  che l’asino uscito dalla porta non rientri dalla finestra, nel senso che non si trovino all’interno delle Associazioni o degli enti destinatari quelle presenze mafiose di cui ci si voleva liberare. Un problema centrale è comunque quello di garantire il posto di lavoro e tutelare i dipendenti che, quasi sempre, si ritrovano nella rovina economica. Alla Commissione Antimafia la redazione di Telejato, dopo avere sentito diverse associazioni antimafia, ha avanzato le seguenti proposte:

-Consentire l’immediato pagamento dei creditori dell’azienda sin dal momento della confisca, per evitare di causare il fallimento di aziende fornitrici legate all’indotto su cui l’azienda confiscata opera;

- Legare il momento della confisca a quello dell’iter giudiziario, nel senso che non  si può procedere alla confisca di un bene se non è dimostrata, almeno nel primo grado di giudizio, la sua provenienza mafiosa;

- Non consentire più di un incarico agli amministratori giudiziari;

- Svincolare l’arbitrio della nomina dalle competenze nelle mani di un solo magistrato e allargarne la facoltà a tutti i magistrati del pool antimafia;

- Individuare e colpire l’eventuale responsabilità penale dell’amministratore giudiziario obbligandolo a presentare annualmente i bilanci, revocandogli l’incarico nel caso di gestione passiva non motivata adeguatamente e obbligandolo a risarcire i danni nel caso di amministrazione fraudolenta;

- Risarcimento, da parte dello stato, dei danni provocati da cattiva amministrazione giudiziaria, nel caso di totale proscioglimento delle accuse e non reiterazione del provvedimento di confisca, come si è recentemente verificato;

- immediata esecuzione, che non vada oltre un mese,  del provvedimento giudiziario di conferma o dissequestro della confisca. I casi scandalosi di rinvii, spesso di vari mesi, se non di anni, causati da  ritardi, da momentanei malesseri e  da altre scuse prodotte dal magistrato incaricato delle misure di prevenzione non possono essere giustificabili, anche perché l’azienda sotto confisca corre il rischio di perdere il suo giro di affari o di essere messa in liquidazione da amministratori giudiziari che girano attrezzature e macchinari, svenduti a prezzi irrisori ad altre aziende sotto il loro controllo;

-Possibilità di revoca, su eventuale richiesta motivata, dell’incarico di amministratore giudiziario da parte di un magistrato inquirente diverso da quello che ne ha fatto la nomina e che è solitamente il giudice addetto alle misure di prevenzione.

Come si può notare, la richiesta più importante è quella di  distribuire l’immenso potere di cui dispone il singolo magistrato addetto alle misure di prevenzione, nell’amministrazione di un impero di 40 miliardi di euro, utilizzando le competenze anche di altri magistrati, al fine di non strozzare ulteriormente, sino ad arrivare al collasso, la debole economia siciliana, nella quale, il settore dei beni confiscati, salvo pochissimi casi, ha accumulato fallimenti, gestioni poco trasparenti e disperazione da parte di lavoratori trovatisi sul lastrico.  L’affidamento della gestione dei beni  ai rampolli di una Confindustria apparentemente verniciata di antimafia, non è la soluzione del problema, ma sarebbe necessario, come già in qualche altra regione, organizzare  corsi di formazione fatti da gente qualificata e che non siano occasione, come al solito, di distribuire il finanziamento del corso ai soliti “amici” e rilasciare l’attestato a tutti, senza accertare l’acquisizione di competenze.

La “Latticini Provenzano”. Si tratta di un caseificio con  sede a Giardinello, un paese di circa mille abitanti, recentemente assurto alle cronache per la cattura di Sandro e Salvatore Lo Piccolo. Ali inizi del 2000 , grazie ai fondi europei previsti dai Patti territoriali, l’azienda venne ristrutturata e adeguata  alle norme, diventando un moderno caseificio dove lavoravano una trentina di famiglie, assieme a un indotto di pastori e vaccari che fornivano il latte. Il rimborso di questi fondi avviene  dopo che il proprietario li ha anticipati ed è in grado di documentare i lavori eseguiti. La lentezza di questi rimborsi crea notevoli difficoltà economiche al titolare del caseificio, il quale si rivolge a Giuseppe Grigoli, un imprenditore di Castelvetrano, non ancora indagato, ma già conosciuto come il re dei supermercati Despar, e che si scoprirà come prestanome di Matteo Messina Denaro.  Grigoli chiede un aumento  del capitale, chiede di assumere il controllo del 51% dell’azienda per accedere a un megamutuo del Monte dei Paschi di Siena, mutuo che viene bloccato quando Grigoli è arrestato, nel 2006. In questo momento l’azienda conta su 52 dipendenti, di cui 13 vengono licenziati. In un ultimo disperato tentativo Provenzano offre la sua quota allo stato, detentore della parte confiscata,  per ottenere il prestito, ma ci perde anche quella.  Il caseificio, che, in questa vicenda con la mafia c’entrava solo di striscio, come poi confermato dagli sviluppi giudiziari,  viene confiscato e affidato a un curatore giudiziario di nome Ribolla, il quale, nella sua somma incompetenza, nel 2012 lo porta al fallimento con una situazione debitoria di 28 milioni di euro.  E’ un chiaro esempio di come un’industria di eccellenza può essere condotta sul lastrico e di come i restanti 39 operai, che, pur di mandare avanti l’azienda, sino al gennaio 2012 hanno lavorato senza  stipendio, rimangono disoccupati. Con Grigoli contava 52 dipendenti. Nel 2006, con il sequestro, 13 dipendenti vengono licenziati. La chiusura, lo scorso maggio, lascia fuori i restanti 39.  Al momento della chiusura la sua esposizione debitoria era di 28 milioni di euro.   

Il porto di Palermo. La vicenda riguarda 350 lavoratori facenti parte della “Newport”, società che gestisce i lavori portuali. Nel 2010 la DIA inoltra un’informativa al prefetto di Palermo, nella quale sostiene che tra questi lavoratori ci sono quattro mafiosi e 20 parenti di mafiosi, in gran parte facenti parte del clan di Buccafusca, capomafia di Porta Nuova. Si dispone il sequestro preventivo e viene nominato come amministratore giudiziario il titolare dello studio legale “Seminara-Cappellano”, il quale dispone la sospensione cautelare per 24 lavoratori, i quali, sino al giugno 2013, data in cui interviene la dott.ssa Saguto, cioè la responsabile della nomina di Seminara,  sono pagati senza far niente. La vicenda è molto più ingarbugliata di quanto non appaia, in quanto gli operai sono titolari di una quota societaria, ma il dissequestro sarà possibile quando potranno dimostrare di essere esenti da infiltrazioni mafiose. Cioè non si sa quando. Presidente dell’Autorità portuale è stato un uomo dell’on. Lumia, tal Nino Bevilacqua, che attualmente è stato sostituito da un uomo di Schifani, tal Cannatella.

La MEDI-TOUR. E’ un caso più complesso. Si tratta di una cava di pietrisco, in territorio di Montelepre, già di proprietà di Giacomo Impastato, detto “u Sinnacheddu”, fratello di Luigi, il padre di Peppino Impastato. Da lui è passata al figlio Luigi, ucciso a Cinisi il 23 settembre 1981, nel corso della guerra tra i seguaci di Badalamenti e i Corleonesi. La gestione effettiva della cava è stata portata avanti dall’altro figlio Andrea, al quale il 22 febbraio 2008 vengono confiscati beni per 150 milioni di euro riconducibili a Bernardo Provenzano e a Salvatore Lo Piccolo, dei quali Andrea è un prestanome, grazie agli intrallazzi del suo compaesano Pino Lipari, vero ministro dei lavori pubblici di Provenzano, la cui moglie Marianna Impastato ha qualche vincolo di parentela con Andrea. Il provvedimento prevede,  innumerevoli immobili e appezzamenti di terreno da Carini a San Vito Lo Capo, il Mercatone Uno di Carini, anche il sequestro di cinque aziende, tutte del mondo dell’edilizia, la più grossa delle quali è la Medi.tour, che si occupa della gestione della cava di Montelepre. Amministratore giudiziario di tutto viene nominato uno dei pupilli della dott.ssa Saguto, la regina della sezione “misure di prevenzione”, un commercialista di nome Benanti, titolare di uno studio a Palermo e, per quel che se ne sa, in ottimi rapporti con un altro curatore giudiziario molto a cuore alla Procura di Trapani, un certo Sanfilippo. Benanti ha avuto occasione di dimostrare di avere buone conoscenze quando, ottenuta l’amministrazione dei beni di un altro costruttore, Francesco Sbeglia, di Palermo, nel 2010, al Centro Excelsior (Hotel Astoria) mandò, a un incontro con alcuni imprenditori che volevano collaborare alla gestione dei beni, lo stesso Sbeglia. In tal caso, grazie alla protesta dei tre imprenditori, gli venne revocato l’incarico, ma solo quello, in quanto non gli venne meno la fiducia della dott.ssa Saguto. Pare che gli siano affidati una ventina di incarichi, si dice che abbia dilapidato  una cifra altissima degli introiti del supermercato Mercatone, ma il suo nome non è venuto fuori nemmeno nelle polemiche seguite alle dichiarazioni del prefetto Caruso. Torniamo alla Medi.tour.  Andrea Impastato , del quale si vocifera, senza conferme, di una diretta collaborazione con la giustizia,tant’è che nell’ultimo recente processo gli è stata dimezzata la pena,  ha quattro figli, due dei quali, Luigi e Giacomo,  dipendenti della cava. Nel 2011, su decisione del tribunale vengono licenziati, ma i due fratelli non si perdono d’animo e creano una nuova società, la Icocem, con sede a Carini, riconquistando, a poco a poco, buona parte del mercato che si riforniva nella loro ex cava. Riescono anche a “rifarsi” una verginità denunciando al magistrato diversi tentativi di richiesta del pizzo e iniziando una fitta collaborazione. Da parte sua Benanti, che si presenta una volta ogni tanto alla cava di cui è amministratore, con il macchinone e in dolce compagnia, in una sua relazione accusa gli Impastato, diventati suoi diretti concorrenti,  di  associazione mafiosa.  Con strana sollecitudine il tribunale  dispone  il sequestro della Icocem, la dott.ssa Saguto ne affida l’amministrazione, indovinate un po’, al solito Benanti, il quale mette in liquidazione la società che è chiamato ad amministrare e che  si trova a soli cento metri dalla cava. Nel frattempo vengono licenziati i 20 operai che lavorano nella cava, e alcuni sono assunti “ a tempo”, secondo le richieste di materiale: qualcuno di essi è disposto a dichiarare che Benanti avrebbe disposto l’interramento di rifiuti tossici all’interno della cava, facendo poi riempire il tutto con terra e piantumare con stelle di natale: al giardiniere sarebbero stati pagati 18.000 euro. Gli Impastato presentano ricorso, con una loro relazione, nella quale è dimostrata la tracciabilità e la regolarità di tutte le operazioni che hanno condotto alla creazione della loro società, ma l’udienza, che avrebbe dovuto svolgersi ad  ottobre, per indisposizione, di chi, indovinate un po’, della dott.ssa Saguto, è rinviata al 6 febbraio 2013, dopodichè c’è stato un ulteriore rinvio a maggio Quello che più stupisce è la presenza, all’interno della cava, di Benny Valenza, pluripregiudicato e mafioso di Borgetto, da sempre occupatosi di forniture di calcestruzzo, con un pizzo da 2 euro a metro quadrato, da distribuire agli altri mafiosi della zona: gli sono stati sequestrati alcuni beni, è stato condannato per aver fornito cemento depotenziato per la costruzione del porto di Balestrate e per altri reati affini, ma, tornato a piede libero, ha ripreso la sua abituale attività: da qualche tempo agisce come dipendente di un’impresa di legname, allargatasi ultimamente nel campo dell’edilizia, della quale è titolare un certo Simone Cucinella: la ditta il 24.1 ha preso misteriosamente fuoco.  L’intraprendente Valenza  ha installato, naturalmente attraverso meccanismi apparentemente legali, un deposito di materiali da costruzione in un posto collocato tra la cava e il deposito adesso chiuso degli Impastato: non si sa se la collaborazione con Benanti, all’interno della cava, si estenda anche a questa nuova struttura.

La COMEST e l’affare del metano. Quella dei fratelli Cavallotti di Belmonte Mezzagno è una storia allucinante. Sono cinque fratelli che, negli anni ‘90 cominciano a lavorare per alcune  aziende legate al nascente affare della metanizzazione in Sicilia. C’è in ballo un fiume di miliardi in arrivo, si parla di 400 miliardi delle vecchie lire, specialmente da parte della Comunità Europea, che li affida alla Regione. Decidono di mettersi in proprio, ognuno con una propria azienda relativa a uno specifico settore. E’ tutto in ordine, partecipano ai bandi della Regione, hanno i requisiti richiesti, cominciano ad aggiudicarsi numerosi appalti e concessioni per  metanizzare molti comuni,con il sistema del project financing, ovvero offrono ai comuni la costruzione degli impianti di metano, con fondi propri ,con la clausola del possesso di una gestione trentennale, per poi lasciare tutto all’Ente Committente, cioè ai comuni stessi.  Sul mercato c’è già  l’Azienda Gas spa, nata per iniziativa di un impiegato regionale, di nome Brancato, il quale , decide di potenziare la società, e chiede i soldi a Vito Ciancimino, allora all’apice della carriera politica.  Ciancimino si serve di un suo commercialista, Lapis, legato ai più discussi politici siciliani, da Cintola a Vizzini: viene stipulato, alla presenza, a Mezzoiuso, dell’allora Presidente della Commissione Antimafia Lumia, un protocollo di legalità  che apre le porte alla Gas spa e al terzetto  Ciancimino-Lapis-Brancato, perchè con questo patto di legalità vengono assegnati ai mafiosi  direttamente gli appalti  senza alcuna celebrazione di gara: unico ostacolo la Comest che già ha ottenuto numerose concessioni in numerosi comuni Siciliani,  e le altre aziende dei fratelli Cavallotti, ma si fa presto a metterli fuori gioco. Belmonte è la patria di Benedetto Spera, uno dei più temuti mafiosi legati a Bernardo Provenzano: attraverso il collaboratore di giustizia Ilardo, infiltrato appositamente, viene trovato un “pizzino” nel quale, con riferimento a un appalto ottenuto ad Agira,  è scritto: “Cavallotti due milioni”. Ci vuol poco a incriminare i Cavallotti, che, come tanti, pagavano il pizzo, con l’accusa di associazione mafiosa e di turbativa d’asta, e a  disporre il sequestro di tutti i loro beni. Siamo nel 1998, allorchè Vito Cavallotti viene arrestato per reati legati al 416 bis, da cui, nel 2001 viene assolto e scarcerato “perché i fatti non sussistono”. Dopo di che nel 2002 la Corte d’Appello  ribalta la sentenza con una condanna e, dopo una serie di vicende processuali, nel 2011 Vito Cavallotti è assolto definitivamente e prosciolto da ogni accusa: di conseguenza i fratelli non sono ritenuti vicini ad esponenti mafiosi di alcun tipo. Qualche mese dopo, nei confronti dei tre fratelli scattano altre misure di prevenzione personale e patrimoniale, sino ad arrivare al 22.10.2013, allorchè il PG Cristofaro Florestano propone il dissequestro dei beni e la sospensione delle misure di prevenzione , motivando, dopo un attenta lettura della documentazione processuale che i tre fratelli  sono stati vittime della mafia, e adducendo, a conferma dell’assoluzione perchè il fatto non sussiste nel procedimento penale, anche le numerose denunce degli attentanti subiti nei cantieri e ai mezzi, nel corso dell’ attività imprenditoriale:  ad oggi le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. All’atto della prima denuncia viene nominato come amministratore giudiziario, da parte del Tribunale di Palermo, un  Andrea Modìca de Moach, il quale già dispone di altre nomine da parte del tribunale , oltre che essere il terminale di altre aziende, tipo la TO-SA, di cui si serve per complesse partite di giro, sino ad arrivare all’Enel gas. Si tratta di un personaggio legato ad altri fratelli, uno dei quali titolare a Palermo, di uno studio di commercialista, un altro magistrato a Roma e un altro alto dirigente del ministero di Giustizia. L’ammontare dei beni confiscati è di circa 30 milioni di euro , ma ben più alto è il valore di quello che i Cavallotti avrebbero potuto incassare nei lavori di metanizzazione dei comuni. L’azienda non è stata ancora dissequestrata, malgrado siano passati  quasi tre anni, anzi, nel  dicembre 2013 estrema beffa, viene disposto un nuovo sequestro ad un’azienda creata dai figli, nel tentativo di risollevare la testa, la Euroimpianti plus, e l’amministrazione giudiziaria, revocata al Modìca, viene affidata a un avvocato, un certo Aiello, che si rifiuta di far lavorare in qualsiasi modo, i figli titolari, la cui sola colpa è di essere figli di persone che sono state  indagate, condannate e poi prosciolti dall’accusa di  associazione mafiosa. Gli ultimi sequestri riguardano  un complesso di aziende edili, e pure una parafarmacia già chiusa dal 2013: l’accusa è quella della riconducibilità delle aziende ai fratelli Cavallotti, come al solito, accusati di essere vicini ai mafiosi Benedetto Spera e Bernardo Provenzano, malgrado la definitiva assoluzione dalle accuse e la scomparsa, da tempo, dalla scena,  dei mafiosi citati. La prima seduta svoltasi il 30.1.2014 è stata rinviata nientemeno che al 22.5 per “ ritardo di notifica”. Tutto ciò malgrado la proclamata innocenza dei Cavallotti.  Per non parlare della rovina nella quale si sono trovate circa 300 famiglie che ruotavano attorno alle aziende. Rimane ancora senza risposta la domanda di questa gente: perché questo accanimento? E il motivo è forse da ricercare nell’ingente somma che il tribunale dovrebbe pagare per risarcire queste imprese che sono state smantellate da amministratori giudiziari voraci e spregiudicati e che lascia ampio spazio al sospetto che le confische, in attesa della sentenza d’appello della  Cassazione, diverranno definitive e tutto sarà cancellato con un colpo di penna.

E il caso di aggiungere a questa storia alcuni particolari:

Nel 1998 al  gruppo Cavallotti sono confiscate le aziende

- Comest  spa  (valore 50 milioni),

- Icotel  spa (valore 10 milioni), Imet srl (valore 10 milioni),

- Cei srl  (valore 2 milioni),

- Coip srl (valore 10 milioni:

nel 2012 di tutto ciò rimane solo un valore di 20 milioni per la Comest, mentre è o diventa  zero il valore delle altre aziende, anche di quelle ad esse collegate, come la Calcestruzzi Santa Rita, che aveva un valore di partenza di 5 miloni di euro e i gruppi Edil Forestale e D’Arrigo, che, per alcuni aspetti, sono soci in affari con il Modìca.
Il Modìca già nel 2009 è stato denunciato per truffa alla Guardia di Finanza di Palermo, ma della denuncia non s’è saputo più nulla. Intorno a lui e a suo fratello ruotano:

- la Advisor Services  For Bisness  srl, che agisce in stretto contatto con la Mac Consulting srl, di cui è legale rappresentante tal Fabio Uccello,

- la Lamb & Souce Real Estate srl, la Integre Sicilia, azienda oggi in liquidazione,  di cui sono soci la Advisor Service, Kodaleva Sonia, , moglie di Emanuele Migliore, socio di Modìca e Di Fiore Giuseppe, avvocato di fiducia di Modica.

- la CS immobiliare srl., del fratello Marco,

- la Immobiliare Il Borghetto srl.,

- la Gam Immobiliare, che fa da tramite per complesse partite di giro,con le aziende confiscate dei D’Arrigo di Borgetto e della Edil Forestale,

- la Servizi e Progetti srl, il cui legale rappresentante è Roberta Ponte, moglie di Andrea Modica,

- la Cogetec srl, azienda costituita per gestire i subappalti del gruppo Cavallotti, di cui risulta amministratore unico un certo Vincenzo Parisi.

Strettamente collegate alla Comest e alle aziende del Modìca  le vicende della TOSA costruzioni srl, azienda confiscata che acquista per due milioni di euro il ramo aziendale della Comest, mediante un rilevamento virtuale di debiti creati tramite fatture e parcelle: la Tosa vende i suoi debiti o i suoi presunti crediti alla Italgas per 22 milioni di euro ottenendo 5 posti di lavoro per compiacenti  amici del Modìca pronti a prestarsi alle sue manovre speculative. Dalla TOSA, sotto forma di anticipo escono i fondi per alcuni lavori, anche personali, effettuati a Baida, a Cinisi, a Marsala. Oggi la TOSA è stata restituita al demanio dello stato come una scatola vuota, senza una lira e senza che nessuno abbia pagato per la sua  dissoluzione. Di tutto l’impero della Comest è invece rimasto un giro di 700 mila euro di utile grazie alla gestione del metano nei comuni di Monreale, Altavilla Milicia, Santa Cristina Gela e Piana degli Albanesi. Nel 2012 il prefetto Caruso ha revocato a Modìca gli incarichi.

La AEDILIA VENUSTA. (ovvero, come l’Acqua santa può diventare acqua diabolica).  A Palermo, in via Comandante Simone Gulì n.43 presso la borgata Acquasanta si trova, anzi c’era una villa palermitana del 1700, ma dove si potevano notare  visibili tracce di una sua preesistenza  risalente  al 1.500, o addirittura al medioevo: qualche storico ha parlato addirittura  di reperti di origine etrusca. La villa si affacciava sul porticciolo e aveva tutte le finestre con vista sul mare. L’originaria proprietà fu della nobile famiglia dei Gravina, di origine normanna. Gli esponenti del  ramo siciliano dei Gravina, che presero il nome da quello di un feudo pugliese da cui provenivano, parteciparono alla prima crociata, ebbero diritto di essere seppelliti nel pantheon reale, furono Grandi di Spagna, possedevano 9 principati, 5 ducati, 7 marchesati, 3 contee ed oltre 24 baronie. Dentro  l’attuale edificio scorreva una sorgente di acqua minerale, sulfurea e purgativa, contenente sali alcalini, quali solfato di calcio e magnesio, e cloruro di calcio, sodio e magnesio, considerata miracolosa per i suoi benefici. Di lì il nome di “Acqua santa” dato a tutta la borgata . Attualmente l’acqua è stata incanalata in condutture che sfociano a mare. Da una ricerca pubblicata da Claudio Perna e curata dall’Associazione culturale “I Luoghi della Sorgente” apprendiamo che “la sorgente acquifera era situata in una grotta, un piccolo ambiente ipogeico, che un tempo fu santuario pagano, poi piccola cappella conosciuta come Palermo a S. Margherita di fora, dedicata a Santa Margherita, protettrice dai mostri marini, e infine intitolata alla Madonna della Grazie, come attesta il Mongitore che riferisce di un affresco raffigurante la Vergine, risalente al tempo dei Saraceni e rinvenuto nel 1022. Nel 1774 la grotta e i terreni furono concessi al Barone Mariano Lanterna, che acquistò dai benedettini del Monastero di S. Martino delle Scale il terreno circostante la grotta dell’Acquasanta e vi costruì una  tipica casina settecentesca di modeste dimensioni con un semplice impianto su due elevazioni: alcune sale interne mantengono gradevoli decorazioni a fresco tardo-settecentesche. Apprendiamo dalla stessa fonte che nel 1871 i fratelli sacerdoti Pandolfo acquistarono la villa e  fecero uno stabilimento per bagni e cure idroterapiche, che sfruttava le proprietà terapeutiche della sorgente di acqua minerale poco distante per la cura di malattie metaboliche. Nello  stabilimento  si potevano fare dei bagni  alla temperatura naturale dell’acqua di 18°-19° , ma grazie al processo di riscaldamento  anche i bagni caldi, a 25°-36°, e caldissimi fino a 42°. Successivamente i due sacerdoti decisero di commercializzare l’acqua che poteva anche essere bevuta, con 50 cent alla bottiglia. C’era anche la possibilità di fare delle docce che esercitavano la loro azione meccanica su un punto preciso del corpo con getti  d’acqua ascendenti, dal basso verso l’alto, discendenti, dal basso verso l’alto, e laterali in orizzontale. Lo stabilimento aveva in un edificio camerini da bagno distinti in familiari e singolari e nell’altro la macchina a vapore per il riscaldamento dell’acqua, le sale da soggiorno e da pranzo e gli ambienti di servizio. Tale istituto, accresciutosi nel 1892, fu attivo però per poche decine di anni. La struttura dei Bagni Minerali situati nella grotta e nei locali di Villa Lanterna era costituita da due edifici su tre piani collegati da una terrazza, tuttora è ancora visibile l’iscrizione “Fratelli Sacerdoti Pandolfo”, sormontata da un timpano con acroterio. Gli ambienti interni rispettavano l’originaria suddivisione e sul fianco sinistro del prospetto si trovava l’ingresso al mare preceduto da due piloncini, trasformato in abitazione. Le analisi dell’acqua hanno riscontrato proprietà analoghe a quelle della fonte Tamerici di Montecatini Terme. La fonte aveva una portata di 15 litri al secondo e consentiva di effettuare mille bagni al giorno, con continuo ricambio delle acque. Nel 1993 venne effettuato un sopralluogo dai vigili urbani e dalla sovrintendenza e si accertò che la sorgente era ancora utilizzabile e avrebbe potuto essere ripristinata, ma non se ne fece niente: la preziosa acqua, attraverso cunicoli sotterranei, oggi finisce a mare. Tutto questo complesso,  comprende le Terme, anch’esse adibite ad appartamenti, la grotta adiacente all’ex chiesetta, un piano terra di 70 mq, in vendita a 100 mila euro, un piazzale e altre tre più recenti costruzioni adibite ad abitazioni o uffici, di circa 250 mq. L’immobile, suddiviso in cinque unità è stato venduto a tre architetti e a una signora romana. Uno degli  architetti è Vincenzo Rizzacasa, già preside di un istituto d’arte di Santo Stefano di Camastra, che nel 2005 ha deciso di dar vita a un’impresa di costruzioni, la “Aedilia Venusta”, intestata al figlio Gianlorenzo, specializzata in ristrutturazioni, munita di certificato antimafia  e iscritta ad Addio Pizzo, fino a quando non si scopre che al suo interno lavoravano i mafiosi Francesco e Salvatore Sbeglia, legati al campo delle costruzioni e già oggetto di misure di prevenzione, di sequestri e di procedimenti giudiziari. Secondo i giudici gli Sbeglia sarebbero stati soci occulti di Rizzacasa e, attraverso la sua ditta, sarebbero tornati in attività, con metodi e sistemi di illecita concorrenza. Rizzacasa è legato al vicepresidente della Confindustria  Ettore Artioli, titolare di un’azienda, la Venti, che ha commissionato a Rizzacasa la ristrutturazione della Manifattura Tabacchi di Palermo. Nei progetti della Aedilia Venustas c’era anche la trasformazione dell’area della villa del Barone Lanterna in un residence di lusso con 15 appartamenti e due studi professionali, il tutto con regolare concessione, rilasciata nel 2009  e con tanto di visto da parte della Sovrintendenza ai Beni Culturali, che, per contro, avrebbe dovuto tutelare la conservazione di monumenti storici di questo tipo, cosa che in Sicilia scatta solo in certe circostanze.  Scattano le misure di prevenzione per Rizzacasa, al quale vengono sequestrati le imprese edili Aedilia Venustas, l’Immobiliare Sant’Anna, Verde Badia, un insieme di 33 immobili in via badia, una decina di appartamenti, la villa Barone Lanterna, sei magazzini e sette automezzi. Artioli si autosospende dalla Confindustria, ma continua la sua carriera manageriale, al punto che nel 2012 viene nominato, dal sindaco Leoluca Orlando, presidente dell’Amat. Per Rizzacasa, espulso da Confindustria,  inizia un iter giudiziario, una condanna in primo grado per favoreggiamento semplice, cioè senza l’aggravante dell’associazione mafiosa . In appello Rizzacasa è assolto e l’assoluzione è confermata, in via definitiva, nel febbraio 2014, in Cassazione. Assolti anche  i suoi consociati Lena e Salvatore Sbeglia. Rizzacasa ha rinunciato alla prescrizione per avere una sentenza di piena assoluzione. Per una di quelle anomalie tipiche della legge italiana e in particolare, di quella sui beni sequestrati alla mafia, il patrimonio immobiliare di Rizzacasa, per decisione del giudice delle misure di prevenzione, per il quale è sufficiente il “libero convincimento” che l’assoluzione non basta, rimane congelato sotto sequestro, malgrado l’ordine di dissequestro dell’azione penale. Ma siamo arrivati al punto: dopo le denunce del prefetto Caruso, è ormai noto che il giudice delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo  ha un rapporto privilegiato con lo studio legale di Cappellano Seminara, al quale ha già affidato una cinquantina di beni confiscati alla mafia. Cappellano, diventato amministratore giudiziario della Aedilia Venustas,  continua l’attività di smembramento della villa del barone Lanterna con la costruzione degli appartamenti in progetto: per risarcirsi del suo  “estenuante” lavoro, da lui stesso stimato in circa 800 mila euro, si impadronisce di due appartamenti: probabilmente ne disporrà la vendita per incassare il compenso. Da una visura notarile storica si rileva che “gli immobili citati vengono venduti a 250 euro al mq. per quanto riguarda la villa antica e le terme, quelli più moderni a 200 euro mq.” Se è vera questa notizia ci vuol poco a dedurre che, fissando un prezzo così basso, Cappellano Seminara può mettere le mani su tutto il complesso edilizio e impadronirsene. Da una nota della Camera di Commercio si deduce che “il fatturato di Aedilia Venustas s.r.l. stimato, nel 2011, tra i 300 e i 600 mila euro, durante il 2011 è diminuito, nello stesso anno,  del -1263% rispetto al 2009 e che il risultato netto ottenuto durante il 2011, dopo gli oneri finanziari, le tasse e gli ammortamenti è diminuito del -609,64% rispetto al 2009”. Il tutto grazie all’oculata amministrazione di Cappellano Seminara e a chi lo ha messo in quel posto.

La 6GDO e l’impero Despar. Quella di Giuseppe Grigoli sembra una storia comune, iniziata con l’apertura, negli anni 80 di una piccola attività di vendita di detersivi all’ingrosso e poi diventata, tra  gli anni ’80 e ’90  una grande  realtà economica, in grado di fatturare 600 milioni di euro l’anno, attraverso l’apertura di una serie di centri commerciali, da Trapani ad Agrigento, a Palermo, con il marchio Despar, in grado di gestire il 10% di tutto il fatturato Despar. La realtà più grossa è “Belicittà”, ovvero il più grande centro commerciale del trapanese, a Castelvetrano. Grigoli crea il gruppo 6GDO , una ditta che distrisce prodotti alimentari a vari supermercati. Si è detto e si è scritto che dietro questo impero finanziario ci sono i soldi  di Matteo Messina Denaro, ovvero c’è il riciclaggio di milioni di euro di oscura o illecita provenienza: si è anche parlato, ma senza particolari riscontri processuali, di  una gestione spesso intimidatoria nell’imporre, con sistemi mafiosi, particolari condizioni ai fornitori di merce. Il nome di Grigoli viene trovato nelle lettere di Matteo Messina Denaro nel covo di Bernardo Provenzano, l'11 aprile 2006.  Grigoli voleva aprire un Despar a Ribera, un paese sotto l’ala protettiva del boss locale Capizzi che, addirittura, gli aveva chiesto il pizzo: pare che Capizzi, in un primo tempo fosse stato assunto nel supermercato, ma che avesse contratto con Grigoli un debito di 297,28  mila euro, che si rifiutava di pagare. Così Messina Denaro si era, per iscritto, rivolto a Bernardo Provenzano chiedendogli di intervenire a favore del “suo paesano". Provenzano si era rivolto al boss di Agrigento Giuseppe Falsone che avrebbe dovuto mettere pace tra i due. E’ caratteristico il tono dei pizzini di Messina Denaro: "Capizzi prima restituisca i soldi che si è preso e dopo gli amici di Ag mi dicono cosa vogliono dal mio paesano ed io sono disponibile a sistemare il tutto. E' ormai una questione di principio. Io ho fatto della correttezza la mia filosofia di vita".  E, nell’ultima lettera, : "Solo se Cpz comincia a pagare  il mio paesano paga 10 mila euro per ogni sito che ha ad Ag per ogni anno. In questo caso, dato che paga, non darà posti di lavoro. La mia seconda proposta: se il mio paesano non paga niente per come vuole il 28 (è il codice di Falsone - ndr) per rispetto a me, ed io lo ringrazio e gli sono grato per ciò e dica al 28 che io non dimenticherò mai questa gentilezza, allora se il mio paesano non paga, darà due posti come impiegati per ogni sito, impiegherà 2 persone che interessano ad Ag". Nel 2006 Grigoli è arrestato, processato e  condannato a 12 anni di carcere per associazione mafiosa: al processo vengono fuori  i nomi di capi mafia, a parte quello dell’imputato latitante Messina Denaro, di suo padre, «don Ciccio», di Bernardo Provenzano, di Filippo Guattadauro, il cognato del capo mafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro,  i nomi di politici, come quello dell’ex presidente della Regione Totò Cuffaro, che chiede a Grigoli di vendere nei suoi supermercati alcuni vini prodotti da suoi “amici”,  o quello dell’ex deputato regionale  cuffariano, Francesco Regina, andato da Grigoli a chiedere voti. A Grigoli si rivolge persino, per la vendita di ricotta il boss Vito Mazzara, l’uomo che avrebbe ucciso Mauro Rostagno e che attualmente sconta l’ergastolo. La confisca riguarda 12 società cominciando dalla capofila, il Gruppo 6GDO, punto di eccellenza un maxi centro commerciale, il Belicittà di Castelvetrano, e poi ancora 220 fabbricati tra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreni, uliveti e vigneti per un totale di 60 ettari. Tutte aree di campagna ricadenti in quell’area del Belice, da Zangara a contrada Seggio, dove i boss mafiosi siciliani a cominciare da Totò Riina, per continuare con Bernardo Provenzano e i Messina Denaro, avevano fatto incetta di terreni con l’idea che in quei luoghi doveva sorgere negli anni ’90 la “Castelvetrano 2”, un maxi complesso immobiliare che avrebbe dovuto ricalcare la più famosa “Milano 2” di marca berlusconiana. Il tutto viene affidato a un amministratore giudiziario, Nicola Ribolla. I suoi sette anni di amministrazione sono serviti a smantellare interamente un impero economico e a ridurre sul lastrico, senza lavoro, le 500 famiglie che vivevano all’interno delle attività confiscate. Al processo Ribolla ha tentato di giustificare il suo operato dicendo che “molti supermercati associati hanno chiesto di disdire il contratto con noi, i fornitori non ci hanno fatto più credito, e anche le banche ci hanno chiuso i rubinetti”. Sono in corso ancora trattative, stimolate anche in un incontri tra i lavoratori, ai quali è stata già mandata la lettera di licenziamento e  Sonia Alfano, in interventi  del sindaco di Castelvetrano  Felice Errante e della CGIL: il circuito comprende 43 supermercati Despar, più i 40 affiliati del gruppo 6GDO in provincia di Trapani : Despar, Eurospar, Superstore, Interspar ad Agrigento e Trapani.  Hanno già chiuso i supermercati più grossi di Marsala e Trapani, altri lo stanno facendo, poiché  non vengono più riforniti di merci, gli scaffali sono semivuoti. Addirittura, nel 2010 alla Prefettura di Trapani si era firmato un “protocollo di legalità” per salvare la “Special Fruit” una delle tante aziende del circuito di Grigoli e affidarne l’attività alla Coop, ma non se n’è fatto niente. La Special Fruit è stata messa in liquidazione, malgrado Ribolla ne avesse disposto un aumento di capitale stornandovi i soldi della 6GDO La chiusura delle banche ha prodotto la mancanza di liquidità per pagare fornitori e dipendenti, ma ha anche sospeso diversi crediti da riscuotere. Recentemente a Ribolla, forse in considerazione della sua scarsa capacità imprenditoriale, è stato aggiunto, come consulente, l’avvocato Antonio Gemma, vicino ad Angelino Alfano, ma la cosa non è servita a niente. L’amara conclusione di chi si trova sul lastrico è che quando c’era Grigoli tutto funzionava perfettamente,  l’azienda aveva un attivo di 600 milioni che sono scomparsi nel nulla con l’amministrazione giudiziaria: Insomma, ci troviamo davanti al volto nuovo di Cosa Nostra, così come si è potuto vedere anche col sequestro di un miliardo e 300 mila euro fatto al “re del vento” Vito Nicastri, di Alcamo, nel quale l’imprenditoria diventa l’elemento centrale per l’accumulazione del capitale, oltre le vecchie, ma sempre presenti pratiche del pizzo, e gli uomini d’onore, anche senza bisogno di esplicite affiliazioni, sono imprenditori e professionisti. Rispetto all’intraprendenza di costoro lo stato, avvolto nelle sue pastoie o rappresentato da gente incapace rischia di arrivare, quando arriva, con molto ritardo,  si trova davanti al proprio fallimento senza che si imputi tutto ai metodi di un’economia illegale: spesso, come nel caso dei lavoratori della 6DIGI , tutti messi in regola,  tutto funziona, almeno apparentemente, nel rispetto della legalità e all’interno di un circuito efficiente e produttivo.

Una parte di questa inchiesta è stata pubblicata sul numero di marzo 2014 de “I Siciliani giovani”. Ringrazio per la collaborazione, nella realizzazione dell’inchiesta, la redazione di Telejato, ovvero Pino Maniaci e Christian Nasi.

In questo mio trattato mi preme parlare anche dell’affaire “Banca Marche”. Una domanda sorge spontanea: a quando la parola fine? Il caso dell'imprenditore Ciro Di Pietro e della sua famiglia. Mi interesso perchè, dopo anni dal suo arresto, ancora non si è addivenuti ad una condanna definitiva, tale da renderlo colpevole. Intanto il suo patrimonio è amministrato dalla magistratura. E per la stampa è e rimane solo un mascalzone.....con la sua famiglia, tra cui il figlio Amedeo, avvocato.

Ho cercato di trovare sul web notizie attinenti il caso e la persona. Nulla. Solo notizie conformi, come se uscissero dalla medesima velina. Non una versione diversa. Tutto rilasciato dalle conferenze stampa dell'accusa. Dare voce alla difesa, sia mai!

“Catch me” (Prendimi, dal titolo del noto film che vede Di Caprio nei panni di un truffatore): è questo il nome dell’operazione scelto dal sostituto procuratore Manuela Comodi per descrivere l’attività delle 7 persone che ruotavano intorno a Ciro Di Pietro, imprenditore napoletano dal forte “carisma”, scrivono Sara Minciaroni e Alessia Chiriatti su “Tuttoggi” del 9 novembre 2012. Secondo la ricostruzione fornita oggi in conferenza stampa dal capo della mobile Marco Chiacchiera, Di Pietro si sarebbe rivelato un affabulatore talmente abile da raggirare persino le banche. Ad insospettire gli inquirenti proprio la facilità con cui diversi istituti bancari permettevano l’accesso al credito all’imprenditore, senza che questi fosse di fatto munito di solide garanzie: un fiume di soldi pari a 20 milioni di euro, basato su false garanzie e, cosa ancor peggiore, mai restituito. 8 dunque gli arresti  eseguiti a Perugia, Napoli e Avellino. In queste città e a Belluno la squadra mobile del capoluogo umbro ha effettuato anche numerose perquisizioni sequestrando molti documenti al vaglio degli investigatori. Perquisita anche una sede di “Italiani nel mondo”, la Fondazione creata dal senatore De Gregorio, il parlamentare del pdl al centro di numerose inchieste per truffa, riciclaggio, favoreggiamento della camorra, corruzione e false fatturazioni. Con Di Pietro, detenuto nel carcere di Napoli, sono stati raggiunti dai provvedimento di custodia i suoi figli Amedeo (avvocato) e Anna,  il fedele commercialista  Nunzio Capri (descritto dagli inquirenti come il “braccio operativo”, essendo l’autore della falsificazione dei bilanci nonché il titolare di quasi tutte le società fittizie coinvolte nell’inchiesta), il faccendiere di Umbertide Salvo Tempobuono e l’architetto Leonardo Orsini Federici, che secondo l’accusa avrebbe fornito i Sal (stati avanzamento lavori) con cui richiedere alle banche i finanziamenti. Due i funzionari di altrettante banche finiti ai domiciliari: si tratta del trevano Carlo Mugnoz, direttore della filiale perugina di Banche Marche e dell’avellinese Giuseppe Parnoffi, ex vice direttore regionale di Bcc Napoli, licenziato lo scorso anno dalla Banca dopo le prime perquisizioni disposte dalla magistratura. A loro è attribuita la complicità nell’emissione del credito. Ciro Di Pietro non si è fermato a questi due istituti bancari: nel tempo ha preso contatti anche con banche estere, tentativi puntualmente falliti. E’ andata meglio con l’umbra Banca Popolare di Spoleto che, stando alla ricostruzione, ha anticipato al partenopeo 150mila euro a fronte di fatture rivelatesi poi false. L’istituto di piazza Pianciani sarebbe stato interessato solo da questa operazione che, al momento, non ravviserebbe responsabilità penali in capo a chi trattò la pratica. Di certo anche PopSpoleto è rimasta vittima del millantatore in abiti eleganti che avrebbe vantato una amicizia con l’allora n. 1 Giovannino Antonini, oggi presidente della holding Scs. Peggio, molto peggio è andata invece a Medioleasing e Unicredit, interessate rispettivamente da una esposizione per 5,1 e 1,5 milioni di euro. Le accuse per la cricca sono pesantissime: si va dalla associazione per delinquere ai delitti contro il patrimonio e l’amministrazione finanziaria, truffa a danno di istituti bancari, falso, appropriazione indebita, false comunicazioni sociali, false fatturazioni, danno all’erario (per 3 milioni di euro). Inutile dire che sull’inchiesta aleggia il sospetto del riciclaggio. Sotto la lente di ingrandimento sono finite alcune operazioni immobiliari e ristrutturazioni che Di Pietro realizzava (quando non faceva finta di realizzare) in Umbria. Ecco quelle finite nel mirino: l’hotel Il Perugino a Ellera (nel 2009 fu la sede del Perugia Calcio di Leonardo Covarelli), le operazioni Ghinea, Villa Montemalbe (destinata a sede della Fondazione Italiani nel Mondo), Borgo San Giovanni, San Martino in Colle, Belvedere di Ripa e hotel Auronzo. Ristrutturazioni, compravendite  e costruzioni: il tutto per 20 milioni di euro arrivati nelle casse delle società di cui facevano parte Di Pietro & Co e di cui adesso si cerca di ricostruire tutti i passaggi. Stando all’inchiesta Il Perugino veniva usato come bene a garanzia per ottenere finanziamenti quattro volte superiori al reale valore dell’immobile. Le indagini hanno preso l’avvio dal commissariamento della Seas di Umbertide (l’azienda edile impegnata nella manutenzione stradale finita nell’inchiesta “Appaltopoli”), società che Ciro di Pietro tenta di scalare molto probabilmente grazie alle buone conoscenze che Tempobuono ha su Umbertide. L’obiettivo di Di Pietro era quello di farsi nominare d.g. di Seas, condizione necessaria affinche due suoi “amici” (non ancora identificati) finanziassero l’acquisto di quote societarie. L’inchiesta è destinata ad andare avanti e accertare eventuali connivenze fra l’imprenditore e la criminalità organizzata campana. Per la prima volta la polizia ha messo in atto il provvedimento di sequestro per equivalente: una volta stimata la truffa, l’autorità giudiziaria ha cercato tra i beni in possesso degli indagati per far fronte almeno al danno subito dallo Stato. Sotto i sigilli sono così finiti 2 appartamenti di proprietà degli indagati e quote societarie per un valore di 3 milioni di euro. Ai 20 milioni di euro, inclusi i 3 mln di evasione fiscale, la “cricca” Di Pietro è arrivata mettendo insieme tutta una serie di operazioni che hanno visto particolarmente colpita la Banca delle Marche, dove appunto ci sarebbe stata la complicità di Mugnoz, Medioleasing e Unicredit. Nel dettaglio: Banca Marche 10,3 milioni di € (3,5 mln per ristrutturare Borgo Baglioni a Collestrada; 1,5 mln per l’acquisto e la ristrutturazione di una villa a Montemalbe; 2,7 mln per l’acquisto di alcuni immobili a Corciano, 2,6 mln per un immobile a Ripa); Medioleasing Spa 5,1 mln per la ristrutturazione de Il Perugino. Banca Unicredit ha anticipato fatture per 1,5 mln di euro, così come il BCC Napoli (250mila), Bps (150mila) e Banca Popolare Ancona (50mila). Una curiosità: Banca delle Marche ha finanziato anche l’acquisto di un elicottero per 200mila euro, che Di Pietro non ha mai acquistato. Al vaglio degli inquirenti ci sarebbero anche i rapporti intercorsi tra Di Pietro e ambienti politici campani, umbri e romani. Le intercettazioni telefoniche avrebbero messo in luce diversi nomi eccellenti. Solo il prosieguo dell’inchiesta consentirà di comprendere eventuali altre collusioni. Per il resto se Di Pietro sperava di farla franca ha trovato sulla sua strada il pm Manuela Comodi. “Cath me, if you can” era il titolo del film interpretato da Di Caprio: la procura di Perugia c’è riuscita.

In Italia per diventare professionista bisogna abilitarsi. Attenzione, non dimostrare di essere capace, ma mostrare di essere uguale agli altri. Devi essere omologato e non rompere il cazzo alla categoria ed al sistema di potere. E così è. Queste le notizie apparse sul web.

“Truffa delle case. Centinaia di Perugini raggirati. L’Operazione Catch me ha portato all’arresto di otto persone ed alla scoperta di un’appropriazione indebita di 20 milioni di euro”, scriveva Umberto Maiorca su “Il Giornale dell’Umbria” del 10 novembre 2012.

“Perugia, un inganno da 17 milioni. E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012.

Poi c'è anche la diatriba sulle comparsate in tv. Hotel Auronzo: «Colpo alla malavita». I carabinieri di Belluno spiegano la loro tranche di inchiesta sul caso Di Pietro. Ma è “gelo” con la procura. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno, scrive Cristina Contento l’11 novembre 2012 su “Il Corriere delle Alpi”. Otto arresti su ordine di custodia del gip di Perugia, ma anche una serie di indagati sui quali si stanno ancora effettuando accertamenti. Intrecci con la politica tutti da scoperchiare: non è indagato il senatore Sergio De Gregorio, ospite affezionato dell’hotel Auronzo, che partecipò anche all’inaugurazione del 31 gennaio 2010. Non è finita l’indagine attorno all’hotel Auronzo, del quale sono state sequestrate le quote di proprietà: altri indagati sono nell’aria, benchè non venga precisato il numero da parte dei carabinieri di Belluno. Ieri la conferenza stampa dell’Arma che avoca alla Compagnia di Belluno una prima tranche di inchiesta: quella relativa al patrimonio, condotta da nucleo investigativo e nucleo informativo del reparto. Tranche poi confluita nel fascicolo perugino già aperto. Il comandante provinciale Ettore Boccassini e il colonnello Brighi, comandante del reparto operativo, hanno spiegato il filone di inchiesta seguito dal Reparto carabinieri Belluno, culminato con il «Fascicolo portato da me personalmente con i ragazzi del reparto, alla procura di Perugia, dopo che il procuratore Labozzetta decise di trasmettere nel capoluogo umbro anche la parte di indagini seguita con il pubblico ministero Simone Marcon». Procura che, però, prende le distanze dalla conferenza stampa dei carabinieri: «Non è stata autorizzata dalla procura». Sembra calato il “gelo” tra organi inquirenti e istituzionali in merito alla vicenda, alla luce di queste parole: «Il contributo dei carabinieri è stato marginale rispetto alla complessità dell’indagine e all’attività svolta dalla Mobile di Perugia» spiegano ancora dalla procura di Belluno. «Motivo per cui non è stata affidato loro alcun tipo di misura di prevenzione o sequestro». Tant’è, i carabinieri ieri hanno spiegato la loro parte di indagine, che ha riguardato soprattutto la questione patrimoniale e l’accertamento dei sospetti, grazie anche alla “perizia” che hanno chiesto direttamente alla Banca d’Italia per i movimenti sospetti e i continui finanziamenti che venivano chiesti da Di Pietro. A Perugia già da tempo Ciro Di Pietro era “seguito” dalla locale squadra mobile, visto che il 55enne napoletano era stato accusato di analoghi reati qualche anno prima. In loco, prima di arrivare in provincia. Anche la squadra mobile bellunese, guidata dal vice questore Mauro Carisdeo, stava facendo accertamenti e indagini dopo le segnalazioni. Obiettivo dei carabinieri, come spiega il colonnello Brighi, «era l’aggressione del patrimonio da parte della criminalità: come avvenuto per Calatafimi e per altri reati. Qui abbiamo un soggetto pregiudicato arrivato nel 2009, estraneo alla provincia e al giro di affari locale, che acquisisce un albergo per 2,5 milioni di euro e ne presenta un ampliamento per 12 milioni». Doveva fare apart-hotel, Ciro Di Pietro, finito in carcere col figlio Amedeo di 32 anni, Nunzio Caprio di 49 anni e Sauro Tempobuono. Arresti domiciliari, invece, per Carlo Mugnoz di 61 anni, Leonardo Orsini Federici di 49 anni, Anna Di Pietro di 28 anni e Giuseppe Parnoffi di 44 anni, campani e umbri. Appartamenti e albergo, come va di moda, in Francia. Ma il Comune di Auronzo nicchia sull’investimento immobiliare, tanto è vero che, quando all’assessore Dorigo viene incendiata l’auto, si pensa a un avvertimento: «Ma così non è», spiegano i due colonnelli Boccassini e Brighi. «Quell’episodio non c’entra, c’è un altro indagato». «Ciro Di Pietro ha ottenuto il mutuo di 2,9 milioni, oltre la fidejussione dei due figli»: somme importanti e continui ricorsi al credito presso le banche, con un anomalo sistema di “anticipo fatture” e “l’ipotetica connivenza del personale bancario”, scrivono i carabinieri. Fatture che per i carabinieri sono false: il mutuo ha un piano di ammortamento di 15 anni per 60 rate trimestrali di cui saranno pagati solo 63 mila euro», continuano. Poi il balletto per ritardare i pagamenti, le fatture intestate a società di Perugia e la Banca d’Italia che segnala le operazioni sospette. La società fittizia di comodo è intestata a due prestanome, secondo i carabinieri, altri quattro nel tempo vedranno intestata la proprietà dell’hotel Auronzo. I carabinieri si accorgono di qualcosa che non va, perchè il reddito dichiarato dai quattro non permette un simile investimento. Avallano l’ipotesi investigativa i sospetti trasferimenti di denaro tra diversi conti correnti di società e persone che fanno capo alla famiglia di Di Pietro. Un Di Pietro che, quando «fu sentito da noi, si avvalse della facoltà di non rispondere». Malavita che tentava di organizzarsi in provincia. Ma non è finita qui.

Hotel Auronzo, sequestrata la società, continua Ma. Co. su “Il Corriere della Alpi”. In carcere con altri sette il proprietario Ciro Di Pietro. Pesanti accuse di associazione a delinquere, truffa, false fatture. Bufera sull’albergo Auronzo. L’imprenditore Ciro Di Pietro, napoletano con interessi in molte parti d’Italia tra cui Perugia e Auronzo, è finito in manette con pesanti accuse insieme con altri sette imprenditori, funzionari di istituti di credito, un architetto e un commercialista (quattro sono in carcere, quattro ai domiciliari). L’elenco delle accuse è lungo: a vario titolo le persone arrestate sono accusate di associazione a delinquere finalizzata alle truffe, alle frodi fiscali, appropriazione indebita, falso e false fatturazioni. Ciro Di Pietro, attraverso la società Hotel Auronzo srl, dal 2009 è proprietario dell’omonimo albergo, il più bello di Auronzo, sede del ritiro della Lazio da cinque anni. Ma i suoi ospiti, nei 140 anni di vita, sono stati grandi personaggi della politica, dello Stato, della cultura, della vita sociale italiana. L’indagine che ha portato in carcere a Perugia Di Pietro, è partita da Belluno ed è stata condotta per un anno dal Nucleo investigativo e dal Nucleo operativo del Comando provinciale dei carabinieri. Sono stati fatti molti accertamenti bancari e in questo hanno avuto un ruolo importante funzionari della Banca d’Italia. All’intera operazione, complessa e lunga, ha partecipato anche il Comando dei carabinieri di Cortina. L’indagine è partita alla fine del 2010, neanche un anno da quando Di Pietro è arrivato ad Auronzo, ed è stata coordinata dalla procura della repubblica di Belluno che ha trasferito poi il procedimento alla procura di Perugia che ieri ha dato il via ai provvedimenti. Oltre agli arresti sono stati sequestrati degli immobili in giro per l’Italia e dei conti correnti. Le vittime dell’intera operazione sono le banche, ai danni delle quali sono state emesse le false fatture che servivano per avere poi dei finanziamenti. Per quanto riguarda l’albergo Auronzo, non è stato posto sotto sequestro, ma è stato sequestrato il capitale sociale, di 100.000 euro. Di Pietro aveva speso una barca di soldi per acquistare e ristrutturare l’albergo Auronzo. Personaggio singolare, napoletano verace, aveva incantato molti auronzani con i suoi grandiosi progetti. Senza problemi aveva annunciato a più riprese il valore complessivo del suo investimento in valle d’Ansiei: 12 milioni di euro, disse, che dovevano servire in un paio di anni per dotare l’albergo di nuove suites, di appartamenti, della piscina. L’albergo a quattro stelle di Auronzo, unico in paese, rappresentava un ottimo biglietto da visita per i turisti che in questi anni (grazie alla presenza della Lazio ma non solo) hanno affollato il paese sulle rive del lago. L’arresto del titolare, il sequestro del capitale sociale, la chiusura dell’albergo sono una vera e propria botta, al termine tra l’altro di una stagione turistica estiva. tra le migliori degli ultimi anni e a poche settimane dalla partenza di quella invernale.

E Di Pietro vuole tornare libero, scriveva Egle Priolo su “Il Messaggero” del 20 novembre 2012. Truffe e frodi, restano in carcere gli imprenditori Ciro e Amedeo Di Pietro, il 28 novembre prossimo verranno interrogati dal pm Manuela Comodi, scrive di F.M. su “Umbria 24” del 22 novembre 2012. Restano in carcere l’imprenditore napoletano Ciro Di Pietro e il figlio Amedeo, arrestati dalla squadra mobile di Perugia nell’ambito di un’indagine che ha portato a gala l’esistenza di un’associazione a delinquere finalizzata alle truffe. Revocati invece gli arresti domiciliari per la figlia Anna. E’ quanto ha deciso il tribunale del riesame di Perugia dopo l’udienza di martedì mattina in cui Di Pietro, tramite i suoi legali, ha chiesto i tornare libero. Alla richiesta era arrivata l’opposizione del pubblico ministero titolare dell’indagine Manuela Comodi, che il 28 novembre prossimo, interrogherà Ciro e Amedeo Di Pietro nel carcere di Poggioreale. I due indagati principali secondo l’accusa avrebbero intascato 20 milioni di euro truffando istituti bancari chiedendo prestiti per operazioni immobiliari inesistenti. La misura cautelare era già stata revocata nei giorni scorsi per  i direttori di banca Carlo Mugnoz  e Giuseppe Parnoffi  e l’architetto perugino Leonardo Orsini Federici. Resta da definire la posizione del commercialista napoletano Nunzio Caprio.

Crac banca Marche: Tutte le denunce a scoppio ritardato, scrivono invece Sandra Amurri e Giorgio Meletti su "Il Fatto Quotidiano del 13 novembre 2013. Massimo Bianconi, direttore generale di Banca Marche dal 2004 al 2012, “figli di” ne ha assunti parecchi. Fabio Capanna è figlio di Agostino, generale dei Carabinieri e poi vicepresidente della Protezione civile regionale; Francesca Luzi è figlia di Vincenzo, procuratore capo di Ancona prima e di Camerino poi; Marco D’Aprile è figlio di Mario Vincenzo D’Aprile, presidente del Tribunale di Ancona; Serena Orrei è figlia di Paolo, ex prefetto di Ancona; Luca Di Matteo è figlio di Antonio, ex direttore della Cassa di Risparmio di Teramo (Tercas) oggi commissariata. Dettagli, nella storia di una banca messa in ginocchio dai crediti facili alle aziende amiche (mentre chiudeva i rubinetti alle piccole imprese). Servono però alla trepidazione con cui le Marche che contano, dal presidente della Regione Gian Mario Spacca al decano degli imprenditori Francesco Merloni, si sono occupate della banca oggi commissariata.

RAINER MASERA è stato a suo modo vittima di tanta sollecitudine. Il banchiere di lungo corso è stato chiamato lo scorso aprile a Jesi come salvatore della patria. Il presidente Lauro Costa e il vicepresidente Michele Ambrosini si erano appena dimessi. I grandi azionisti, le fondazioni bancarie di Pesaro, Jesi e Macerata, vedevano che le perdite stavano ormai mangiando il capitale. Già a febbraio il presidente della fondazione di Macerata, Franco Gazzani, il primo a denunciare lo sconquasso, aveva scritto in una email riservata a un consigliere della banca: “Quello che ti posso dire, ma lo dico a te che sei persona intelligente, è che siamo a un passo dal commissariamento”. Le fondazioni di Pesaro e Jesi chiedono a Masera di assumere la presidenza della banca. L’ex numero uno dell’Imi ed ex ministro del Bilancio prende tempo. È a quel punto che Francesco Merloni, 87 anni, ex ministro dei Lavori pubblici, lo porta dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Negli austeri saloni di palazzo Koch, Merloni parla di una cordata di imprenditori pronta a investire subito 200 milioni di euro. Si mormorano i nomi di Adolfo Guzzini, Gennaro Pieralisi, dello stesso Merloni e anche di Diego Della Valle. Masera si lascia convincere, ma ben presto scoprirà che le condizioni della banca sono peggiori di quanto pensava e che gli imprenditori marchigiani, nonostante l’appello accorato di Spacca, non cacciano un euro. A fine agosto, subìta l’onta del commissariamento, Masera si dimette, confidando agli amici tutta l’amarezza di chi si è sentito tradito. Nel frattempo ispettori della Banca d’Italia, ispettori interni mobilitati dal direttore generale Luciano Goffi, che dall’estate 2012 ha preso il posto di Bianconi, e magistrati di Ancona passano al setaccio le carte della banca. È Goffi a mandare i primi due esposti alla Procura della Repubblica di Ancona, il 28 febbraio e l’8 marzo 2013. Quando il direttore tira una linea emerge che i crediti “deteriorati” ammontano a 4,7 miliardi, un quarto dell’erogato totale della banca. Basta scorrere qualche storia esemplare per capire come si è potuti arrivare a tale scempio.

CIRO DI PIETRO, costruttore napoletano, viene arrestato a Perugia il 9 novembre 2012 assieme ad altre persone, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata principalmente alla truffa ai danni di Banca Marche. Di Pietro avrebbe ottenuto crediti per 19,8 milioni di euro con l’aiuto di perizie addomesticate sugli immobili. Con lui viene arrestato il direttore della filiale di Perugia di Banca Marche, Carlo Mugnoz. Quattro giorni dopo Goffi cancella dall’albo interno dei periti estimatori l’ingegnere anconetano Giuseppe Lucarini, a cui è addebitata una perizia di favore su immobili della Cellulis, società di Di Pietro. Ma arrivano due colpi di scena. Mugnoz viene quasi subito rimesso in libertà dopo aver convinto il gip di Perugia della sua tesi difensiva: Di Pietro parlava direttamente con il direttore generale Bianconi. Intanto Lucarini scrive una accorata lettera a Goffi, in cui fa capire che i periti subivano pressioni dal vertice della Banca per aggiustare le valutazioni. Scrive Lucarini: “L’imprenditore di Cellulis è un bandito? E mica l’ho scelto io; Banca Marche sapeva già che era stato inserito nelle indagini per riciclaggio già prima di fare le indagini in questione”.

CANIO MAZZARO, imprenditore potentino di 54 anni, ha chiesto il primo finanziamento a Banca Marche il 26 agosto 2004: 2 milioni di euro per la Pierrel Farmaceutici, che allora controllava. La linea di credito è stata deliberata nel giro di 24 ore dal direttore generale Bianconi. Oggi il gruppo Mazzaro è esposto con l’istituto di Jesi per 19,4 milioni, di cui 18,8 già in sofferenza. Scrivono gli ispettori interni: “La motivazione delle richieste dell’appoggio di Banca Marche è stata quasi esclusivamente di natura finanziaria (aumenti di capitale e/o acquisizione di quote di maggioranza) ma in effetti le linee di credito sono state utilizzate per sopperire alla mancanza di liquidità delle società del gruppo”. Mazzaro, di fatto uscito dalla Pierrel, oggi controlla Bioera, società quotata nata dalle ceneri del gruppo Burani. Lui è amministratore delegato, la sua ex compagna e madre di suo figlio, Daniela Garnero Santanchè, è presidente. Ma fino all’anno scorso, Mazzaro era presidente e amministratore delegato era Luca Bianconi, figlio di Massimo. Scrivono gli ispettori della banca con qualche ironia: “Per quanto emerso dall’analisi delle singole proposte di fido e dalla documentazione acquisita, è plausibile che l’ex direttore generale Massimo Bianconi e l’ing. Canio Mazzaro si conoscessero”. Gli ispettori si sono occupati anche dell’immobiliare Bologna Uno, che fa capo all’imprenditore Stefano Mattioli. L’esposizione di 25 milioni circa presenta alcune criticità, tra le quali colpisce il fatto che azionista della società, con il 10 per cento, è l’Immobiliare Uffreducci, “riconducibile all’ingegner Fabio Tombari”. Tombari altri non è che il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, azionista di Banca Marche.

PIETRO LANARI è uno dei maggiori costruttori marchigiani. La sua esposizione con Banca Marche è di 236 milioni e, secondo gli ispettori Bankitalia, è uno dei clienti messi peggio, insieme ai gruppi Casale, Ciccolella, Minardi- Polo Holding e Foresi, in quanto “i tentativi di ristrutturazione non hanno dato esiti positivi”. Ma il costruttore non ci sta. Sostiene di aver ottenuto il finanziamento per importanti operazioni immobiliari nella regione, in particolare nelle aree turistiche di Numana, Senigallia e Potenza Picena, ma che “poco dopo l’inizio dei lavori la dirigenza di Banca delle Marche è stata sostituita e la nuova ha ritenuto di revocare ogni linea di credito ritenendo che i valori degli immobili fossero prossimi allo zero”. Lanari va oltre e avverte: “Non intendo essere mescolato con sporchi giochi di potere, vicende e vendette personali”.

VITTORIO CASALE, indebitato oggi per circa 60 milioni con Banca Marche, racconta di aver conosciuto Bianconi attraverso il comune amico Leonardo Ceoldo. Un giorno, racconta l’immo – biliarista, Bianconi lo invita nella sede di Banca Marche a Jesi, dove viene ricevuto dal presidente del collegio sindacale, Piero Valentini, e dal vicedirettore generale, Stefano Vallesi, che gli chiedono di salvare l’imprenditore calzaturiero marchigiano Giovanni Marocchi (esposto con la banca per 26 milioni) rilevando le sue quote nel resort Capo Caccia di Alghero. Bianconi chiede a Casale anche di nominare nel collegio sindacale una delle sue società Ludovico Valentini, figlio di Piero, il presidente del collegio sindacale di Banca Marche che gli aveva chiesto il “favore”. Poco dopo, nel 2011, Casale viene arrestato per la bancarotta della sua società Operae, e mentre è agli arresti fallisce anche Marocchi, cosicché l’espo – sizione dell’immobiliarista sale dai 20 milioni iniziali a 40, dopo aver assorbito quella di Marocchi. Appena uscito dal carcere viene nuovamente arrestato per la vicenda dell’albergo Capo Caccia, con l’accusa di essere il regista della bancarotta di Marocchi. “Bianconi, Valentini e Vallesi mi hanno fatto un bel pacco. Nessuno di loro si è più fatto sentire”, protesta oggi Casale, che si di ce pronto a dimostrare le sue accuse in tribunale, mentre l’esposizione di Banca Marche è lievitata a 60 milioni. Possibile che Bianconi abbia fatto tutto da solo? La storia di questo brillante banchiere che arriva a Jesi nel 2004 per dare slancio a una piccola banca regionale, è intessuta di amicizie importanti, in un ambiente politico-affaristico ad alto coefficiente massonico. Casale racconta di avergli chiesto chi lo avesse sponsorizzato, e di aver ottenuto in risposta un significativo elenco di grossi nomi del potere finanziario regionale e nazionale. Certo è che, mentre dà impulso agli affari della Banca Marche, Bianconi non trascura quelli di famiglia. Nel 2006 sua moglie, Anna Rita Mattia, sale agli onori della cronaca per l’acquisto in leasing di un immobile a Treviso che il giorno didopo viene affittato per 12 anni a Banca Popolare di Bari. Passa un anno e l’Espress o rivela la commistione di interessi con Danilo Coppola e Stefano Ricucci, quest’ultimo finanziato abbondantemente da Bianconi quando era in Bna, poi in Banca Agricola Mantovana e in Cariverona. Le oligarchie locali plaudono alla sua intraprendenza e non battono ciglio di fronte a stipendi d’oro e benefit da nababbo: accresce la clientela tra i costruttori, proprio mentre esplode la bolla immobiliare, promuove due aumenti di capitale, vende gli immobili della banca al Fondo Conero prendendoli in affitto con canoni pari al 7,5 per cento del valore. Nel giro di quattro anni affluiscono nel patrimonio della banca circa 600 milioni di euro. Ma i crediti in sofferenza stanno crescendo molto più rapidamente. BIANCONI fa una fine degna della sua forza passata. Per accompagnarlo alla porta la Banca d’Italia ha dovuto attendere la più classica delle bucce di banana. Durante un’ispezione alla Tercas gli uomini di Visco scoprono che il 7 maggio 2009 Bianconi manda un funzionario a cambiare un assegno circolare di Banca Marche da 160 mila euro con 32 assegni di 5 mila euro cadauno, poi versati sul conto personale del direttore generale. Questo tentativo di sfuggire alla tracciabilità viene giudicato da Bankitalia non coerente “con la deontologia professionale che deve connotare l’operato dell’alta dirigenza di una banca”. Così il 12 giugno 2012 il capo della vigilanza Luigi Signorini chiede a Banca Marche il siluramento di Bianconi. Il presidente Lauro Costa risponde che Bianconi faceva sempre così, perché amava una certa qual “riservatezza relativamente a una parte degli emolumenti percepiti”. Dopo Bianconi (coperto d’oro) anche Costa è stato accompagnato all’uscita. Adesso tocca alla magistratura capire com’è che ci sono voluti tanti anni per accorgersi dello scempio.

Ma chi è Ciro Di Pietro? Che sia vittima di un complotto?

«Poche parole e tanti fatti». Si legge su Forza Pergo. Si è presentato così, Sergio Briganti, nuovo presidente del Pergocrema (a sinistra nella foto mentre stringe la mano a Manolo Bucci, che gli ha ceduto la società gialloblù). E in effetti, di parole, nella conferenza stampa, ne ha fatte poche, nel senso che ha aggiunto poche informazioni a quelle già circolate in via non ufficiale nei giorni scorsi. «Insieme a me ci sono altri quattro soci — ha affermato il 42enne di Terracina, titolare di una società che si occupa di marketing — I loro nomi? Non sono importanti». Uno di questi è Ciro Di Pietro, imprenditore alberghiero, titolare dell’hotel di Auronzo dove va in ritiro la Lazio e dove andrà il Pergocrema. Presente in sala stampa, Di Pietro non ha però parlato. Anticipando quelle che sarebbero state domande inevitabili, Briganti ha poi precisato i ruoli di Claudio Lotito, presidente della Lazio, e di Ermanno Pieroni, ex presidente dell’Ancona, i cui nomi erano stati affiancati nei giorni scorsi al Pergocrema. «Con Lotito esiste un rapporto di lavoro, di amicizia e di rispetto; è una persona che sa fare calcio tenendo i conti a posto. Con Pieroni ho lavorato due anni ad Ancona e a Taranto; è un uomo capace, conosce bene i giocatori e ce ne proporrà, così come ce ne propongono tanti altri operatori di mercato». Presentato dall’addetto stampa Barbara Locatelli, Briganti, che dopo la conferenza ha salutato i tifosi e incontrato le istituzioni, ha poi illustrato il suo progetto. «La nostra è stata una trattativa limpida e trasparente. Abbiamo trovato una correttezza nella gestione che in altre società non avevamo visto. Abbiamo trattato altri club, scoprendo una marea di debiti. Il Pergocrema è pulito e questo ci permetterà di investire. Con il mio gruppo, che è solido, ho deciso di intraprendere questa avventura in una città dove si può lavorare senza pressioni, per proseguire il lavoro iniziato da Manolo Bucci. La nostra sarà un’azienda che fa calcio, sul modello della Lazio. Entro domani presenteremo tutto l’organigramma. Non avremo un direttore generale, perchè siamo tutta gente di calcio. Io sarò a Crema cinque giorni alla settimana e mi avvarrò della collaborazione delle persone cremasche che già hanno collaborato con Bucci. Allestiremo una squadra all’altezza della situazione. Non vendiamo fumo e non siamo qui per perdere tempo». (4 agosto 2011)

Nominato il curatore fallimentare. Ciro Di Pietro, l'imprenditore campano: "C'erano i soldi per fare tutto". E promette battaglia, scrive Francesco Galante su “Inviato Speciale”. Il Pergo e i suoi quasi 80 anni di storia sembrano agli sgoccioli. E' di oggi la notizia che il tribunale ha nominato ufficialmente Claudio Boschiroli quale curatore fallimentare della società. Ma Ciro Di Pietro, il capo della cordata campana che vorrebbe salvare il Pergocrema, è pronto a giocare il jolly opponendosi al pronunciamento. A comunicarlo è stato lo stesso imprenditore che, raggiunto telefonicamente, si è limitato a poche lapidarie parole: “Personalmente non ho ancora ricevuto nessuna comunicazione in tal senso. Ma se questa è la decisione del tribunale di Crema, noi presenteremo opposizione”. “Nelle prossime ore prenderemo contatti con i nostri legali” prosegue Di Pietro, “affiancandoli con docenti universitari che già in passato hanno dato il loro appoggio a società di calcio invischiate in procedure fallimentari, e vedremo il da farsi”. Tra questi anche Sergio La Rotonda, indicato come presidente del Pergocrema. La strategia però sembra delineata: “Dimestreremo al tribunale che non esiste uno stato di insolvenza del Pergocrema, ma solo una momentanea illiquidità. Possiamo dimostrare di avere 350mila euro di titoli certi. E in totale, tra contratti di sponsor che non hanno onorato i loro impegni con la società, più la valorizzazione dei giocatori attualmente in rosa, arriveremmo a circa un milione di euro”. In sostanza, secondo Di Pietro, c'era il denaro per pagare gli stipendi arretrati e presentare la fideiussione per iscriversi alla Lega Pro. Ora però il tempo stringe, perché entro il 25 giugno almeno le pendenze con i tesserati andranno saldate. “Salvatore Cappelleri, Il presidente del tribunale è stato una persona eccezionale” aggiunge Di Pietro, “è la scorsa settimana ci ha consentito di accelerare un percorso che altrimenti sarebbe durato mesi. Sono certo che un paio di giorni ancora basteranno per risolvere la situazione e dimostrare che il Pergo è una società che può andare avanti. Se così non fosse, sarebbe la prima società a fallire con i soldi”.

Eppure la situazione è alle soglie del drammatico. In città danno i gialloblu per spacciati.

“Eppure non abbiamo trovato nessun cremasco disponibile ad affiancarci in questi giorni. Briganti invece di soldi ne ha messi, e anche tanti”.

Di chi è la colpa?

“Se dovesse andare male, il curatore fallimentare andrebbe a risalire fino a due anni indietro la situazione attuale. Quindi oltre Briganti, anche Bucci e Bergamelli saranno chiamati a spiegare cosa è successo. E lo stesso dicasi per gli sponsor che non hanno rispettato i contratti: dovranno spiegare perché”.

Di Pietro giura battaglia, e assicura: “Giovedì avremo in mano le carte per dimostrare che il Pergo non può e non deve fallire”.

Fallimento del Pergo, Di Pietro non molla: “Chi l’ha voluto?” , scrive “Crema Oggi”. “Il Tribunale si è riservato di decidere sull’istanza di fallimento”: queste le prime parole dell’avvocato Oreste De Donno appena uscito dall’aula dove si è tenuta l’udienza, per decidere sulle sorti future del sodalizio gialloblù. A questo punto, il destino sembra segnato e nei prossimi giorni si saprà, se è calato il sipario sul calcio professionistico a Crema. Ciro Di Pietro, accompagnato da Ernesto Rimonti, arrivano in Tribunale poco dopo le 11, per prendere parte all’udienza avente ad oggetto l’istanza di fallimento, presentata nelle scorse settimane,da due creditori del club gialloblù. Udienza prevista per le 11,30, ma durata pochi minuti, con l’avvocato Oreste De Donno, che all’uscita dice: “Il Tribunale si è riservato di decidere sul fallimento”. Fine dei giochi? Forse, ma l’imprenditore napoletano, Ciro Di Pietro che rappresenta il gruppo, che dovrebbe esprimere Ernesto Rimonti come nuove presidente del Pergocrema, non ci sta: “Non abbiamo nessuna intenzione di mollare. Si sta facendo fallire una società che vanta dei crediti. Nessuno si è fatto avanti”. L’imprenditore napoletano punta il dito sugli Istituti di Credito: “Con 350mila euro certi da incassare, non ci hanno voluto fare gli assegni circolari per 35 mila euro”, che sarebbero serviti per far fronte a parte delle richieste dei due creditori, che hanno presentato l’istanza di fallimento. Ma Di Pietro parla anche delle fatture, che devono saldare gli sponsor e non solo: “Briganti ha fatto più casino della grandine, ma a Crema non si è trovato nessuno che ha remato a favore del Pergo. Parecchie persone volevano sguazzare dentro, dalle banche agli sponsor. Bastava che un solo sponsor avesse pagato normalmente – aggiunge Di Pietro – e si poteva evitare il fallimento”. Quindi un pensiero rivolto ai due creditori: “Maosi e Nonsoloverde, che hanno attivato il procedimento, non prenderanno una lira, perché sono chirografari”. E poi, lascia il Tribunale con un interrogativo: “Di chi è la volontà di far fallire la squadra?”.

Caso Pergocrema, Macalli verso il deferimento? Il vicepresidente della Figc e n.1 storico della Lega Pro, Mario Macalli, rischia il deferimento in margine al caso Pergocrema. Il procuratore federale, Palazzi, ha chiuso l'indagine e passato le carte alla Superprocura del Coni come prevedono le nuove norme di giustizia sportiva volute dal Coni: ora Macalli potrà presentare le sue controdeduzioni, ed essere anche interrogato. La prossima settimana Palazzi deciderà se archiviare o deferire (più che probabile). Il caso Pergocrema si trascina ormai da molto tempo: questa estate la procura della Repubblica di Firenze aveva chiesto il suo rinvio a giudizio. Macalli secondo i magistrati avrebbe "provveduto a registrare a proprio nome i marchi Pergocrema, Pergocrema 1932, Pergolettese e Pergolettese 1932". In questo caso, il n.1 dell'ex Serie C, come stato scritto su Repubblica la scorsa estate da Marco Mensurati e Matteo Pinci, "intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando un danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi che se disponibili avrebbero consentito alla società sportiva di evitare il fallimento". Macalli aveva sempre assicurato la sua totale estraneità ai fatti. "Chiarirò tutto". Pare sia arrivato il momento. Possibile inoltre il deferimento di Belloli, presidente del Comitato regionale lombardo e fra i candidati alla successione di Tavecchio alla presidenza della Lega Nazionale Dilettanti. Oltre a lui, resterebbero in corsa solo Tisci e Mambelli, mentre avrebbero fatto un passo indietro Repace e Dalpin. Mercoledì prossimo riunione con Tavecchio. Si vota l'11 novembre. Per finire, chiusa l'inchiesta di Palazzi anche su Claudio Lotito: interrogati quattro giornalisti, acquisito il video. Ora le carte sono in possesso di Lotito, che deve difendersi, e del generale Enrico Cataldi, superprocuratore Coni: presto Palazzi dovrebbe fare il deferimento per le parole volgari su Marotta.

La Commissione Disciplinare ha deliberato il 6 marzo 2013 in merito al fallimento dell’Us Pergocrema 1932 ed ha inibito gli ex presidenti Sergio Briganti per 40 mesi e Manolo Bucci per 12, l’ex amministratore delegato Fabrizio Talone per 6 mesi, l’ex vice presidente Michela Bondi per 3 e gli ex consiglieri del Cda Estevan Centofanti per 3, Luca Coculo e Gianluca Bucci entrambi per 6 mesi, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla base delle indagini effettuate dalla Procura Federale, la Disciplinare ha deciso di infliggere sanzioni ai personaggi di cui sopra accusandoli «di aver determinato (i due presidenti) e di aver contribuito (gli altri dirigenti) con il proprio comportamento la cattiva gestione della società, con particolare riferimento alle responsabilità del dissesto economico-patrimoniale».

A sbiadire ancor di più l’immagine di Briganti, però, ci pensa Striscia la Notizia. L’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti, è stato protagonista di un servizio in una delle ultime puntate di Striscia la Notizia, il tg satirico in onda su Canale 5, intitolato “Minacce, spintoni, schiaffi”, scrive “La Provincia di Crema”. Jimmy Ghione è stato avvicinato da una giovane donna che ha segnalato come, nel vicolo del pieno centro di Roma dove si trova il bar di Briganti, le auto non riescano a transitare in quanto la strada è occupata da un lato da sedie e tavolini del locale e dall’altro da motorini. In quel vicolo, il transito è consentito soltanto agli automezzi di servizio, ai taxi, ai motocicli e alle auto munite del contrassegno per i disabili. E proprio un disabile stava sull’auto guidata dalla donna, che si è trovata la strada bloccata. A quel punto, la signora ha chiesto a Briganti di spostare i tavolini, ma la risposta è stata «un vulcano, una cosa irripetibile», ha commentato la donna.

C’è da chiedersi: quanto importante sia il Briganti per Striscia, tanto da indurli ad occuparsi di lui e non delle malefatte commesse dai magistrati e dall’elite del calcio?

Macalli a inizio ottobre 2014 è stato anche deferito per violazione dell’art. 1 dalla Procura Figc (dopo un esposto di Massimo Londrosi, d.s. del Pavia) per aver registrato a suo nome nel 2011 quattro marchi riconducibili al club fallito, e per aver ceduto - dopo aver negato il bonifico che ha fatto fallire il club - quello «Us Pergolettese 1932» alla As Pizzighettone, che nel 2012-13 ha fatto la Seconda divisione con quella denominazione. Macalli patteggerà, scrive “Zona Juve”. Anche su internet non si trova conferma.

Mario Macalli, da 15 anni presidente della Lega Pro di calcio, sarebbe indagato per appropriazione indebita, in merito alla sua acquisizione del marchio del Pergocrema, scrive “La Provincia di Crema”. Sulla scomparsa della società gialloblu (club dichiarato fallito dal tribunale cittadino il 20 giugno 2012), indagano le procure di Roma e Firenze che hanno ricevuto una denuncia da parte dell’ex presidente dei gialloblu Sergio Briganti, nei giorni scorsi inibito per 40 mesi dalla Federcalcio proprio per il fallimento del Pergo. E’ possibile che le due inchieste vengano riunificate. Macalli è stato vice presidente per alcuni anni della società gialloblu, vive a Ripalta Cremasca ed ha il suo studio in città. La storia dell’acquisizione del marchio venne scoperta e resa pubblica da un gruppo di tifosi che avrebbero voluto rilevare la società, percorrendo la strada dell’azionariato popolare. Con quattro registrazioni di marchi, Macalli ha reso impossibile il loro proposito.

Un altro terremoto scuote le malandate istituzioni del calcio italiano. La procura di Firenze, nel giorno della stesura dei gironi, ha chiesto il rinvio a giudizio per Mario Macalli, presidente della Lega Pro. L'accusa: abuso d'ufficio, scrive “La Provincia di Crema”. Oggetto dell'inchiesta penale condotta dal sostituto procuratore di Firenze, Luigi Bocciolini è la vicenda del fallimento del Pergocrema nell'estate 2012, nata dalla denuncia di Sergio Briganti, oggi difeso dagli avvocati Giulia De Cupis e Domenico Naso, e allora presidente del club lombardo. I dettagli dell'accusa per il manager sono pesantissimi: "In presenza di un interesse proprio, intenzionalmente si procurava un ingiusto vantaggio patrimoniale arrecando danno patrimoniale al Pergocrema fornendo agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione di bloccare senza giustificazione giuridica il bonifico da oltre 256mila euro, importo spettante come quota di suddivisione dei diritti televisivi, e che se disponibili avrebbero consentito alla società  sportiva di evitare il fallimento".

“Abuso d’ufficio”. E’ questa l’accusa, formulata dal procuratore della repubblica di Firenze, Luigi Bocciolini, che nei giorni scorsi ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio Mario Macalli, presidente della Lega Pro, scrive “Crema On Line”. L’oggetto dell’inchiesta, iniziata nel marzo 2013 riguarda la vicenda del fallimento del Pergocrema, avvenuta nel giugno 2012. L’indagine è partita dalla denuncia dell’ex presidente gialloblu Sergio Briganti. Dai verbali in possesso della polizia giudiziaria fiorentina nell’aprile 2012 l’avvocato Francesco Bonanni, responsabile dell’ufficio legale della Lega Pro, era incaricato di effettuare i conteggi relativi alla ripartizione della quota della suddivisione dei diritti televisivi della legge Melandri. La somma destinata al Pergocrema, allora iscritta al campionato di Prima Divisione Lega Pro, era pari a 312.118,54 euro lordi, al netto 245.488, 80 euro. In quel periodo la società cremasca gravava in una pesante situazione debitoria nei confronti di tecnici, atleti e fornitori. Il 3 maggio 2012 è stata presentata un'istanza da Francesco Macrì, legale dell’Assocalciatori, in rappresentanza di dieci tesserati del Pergocrema che vantavano 170 mila euro di debiti nei confronti del club gialloblu. Il tribunale di Crema ha autorizzato il sequestro cautelativo della somma in giacenza, comunicandolo alla Lega Pro. Il sequestro è stato attivato il giorno successivo. Il dato certo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, è che il 27 aprile 2012 la Lega era pronta a versare la quota: Bonanni ha escluso di aver dato l'ordine a Guido Amico di Meane, al commercialista della Lega Pro, di bloccare il versamento alla società cremasca. L'unico che avrebbe dato disposizione di non effettuare il relativo bonifico agli uffici preposti sarebbe stato Macalli.

Eppure, nonostante l’impegno della Procura, il Gup di Firenze Fabio Frangini ha assolto Mario Macalli, presidente della Lega Pro, dall’accusa di abuso d’ufficio riguardo al caso del fallimento del Pergocrema. Secondo l'accusa Maccalli non avrebbe autorizzato il versamento alla società della quota dei diritti tv relativa alla stagione 2011-2012.  Non luogo a procedere, scrive “La Provincia di Crema”. Il presidente di Lega Pro e vicepresidente della Federcalcio, Mario Macalli, è stato prosciolto dall’accusa di abuso d’ufficio, nell’ambito della vicenda che portò nel giugno del 2012 al fallimento dell’Us Pergocrema 1932. La decisione è stata presa martedì mattina 21 ottobre dal giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Firenze, che non ha quindi accolto la richiesta di rinvio a giudizio depositata dal pubblico ministero Luigi Bocciolini il 30 luglio scorso. Il reato ipotizzato per Macalli era quello previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale (l’abuso d’ufficio, appunto). Secondo il pubblico ministero, nella sua qualità di presidente della Lega Pro Macalli aveva intenzionalmente arrecato un ingiusto danno patrimoniale al Pergocrema, dando agli uffici preposti della Lega esplicita disposizione a bloccare, senza giustificazione, il bonifico alla società di 256.488,80 euro alla stessa spettante quale quota per i diritti televisivi. A seguito di ciò, il 28 maggio 2012, due creditori chirografari depositarono istanza di fallimento del Pergocrema, presso il tribunale di Crema, fallimento che veniva dichiarato il 19 giugno. In sostanza, l’accusa puntava a dimostrare che, la società gialloblù fallì perchè non fu in grado di saldare il debito contratto di 113.000 euro con il ristorante Maosi e l’impresa di giardinaggio Non Solo Verde. Il fallimento sarebbe stato evitato se la Lega Pro avesse eseguito a fine aprile sul contro del Pergocrema, come venne fatto per tutti gli altri club, il bonifico dei contributi spettanti alla società stessa. Ma il Gup — come detto —non ha sposato la tesi. Al termine degli accertamenti, il Gup lo ha prosciolto con formula piena perché "il fatto non sussiste". I difensori del ragioniere cremasco, l’avvocato Nino D’Avirro di Firenze e Salvatore Catalano di Milano hanno evidenziato, tra l’altro, che Macalli non svolge la funzione di pubblico ufficiale e pertanto non si configura il reato di abuso d’ufficio, scrive “Crema On Line”. Quindi l’inghippo c’era, ma non è stato commesso da un pubblico ufficiale? E qui, da quanto dato sapere, il motivo del non luogo a procedere. Come mai questa svista dei pubblici ministeri? «Aspettiamo le motivazioni — ha affermato a caldo l’ex presidente del Pergocrema, Sergio Briganti — e poi ricorreremo. La cosa non finisce qui». 

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.

Se la legge è incostituzionale sentenza definitiva sempre revocabile. La Cassazione a sezioni unite contro la malagiustizia, scrive Dimitri Buffa su “Italia-24news”. Se la legge è dichiarata incostituzionale, e quindi sommamente ingiusta (come è capitato in toto alla Fini-Giovanardi sulle droghe), le sentenze definitive sono sempre soggette alla revoca. Una sentenza rivoluzionaria delle sezioni unite della Cassazione, controfirmata anche dal primo presidente Giorgio Santacroce, rappresenta un punto fermo per quella magistratura che opera bene e che ripara le ingiustizie della mala politica e  della mala giustizia. La notizia oggi  stava in prima pagina sul “Corriere della sera” (“Le condanne definitive non sono più un tabù”) e anche del “Sole 24 ore” (“Le sentenze non sono più intoccabili”), e dà la linea sul futuro delle giustizia italiana. Delineando anche una strada che aiuterà le riforme del governo Renzi. La legge in questione da cui è stato tratto questo nuovo principio giuridico universale è proprio la Fini Giovanardi che ha prodotto un disastro di condanne molto alte anche per possessori di quantità non modiche di droghe leggere assimilati nelle condanne ai pusher di droghe pesanti. In genere tutte le pene verranno ricalcolate su istanza dei difensori degli imputati adesso che questo tabù è infranto. Il giudicato d’ora in poi non sarà per sempre. Ma la cosa ha un valore anche per future leggi penali. O anche per quelle passate già dichiarate incostituzionali come la quasi totalità dei decreti sicurezza voluti da Maroni nel 2009 quando era ministro dell’interno, per non parlare di chi si è visto negare benefici grazie alla legge Cirielli anche essa falcidiata dalla Consulta. In pratica la Cassazione  ieri ha messo uno stop grande come un macigno a questa legislazione di emergenza fatta da politici demagoghi, populisti e forcaioli che sfruttano l’emotività popolare e le reazioni di fronte a delitti efferati cercando di fare approvare norme vendicative dal parlamento come è accaduto per tutta l’epoca del secondo e del terzo governo Berlusconi. Ma anche negli anni ’90 sotto la spinta della finta rivoluzione di “mani pulite”. Adesso il legislatore dovrà pensarci due volte prima di fare una legge penale che poi può venire dichiarata incostituzionale. E l’avvertimento va a chi vuole mettere norme come l’auto riciclaggio, l’omicidio stradale, depistaggio e i vari concorsi esterni in associazione mafiosa o il voto di scambio. Se una di queste norme dovesse in seguito venire giudicata incostituzionale sarebbero guai: infatti anche chi fosse stato condannato definitivamente potrebbe chiedere la revoca della sentenza o il ricalcolo della pena con la norma in vigore. O venire addirittura scarcerato. Una sentenza quindi che diventa una lezione di civiltà per i giustizialisti che si annidano in parlamento e nel partito delle procure: da oggi non ci sarà più solo il caso a decidere le sorti di chi incappa in pessime leggi o nella malagiustizia. Da oggi la Cassazione stabilisce un principio che difenderà tutti i cittadini da chi abusa delle norme per scopi inconfessabili di controllo sociale o peggio.

Una condanna definitiva? Può essere rivista. La Cassazione: va annullata d’ufficio se la pena è inflitta con una norma dichiarata incostituzionale, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Se un condannato sta scontando una pena definitiva inflitta in base a una norma successivamente dichiarata incostituzionale, la condanna dev’essere annullata o rivista; e se non ci sono altre ragioni per restare dentro il detenuto deve uscire di galera. Non serve nemmeno che sia lui a chiederlo: tocca al pubblico ministero procedere d’ufficio. Sulla base di questa decisione, presa dalla Sezioni unite della Corte di cassazione il 29 maggio scorso, centinaia di reclusi - forse migliaia, di certo una quota consistente dei quasi cinquemila totali - hanno già lasciato le prigioni negli ultimi quattro mesi. Ma ora che le motivazioni della sentenza ne spiegano meglio ragioni e conseguenze, è prevedibile che per altri ancora si apriranno le celle. Perché il massimo organo giurisdizionale chiarisce che l’ambito del verdetto non si ferma al singolo caso di nullità per il quale era stato proposto il ricorso; da quella vicenda (un problema di prevalenza della recidiva sulle attenuanti), si estende all’altra causa di incostituzionalità della legge antidroga Fini-Giovanardi sancita a inizio 2014, all’aggravante della clandestinità abolita nel 2010 e a ogni altra decisione passata e futura della Consulta che abrogasse una legge per la quale un condannato è detenuto. Per i giuristi era quasi un tabù: la cosiddetta «intangibilità del giudicato», irriformabile anche di fronte a una violazione della Costituzione. Già qualche sentenza lo aveva intaccato, e adesso le Sezioni unite lo hanno definitivamente abbattuto. Mentre una legge abrogata o riformata dal Parlamento conserva i suoi effetti pregressi, e quindi sulla base delle modifiche non si possono rivedere le sentenze definitive, «La norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall’ordinamento proprio perché affetta da una invalidità originaria». Ne consegue una «proiezione “retroattiva” sugli effetti ancora in corso», a causa della «definitiva uscita dall’ordinamento di una norma geneticamente nata morta, inidonea a fondare atti giuridicamente validi». Conseguenza finale e inevitabile: «Tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall’universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui ciò sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati». Gli «obblighi di disapplicazione» di una legge abrogata dalla Consulta riguardano tutti i giudici, anche quelli che controllano l’esecuzione della pena. E «non deve meravigliare» che il caso si sia posto solo di recente poiché - notano le Sezioni unite, con un implicita bacchettata al Parlamento - «è agevole costatare che i casi di dichiarata incostituzionalità di norme attinenti al solo trattamento punitivo sono diventati sempre più frequenti negli ultimi anni, in cui il legislatore ha approvato una serie di irragionevoli previsioni sanzionatorie su cui è dovuto intervenire il Giudice delle leggi». Troppe restrizioni per alcune categorie di reati o di condannati, insomma, non hanno resistito al vaglio della Corte costituzionale e adesso devono cessare di avere conseguenze. Con il prevedibile risultato di far diminuire ancora la popolazione carceraria (già passata da 58.800 detenuti a poco più di 54.000 fra maggio a settembre). Anche perché se prima serviva un buon avvocato che proponesse l’istanza, d’ora in avanti alla rideterminazioni della pena - e alle eventuali liberazioni - dovrà procedere il pubblico ministero «nell’ambito delle sue funzioni istituzionali di vigilanza sulla osservanza delle leggi».

Quanto detto sta ad evidenziare che la linea sottile dell'imponderabile leggerezza della sorte travalica la colpa dall'innocenza, quando meno te lo aspetti. Che ne tengano conto chi sparla a proposito delle pene e delle colpe da parte di chi sta a giudicare, ingiudicato, gli altri. 

L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.

Il Carcere dell’Asinara. Il carcere di Fornelli è stato la prima struttura carceraria costruita sull'isola. Altre ne sono state successivamente aperte ed alcune furono adibite a colonie penali agricole. Questo carcere è stato utilizzato durante gli Anni di piombo per la reclusione di membri delle Brigate Rosse. In quell'occasione furono attrezzate le celle di massima sicurezza. In seguito ad un tentativo di insurrezione, avvenuto il 2 ottobre del 1979, la sorveglianza a Fornelli fu notevolmente rafforzata. All'Asinara soggiornarono i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che trascorsero un breve periodo sull'isola per motivi di sicurezza personale (i due giudici dovettero pagare allo Stato le spese tenute da loro stessi sull'isola per il loro soggiorno nella foresteria nuova di Cala d'Oliva). Molti detenuti mafiosi sottoposti al regime del carcere duro (secondo l'articolo 41-bis della legge del 26 luglio 1975, n. 354) sono stati reclusi in questo carcere nel periodo compreso tra il 2 settembre del 1992 sino al 1995. Tra i reclusi vi fu anche Totò Riina. A cavallo degli anni ottanta e novanta vi è stato recluso anche il capo della nuova camorra organizzata Raffaele Cutolo. Per la fruizione dell'ora d'aria, nel carcere di Fornelli e nel bunker di Cala d'Oliva (dov'erano incarcerati Riina, Cutolo e Leoluca Bagarella) furono ricavati dei piccoli cortili per far sì che i detenuti non avessero contatti diretti tra loro. Il carcere dell'Asinara può considerarsi una sorta di seconda Alcatraz, in quanto anche qui solo un detenuto riuscì a fuggire (il primo settembre 1986) nei suoi 112 anni (contro 29 di Alcatraz) di attività: si tratta di Matteo Boe, bandito sequestratore sardo, il suo complice, Salvatore Duras, fu catturato mentre Boe riuscì a fuggire a bordo di un gommone. Questo fece dell'Asinara il carcere con il minor numero di evasioni al mondo. Il 5 novembre 2009 il Guardasigilli, Angelino Alfano, ha ipotizzato la riapertura del carcere dell'Asinara e di quello di Pianosa, penitenziari nei quali sono stati storicamente detenuti i boss mafiosi in regime di carcere duro.

Il carcere di Pianosa. Nel 1856 viene istituita dal Granducato di Toscana la colonia penale agricola di Pianosa e furono inviati sull'isola i condannati destinati ad occuparsi dei lavori nei campi. Il carcere rimase in attività durante l'epoca fascista e vi fu detenuto dal 1931 al 1935 anche il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, incarcerato per motivi politici. Nel 1968 venne trasformato in penitenziario di massima sicurezza e la rimanente popolazione dell'isola venne evacuata. Nella struttura voluta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa vennero confinati inizialmente appartenenti a organizzazioni terroristiche e in seguito pericolosi esponenti delle mafie. Tra gli altri, vi vennero rinchiusi personaggi come Francis Turatello, Pasquale Barra e Renato Curcio. L'attività però venne a diminuire. Il 5 novembre 2009, l'allora ministro della giustizia del Berlusconi IV, Angelino Alfano, annunciò l'intenzione di riattivare pienamente il supercarcere, ma il giorno successivo, l'allora ministro dell'ambiente Stefania Prestigiacomo annunciò che, contrariamente alle dichiarazioni del collega, il carcere non sarebbe stato riaperto. Le attività dell'istituto sono cessate definitivamente nel 2011. Da quella data è terminato il divieto assoluto di sbarco che da un lato aveva impedito il turismo sull'isola, ma nel contempo aveva garantito il mantenersi intatto delle bellezze naturali. Rimane però una limitazione per i visitatori, che non possono superare il numero di 250 al giorno utilizzando il traghetto che effettua corse quotidiane partendo alle 10.00 da Marina di Campo sull'isola d'Elba e ritornandovi con partenza da Pianosa alle 17.00. Sull'isola possono trascorrere la notte alcuni turisti, poiché è stato ricavato un albergo di dieci camere dalla residenza del direttore della Colonia Penale realizzata nel XIX secolo. L'albergo è gestito da una cooperativa di volontari e da detenuti in regime di semilibertà del carcere di Porto Azzurro.

Perché chiusero Pianosa e l'Asinara? L'opposizione a grazia ed indulto accumuna delle forze politiche e culturali disparate. I detenuti andrebbero fatti lavorare obbligatoriamente, scrive Giorgio Ponziano su “Italia Oggi”. Quelli che dicono no all'indulto e all'amnistia. Sotto le bandiere di Matteo Renzi ma anche lontani dal sindaco di Firenze tanto che il fronte anti è assai variegato e va dai radicalchic di Micromega alla destra di Fratelli d'Italia, passando attraverso 5stelle e Lega. Il botto ovviamente l'ha fatto Renzi e subito i suoi aficionados si sono adeguati, come il sindaco di Bologna, Virginio Merola, uno dei tanti convertitosi al renzianesimo dopo una lunga professione bersaniana. «L'indulto e l'amnistia, come misure emergenziali - dice - non possono risolvere il problema delle nostre carceri, dove ai detenuti devono essere garantite misure detentive dignitose. Abbiamo il difetto di ricorrere sempre a questa logica dell'emergenza per cui non è la prima volta che si parla di amnistia e indulto, nel frattempo non è stata nè potenziata la situazione delle carceri nè migliorato il trattamento dei detenuti. Ogni 3-4 anni ridursi al fatto che l'unica possibilità è quella dell'amnistia e dell'indulto non è un bel vedere per il nostro Paese». Così i renziani, allineati. Ma da Napoli è un prete anticamorra a prendere posizione, nonostante Papa Francesco abbia più volte chiesto un atto di clemenza per i detenuti. «Non mi sento - dice don Aniello Manganiello, in prima fila nel cercare di dare ai giovani un futuro non camorristico - di sostenere la richiesta del presidente della Repubblica». Insieme al leader degli ecorottamatori Verdi, Francesco Emilio Borrelli, ha addirittura fondato un comitato contro l'indulto e l'amnistia. «Dall'indulto di Mastella», dice il sacerdote, «sono passati pochi anni e i penitenziari sono di nuovo strapieni dimostrando il totale fallimento di questo modus operandi. La verità è che bisognerebbe cambiare il regime carcerario obbligando i detenuti a lavorare per la collettività che hanno danneggiato. Ad esempio molti di quelli campani potrebbero partecipare alla bonifica della Terra dei Fuochi che in parte è stata avvelenata anche per colpa loro. Oppure potrebbero pulire le strade o servire alle mense dei poveri svolgendo dei servizi sociali. Come è successo dopo ogni indulto e amnistia oltre all'aumento di atti criminali si otterrà una sempre maggiore demotivazione delle forze dell'ordine a cui, evidentemente, i vertici istituzionali non stanno pensando adeguatamente. Senza contare il pessimo esempio per le vittime di atti delinquenziali e per l'intero Paese, col messaggio distorto che il crimine conviene e chi delinque alla fine la fa sempre franca». Una certa sorpresa è il no espresso dai radicalchic di Micromega, in dissenso con Sel, coi partiti della sinistra radicale e con la coppia Pannella-Bonino, tradizionali e principali interlocutori della rivista, sulla quale Andrea Camilleri, Roberta de Monticelli, Paolo Flores d'Arcais, Barbara Spinelli firmano un manifesto in cui sottolineano che «la condizione di vita nelle carceri è incivile e indegna di un Paese democratico». Però poi avvertono: «L'indulto e l'amnistia non risolvono il problema, come già dimostrato da precedenti anche recenti. Per fare uscire migliaia di detenuti basterebbe abrogare la legge Bossi-Fini e la legge Fini-Giovanardi». «L'indulto e l'amnistia che il presidente Napolitano chiede in toni ultimativi al Parlamento», continua l'appello sponsorizzato da Micromega, «non risolverebbe nessun problema strutturale e avrebbe come unici effetti più rilevanti quelli di fornire un salvacondotto tombale a Berlusconi, di delegittimare il lavoro della magistratura di contrasto al crimine, di umiliare le vittime e i loro parenti». Sul fronte della magistratura ad alzare la voce è Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di Reggio Calabria: «La cosa grave è che si mette nella testa della gente l'idea che alla fine tutto si aggiusta, che non esiste la certezza della pena, che in primo grado, in appello o addirittura dopo la sentenza definitiva qualcosa succede, perchè uno sconto ci sarà sempre per tutti. In Italia nel 2012 c'erano 112,6 detenuti per ogni 100 mila abitanti. La media europea è 127,7. Quindi noi siamo sotto la media: questo ci dice che il problema non è che sono troppi i detenuti, bensì che sono poche le carceri». Ma il procuratore affonda il suo j'accuse: «Cosa hanno fatto i politici per risolvere il problema delle carceri dopo l'ultimo indulto del 2006? Perché sono state chiuse le carceri di Pianosa e dell'Asinara dove potevano stare i detenuti del 41 bis? Perché in questi anni non sono stati fatti accordi bilaterali con Paesi come la Romania e la Tunisia per trasferire nella galere patrie i detenuti stranieri, che in Italia sono ben 20mila? Perché non lo fa domani mattina il ministro della Giustizia?». Infine Gratteri fa due esempi di malagestione del problema: in provincia di Cagliari c'è un carcere quasi finito, costruito appositamente per i 41-bis, mai utilizzato per mancanza di personale mentre in provincia di Nuoro un'intera sezione dedicata ai 41-bis è vuota. Gli fa eco, da Brescia, il sindacato della polizia di Stato, Ugl: «Tralasciando l'aspetto puramente politico della vicenda», è scritto in un documento ufficiale, «rimangono indelebili le sicure lacerazioni all'ormai devastato tessuto sociale e giuridico cui già si assistette nei precedenti indulti e amnistie che furono elargite con tanta benevolenza dai nostri parlamentari qualche anno fa. In realtà, con l'indulto del luglio 2006, uscirono circa 25mila condannati ma un anno dopo le carceri erano strapiene perché circa un terzo degli indultati sono tornati in carcere. Ancora una volta, un atto di umanità ai delinquenti si tradurrà in un peso sociale che dovrà essere assorbito e pagato dai già martoriati cittadini». Pure il Coisp, altro sindacato di polizia, fa sentire la sua voce di dissenso: «Già nel 2006», afferma Giuseppe Raimondi, del direttivo Coisp, «allorquando fu adottato il medesimo provvedimento di indulto, i fatti diedero ragione a chi come noi non era d'accordo, difatti dopo lo «svuotamento delle carceri» ci fu il successivo «riempimento delle stesse», ove in tantissimi casi, trovarono nuovamente alloggio le stesse persone che ne avevano beneficiato e che avevano commesso nuovi reati. Non possiamo permettere che il lavoro certosino fatto dagli uomini e le donne della polizia di Stato e delle altre forze di polizia vada al vento, troppo spesso si vedono in circolazione personaggi che con non poca fatica erano stati tratti in arresto». Nel cocktail politico troviamo (oltre a Matteo Renzi) Lega e 5stelle a fare da battistrada. Matteo Salvini, vicesegretario della Lega sostiene che «in un Paese civile, se le carceri sono sovraffollate, ne costruisci altre, non depenalizzi e apri le porte». Aggiunge Lorenzo Fontana, capodelegazione Leganord al parlamento europeo: «Qui si sta invertendo la logica dello Stato di diritto. Qualsiasi provvedimento di clemenza è inutile, come dimostra l'indulto del 2006, anch'esso firmato da Napolitano. Facciamo un indulto ogni tot anni per poi trovarci da punto a capo?». Non usa termini molto difformi Beppe Grillo, che dopo avere scomunicato i suoi parlamentari che si erano espressi a favore, se la prende col presidente della Repubblica: «Le lacrime napulitane versate per coloro che sono detenuti - ha scritto il leader 5 Stelle sul suo blog - sono sospette da parte di chi è parte fondante di questa classe politica. E il sospetto che l'appello avvenga per salvare Berlusconi e una miriade di colletti bianchi è lecito». Al coro si unisce Fratelli d'Italia. Secondo Barbara Benedetelli, responsabile dell'area tutela vittime della violenza di Fdi: «In Itali vi sono decine di carceri finite e inutilizzate, costate non poco ai contribuenti, e altre semivuote. In più ci sono caserme abbandonate che possono essere adibite a carcere senza spendere denaro per costruirle. Poi il 40 % dei detenuti sono stranieri: vadano a scontare la pena nel Paese d'origine, si riprendano gli accordi bilaterali in questo senso, avviati nel 2010 da Alfano. Guai a sbiadire il principio della certezza della pena». Sulla certezza della pena è intransigente anche una voce fuori dalle diatribe politiche, quella di Rosanna Zecchi, vedova di Primo, assassinato dalla banda della Uno bianca perché prendeva il numero di targa dell'auto in fuga dopo una rapina, coordinatrice dell'associazione che raggruppa i parenti delle vittime della banda che vent'anni fa insanguinò l'Emilia-Romagna e le Marche: «Ci sentiamo delle sentinelle - dice - vigiliamo affinchè le condanne processuali non vengano disattese nell'esecuzione della pena. Se arrivassero sconti sarebbe uno schiaffo inaccettabile dopo tutto quello che abbiamo sofferto».

In nome dell’emergenza stravolte le regole del processo, scrive Salvatore Scuto su “Il Garantista”. C’è un silenzio assordante che caratterizza il pur acceso e vociante dibattito sulla Giustizia di questo Paese. Del processo del doppio binario, infatti, non si discute e riflette da troppo tempo. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che i processi di criminalità organizzata rappresentano un problema di rilievo nazionale per le questioni di principio e di civiltà giuridica che quotidianamente sollevano attesa la compressione delle garanzie difensive che li caratterizza. La storia del processo del doppio binario prende le mosse da un’emergenza drammatica quale fu quella delle stragi palermitane del 1992 e, da allora, è stata attraversata da mille nuove emergenze che ne hanno segnato il corso ed allargato il suo stesso perimetro. Non è un caso che tale sistema processuale speciale riguarda ormai tipologie di reato non direttamente connesse al fenomeno della criminalità organizzata mentre sono assai recenti gli appelli di un’alta carica istituzionale a che quel sistema sia esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione. Ha ragione Marc Augé quando ci ricorda che viviamo avviluppati in una sorta di matassa delle paure, dalla quale si dipanano mille rivoli di insicurezza. Un serbatoio inesauribile per redditizie opportunità mediatiche e propagandistiche, dal quale la politica continua ad attingere a piene mani e senza tanti scrupoli. Del resto i ripetuti manifesti programmatici imperniati sulla fermezza, la repressione e la tolleranza zero costituiscono un ottimo strumento di procacciamento di consensi e costituiscono l’anima della retorica della sicurezza. Sull’altare dei numerosi totem securitari i fenomeni distorsivi, che ne sono diretta conseguenza, hanno investito la tipologia del processo del doppio binario, oggetto di ripetute scorribande, l’ultima delle quali oggetto di uno degli interventi del Governo annunciati e decisi il 29 agosto di quest’anno ma non ancora pubblicati. Ma se l’emergenza criminalità organizzata è stato senz’altro il primo motore di tale fenomeno processuale, alcuni recenti dati statistici costituiscono il presupposto per un migliore approfondimento del fenomeno. Nel 2012 in Italia sono stati commessi 526 omicidi dolosi, con una percentuale pari ad 1 omicidio ogni 100.000 abitanti a fronte di un indice medio europeo che è pari ad 1.9, ovvero quasi il doppio. Se disaggreghiamo tale dato complessivo avremo che: 159 sono omicidi che vedono come vittime la donna; 175 sono omicidi consumati all’interno delle mura domestiche, 84 sono omicidi di matrice mafiosa ( mafia, ’ndrangheta, sacra corona unita). Nonostante tale inversione di tendenza rispetto al passato, che continua a caratterizzare anche i dati del 2013 e che dovrebbe consigliare di far rientrare il processo penale nei ranghi delle regole ordinarie, tutte quelle compressioni delle garanzie e dei diritti di difesa introdotte in ragione di un’emergenza che non c’è più continuano tuttavia a mortificare il processo del doppio binario, ponendo un vera e propria questione di civiltà giuridica. Il legislatore, infatti, continua a creare sottosistemi processuali a prerogative difensive affievolite in ragione della sicurezza, con una marcata tendenza – governata dall’emergenza di turno – ad espandere tali caratteristiche a settori della repressione penale un tempo immuni. Se ne ricava un’immagine di un doppio binario in via di espansione, composto da un coacervo di norme processuali che derogano pesantemente ai principi generali ed incidono restrittivamente sui diritti della difesa, finendo per condizionare in negativo l’accertamento dei fatti, le dinamiche della prova e le stesse regole di giudizio nei processi di criminalità. Prova ne siano, tra le tante, la deroga al principio di immutabilità del giudice, la circolazione delle prove con serie limitazioni del diritto di difesa, in particolare rispetto al diritto di interrogare l’accusatore nel corso del giudizio in chiaro contrasto con i principi stabiliti dalla Carta costituzionale e dalla Cedu. In questo contesto deve registrarsi con preoccupazione come la legge sui collaboratori di giustizia (legge n.45 del 2001) sia stata progressivamente svuotata per mano giurisprudenziale. Il rispetto del termine di 180 giorni per rendere le dichiarazioni e la conseguente sanzione di inutilizzabilità non costituiscono più un ostacolo per l’utilizzazione delle dichiarazioni effettuate fuori da quel termine almeno nella fase delle indagini preliminari, ai fini dell’emissione di misure cautelari personali e reali, nell’udienza preliminare e nel giudizio abbreviato. Si è così verificata la sostanziale vanificazione dell’intento di evitare le dichiarazioni a rate con il concreto rischio che il sapere del collaboratore si adegui alle attese degli inquirenti. Non rari i casi, in questo contesto, in cui il collaboratore esce dal servizio di protezione e ritratta, salvo poi tornare a rendere dichiarazioni accusatorie in sede processuale. Tali tematiche reclamano di essere riportare al centro del dibattito e della riflessione sulla Giustizia, senza alcuna demagogia ma con la determinazione che deriva dalla convinzione che il processo penale non può essere uno strumento di lotta ai vari fenomeni emergenziali né un metodo per cambiare la società. Il processo, al contrario, ha la funzione di proteggere i diritti dal potere e più sarà giusto più condivise ed efficaci saranno le conseguenze che derivano dall’ accertamento della responsabilità penale.

Quelli che siedono al tavolo con le carte truccate, scrive Francesco Petrelli su “Il Garantista”. Francesco Petrelli è il segretario dell’Unione Camere penali. Chi di voi ricorda la vecchia favola di Esopo della volpe che invitata a pranzo dalla cicogna, tutta contenta dell’invito, si vide servire le pietanze in un’anfora dal lungo collo adatta al sottile becco della cicogna ma nella quale la volpe non riuscì neppure a infilare il muso? Fuor di metafora, e andando alla morale della favola, a chi conviene sedere al tavolo delle riforme senza sapere chi sono gli interlocutori, chi è che davvero prepara le riforme ed in base a quali principi? Prima di sederci al tavolo delle riforme del processo penale si dovrebbe far chiarezza su alcune questioni fondamentali e (premesso che a quel tavolo ci piacerebbe sedere al più presto), vorremmo ad esempio capire chi ha interesse ad indebolire il Ministro Orlando che ci è sembrato sino ad ora un paziente tessitore che sa quanto difficile sia il dialogo con le componenti della giustizia, ma che sa anche come in questo momento sia necessario che la politica riaffermi il suo ruolo di “tecnica regia” capace di costruire nuovi rapporti e nuovi equilibri. Chi siede al tavolo della riforma della giustizia deve essere certo che le riforme in discussione siano il frutto di una solida visione del processo, incardinata sui valori condivisi dell’art. 111, della terzietà del giudice, del valore epistemologico del contraddittorio, del processo inteso come accertamento delle responsabilità personali e non come strumento di lotta ai fenomeni criminali, come strumento di garanzia del cittadino davanti all’autorità dello Stato. Ma la condizione perché i temi cruciali della giustizia siano affrontati e risolti e perché il sedersi al tavolo della giustizia sia utile per tutti, dipende proprio dalla trasparenza e dalla lealtà dei convenuti. Chi discute di riforme della giustizia deve essere garante della congruenza delle diverse iniziative di riforma e soprattutto della loro compatibilità con quell’insieme di valori condivisi ed imprescindibili. Non si può coltivare, come auspicato dall’avvocatura penale, il rafforzamento della tutela della funzione difensiva attraverso la riforma dell’art. 103, e coltivare a un tempo una complessiva “amministrativizzazione” del processo penale; prospettare la limitazione dei ricorsi dei pubblici ministeri in caso di doppia conforme (sentenze di primo e secondo grado uguali) e contraddittoriamente ipotizzare la soppressione o la limitazione dell’appello; da un lato affermare il valore del contraddittorio e dall’altro progettare la estensione dell’uso della videoconferenza e del “doppio binario”; da una parte ipotizzare l’interruzione dei termini di prescrizione in primo grado e dall’altra lasciare inalterata la discrezionalità assoluta del pubblico ministero nella iscrizione delle notizie di reato e nell’esercizio dell’azione penale. La necessità di coerenza e di compatibilità della riforma con i valori costituzionali è un’esigenza del sistema che non può essere subordinata a spinte ideologiche o corporative. Ed è per questa ragione che quando sederemo al tavolo delle riforme, vorremmo confrontarci con i valori del “giusto processo”, con i principi del codice penale minimo, della ragionevole durata come garanzia dell’imputato, e non con l’ennesimo incubo partorito dall’ “inconscio inquisitorio” di una magistratura a corto di consenso popolare. A volte il sedere o non sedere a tavola dipende anche dalle stoviglie con le quali la tavola è stata apparecchiata.

Una storia semplice” cioè di cattiva giustizia, scrive Maurizio Bolognetti su “Il Garantista”. Le carceri «consistente e allarmate nucleo di nuova shoah», così Marco Pannella ebbe a definire le nostre patrie galere nel corso di un congresso di Radicali Italiani. Le carceri luogo di tortura senza torturatori, perché ad essere torturata è l’intera comunità penitenziaria, abbandonata da uno Stato incapace di rispettare la sua propria legalità. Nel corso della sua attività parlamentare, Rita Bernardini ha fotografato le condizioni di degrado del pianeta carcere in dettagliati e articolati atti di sindacato ispettivo. Una lunga teoria di interrogazioni che meriterebbe di essere letta, conosciuta e divulgata. Alcuni di questi atti sono il fedele resoconto delle visite che con regolarità abbiamo dedicato alla Casa circondariale di Potenza. Ed è proprio dalle due ultime ispezioni effettuate nel carcere di via Appia che prende corpo la storia che mi accingo a raccontare. L’interrogazione 4-14401 del 10 gennaio 2012 descrive la realtà di una struttura con numerose criticità, del resto denunciate dagli stessi sindacati di polizia penitenziaria. Leggiamo, infatti, nel corpo del documento che «al momento della visita – effettuata il 28 dicembre 2011 – erano presenti 170 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 110 posti essendo chiusa perché a rischio crollo la sezione penale». Non solo, nel testo si parla anche della cronica carenza di agenti di polizia penitenziaria, di una insufficiente assistenza psicologica e infermieristica e di carenze anche per ciò che concerne la presenza di educatori. Nell’atto di sindacato ispettivo si riferisce del coro unanime di lamentele per «il cattivo funzionamento della magistratura di sorveglianza» e si chiede, tra l’altro, al ministero «in che modo e in quali tempi, intenda intervenire per rimuovere lo stato di degrado di alcuni luoghi del penitenziario, degrado dovuto essenzialmente allo scarso budget previsto per la manutenzione ordinaria e straordinaria». Non mancano, e non potrebbe essere diversamente, domande sull’operato della magistratura di sorveglianza e una domanda che verrebbe da definire retorica nella quale la deputata radicale chiede «quali iniziative urgenti intenda adottare» il ministero per ricondurre «le condizioni di detenzione vigenti all’interno dell’istituto penitenziario di Potenza alla piena conformità al dettato costituzionale e normativo». Trascorrono 5 mesi e nel maggio del 2012 Bernardini mi comunica che finalmente il ministero ha risposto. Leggo la risposta e penso che per le disastrate carceri di questo Paese non ci sono soldi anche quando cadono letteralmente a pezzi. Testualmente il ministero afferma che «a causa della riduzione degli stanziamenti sui capitoli di spesa per l’edilizia penitenziaria non è stato possibile eseguire gli interventi di manutenzione relativi alla sistemazione della sala colloqui, del muro di cinta, dei reparti detentivi, al ripristino dell’integrità della copertura del fabbricato, degli impianti termici» e – udite, udite – dell’impianto antincendio!!! Insomma, con tanto di timbro governativo arriva la conferma della totale illegalità della struttura, che si sposa con l’illegalità certificata da tempo dalla Cedu e dalle denunce radicali sulle condizioni di detenzione. Inevitabilmente ripenso alle parole forti pronunciate nel luglio del 2011 dai direttori penitenziari del Si.Di.Pe, che esprimendosi a sostegno dell’iniziativa radicale volta ad ottenere un provvedimento di Amnistia, che è innanzitutto di Amnistia per la Repubblica, scrivevano: «Non ci pongono in condizione di svolgere il nostro lavoro con dignità, nell’effettivo rispetto delle leggi solennemente enunciate e quotidianamente violentate». Decido che nella risposta del ministero c’è materiale da sottoporre all’attenzione della Procura della Repubblica. E così, nel giugno del 2012, prendo carta e penna e invio un esposto-denuncia all’attenzione della dott.ssa Laura Triassi, procuratore capo in quel di Potenza. Alla denuncia allego la risposta data dal ministero all’interrogazione 4-14401, non mancando di sottolineare le notizie di reato che emergono dalla stessa. Un esposto in linea con quell’atto di significazione e diffida che Marco Pannela e Giuseppe Rossodivita hanno indirizzato il 18 settembre 2003 a tutti i procuratori della Repubblica, ai direttori delle case circondariali, a tutti i magistrati di Sorveglianza. Domenica 19 agosto 2012, ore 12.10. Dopo aver tenuto una conferenza stampa all’ingresso della casa circondariale di Potenza,  varchiamo il cancello ed entriamo nuovamente nel carcere. Ci viene co musicato che la capienza regolamentare dell’istituto è stata portata da 170 a 202 posti e la cosiddetta capienza tollerabile da 230 a 260. Sorrido per non piangere di fronte ad un evidente gioco da treccartari. Ci guardiamo attorno e nel complesso la struttura è migliorata rispetto all’ultima visita, ma di tutta evidenza permangono situazioni di illegalità sottoposte all’attenzione della Procura della Repubblica di Potenza. Nel corso della lunga visita, come sempre cella per cella, incontriamo O. G., un detenuto che ci racconta la sua storia e il suo disagio e che ci dice «tra 110 esco». Ecco, appuntatevi queste iniziali: O. G. Luglio 2014, i deputati radicali sono stati opportunamente fatti fuori dal Parlamento e alla porta della mia abitazione bussa l’ufficiale giudiziario. Dalla busta che mi viene consegnata, che non è quella di un gioco a premi, spunta un decreto di citazione. Leggo con non poca sorpresa che sono stato convocato dalla procura della Repubblica di Catanzaro in qualità di teste, per essere ascoltato in un procedimento penale contro tale O. G., accusato di violazione dell’art. 612 del codice penale. Tradotto: minacce. La situazione assume subito delle connotazioni kafkiane. Inizio ad interrogarmi e proprio non riesco a capire chi possa essere O. G. e dopo due notti insonni mi dico che non ho assistito a nessun episodio di minacce. La cosa che più mi inquieta, soprattutto pensando a come funziona la macchina della giustizia in Italia, è il fatto che nemmeno riesco a capire la convocazione da parte della procura di Catanzaro. Perché Catanzaro? Trascorrono tre mesi e finalmente, qualche giorno fa, ho capito, ho saputo, ho ricostruito a ritroso. O. G. era il detenuto che con Bernardini ho incontrato nel corso della visita del 19 agosto del 2012, o per meglio dire uno tra le centinaia di detenuti che ho incontrato nell’agosto 2012. Era quello disperato, che ci ha raccontato lo strazio di vivere lontano dalla famiglia e dai suoi 4 figli. Ho capito di essere stato convocato dalla procura di Catanzaro in qualità di collaboratore dell’onorevole Rita Bernardini. Con me, nella stessa veste, è stata convocata anche mia moglie. Che strano paese l’Italia! Un paese dove l’obbligatorietà dell’azione penale è un oggetto misterioso, un totem di fronte al quale alcuni si genuflettono e che noi radicali vorremmo abolire, scontrandoci regolarmente con chi ritiene che sia un tabù il solo parlarne, ammesso e non concesso che in questo paese si possa seriamente discutere di riforme della giustizia. Sì, proprio strano: per O. G. è immediatamente scattata l’obbligatorietà dell’azione penale, mentre della denuncia inviata alla procura di Potenza nel giugno 2012, ad oggi non ho notizia alcuna. Leonardo Sciascia in uno dei suoi racconti più riusciti, “Una storia semplice”, cita una frase di Durrenmatt, il suo scrittore preferito. E’ una frase che leggo spesso e che a conclusione di questa lunga esposizione voglio condividere con chi leggerà questo articolo: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia». Chissà, forse anche questa è una “Storia semplice” o forse è semplicemente una storia che racconta di un paese dove la legge, il diritto, i diritti, la Costituzione non hanno più corso e dove la Costituzione materiale ha sostituito da tempo la Costituzione reale.

Asinara, così Gratteri lo vuole riaprire, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. La proposta di Nicola Gratteri di riaprire il carcere dell’Asinara continua a far discutere, soprattutto nel momento di visibile difficoltà del ministro della giustizia Orlando. La “Commissione Gratteri”, istituita per volontà del premier Renzi, ha acquisito lo status di Struttura Generale della Presidenza del Consiglio e lo stesso Gratteri, si dice determinato a portare avanti il progetto e farlo approvare entro l’anno. In Sardegna, la vicenda ha sollevato un vero e proprio polverone. Per Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione sarda Socialismo Diritti Riforme: «Suscita viva preoccupazione la riapertura del carcere dell’Asinara per ospitare i detenuti in regime di 41bis proposta dal Procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri incaricato dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, insieme agli altri Magistrati Piercamillo Davigo e Sebastiano Ardita, di formulare un progetto di riforma del sistema penitenziario. Un nuovo programma assurdo che paradossalmente rischia di acquisire fondatezza proprio per il problema dei detenuti mafiosi destinati alla Sardegna». Inoltre, sottolinea Caligaris, «la volontà di far prevalere la forza sulla ragionevolezza e il buon senso rischia di travolgere e annullare un percorso di emancipazione in cui l’isola dell’Asinara è inserita da tempo. Sarebbe infatti inqualificabile se lo Stato, dopo aver ceduto alla regione l’area demaniale, destinasse i detenuti in regime di massima sicurezza a un’isola-parco di straordinaria bellezza paesaggistica e naturalistica e dove il turismo sta assumendo finalmente un ruolo importante». Secondo la presidente la Sardegna appare sempre più destinata a subire scelte dall’alto: «Speriamo che stavolta si tratti solo di un esercizio letterario senza conseguenze, anche se è meglio vigilare». Dagli anni settanta al 1998, anno della sua effettiva chiusura, il carcere dell’Asinara è stato un istituto di massima sicurezza, nel quale sono stati rinchiusi criminali affiliati alle organizzazioni politiche di estrema destra e estrema sinistra che in quegli anni agivano sul territorio italiano. Ma è stato anche luogo di detenzione per anarchici, come Passante e politici come Sandro Pertini. Prima di diventare un carcere di massima sicurezza, l’Asinara è stata una colonia penale e poi un penitenziario. Ma è durante gli anni 70 che il super carcere dell’Asinara acquista finalità ben diverse. A segnare la svolta anche il cambio di direzione che affida la guida dell’istituto a Luigi Cardullo, il quale lo dirigerà per otto anni con il pugno di ferro, guadagnandosi subito la fama di duro. Gli stessi agenti di custodia dell’Asinara l’avevano soprannominato “il viceré” e così Cardullo conquistò ben presto la fama di direttore carcerario più odiato d’Italia. Il suo comportamento attira l’attenzione dei giornali, ad esempio quando fa sparare, da alcuni agenti contro un turista svizzero che aveva oltrepassato il limite di 500 metri dalla costa imposto dalla capitaneria. Oppure quando nel 1976, il processo a carico di un detenuto del carcere di Alghero, che lo accusava di comportamento illegale, si trasforma in un processo ai metodi spicci del “viceré” Cardullo. In quell’occasione la difesa non solo riesce a far assolvere l’imputato dalle scuse di calunnie, ma riesce a concentrare l’attenzione dei media su quanto avveniva tra le mura del carcere. La realtà che emerge è quella di un sistema di reclusione dove regnano i pestaggi sui detenuti, oltre alle sevizie psicologiche. La censura della posta e l’isolamento appaiono come metodi normalmente utilizzati. Alle condizioni di vita sull’isola iniziarono a interessarsi diversi esponenti della politica italiana. L’onorevole dell’allora partito Comunista Vincenzo Balzamo, in un’interrogazione al Ministro di Grazia e Giustizia, chiese se i diritti umani dei detenuti, anche quelli accusati dei reati più gravi, rispettassero le norme costituzionali e i nuovi regolamenti carcerari. Richiesta avanzata nel tentativo per cercare di smentire la voce secondo cui alcuni detenuti, come Renato Curcio e Sante Notarnicola, erano trattati da “sepolti vivi”. L’anno dopo, cinque carcerati, tutti appartenenti all’estrema sinistra, guidarono una manifestazione pacifica contro l’installazione dei vetri divisori, cristalli spessi un dito che rendevano ancora più difficili i colloqui. La protesta venne repressa con pestaggi e violenze, e il giudice di sorveglianza, recatosi all’Asinara, ordinò l’immediato ricovero del detenuto anarchico Carlo Horst Fantazzini, il famoso ”ladro gentiluomo”, perché in gravi condizioni. Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo del 1981, sempre al super carcere dell’Asinara, avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. C’è il detenuto Pasquale De Feo , ergastolano ostativo, che racconta  quel periodo: «Nel luglio del 1992 all’Asinara avevano instaurato, nella sezione Fornelli, il regime di tortura del 41bis e il trattamento era disumano, soffrivamo la fame, la sete, il freddo non essendoci riscaldamenti, non avevamo niente, la sopravvivenza occupava tutta la mia quotidianità. In certi momenti ci guardavamo e ci dicevamo che un giorno, quando lo racconteremo, non ci crederanno. Ricordo di aver letto in un libro che gli ebrei nei campi di concentramento avevano gli stessi nostri timori, di non essere creduti. Anni dopo, gli stessi detenuti non ci credevano quando lo raccontavano. In America su simili aberrazioni avrebbero fatto tanti film, come hanno fatto su Alcatraz, in Italia, nessun film, perché l’omertà istituzionale è più granitica di quella della criminalità». Se ne occupò anche Amnesty International nel 1993 che, raccogliendo varie testimonianze, pubblicò un dossier dove si denunciavano le torture che avvenivano nel supercarcere. La chiusura del super carcere dell’a Asinara, definito la ”Guantanamo” sarda, e l’istituzione del Parco naturale (voluta e finanziata fortemente dall’Europa) diviene finalmente realtà il 27 dicembre 1997 tramite il Governo Prodi. Chiusura che a distanza di anni, grazie soprattutto al processo sulla presunta ”trattativa mafia- stato, viene percepita come un patto oscuro tra le Istituzioni e la criminalità organizzata: quando si prova a rendere umane le carceri, chiudere quelle che non rispettano i diritti dell’uomo o mettere in discussione il 41 Bis , subito rispunta il fantasma della “trattativa”. Una spada di Damocle davvero insostenibile.

Lettera alla madre pubblicata da “Fondazione Pertini”. Il presidente Sandro Pertini scrive alla madre da Pianosa. "Mamma, con quale animo hai potuto fare questo? Non ho più pace da quando mi hanno comunicato, che tu hai presentato domanda di grazia per me. Se tu potessi immaginare tutto il male che mi hai fatto ti pentiresti amaramente di aver scritto una simile domanda. Debbo frenare lo sdegno del mio animo, perché sei mia madre e questo non debba mai dimenticarlo. Dimmi mamma, perché hai voluto offendere la mia fede? Lo sai bene, che è tutto per me, questa mia fede, che ho sempre amato tanto. Tutto me stesso ho offerto ad essa e per essa con anima lieto ho accettato la condanna e serenamente ho sempre sopportate la prigione. E’ l’unica cosa di veramente grande e puro, che io porti in me e tu, proprio tu, hai voluto offenderla così? Perché mamma, perché? Qui nella mia cella di nascosto, ho pianto lacrime di amarezza e di vergogna – quale smarrimento ti ha sorpreso, perché tu abbia potuto compiere un simile atto di debolezza? È mi sento umiliato al pensiero che tu, sia pure per un solo istante, abbia potuto supporre che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riacquistare la libertà. Tu che mi hai sempre compreso, che tanto andavi orgogliosa di me, hai potuto pensare questo? Ma, dunque, ti sei improvvisamente cosi allontanata da me, da non intendere più l’amore, che io sento per la mia idea? Come si può pensare, che io, pur di tornare libero, sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può importarmene della libertà? La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di questo tradimento, che si è osato proporre a me. Nulla può giustificare questo tuo imperdonabile atto. Lo so, più di te sono colpevoli coloro che ti hanno consigliata di compierlo. Vi sono stati spinti dall’amicizia che per me sentono e dalla pietà che provano per le mie condizioni di salute? Ma pietà ed amicizia diventano sentimenti falsi e disprezzabili, quando fanno compiere simili azioni. Mi si lasci in pace, con la mia condanna, che è il mio orgoglio e con la mia fede, che è tutta la mia vita. Non ho chiesto mai pietà a nessuno e non ne voglio. Ma mi sono lagnato di essere in carcere e perché, dunque, propormi un cosi vergognoso mercato? E tu povera mamma ti sei lasciata persuadere, perché troppo ti tormenta il pensiero, che io non ti trovi più al mio ritorno. Ma dimmi, mamma, come potresti abbracciare tuo figlio, se a te tornasse macchiato di un così basso tradimento? Come potrei vivere vicino, dopo aver venduto la mia fede, che tu hai sempre tanto ammirata? No mamma, meglio che tu continui a pensarlo qui, in carcere, ma puro d’ogni macchia, questo tuo figliuolo, che vederlo vicino colpevole, però, d’una vergognosa viltà. Che male ho fatto per meritarmi questa offesa? Forse ho peccato di orgoglio, quando andavo superbo di te, che con fiera rassegnazione sopportavi il dolore di sapermi in carcere. E ne parlavo con orgoglio ai miei compagni. E adesso non posso più pensarti, come sempre ti ho pensata: qualche cosa hai distrutto in me, mamma, e per sempre. È bene che tu conosca la dichiarazione da me scritta all’invito se mi associavo alla domanda da te presentata. Eccola: “ La comunicazione, che mia madre ha presentato domanda di grazia in mio favore, mi umilia profondamente. Non mi associo, quindi, ad una simile domanda, perché sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni altra cosa, della mia stessa vita, mi preme”. Per questo mio reciso rifiuto la tua domanda sarà respinta. Ed adesso non mi rimane che chiudermi in questo amore, che porto alla mia fede e vivere di esso. Lo sento più forte di me, dopo questo tuo atto. E mi auguro di soffrire pene maggiori di quelle sofferte fino ad aggi, di fare altri sacrifici, per scontare io questo male che tu hai fatto. Solo così riparata sarà l’offesa, che è stata recata alla mia fede ed il mio spirito ritroverà finalmente la sua pace. Ti bacio tuo Sandro. P.S. Non ti preoccupare della mia salute, se starai molto priva di mie lettere." Pianosa, 23 febbraio 1933.

In memoria di Pianosa… di Rosario Indelicato. Questo testo venne scritto alcuni anni fa. Da una delle persone che furono detenute nel supercarcere di Pianosa. Una delle due supercarceri.. quella di Pianosa e quella dell’Asinara.. che fecero furore all’inizio degli anni 90 e che adesso qualcuno vorrebbe riaprire, dopo che, nel 1997, furono chiuse. E che adesso qualcuno vorrebbe riaprire. Quel qualcuno forse non sa, o non vuole sapere, cosa furono Pianosa e l’Asinara. Ci eravamo già occupati di questa questione. Questo di Rosario Indelicato è uno dei testi più emblematici in tal senso.

In memoria di Pianosa (di Rosario Indelicato). "Grazie. Buonasera. Io sono stato arrestato nel 1992 a maggio. Mi trovavo nel carcere de l’Ucciardone, nella seconda sezione. Successero le stragi. Dopo l’ultima, ero ristretto nella seconda sezione con altri detenuti. Non avevo addirittura neanche l’associazione di stampo mafioso. La notte dopo la strage ci vengono a prendere alle tre di notte: “dobbiamo fare la perquisizione”, allora dico: “Mi devo preparare, devo prendere qualcosa?”. “No, no, vada nel cortile che dopo la perquisizione risalite tutti”. “Va bene”. Scendo addirittura con un paio di jeans e una camicia e mi buttano lì nel canile, perché così chiamano le celle di isolamento. Dopo tre ore cominciano ad arrivare carabinieri, polizia, finanza. “Ma cosa sta succedendo?”, penso. Ci caricano sopra ai blindati, ci portano all’aeroporto di Punta Raisi e da lì a Pisa. A Pisa con gli elicotteri militari. Ricordo un particolare, terrorizzato com’ero dalla visione del carcere che non avevo ancora fatto, un capitano dei carabinieri contava i detenuti ammanettati sull’elicottero con la pistola, così…: uno, due, tre, quattro, per comunicare agli altri quanti eravamo sull’elicottero. Arrivati a Pianosa, c’era qualcuno di noi più vecchio che già immaginava cosa potesse succedere. Io, invece, ero ignaro. Sinceramente non avevo la cultura del carcere pesante. Comunque  ci portarono nelle celle, diciamo nella Grippa. Passò un giorno e l’indomani cominciò l’inferno. Di tutto: legnate, manganellate, acqua tirata, sputi, spinte, fatti cadere a terra. C’era di tutto e di più. Ricordo che si cercava di normalizzare la situazione facendo fare delle denunce ai propri famigliari. Ricordo che venne addirittura la Maiolo, venne Taradash, vennero altri politici ma durante il giorno della loro visita era tutto normale perché le guardie, dietro di loro, ci imponevano di stare zitti per cui nessuno, per timore, diceva cosa ci facevano. La cosa durò per mesi. Io lì ce ne feci cinque anni un mese e venti giorni proprio contati. Io ho brutti ricordi, brutti ricordi e dico solo che la violenza è generatrice di violenza e se ad una persona tu levi la libertà, le levi tutto e non c’è più bisogno di usare violenza su quella persona che magari si vuole riscattare, ma ancor di più quando la persona viene infangata nell’onorabilità come è nel caso di molti siciliani, di molte persone. Lasciamo stare queste cose che poi ne sono uscito a testa alta da tutti i processi. Il discorso invece è un altro. Lo Stato che si è prestato a queste direttive che trovo vergognose. Mi devono spiegare perché su di me si è fatto un crimine perché per questo crimine non sta pagando nessuno, anche se ho denunciato gli artefici di questi abusi. Volevo rispondere al Dottor Palma della commissione europea che in Italia pur avendoli condannati, non hanno espiato un giorno di pena e si ritrovano attualmente a lavorare all’interno del carcere, per cui, dico io, non cambia niente. In Spagna e in Italia le cose non cambiano, tanto è vero che poi non c’è stato più luogo a procedere. Per quattro denti mi hanno portato dal dentista e questo dentista, seduto là, fece. “togliete le manette al detenuto”. “No, no, operi così”. “Guardi che deve anche sciacquarsi”. “No, no, operi così e basta, stia zitto”. E allora si misero in sette otto di loro, chi con le pinze chi con lo scalpello, con gli arnesi diciamo per tirare il dente perché questo medico ha avuto paura e questo è nella mia denuncia. Questo medico ebbe paura e allora diete luogo a sistemare il dente, ma comunque non capì quello che stava facendo, tanto è vero che ha  rovinato quello buono e lasciato quello cattivo. Alla fine mi ha detto: “Fra 15 giorni ci vediamo e completiamo il lavoro”, ma vidi che era più terrorizzato di me. Quindi venni messo sul blindato (andavamo fuori dalla sezione Agrippa, ci portavano in un carcere dove c’erano gli ergastolani che però andavano a lavorare fuori), messo sul blindato e venni massacrato. Questo il 22 dicembre 1992. Ero stato portato lì il 20 di luglio. Figuratevi quello che avevo passato. Mi portarono in cella, massacrato. Passarono 3 giorni, arrivò Natale e mi portano patate bollite con la pasta condita con la margarina fredda, tutte cose appiccicate. Presi le paste e le buttai –tant’è vero che i primi mesi persi 16 chili- buttai la pasta, non volli mangiare andai a letto. Dopo, il 27 mi vennero a prendere. Ogni volta non volevamo uscire dalla cella per non prendere legnate. Sistematicamente tutte le volte c’era la perquisizione corporale, dovevamo fare piegamenti perché dovevano vedere se eventualmente si nascondesse qualcosa nelle parti intime. Dovevamo aprire la bocca, ci infilavano le dita nelle orecchie, tutto quello che potevano… Ma sicuramente dovevano esserci le istruzioni, le direttive di qualche psicologo o psichiatra, perché non erano persone intelligenti quelle che si adoperavano a fare queste cose, per cui le direttive dovevano esserci dall’alto. Il 27 dicembre, come dicevo, mi portarono dal comandante e il comandante guardò i miei mandati di cattura, già ne avevo tre, e disse: “Guardi che lei ha una brutta posizione”. Io, sempre con la testa bassa, con le guardie dietro, davanti, risposi: “Guardi che la cosa non mi tocca se lei pensa così, perché lei sui di me non può dare nessun giudizio, questo lasciamolo decidere ad un tribunale e vedrà che la mia onorabilità verrà pulita nuovamente, non infangata come in questo momento”. Il Direttore: “Ma lei vuole andare a casa?”. “No, no, io a casa non ci voglio andare, io le chiedo solamente di finirla con questa vessazioni, queste legnate, queste torture, queste cose. Guardi che io a casa ci andrò a tempo debito2. Lui non fece nessun cenno e disse: “Può andare”. Quando mi girai e già stavo uscendo dalla porta seguito dagli… diciamo aguzzini, non li voglio neanche chiamare guardie per non infangare chi veramente fa questo lavoro con rispetto verso l’umanità, il Direttore mi disse: “Sa Indelicato se ha ricevuto minacce a casa…?”. Risposi: “Son 13 mesi che non faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie, ogni volta che viene qua, viene vessata più di me, perché deve passare le perquisizioni corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto. Mia moglie che non c’entra niente, i miei figli che non c’entrano niente con queste torture. E allora io, siccome sono stato scelto come agnello sacrificale, preferisco subirle io, per cui qua colloqui non ne faccio. Quindi lei sa meglio di me se io, visto che c’è la censura, posso ricevere informazioni in merito a quello che mi sta dicendo. Se così è e hanno fatto questo abuso…”. Perché, che cosa fece questo direttore? Mi chiese se avevo ricevuto minacce a casa, tipo incendi, cose varie. Ma io ovviamente non lo potevo sapere. Me ne sono andato. Però questo pallino, questa idea mi rimase in testa. Quella era una mossa psicologica, perché loro ti smontavano, volevano creare il pentito. Questa è la realtà. E questo hanno fatto, perché ci sono state persone che si sono pentite e persone che si sono pure uccise. E persone che, forse la dico grossa, le hanno costrette o le hanno proprio uccise loro, perché uno non può tacere su quello che vedeva. Per cui andai in cella e cominciò tutta ‘sta trafila. Era il 27 dicembre e non ricevevo neanche la posta, mi avevano bloccato tutto. Feci il telegramma perché volevo che venisse l’avvocato. E il telegramma non partiva. La risposta non arrivò, perché il telegramma non partiva. Comunque sto due mesi malissimo, proprio non ci stavo più con la testa. Poi ci fu un detenuto della mia sezione che andò al colloquio e lo pregai di chiedere che il suo avvocato si mettesse in contatto con il mio per vedere se poteva venire e darmi delucidazioni in merito a quello che mi avevano detto. E venne. Mi disse: “No guardi, tutto a posto, tranquillo”. Dissi: “Va beh, ho capito”. Si trattava di un altro tipo di tortura. Ma al pomeriggio mi portarono tutta la posta che era un bel po’ di lettere, di telegrammi, di auguri di amici, fratelli e così via. Le altre torture erano: uscivo dalla cella, si doveva correre per circa… il primo braccio – io mi trovavo alla nona -, il primo braccio era 15 metri, c’erano altri 15 metri per arrivare al cancello dell’aria e lì, sistematicamente, si mettevano 20 di loro, o 15, o 30, dipende da chi voleva partecipare al gioco. Allora ci facevano levare le scarpe, ce le facevano buttare a terra, ci facevano la perquisizione, poi andavamo a prendere le scarpe e qualcuno dava una pedata. Andavamo a prendere le scarpe e chi ci metteva la manganellata, chi la pedata, chi la spinta, chi ci sputava, chi ci buttava l’acqua; si scivolava nella curva ed erano botte nuovamente. In una di queste tante  giornate passate così, ci fu una guardia che mi disse “Lei quando esce all’aria, quando esce dalla cella non deve correre. “Guardi, io non lo capisco se corro, se ho corso, perché non ho più cognizione di causa di capire quello che faccio”. “No, lei non deve correre. Prego si accomodi”. Apre il cancello, quello di dietro mi mette una pedata nella schiena, cado all’interno dell’aria, lui chiude il cancello e mi incastra il ginocchio destro che poi mi sono operato una volta finito lì, diciamo la pena, la situazione. Comunque, questa fu una delle tante. Un’altra fu che nella perquisizione ci fu uno che fece un atto eroico e io non so come ringraziarlo. Prese lo scroto e lo tirò talmente forte che mi staccò una vena all’interno. Caddi a terra e lì ci fu un altro pestaggio. Mi alzai ma non poteva fare più niente: ero una noce dentro un sacco, non potevo parlare, perché il fatto che avessi il processo a Marsala mi comportava che loro mi trasferivano e dalla relazione volevano che arrivasse il chiaro di tutto, che io non parlavo con nessuno, che non facevo nessuna denuncia, sennò erano problemi seri. Ritornai lì e comunque persisteva sempre questo stato di cose: trovai vetro nella pasta, trovai detersivo nella pasta, trovai un preservativo nella pasta, presi sputi in faccia nella notte quando mi venivano a svegliare. Andavo allo spioncino a chiedere che volessero e, nel momento in cui mi affacciavo, mi dicevano: “Come si saluta’”. Dicevo: “Buona notte…”. “Come si saluta’”. Dicevo: “Buona notte…” e seguiva lo sputo: “Buona notte signore”. Allora dicevo: “Buona notte signore”. Andavo a letto e non spegnevano più la luce per cui le zanzare facevano festa. Poi un giorno ebbi delle coliche renali, mi presero, avevo bisogno del medico, mi ci portarono, e mi prescrisse che dovevo bere tre litri d’acqua al giorno. E loro cos’hanno fatto? Mi hanno preso, mi hanno portato nelle celle d’isolamento, mi hanno dato un litro d’acqua al giorno. Mi piegavo per il dolore perché non resistevo a stare in piedi e non appena mi abbassavo veniva qualcuno di loro e mi diceva: “Alzati, devi stare in piedi se no… non c’è neanche gioia a vederti abbassato che ti attutisti il dolore”. Nel mentre lui andava via, mi riabbassavo perché questo stiramento mi faceva stare un tantino meglio. Queste sono state alcune delle migliaia e migliaia e migliaia di situazioni che mi sono capitate nella detenzione a Pianosa. Ricordo che una volta dovevo andare al colloquio, allora loro mi vennero a prendere all’aria e mi hanno detto: “Lei deve andare al colloquio”.”Io qua sono, pronto”. Non ci avevo niente. Non ci avevano fatto prendere niente a Palermo. Dicono: “Vada in cella, che poi la veniamo a prendere”. Va bene, vado in cella, esco dalla cella, mi metto le mani al muro che mi dovevano fare la perquisizione, perché questa perquisizione prima era fatta manualmente e poi ti dovevano passare al metal detector. Passo questa perquisizione e uno mi fa: “Ma lei, quando esce dalla cella – ci eravamo visti un minuto prima- come dice? Non saluta?”. “Ho detto buongiorno poco fa quando sono uscito, poi mi siete venuti a prendere, vi ho salutato, sono entrato in cella e vi ho risalutato, sono qua, vi ho detto buongiorno”. “No, no, no. Come si dice?”. A me il “buongiorno signore” non mi usciva, non ce la facevo. Quel “buongiorno signore” non mi usciva e io, sistematicamente prendevo le legnate. “Vi ho detto buongiorno” ripetei, sempre con le mani al muro e allora, da sotto le bracci che tenevo alzate, mi arrivò un pugno qui, nell’occhio. Io ho fatto il pugile da professionista e lo so quello che significa prendere le botte, ma quante ne ho prese lì… manco in vent’anni di pugilato ho preso tutti i pugni che ho preso lì. Va bene. Mi si gonfia l’occhio. Vengono a maniche nude con le unghie sporche, perché quelle erano sporche, perché molti erano anche sardi, napoletani . Mi prendono… Non sono un razzista però queste persone mi ricordo essere più umane. Mi prendono uno per un braccio e uno per l’altro, stringono forte e mi entrano le unghie nelle carni, comincia a sanguinare il braccio, mi portano nella saletta, mi fanno rispogliare, mi rivesto e mi ripresento al grande pubblico che erano mio fratello e mia moglie. La situazione è stata disastrosa, io non riuscivo manco a contenere la rabbia, avevo paura di qualche reazione scomposta di mio fratello, anche se solo uno sguardo potesse nuocere a loro, allora dissi: “State calmi, non è successo niente, state tranquilli che piano piano ci rimettiamo”. In questo modo loro facevano capire ai famigliari… C’era qualche famigliare che diceva: “Ma se tu hai qualcosa da raccontare, la racconti e te ne esci”. Cioè cercavano di fare pressione sui famigliari affinché a loro volta la facessero a noi. Comunque ho fatto colloqui di due minuti: ti portavano là e poi: “Signora si deve preparare perché il mare si sta mettendo brutto, deve partire”. “Ma guardi che sono arrivata ora…”. “Signora non insista, prego si accomodi . Due volte me l’hanno fatta questa discussione. Un minuto… Ogni volta mi costava tre milioni fare venire per un colloquio, uno al mese. Io, una cosa mi ricordo, ecco perché la voglio porre all’attenzione: non sono tutti così i sardi, però ce n’era uno in particolare che… Gianluca Valletta. Abbiamo fatto n processo e non l’hanno manco condannato, cioè l’hanno condannato ma non ha neanche scontato la pena. Questo ogni volta che arrivava con il carrello nella sezione diceva: “Forza porci, da che si mangia, dai che si mangia. Affacciatevi tutti, porci”. Andavo per prendere il pane e “Levati di mezzo”. “Ma il pane me lo devi dare”. “Togliti”. Mi toglievo e me lo buttava a terra, e dovevo raccogliere il pane… Un’altra cosa che mi ricordo e me la ricordo perché… crdetemi ne sono passati di anni  però sono cose che non riesco a cancellare. Il fatto era che lavavi la cella, il giorno, la mattina, tutto bello e sistemato perché  per un detenuto occupare il tempo, lavare qualcosa, lavare qualche indumento, lavare la cella, fare le pulizie significa non oziare, occupare il tempo e non pensare a come ti va a finire, a quanti anni hai da scontare… Lavai la cella la mattina, rientrai dall’ora d’aria che erano le 11.00, presero un prodotto, non so cosa, lo buttarono dentro, gli occhi mi bruciavano e mi fecero: “Era sporca, comincia a ripulire la cella”. Ma questo capitava…Dentro le docce, dentro le docce era che s’entrava come mandrie, come i tori quando passano attraverso… (anche perché ci chiamavano così), attraverso il valico. Avevamo il tempo di bagnarci, insaponarci e loro chiudevano l’acqua: “Fuori, avanti un altro… avanti un altro”. Gente anziana che soffriva di queste cose. Chi scivolava. Insomma, sono tante le cose… Non riesco a delineare tutto e a raccontare, ma c’è da parlare pure molto di quanta cattiveria c’è all’interno. Si sono fatti dei crimini che non hanno una giustificazione. Credetemi, io da incensurato non dovevo essere portato lì a Pianosa: che c’entro io a Pianosa e che c’entra quello che ha la pena definitiva? Se il carcere deve essere rieducativo non c’entra nulla la repressione. Ma con chi la fanno la repressione? Con quelli che sono dentro e che non si possono nemmeno difendere? Io ho avuto come avvocato in Cassazione l’onorevole Alfredo Biondi che venne qui a Piombino per presentare l’appello in Cassazione e disse a mia moglie: “Signora guardi che suo marito lì non ci può stare, suo marito è un semplice indagato e lì non ci può stare, vedrà che le cose cambieranno”. Per undici volte ho avuto rinnovato il 41 bis, il dottor Margara, ogni volta che me lo rinnovavano e io mi appellavo, il tempo di arrivare le carte a lui e mi facevano la traduzione qui nel carcere di Sollicciano, e arrivava nuovamente la carta che me lo rinnovavano. Ma come? Io non ero mai stato in carcere, non avevo mai avuto sequestri di beni, non ero stato nemmeno sottoposto a vigilanza. Il guardasigilli… Io avevo passato tutte queste cose mentre ero un semplice incensurato, perché alla fine si evince che “il soggetto non collabora”. Ma che devo dire, che volete sapere di me che io non so? Vi rendete conto di come viene amministrata la giustizia? Alla fine la giustizia viene amministrata da gente che non ne è degna? Vi ringrazio. (…..) Ricordo che feci un colloquio e volli vedere mia figlia dopo 16 mesi, una bambina di appena 6 anni. Allora mia moglie la preparò e la portò. Io avevo il processo a Termini Imerese. Ero arrivato a Termini Imerese da qualche giorno in traduzione da Pianosa, smagrito. Feci subito la domandina e feci un telegramma chiedendo a mia moglie di portare la bambina che la volevo vedere. Il giorno del colloquio andai nella saletta per due posti, e c’era anche Pippo Calò. Entrai e vidi che c’erano mia moglie e mia madre. Chiesi dove fosse mia figlia. Mia moglie disse: “E’ qui sotto, nascosta”. C’era il muretto  e poi tutto il vetro fino al soffitto; allora mia figlia salta su per farmi uno scherzo, mi vede e si aggrappa a mia moglie e comincia a piangere: “Portami via, questo non è papà, non è il mio papà”, a gridare, a piangere. Ho detto loro di andarsene per non rovinare il colloquio all’altra persona che era nella saletta e che aspettava come me questo momento. Perché si perdeva tantissimo tempo prima dei colloqui e nelle traduzioni. Nelle traduzioni pensi che arrivi là, poi ti rimandano su, poi ti dicono che lo faranno da un’altra parte, poi rimandano il processo. I soldi li bruciavano così nelle traduzioni, io non capisco il perché. Dovevo stare un giorno lì, una settimana, per poi ridiscendermi un’altra volta a Palermo. Cose assurde, non di meno era questa la situazione che si veniva a creare anche con i famigliari. (Questo secondo me è da togliere, perché qui non si tratta di un appendice su tutte le tematiche carcerarie, come il problema delle traduzioni, ecc.) Mia figlia la lasciai a 3 anni e la trovai più grande e non ho più intrattenuto un rapporto con lei perché la bambina nella sua crescita avrebbe avuto bisogno di un padre, di una sicurezza che le è venuta a mancare. Ormai è sposata e abbiamo un altro tipo di rapporto, ma quella mancanza le è pesata e grazie alle istituzioni che me l’hanno vietata, che mi hanno vietato di vederla, di toccarla, di abbracciarla, ho perso la sua infanzia, non ho potuto crescerla, volerle bene, esserle vicino quando era bambina. .(…) Il piatto veniva lavato con il Cif, quello con il quale si pulisce il bagno. Con il Cif in polvere noi ci lavavamo i piatti dove mettevamo la pasta."

Le carceri, però, son piene di gente come questi…

Accusato di aver rubato 10 euro:si fa 5 mesi, ma è innocente, scrive Antonio Alizzi su “Il Garantista”. L’ennesimo errore giudiziario, devastante. L’ennesima dimostrazione tangibile delle contraddizioni quotidiane che segnano il corso di una giustizia troppo spesso… ingiusta. La storia di Ioan Lacatus, rumeno domiciliato a Cosenza, in Calabria, può essere assunta a modello delle anomalie giuridiche – e non solo – dell’ordinamento giudiziario italiano. La sintesi, prima di tutto: l’uomo si fa 5 mesi di galera per un presunto furto ai danni di un disabile di una banconota da 10 euro. (proprio così: 10 euro, 5 mesi). E lo Stato si accorge soltanto anni dopo di avere commesso una clamorosa svista. Ed è costretto a correre ai ripari, disponendo un risarcimento per ingiusta detenzione del valore di 33mila euro circa. Ecco come sono andati i fatti. Lacatus, nato il 12 luglio del 1964 a Reteag, cittadina della Romania, viene arrestato il 4 febbraio del 2009 con l’accusa di aver commesso in concorso una rapina. Un reato che secondo la Procura cosentina, il cui titolare delle indagini all’epoca dei fatti era il pm Giuseppe Visconti, commise, istigando i due figli minori S. L. e A. B. e un tale V. F. S., cioè persone non imputabili, a “derubare” la parte offesa che in un secondo momento, a seguito degli accertamenti svolti e dalle informazioni assunte dai carabinieri di Cosenza si scoprì affetto da problemi «di natura neuro-psichica sin dalla nascita, tant’è vero – scrisse l’avvocato del foro di Cosenza, Michelangelo Russo, difensore di Lacatus, nell’istanza di riparazione per ingiusta detenzione – che risulta invalido al 100%». Insomma, Ioan fu sfortunato ad essere ritenuto compartecipe dell’azione criminale, che inizialmente comportò ben 144 giorni (cinque mesi e quattro giorni) di custodia cautelare, privandolo della libertà personale. Ma prima i giudici del Tribunale di Cosenza, l’8 luglio 2009, sentenza di primo grado, e poi la Corte d’Appello di Catanzaro (prima sezione penale), il 23 maggio 2012, lo scagionarono per «non aver commesso il fatto». Che i magistrati (ad eccezione della Procura generale che a suo tempo invocò l’assoluzione) avessero sbagliato a valutare il caso in questione, il legale Russo cercò di farlo capire attraverso le dichiarazioni di tre testi, L. L., A. D. T., e G. M. T., che furono «ignorate» dal Tribunale del Riesame. «L’autorità giudiziaria procedente non ha ritenuto di revocare, o quantomeno sostituire, la misura cautelare in carcere in presenza di elementi prognostici positivi quale il decorso del tempo, la disponibilità di una abitazione, il legame con il territorio italiano e la presenza della famiglia in Italia». In poche parole, avrebbe potuto affrontare il processo a piede libero senza far spendere ulteriore denaro allo Stato e soprattutto senza subire la tortura del carcere. Secondo l’avvocato Russo c’erano i presupposti per un risarcimento per danni materiali e morali, e così nel 2013 chiese alla Corte di Appello di Catanzaro di pronunciarsi sull’istanza di ingiusta detenzione, «determinando il quantum a titolo di risarcimento, da liquidarsi, giusto criterio aritmetico di calcolo in materia, in misura non inferiore a 36.316,28 euro o, in quell’altra misura che, anche in via equitativa, verrà ritenuta di Giustizia». E giustizia alla fine è arrivata, quando il presidente del Collegio Alessandro Bravin, chiamato a discutere del ricorso presentato in favore di Ioan Lacatus, decise di accogliere la domanda, riconoscendo al romeno il diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione sofferta, determinando l’ammontare della somma, quantificata in base al coefficiente pari a 235.87 euro al giorno che, moltiplicati per i 144 giorni passati dietro le sbarre, fanno 33.965,28 euro. «Un’ingiustizia sostanziale rispetto ad una accusa rivelatasi successivamente infondata», rilevò il presidente della prima sezione penale, richiamando nel provvedimento adottato anche due sentenze della Corte Suprema di Cassazione: quella del 10 agosto 2005, a firma del giudice Bruzzano, e quella dell’11 luglio 2007, a firma del giudice Bevilacqua. Dunque si applicò il principio del quantum debeatur secondo cui «la riparazione deve essere determinata, essenzialmente, considerato la durata, le caratteristiche della privazione della libertà personale e le conseguenze personali e familiari derivanti da tale privazione», espresso dalla Cassazione in una sentenza del 13 gennaio 1995.

Nulla di più illegale della carcerazione preventiva di Bossetti, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Massimo Bossetti, indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha la sfortuna di vivere in Italia. Se abitasse in Inghilterra, o in Germania o in Francia o in Spagna piuttosto che in Portogallo o Belgio o nei paesi nordici, non sarebbe in carcere. Solo in Russia e in Turchia infatti ci sono detenuti in attesa di giudizio in numero maggiore che in Italia. In tutta l’Europa democratica non si sta in carcere ad attendere in processo. Nemmeno in Sudafrica, come ha dimostrato il processo a Pistorius. In Italia sì, perché in Italia esiste la tortura attraverso il carcere, benché questo procedimento non sia previsto dal codice. Andrebbe sempre ricordato che quando si parla di custodia cautelare dovrebbero valere quei principi elementari di civiltà giuridica tante volte ricordati sia dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Pure in Italia la politica del pendolo continua a farla da padrona, in tema di carcere preventivo. Nel 1995, pur in un momento di grande confusione politica dopo la caduta del primo governo Berlusconi, un Parlamento ancora a maggioranza di centrodestra attuò la più importante riforma della custodia cautelare. Una riforma cui lavorò una commissione giustizia ad ampia presenza di garantisti (di destra e di sinistra ) e che stabilì, in deroga ai principi restrittivi della legge del 1991, che il carcere prima del processo debba essere solo l’ultima spiaggia, da utilizzare quando ogni altra misura sia inapplicabile. Il secondo principio fissato da quella riforma fu il fatto che i rischi di fuga o reiterazione del reato o inquinamento delle prove dovessero essere “concreti”, non teorici e non dovuti al fatto che l’indagato non ammettesse gli addebiti. La misura adottata dovrebbe essere inoltre ridotta al minimo indispensabile. Anche pochi giorni, quindi. Il contrario di quel che succede ogni giorno, invece. Ora, un magistrato rigoroso e consapevole del fatto che la custodia cautelare non deve mai essere una sorta di anticipazione della pena, non avrebbe mai tenuto Massimo Bossetti in carcere per 130 giorni. Dobbiamo ricordare, per essere almeno noi rigorosi, che il pendolo legislativo aveva oscillato nella sua versione peggiore nel 2009, quando era stata introdotta nell’ordinamento giudiziario una norma che equiparava i reati a sfondo sessuale a quelli di criminalità organizzata, imponendo quindi l’ inversione dell’onere della prova. Il codice rendeva obbligatoria la custodia cautelare in carcere, “salvo che” si dimostrasse l’inesistenza di esigenze cautelari.  E soprattutto vietava il ricorso agli arresti domiciliari. Se questa norma fosse ancora in vigore, per Massimo Bossetti sarebbe stato alquanto difficile uscire presto dal carcere. E oggi il tribunale del riesame avrebbe le mani libere per confermare la detenzione. Ma una sentenza della Corte Costituzionale del 2010 ha demolito quella legge, ritenendo inapplicabili ai reati sessuali i criteri usati nei confronti degli indagati per reati di mafia. Rispetto ai quali l’inversione dell’onere della prova e il carcere preventivo obbligatorio sarebbero giustificati dal timore che, una volta in libertà, il presunto mafioso possa riallacciare i rapporti con i complici. Una teoria comunque discutibile, perché stiamo sempre parlando di persone innocenti secondo la Costituzione. Fatto sta che oggi Massimo Bossetti deve uscire dalla prigione. Come libero o come detenuto al domicilio. Lo diciamo non solo con l’ottimismo della volontà, ma perché è giusto che sia così. Finora i magistrati hanno applicato la legge del 2009, sarebbe ora che il tribunale si ricordasse anche della sentenza della Corte costituzionale del 2010.

Malagiustizia, quanto ci costi!, scrive Deborah Cianfanelli su “Il Garantista”. Ieri una delegazione di Radicali composta da Pannella, Rita Bernardini, Laura Arconti e io, si è recata presso la Corte dei Conti del Lazio per depositare un esposto volto a richiedere un’indagine in merito al danno erariale causato dall’ormai ultradecennale malfunzionamento della giustizia in Italia. Abbiamo inteso renderci ancora una volta strumento di attivazione delle istituzioni, nel tentativo di portare a conoscenza di tutti gli italiani il grave costo che incombe su ognuno di loro a causa della disastrosa situazione del sistema giustizia e carceri, più volte condannato dalla Corte Europea. n questo modo noi Radicali abbiamo voluto celebrare l’anniversario del messaggio alle Camere del presidente della Repubblica nel quale veniva ricordato il principio stabilito dalla Corte Costituzionale, che fa obbligo per i poteri dello Stato, ciascuno nel rigoroso rispetto delle proprie attribuzioni, di adoperarsi affinché gli effetti normativi lesivi della Convenzione cessino. Siamo stati ricevuti personalmente dal procuratore Angelo Raffaele De Dominicis. Nel corso del lungo e cordiale colloquio abbiamo illustrato il contenuto dell’esposto redatto da me in qualità di avvocato. In tale documento si evidenzia in modo particolareggiato come lo stato di assoluta illegalità del sistema giustizia italiano abbia ormai delle enormi ripercussioni sull’economia nazionale, andando ad incidere fortemente sul debito pubblico. Sul fronte civile l’articolo 6 della convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto di ognuno ad ottenere giustizia in termini ragionevoli. Dalla cronica irragionevole durata dei processi in Italia consegue il diritto, per chi li ha subiti, a chiedere ed ottenere un congruo risarcimento ai sensi della Legge Pinto. Tale rimedio meramente risarcitorio doveva essere temporaneo, in attesa di riforme strutturali in grado di rendere i processi più veloci e quindi conformi alla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nei tredici anni di vigenza della legge Pinto non si è avuta però alcuna riforma in grado di evitare il reiterarsi della violazione e lo Stato italiano si rende altresì moroso rispetto a detti risarcimenti. Sul bilancio del ministero della Giustizia gravano quindi pesantemente i costi dei risarcimenti che hanno avuto nel corso degli anni un andamento crescente. Già nel 2007 la commissione tecnica per la Finanza Pubblica (Ctfp) rilevava che tale contenzioso era una delle voci di spesa più significative (ed una delle cause principali di indebitamento) del ministero della Giustizia: era costato negli ultimi cinque anni circa 41,5 milioni di euro, di cui 17,9 nel solo 2006. La commissione evidenziava come l’inefficienza del sistema giustizia non rappresenta soltanto un costo sociale, ma la fonte di costi rilevanti per il sistema produttivo in termini di crescita e produttività, soprattutto in sistemi di mercato aperti e concorrenziali. L’incertezza sui tempi delle decisioni ed il loro procrastinarsi in tempi non ragionevoli, ha ripercussioni distorsive sulle transazioni commerciali e sulle decisioni di investimento. In particolare la commissione stimava il rischio economico dello Stato per le (future e probabili) condanne ex Legge Pinto in circa 500 milioni di euro all’anno. Stesse considerazioni allarmanti in riferimento al danno causato all’economia nazionale sono state espresse nel 2011 dalla Banca d’Italia; secondo quest’ultima, in termini economici, il costo dell’inefficienza della giustizia italiana può essere misurato come pari all’1% del Pil. Da ultimo si ricorda che lo stesso ministero della Giustizia, nella relazione presentata all’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2014, ha ammesso che i ritardi della giustizia ordinaria determinano ricadute anche sul debito pubblico e che l’alto numero di condanne dello Stato ed i limitati stanziamenti sul relativo capitolo di bilancio, hanno comportato un forte accumulo di arretrato del debito Pinto ancora da pagare che, ad ottobre 2013, ammontava ad oltre 387 milioni di euro. Le somme sopra riportate si riferiscono unicamente alle condanne ai sensi della Legge Pinto, e non tengono conto delle condanne subite dallo Stato in materia di violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che riguarda il divieto di trattamenti inumani e degradanti con riferimento ai detenuti delle nostre carceri. Anche in questo caso Governo e Parlamento, lungi dal voler prendere in seria considerazione un provvedimento di amnistia quale unico strumento in grado di abbattere il reiterarsi delle violazioni e le conseguenti condanne, hanno preferito optare per rimedi meramente risarcitori, con ulteriori costi per le casse dello Stato. Di tutti questi costi non è dato rintracciare una stima certa nei bilanci dello Stato ed anche su questo punto l’esposto presentato alla Corte dei Conti chiede di fare chiarezza. Visto l’interesse e la cordialità dimostrati dal procuratore De Dominicis, i Radicali si augurano che oltre al “Giudice a Berlino” vi siano un procuratore ed un Giudice in Italia che abbiano il coraggio di fornire risposte, nell’interesse di ogni italiano cui lo Stato chiede enormi sacrifici, specialmente in questo periodo di crisi economica, senza smettere di violare la sua stessa legalità, e causando con tale comportamento gravi ripercussioni sull’intera economia nazionale.

Dell’insostenibile irresponsabilità della magistratura, scrive Maurizio Calo “Articolo 21”. Lo considerereste, ed a ragione, la summa della domanda retorica (cui, per imitare le triple in stile Francesco Merlo, si potrebbero aggiungere: il paradigma dell’ovvietà e l’archetipo dell’evidenza) il dilemma se sia preferibile essere operati d’appendicite da un chirurgo responsabile di come muove il bisturi nella vostra pancia oppure da uno irresponsabile. Eppure la risposta scontata a quel quesito cessa di essere lapalissiana se, al posto del medico, mettete il magistrato, quasi che libertà, reputazione e patrimonio valessero meno dell’appendice. In contrasto con medici, architetti, ingegneri, avvocati, notai, farmacisti e tutti gli altri attori che assumono responsabilità nell’esercizio della loro professione, il magistrato è il soggetto della società civile che per legge (L. 117/1988) è talmente irresponsabile che i casi di condanna dei suoi componenti per dolo o colpa grave si contano letteralmente sulle dita di una mano in oltre venticinque anni, a fronte di milioni e milioni di casi giudiziari decisi nello stesso periodo. E’ la legge delle probabilità quella che la magistratura non vuole rispettare quando chiede di mantenere inalterata l’attuale normativa. A pensarci bene, ciò che consente ad un neurochirurgo di introdursi tra i lobi del cervello dei suoi pazienti – col rischio di invalidarli per tutta la vita e di pagarne eventualmente le conseguenze patrimoniali – è la fiducia nella propria scienza e coscienza, nella propria capacità di saper affrontare l’emergenza che può insorgere in qualunque momento dell’intervento, è la stima nelle proprie qualità professionali, nella preparazione meticolosa, nell’accettazione dei sacrifici che l’assunzione di quella responsabilità comporta.
In due parole, è l’autorevolezza conquistata con l’esperienza. Per converso e contrappasso, dunque, al rifiuto di assumere la responsabilità delle proprie azioni corrisponde, inevitabilmente, il rifiuto dell’autorevolezza conquistata con l’esperienza. E, difatti, alla magistratura italiana mancano proprio l’autorevolezza ed il prestigio della competenza che invano si cerca di recuperare tramite benevoli articoli di stampa, il più delle volte compiacenti ed osannanti le capacità del pubblico ministero di turno che, poi, spesso è quello che ha passato la velina del verbale che si pubblica in spregio alle regole della segretezza processuale. Con 250 mila avvocati iscritti negli albi italiani, si può dire che ciascuno ne abbia almeno uno tra i consanguinei ed a loro potete chiedere la stima che nutrono nell’attendibilità della magistratura. Vi racconteranno di quella volta che hanno vinto una causa in base ad una norma abrogata dieci anni prima; di quando hanno perso la causa con motivazioni per le quali lo studente sarebbe stato perentoriamente bocciato; di quella pronuncia che manifestava assoluta misconoscenza delle regole del commercio, o delle costruzioni, o degli appalti e tante altre vicende conclusesi con concenti delusioni, se non della parte – magari vittoriosa – certamente del giurista. Ammettiamo che il sondaggio presso l’avvocatura, per l’istituzionale contrapposizione alla magistratura, potrebbe apparire fazioso e fuorviante, ma quello che stupirà sarà comunque il numero e la qualità dei casi criticati, a conferma che la fiducia nella capacità dei giudici di risolvere con equilibrio e competenza i conflitti sociali è da tempo al lumicino. Ma uno Stato in cui i giudici non hanno piena credibilità, fallisce nel fondamentale servizio di dirimere le liti ed occorre quindi mettere mano al più presto alle regole della magistratura. Di fronte all’immobilismo sin qui manifestato in questo settore, non resta che intervenire rapidamente sulla responsabilità perché è il tema sul quale l’Italia è già stata messa in mora dall’Europa. L’auspicio è che, introducendo una seria legge sulla responsabilità dei magistrati, che si porrebbe a valle della formazione, del merito e delle automatiche progressioni di carriera, questa vera e propria casta venga costretta a modificare “per risalita capillare” il suo intero statuto. L’attuale situazione è un lusso che non possiamo più permetterci al cospetto del mondo globalizzato che guarda al nostro ordinamento per eventuali investimenti e che, anche a causa delle condizioni in cui vi versa una giustizia irresponsabile, sceglie di investire da un’altra parte. Il tutto senza disconoscere che, almeno un paio di volte l’anno, dalla magistratura vengono pronunce che commuovono per l’altezza dei concetti espressi e per la spinta che danno alla nostra società verso livelli sempre più alti di democrazia e rispetto dei diritti umani.

Il “fattore M” come Magistratura, scrive Guido Paglia su “L’Ultima Ribattuta”. Tanti anni fa, il grande giornalista Alberto Ronchey inventò il “fattore k” per giustificare l’impossibilità per il PCI di andare al potere. Oggi, mutuando Ronchey, sarebbe il caso di parlare di “fattore m” per cercare di capire cosa sta accadendo in Italia per un altro partito che le sta provando tutte per riuscire a dettare l’agenda del Palazzo: quello dei giudici; o almeno di quella parte della categoria, politicizzata o incarognita dalla cancellazione di determinati privilegi, che pretende di condizionare la politica a colpi di sentenze. Non passa praticamente giorno senza una pronuncia della magistratura che comporti sospensioni o inibizioni di vario genere. Intendiamoci, non si tratta di voler difendere personaggi indifendibili e con sulle spalle sentenze passate in giudicato, ci mancherebbe altro. Si tratta semplicemente di notare delle strane coincidenze. Per esempio, la curiosa contestualità tra le iniziative del governo in tema di giustizia e l’uscita dalle sabbie mobili dell’inchiesta sui familiari di Matteo Renzi. L’elenco sarebbe troppo lungo per non continuare ad alimentare il sospetto della “giustizia ad orologeria”: certi giudici se ne facciano una ragione, perché, tanto per restare in tema di orologeria, i cittadini non hanno la sveglia al collo. E i sondaggi su certi sviluppi a tempo dei procedimenti penali stanno lì a dimostrarlo. Ma è anche significativo come in questo meccanismo giudiziario ormai senza controllo, finiscano per finire stritolati anche gli “apprendisti stregoni”, cioè quei magistrati o ex-magistrati che quando indossavano la toga erano in prima fila nel “cecchinaggio” dei politici. E’ il caso del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, un tempo soprannominato “Giggino ‘a manetta”. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, si è appena insediato. Vediamo se saprà diventare davvero l’organo di autogoverno dei giudici, o continuerà ad essere la sede della difesa degli interessi più corporativi dell’ordine giudiziario. E il regno incontrastato delle correnti, interessate quasi esclusivamente a spartirsi Procure, presidenze di Tribunali, Corti d’Appello e vertici della Cassazione.

Finmeccanica, il libero arbitrio della magistratura: un crollo di immagine per il paese, scrive Achille Saletti, Criminologo e presidente di Saman, su “Il Fatto Quotidiano”. Siamo alle solite. Magistratura e media linciano persone, aziende, organizzazioni e, a distanza di qualche tempo, si scopre che l’oggetto del linciaggio non aveva partecipato allo stupro. Articoletto di ordinanza per dare la notizia, quando va bene e nemmeno un brontolio da cui si crede di intuire che ci si scusa. Sulla questione degli elicotteri, di Finmeccanica e delle tangenti corruttive avevo già scritto: in maniera disincantata, se vogliamo, con quel poco di conoscenza del mondo diretta ed indiretta che mi fece scrivere su Finmeccanica quello che solo coloro che si iscrivono al mondo di Heidi non vogliono ammettere: che nelle commesse internazionali può accadere che si utilizzi la mazzetta. Non avevo preso in debita considerazione, però, l’azione della magistratura sul presupposto (ed in tal caso mi iscrivo io al mondo di Heidi) che prima di sbattere in galera un tizio per 81 giorni devo avere in mano prove forse non granitiche ma nemmeno composte da farina. E invece è esattamente quello che è accaduto con la carcerazione dell’amministratore delegato Giuseppe Orsi e al suo collega Bruno Spagnolini che grazie all’azione di una procura di un tribunale periferico, si sono ritrovati, insieme alle loro aziende, su tutte le pagine dei giornali nazionali ed internazionali. L’ennesimo crollo di immagine per il nostro paese unitamente ad una inutile sofferenza umana per i due manager. Questione che si è risolta, in questi giorni, con la assoluzione dei due per l’infangante reato di corruzione internazionale e la condanna per quello, non meno infangante ma infinitamente meno grave, di evasione fiscale per false fatturazioni. Una differenza abissale tra l’ipotesi della accusa e la condanna finale. Se dovessi quantificare il danno di tale improvvida azione probabilmente avrei difficoltà con gli zero. Dieci politici, scelti tra i più ladri e scellerati, non sarebbero riusciti a danneggiare così tanto il nostro paese. Ma tale calcolo sarebbe un inutile esercizio stilistico perché si ha la certezza che quei magistrati, serenamente, continueranno nella loro progressione della carriera potendo, se mai ve ne fosse bisogno, procedere all’arresto di altri innocenti, all’azzeramento di altre commesse, alla distruzione di altre ricchezze. Dal canto loro i giornali potranno, dopo avere asfaltato Orsi e Spagnolini, rivendicare il merito di azzannare i potenti rimuovendo il demerito di non investigare più a causa di una fiducia cieca ed incondizionata nelle salvifiche menti delle procure. Siamo alle solite. Non ci sarà riforma concreta fin tanto che la responsabilità della magistratura sarà affrontata. Per il momento sappiamo che l’unico vero libero arbitrio presente in questo paese appartiene ad una casta: quella della magistratura.

E se lo dice il Fatto…………!!!!!

Finmeccanica, Orsi: "Solo qui i pm decapitano un colosso". Finmeccanica, l'ex ad assolto dalla corruzione: "In nessun posto si arresta senza prove il presidente della più grande industria del Paese", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Il diario scritto in carcere ha 84 pagine, come i giorni passati in galera. «Un po' da solo, un po' con altri detenuti, dipendeva... La cosa più impressionante è che il giorno prima hai a disposizione tutto e tutti, devi decidere se andare a Mosca o a Tokyo, e quando entri lì ti trovi in una gabbia di quattro metri per due, dove devi chiedere il permesso anche solo per farti una doccia, e aspettare il tuo turno». Ma l'esperienza del carcerato preventivo, per Giuseppe Orsi, ex presidente e ad di Finmeccanica arrestato e messo in galera il 12 febbraio 2013, non è nemmeno la ferita più lacerante, dopo l'assoluzione dall'accusa di corruzione internazionale «perché il fatto non sussiste». «Stavo lì dentro, a leggere giornali, a guardare la tv, a sentire gli stessi politici che prima se chiamavo rispondevano, che anzi mi cercavano, e che invece in quei giorni sono in piena campagna elettorale, lei capisce...».

Meglio essere colpevolisti.

«Anche Pier Luigi Bersani, che pure mi conosce bene, poteva dire qualcosa in più, tipo "questo Orsi lo conosco, o è impazzito improvvisamente oppure non ci credo sia un corruttore internazionale". Niente. Allora gli ho scritto una lettera, ma è una cosa privata. La cosa più avvilente era l'impossibilità di comunicare che quello che io stavo leggendo nell'ordinanza non era vero. Vedere in tv il primo ministro indiano che dà per scontata la mia colpevolezza».

Lei come se l'è spiegato?

«Guardi, io credo che in nessuna parte del mondo si sognino di mettere in galera il presidente della più importante industria del Paese se non si hanno motivazioni più che provate. E quindi è molto difficile capire dall'estero che uno possa essere messo in galera senza un processo. Poiché stavo in carcere, fuori dall'Italia pensavano fossi un criminale, e anche pericoloso visto che non potevo uscire nemmeno su cauzione, come prue aveva fatto proprio in quei giorni Pistorius, accusato di omicidio. Lindsay Fox (magnate australiano della logistica, ndr ) parlando con mia moglie al telefono non riusciva proprio a capire perché fossi in galera. Allora ha preso l'aereo, è venuto a Milano dal mio avvocato, per farsi spiegare. Dopo è andato in Duomo, ha preso una cartolina e mi ha scritto: "Italy's fucked up"».

L'Italia è fottuta.

«Poi in un messaggio ha aggiunto: "Trovo arduo credere che un italiano leale che ha sempre lavorato nell'interesse di Agusta e del Paese possa esser messo in carcere senza una prova contro di lui, per non dire della mancanza di un processo". Se lei vede l'ordinanza di arresto si legge "Orsi ha pagato, Orsi ha corrotto, Orsi ha fatto...", tutto il documento dice in modo assertivo che il reato l'ho fatto, il condizionale è solo all'inizio. Tradotto in inglese tutto questo, e distribuito nel mondo, con pezzi di intercettazioni estrapolati dal loro contesto, ha portato le persone, i clienti passati e futuri di Finmeccanica, ad avere perlomeno un momento di sconcerto, a poter pensare che io fossi colpevole e che fossero aziende che corrompevano. Un danno devastante per l'industria italiana, prima ancora che per me. C'è da domandarsi se ci fosse un sufficiente riscontro di prove per causare tanto disastro».

Vuol dire che una Procura dovrebbe avere maggiori attenzioni quando si tratta di un'azienda strategica per il Paese?

«Credo che almeno dovrebbe pensarci bene prima. Si può anche separare la responsabilità personale dal danno che si infligge ad un'azienda decapitandola. Voglio dire, se fossi stato chiamato da un procuratore, convinto di avere le prove della mia colpevolezza, avrei potuto lasciare la carica prima dell'arresto. Una persona dà le dimissioni, la società non soffre il danno».

Danno che, solo rispetto all'India, si è tradotto in 560 milioni di commessa andati in fumo.

«Credo che in India non avessero capito bene che si trattava solo di un'indagine, e non di un fatto accertato. Nella prima parte del processo c'è stata l'istruttoria dell'accusa, e gli indiani erano sconvolti, perché le prendevano non come ipotesi accusatorie ma come dati di fatto. Si convincevano che fossi colpevole. Ritengo che fossero anche irritati dal fatto che uno Stato straniero dicesse che il loro capo di Stato maggiore fosse un corrotto. È comprensibile insomma la posizione del governo indiano».

Il magnate indiano Ratan Tata, però, ha testimoniato in suo favore.

«È venuto apposta a Busto Arsizio per attestare "rispetto e fiducia verso Orsi sia come persona che come manager". Ho avuto molti attestati di stima e solidarietà da chi mi conosceva dopo quarant'anni di lavoro nel settore difesa.

Il capo di un'azienda come Finmeccanica, se indagato per un reato come la corruzione, ha il dovere di dimettersi o no?

«L'indagato deve confrontarsi col proprio consiglio di amministrazione, che può decidere. Io da indagato non mi sono dimesso, avevo tutto il cda dalla mia, fino all'ultimo, e devo dire che non ho avuto alcuna pressione da parte del governo in quel senso. Anzi, l'allora ministro Passera escluse le mie dimissioni dopo l'avviso di garanzia».

Ma la storia della tangente alla Lega, poi dimostratasi una bufala nel processo, com'è nata?

«Da un giro di persone che ha avuto un danno dalla mia nomina. C'era un risentimento nei miei confronti legato all'interruzione di certi affari che io non consideravo corretti. E quindi la volontà di screditarmi con false accuse».

Quelle di aver ricambiato la Lega per la nomina.

«Io non fui nominato grazie alla Lega. Ero nella rosa in quanto manager coi risultati migliori di tutto il gruppo, come ad di AgustaWestland. L'azienda più grande della provincia di Varese, territorio amministrato da molti leghisti, con cui era ovvio avere rapporti istituzionali. Maroni l'ho conosciuto quand'era ministro, mai avuto rapporti personali o di partito».

È stato assolto dall'accusa di corruzione internazionale, ma condannato per false fatturazioni.

«Il Tribunale ha ridotto l'addebito rispetto alla richiesta del pm. Aspettiamo le motivazioni perché è difficile per noi capire le ragioni di questa condanna. Un funzionario di azienda che interesse avrebbe a evadere le tasse? Contiamo di chiarire in Appello anche questo».

Ma chi risarcirà Romeo? Le motivazioni della Cassazione su un processo farsa. Storia esemplare, scrive “Il Foglio”. Come molte inchieste promosse dalla procura napoletana, anche quella su Global service, clamorosa e tragica, divenuta famosa per il suicidio dell’assessore Giorgio Nugnes, si è dimostrata infondata. Le motivazioni con cui la Corte di cassazione ha assolto “perché il fatto non sussiste” il principale imputato, l’imprenditore Alfredo Romeo, non lasciano dubbi. La procura viene criticata per aver messo in piedi un procedimento nonostante il “vuoto probatorio” esteso a tutte le ipotesi accusatorie. Anche le numerose intercettazioni telefoniche che erano state disposte dalla procura erano carenti di giustificazioni che le legittimassero. Romeo, 79 giorni di carcere preventivo, ha visto ristabilita la sua onorabilità, anche se le insinuazioni che per settimane sono state pubblicate sul suo conto dalla stampa lasceranno un segno. L’imprenditore ha commentato esprimendo la convinzione che “per fortuna in questo paese esistono regole di garanzia oltre ogni giustizialismo, e che ci può essere una giustizia giusta grazie a magistrati che hanno rispetto della legge, del loro ruolo e dei diritti dei cittadini”. Parole nobili, soprattutto se si tiene conto che le ha pronunciate chi è stato vittima di una via crucis dolorosissima. Resta da chiedere se gli “altri” magistrati, quelli che hanno imbastito la teoria accusatoria senza prove e riscontri, raccogliendo intercettazioni illegittime, saranno chiamati a rispondere del loro operato. Ma lo sappiamo già: nessuno pagherà.

Chi risarcisce Finmeccanica? Dopo Scaglia e Romeo, un’altra assoluzione che grida giustizia, scrive “Il Foglio”. E siamo a tre. Dopo l’assoluzione con formula piena di Silvio Scaglia (caso Fastweb) e di Alfredo Romeo (per il così detto affaire Global Service), ecco il proscioglimento “perché il fatto non sussiste” per gli ex top manager di Finmeccanica Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, accusati di corruzione internazionale per presunte tangenti pagate in India nella vendita di elicotteri Agustawestland. La sentenza del tribunale di Busto Arsizio, arrivata giovedì, segue l’archiviazione, ad agosto, dell’accusa di finanziamenti alla Lega nord ricavati dalle tangenti stesse. Per Orsi e Spagnolini è rimasta la condanna a due anni, sospesi, per il reato minore di false fatture. Cade dunque per l’ennesima volta un castello accusatorio tipico di alcuni pm, quello della corruzione internazionale, nel quale si sono specializzati i vari De Pasquale e Woodcock, nonché giornalisti a caccia di sensazionalismo. Ieri, a proposito, sulla “grande stampa” l’assoluzione è finita confinata in poche colonne all’interno (cercatele). In attesa di vedere se una sorte analoga toccherà alle inchieste che, con le medesime accuse complottiste, tesori e tesoretti costituiti in Italia e immancabili faccendieri e logge P4, hanno coinvolto l’Eni in Nigeria e Algeria, si possono intanto contare le vittime di un modo di indagare per teoremi, brogliacci di intercettazioni e verbali passati a reporter che li pubblicano volentieri (con strilli da edizione straordinaria). Le prime vittime sono certo le reputazioni personali degli indagati o imputati; e assieme ci sono l’onore e l’interesse di un sistema imprenditoriale e di un paese che pare interamente modellato sulle invettive di Roberto Saviano o di Sabina Guzzanti. La seconda vittima sono le aziende, che perdono commesse strategiche (come quella indiana) prontamente rimpiazzate dalle concorrenti inglesi, francesi, americane, cinesi, sulle quali la mannaia della corruzione internazionale e dei maxi-complotti non incombe perché il sistema giudiziario è diverso, e perché altrove quei reati non esistono (a meno che non configurino evasione fiscale o benefici personali in patria). A essere colpiti sono poi gli azionisti grandi, come lo stato, e piccoli, come i risparmiatori. Infine gli investimenti, logicamente non certo attratti da un’Italia dove la magistratura, per fare un prigioniero, scatena guerre preventive a tappeto e colpisce nel mucchio.

Sansonetti contro la ridda dei giornalisti che «invocano l’ergastolo professionale per Farina mentre prendono ordini dalle Procure», scrive “Tempi”. La riammissione all’albo di Farina da parte dell’Ordine della Lombardia ha scatenato le proteste dei colleghi, che ora brigano per convocare addirittura una «mobilitazione generale». Il commento di Piero Sansonetti per il Garantista. La recente decisione da parte dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia di riammettere Renato Farina all’albo professionale ha causato, come spiega Repubblica, un «grande subbuglio» all’interno della categoria. Oltre alle dimissioni dal Consiglio nazionale dell’Ordine di Carlo Bonini (Repubblica), Anna Bandettini (Repubblica) e Pietro Suber (Mediaset), ai quali diversi Ordini regionali hanno ritenuto di dover dimostrare «solidarietà» (segnatamente Puglia, Lazio, Liguria, Emilia Romagna e Toscana), il provvedimento ha scatenato – sempre secondo Repubblica – un «tam tam tra giornalisti» che testimonia una certa «aria di rivolta: con richieste di assemblee, con la proposta di un’autosospensione generale dall’Ordine, e con la richiesta di riunire tutti i Comitati di redazione (gli organismi sindacali delle testate) per concordare una mobilitazione generale». Pubblichiamo il commento a queste notizie scritto da Piero Sansonetti per il Garantista. Ho scoperto che tra i miei colleghi giornalisti ci sono diverse persone di idee naziste. Stanno organizzando una mobilitazione generale della categoria per linciare Renato Farina. Dicono che è un appestato, che ha lavorato per i servizi segreti, che merita l’ergastolo – almeno l’ergastolo professionale, cioè la proibizione per il resto della sua vita, e forse anche quella dei suoi figli, di scrivere sui giornali – dicono che se lui fa parte dell’Ordine dei giornalisti loro se ne vanno e che sarebbe bene radunare tutti i comitati di redazione contro Farina, e che è indegno e altre cosette così. A me queste persone fanno paura. Non riesco a  immaginarle senza una divisa addosso, un elmetto, un paio di “esse” stilizzate sulle spalline. Loro vivono di odio, senza odio appassiscono, non ce la fanno: e per odiare hanno bisogno di qualcuno di debole, sconfitto, per poterlo pestare senza troppi rischi. Renato Farina è l’ideale. Sapete chi è Renato Farina? Un giornalista di lungo corso, firma di punta prima del Sabato, che era il giornale di Cl, e poi de Il Giornale di Feltri, di Libero e di nuovo del Giornale con Sallusti. Farina è accusato di avere lavorato per i servizi segreti. Sicuramente era legato all’ufficio dell’ex direttore del Sismi Niccolò Pollari e ha collaborato con lui. Farina dice di averlo fatto per “un’etica superiore”. È da discutere che esista un’etica superiore che imponga ai giornalisti di non essere indipendenti. Io non credo che esista questa etica. Però, secondo il vecchio insegnamento evangelico, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Non credo che Farina sia l’unico giornalista italiano amico di 007 e che quindi viola la legge del ’77 che proibisce i rapporti tra giornalisti e servizi segreti. Gran parte del miglior giornalismo giudiziario italiano ha buoni rapporti coi servizi. Non sappiamo chi, non conosciamo i nomi (magari li immaginiamo) ma sappiamo che se non ci fossero questi rapporti non ci sarebbero neanche gli scoop, numerosi – tutti con fonte gli 007 – che spesso abbelliscono le cronache dei grandi quotidiani e settimanali. Perché allora accanirsi contro Farina che ha solo la colpa di essersi fatto beccare? Perché il suo referente, Pollari, era caduto in disgrazia mentre altri 007 salivano la collina del potere? Comunque, Farina si fa beccare – circa 7 anni fa – e l’Ordine lo sospende per un anno. Poi interviene la Procura di Milano che chiede all’Ordine di radiarlo, perché la Procura di Milano è abbastanza raro che si faccia – come dire? – i cazzi suoi, e magari si dimentica qualche inchiesta importante nel cassetto ma se c’è da far casino per proteggere i suoi giornalisti e punire gli altri, non si tira mai indietro. E così l’Ordine radia Farina a vita. Dice che è indegno. Poi qualcuno ci dovrà spiegare perché è indegno uno che ha brigato coi servizi e non è indegna una intera categoria (quella dei giornalisti giudiziari) che – forse con massimo 7 o 8 eccezioni – è totalmente all’ordine delle Procure, sdraiata, si limita a copiare le carte che riceve senza fare domande, e in questo modo inquina in modo devastante tutta l’informazione, specie quella che riguarda la politica e l’economia, ma non solo. Temo che nessuno ce lo spiegherà. Chissà se un deputato presenterà mai in Parlamento una legge come quella del ’77 sugli 007, che dica: “I giornalisti non devono prendere ordini dalle Procure…” Ve l’immaginate una cosa del genere? Comunque ora l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha deciso di riammettere Farina. Dimostrando che in fondo anche tra i giornalisti c’è qualcuno che un po’ di sale in zucca ce l’ha. E i colleghi nazisti non hanno perso tempo e stanno facendo un casino del diavolo. Dicono che o l’Ordine della Lombardia si rimangia il provvedimento o mettono a soqquadro tutto. Forse nei prossimi giorni organizzeranno una manifestazione a piazza San Babila per fare un falò coi libri di Farina. Farenheit, il film, vi ricordate Farenheit?

CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.

Nella “cella liscia”, dove si torturano i detenuti. È una cella completamente vuota. Senza servizi. Senza letto. Buia. È dove si “puniscono” i detenuti, scrive Arianna Giunti su “L’Inkiesta”.

Lettura. Mercoledì 19 febbraio 2014: il Parlamento approva il controverso “decreto carceri”, un pacchetto di norme mirato a sfoltire la popolazione penitenziaria e migliorare le condizioni dei detenuti. Il decreto è la diretta conseguenza della “sentenza Torreggiani”, la pronuncia con cui nel 2013 l’Europa ha condannato l’intero sistema carcerario italiano per le condizioni inumane applicate in cella: ma cosa succede davvero dietro le sbarre delle nostre carceri quando i cancelli si chiudono alle spalle del detenuto? Lo racconta la giornalista Arianna Giunti nell’ebook La cella liscia- Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane , appena edito da Informant e disponibile in tutti gli store online, di cui pubblichiamo un estratto.

La chiamano “liscia” perché è una cella completamente vuota, senza mobili, senza branda, senza tubi, maniglie o qualsiasi altro oggetto che possa essere utilizzato come appiglio. Fisico e mentale. E’ stretta, buia, ha un odore nauseante e più che a una camera di sicurezza assomiglia a una segreta medievale. Perché – appunto – esattamente di tortura si tratta. E’ lì che secondo i racconti di alcuni detenuti verrebbe rinchiuso chi sgarra, chi si oppone a un ordine o semplicemente chi è colpito da crisi isteriche o psichiatriche. A volte solo per una notte, più spesso per un’intera giornata. La punizione consiste nel provocare l’annichilimento e l’annientamento psicologico del detenuto, che viene lasciato solo, completamente nudo e al buio. Ogni tanto entra qualcuno per portare l’acqua. Ma non è mai una visita piacevole, perché volano botte e schiaffi, frustate con uno straccio bagnato per non lasciare segni sul corpo, e spesso il carcerato è costretto a fare flessioni ripetute davanti alle guardie. Non esistono sanitari, nella cella liscia. Il detenuto deve fare i propri bisogni sul pavimento, dove è costretto a dormire. L’aria infetta attira gli scarafaggi, che escono dagli anfratti del muro e brulicano per la stanza, infestano il cibo e camminano sopra il corpo del carcerato se lui per caso smette di muoversi. Solo prima di lasciare la cella, al prigioniero viene dato un tubo d’acqua con il quale lavare via i suoi stessi escrementi. Quasi tutte le attuali sezioni d’isolamento dispongono ancora di una cella liscia. Eredità antica, dura a morire. Dura anche da ascoltare e raccontare. Dura da far comprendere a chi lì dentro non ha mai messo piede e non sa, non può, non vuole immaginare che in pieno terzo millennio uno Stato democratico ed evoluto possa ancora ricorrere a strumenti così aberranti. Eppure i casi di cronaca legati alle “celle lisce” sono tanti e documentati. Prendiamo ad esempio il carcere di santa Maria Maggiore, a Venezia, che nel 2009 ha attirato l’attenzione della magistratura dopo il suicidio di un cittadino marocchino di ventisei anni di nome Mohammed. I giudici volevano accertare se la cella liscia fosse stata impiegata per ospitare momentaneamente i detenuti “nuovi giunti” in attesa di essere assegnati in sezione, oppure come cella d’isolamento. Dopo la morte di Mohammed il sostituto procuratore Stefano Michelozzi aveva indagato per omicidio colposo due ispettori della penitenziaria: il responsabile del reparto, dove è avvenuto il suicidio, e il responsabile della sorveglianza generale. Secondo il magistrato nella condotta dei due graduati si evidenziavano possibili carenze e omissioni nella gestione del detenuto, che in manifeste condizioni di sofferenza psichica aveva già tentato il suicidio poche ore prima della morte. Abbandonato a se stesso e alla sua disperazione, aveva sfilettato con i denti la coperta di lana che gli era stata data come giaciglio per farne una treccia che poi era riuscito a utilizzare per appendersi alla finestra. Quell’episodio aveva suscitato numerose proteste tra i suoi compagni e attraverso le loro lettere pubblicate anche dal sito dell’associazione Ristretti Orizzonti sono state ricostruite le fasi precedenti il suicidio. “Dopo il primo tentativo di farla finita”, scriveva un testimone, “Mohammed è stato portato in una cella di punizione che puzza tanto da far vomitare e che è buia più di una grotta. Lo so perché ci sono stato. Gli hanno prima tolto i vestiti e poi sarebbe stato spinto dentro solo con una coperta senza neppure farlo visitare da un medico o da uno psichiatra. Perché nessuno ha controllato cosa faceva e come stava? Non era meglio lasciarlo con i compagni, che pure avevano chiesto di lasciarlo con loro?”. Domande che sono rimaste senza risposta. Della tortura della cella liscia aveva parlato prima di morire anche Carlo Marchiori, richiuso in carcere per motivi di droga e ritrovato cadavere nella sua cella a 30 anni non ancora compiuti. La storia di questo giovane detenuto oggi prende vita attraverso le parole di suo padre, Antonio Natale, che con dignità e coraggio vuole capire che cosa sia realmente successo quella sera di novembre di nove anni fa. La sua è la storia di un amore incondizionato, che va oltre gli errori e il dolore, e che attraversa gli anni diviso a metà fra la piena consapevolezza della fragilità di suo figlio e la tenace ricerca della verità. Non perché non si rassegni a questa tragica morte, ma perché tutto questo non accada mai più. “Io e mia moglie sapevamo che Carlo faceva uso di sostante stupefacenti”, racconta oggi Antonio, “era spesso violento, ci chiedeva continuamente soldi. Per questo motivo, un giorno, stremati da questa situazione, abbiamo deciso di denunciarlo ai carabinieri”. Correva l’anno 2003, e dopo alcuni mesi di detenzione a San Vittore, Carlo passa da un carcere all’altro, fino ad arrivare al Mammagialla di Viterbo.  Lì si trova bene, fa amicizia con il suo compagno di cella e riesce a mangiare il cibo che la mamma del suo “coinquilino” gli fa recapitare in carcere. Un giorno, però, litiga con una guardia. E per la prima volta sperimenta la cella liscia. “Dopo un mese di detenzione al Mammagialla, durante uno dei colloqui mio figlio mi disse che lo avevano portato nella cella liscia. ‘E che cos’è la cella liscia?’, gli chiesi”.  La risposta di Carlo lo lascia di sasso. Vorrebbe abbracciarlo ma il suo corpo è come paralizzato.  “Quando sei rinchiuso da solo al buio in quella cella”, scandisce il figlio con un filo di voce, “perdi la cognizione del tempo. Ti sembra che sia passata un’ora e invece sono appena dieci minuti. Ti sembra che sia passata una giornata e invece sono solo due ore”.  Il suo resoconto è agghiacciante: “Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare dieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come fossero una cosa bella”. Qualche settimana dopo, il suo compagno di cella viene trasferito in un altro carcere due mesi prima della scarcerazione. Per Carlo è un dolore enorme, reagisce con rabbia scaraventando un fornellino da cucina contro un agente della penitenziaria. La rappresaglia è tremenda: viene lasciato nella cella liscia un’intera settimana. “Mi sembrava fosse trascorso un anno”, racconterà al padre, “e invece erano solo sette giorni”. Poco tempo dopo viene trasferito nel carcere di Monza. Le sue telefonate sono sempre più rare, durante le visite è cupo e sofferente. Alla mamma, una sera, dice: “Non arriverò a compiere 30 anni”. Morirà il 5 novembre 2005, 11 giorni prima del suo compleanno. Antonio Marchiori non si rassegna, vuole conoscere la verità, e chiede al carcere la cartella clinica del figlio. Scopre che non è mai stata redatta né firmata, e gliela consegnano solo 18 giorni dopo. Quei fogli, compilati svogliatamente dai medici in un freddo linguaggio tecnico, non chiariscono però quali siano state realmente le cause della morte di Carlo. Così presenta un esposto alla Procura di Monza, che però non dispone alcuna autopsia. Il padre di Carlo si scontra contro un muro di gomma anche quando chiede un appuntamento al direttore del penitenziario, dove suo figlio ha passato i suoi ultimi giorni: “Mi dispiace, non posso aiutarla”, si sente ripetere. E non gli ha teso una mano neppure chi davvero avrebbe potuto aiutarlo ad arrivare alla verità, gli ex compagni di cella del figlio. Che non hanno mai voluto testimoniare. 

Benvenuti nella “cella liscia”. Ecco dove vengono torturati i detenuti nelle carceri italiane, scrive Chiara Rizzo su “Tempi”. Intervista ad Arianna Giunti, che ha raccolto in un libro le testimonianze inedite delle vittime di questa “tradizione” disumana. Ennesima stortura di un sistema penitenziario da terzo mondo. «È stato il padre di Carlo M., detenuto morto in carcere, a raccontarmi per primo della “cella liscia”, come è chiamata nel gergo carcerario. Per lavoro mi occupo spesso di carcere, ma fino ad allora non ne avevo mai sentito parlare. L’uomo mi ha raccontato di questa forma di tortura, su cui solo oggi per fortuna si inizia a fare progressivamente luce». Arianna Giunti, giornalista freelance per il gruppo L’Espresso (premio Guido Vergani “cronista dell’anno” 2010), racconta a tempi.it com’è nato l’ebook-inchiesta La cella liscia. Storie di ordinaria ingiustizia nelle carceri italiane (edizioni Informant). Attraverso documenti e testimonianze dettagliate, Giunti è riuscita a ricostruire aspetti sconosciuti dell’ingiustizia che è diventato il sistema carcerario italiano, fatto di soprusi e violenze, oltre che di una generale indifferenza per il fallimento della funzione rieducativa della pena.

Cos’è la “cella liscia”?

«Proprio in questi giorni è stata avviata un’inchiesta dalla procura di Napoli basata su circa 70 esposti di carcerati che denunciano l’esistenza di questa cella liscia o “cella zero”. Si chiama “liscia” perché dentro non c’è nulla: non ci sono brande né sanitari (i detenuti sono costretti a fare i loro bisogni sul pavimento), né finestre o maniglie, nessun tipo di appiglio. Stando alle testimonianze raccolte, il detenuto viene rinchiuso lì per punizione, a volte solo per alcune ore, in altri casi anche per una settimana. Viene lasciato per tutto il giorno da solo, abbandonato a se stesso. I testimoni all’unanimità riferiscono che una volta al giorno nella cella liscia si è sottoposti a pestaggio da parte degli agenti. Il detenuto Carlo Marchiori, finito in cella al Mammagialla di Viterbo per droga, prima di morire nel 2005 aveva raccontato al padre della cella liscia: «Al freddo, nudo, su un pavimento che puzza di pipì rancida, ogni tanto entrano due agenti che ti portano l’acqua. Ti fanno fare fieci piegamenti e ti danno dieci sberle. Altri dieci piegamenti e altre dieci sberle. Fino a che non crolli. Ma tu, pur di non restare solo a impazzire, aspetti quei momenti come se fossero una cosa bella»».

Ci sono celle lisce in tutte le carceri italiane?

«Solo negli istituti dove ci sono ancora le celle di isolamento: oltre al caso di Viterbo, ho raccolto testimonianze relative al Santa Maria Maggiore di Venezia, Le Sughere di Livorno, Marassi di Genova, Sollicciano di Firenze, la casa circondariale di Asti».

Però le segnalazioni citate nel libro e raccolte dall’osservatorio “Ristretti orizzonti” non hanno prodotto molte inchieste da parte della magistratura, e quando questo è avvenuto i processi si sono chiusi senza condanne. Come si è convinta che non si trattava di fantasie dei carcerati?

«Quasi tutte le testimonianze che ho raccolto sono frutto di confidenze dei detenuti ai parenti, consegnate in alcuni casi prima di morire dietro le sbarre. Sottolineo che quelle che avvengono nelle celle lisce non sono torture che portano direttamente al decesso, non c’è un nesso causale dimostrato. Non sono pestaggi violenti, ma resta il fatto che sono abusi. Le testimonianze mi hanno convinta perché combaciano perfettamente tra loro pur provenendo da detenuti in carceri geograficamente distanti, che non erano in contatto tra loro. Inoltre le parole delle vittime non sono mai intese ad accusare la guardia di turno o altre persone in particolare, non sono dettate da sete di vendetta. E poi una sentenza che ha riconosciuto l’esistenza di questa forma di “tortura” c’è».

Di quale sentenza parla?

«Parlo del caso di Claudio Renne e Andrea Cirino. I due erano detenuti nel carcere di Asti e i fatti che hanno raccontato alla magistratura sono avvenuti nel 2004. Come molti altri, però, temevano ritorsioni anche dopo la scarcerazione, quindi hanno sporto denuncia sulla cella liscia solo nel 2010, appoggiati dall’associazione Antigone. Nel libro ricostruisco le prove che hanno portato il tribunale a emettere nel dicembre 2012 una sentenza di condanna nei confronti di quella che i giudici hanno definito «la squadretta» di guardie: due dei quattro responsabili sono stati radiati dalla polizia penitenziaria un anno fa. Ma nel frattempo i reati erano caduti in prescrizione. Del resto erano reati lievi, visto che in Italia non esiste il crimine di “tortura”. L’indagine aperta adesso a Napoli invece promette qualcosa di più, perché in questo caso un garante dei detenuti ha raccolto per iscritto settanta testimonianze».

Nel libro affronta anche un aspetto meno drammatico ma ugualmente grave dell’emergenza carcere, la mancata funzione rieducativa della pena.

«La funzione rieducativa manca assolutamente, quindi i detenuti italiani sono “condannati a vita” a non ritrovare una normalità, con rischi di recidiva altissimi, tra i più alti d’Europa. Solo il 17,5 per cento degli oltre 67 mila detenuti in Italia lavora: sono 11.579 persone. A queste si aggiungono solo altri 2.266 fortunati, impiegati per altri datori. E se possibile, una volta fuori, i detenuti si trovano spesso davanti a prospettive ancora più cupe. Posso raccontare una storia emblematica?»

Prego.

«Mi ha colpita molto la vicenda di Sebastiano, 35 anni, ex detenuto a San Vittore, Milano, per piccoli reati di droga. In carcere Sebastiano era riuscito a disintossicarsi e aveva imparato a fare il giardiniere, sperando «che da quel momento non avrei più commesso cazzate». Una volta uscito di galera, però, si è ritrovato addosso un marchio indelebile. Quindici giorni dopo la scarcerazione ha trovato lavoro come pony express, ma a un certo punto ha iniziato improvvisamente a soffrire di crisi di panico: quando per strada sentiva le sirene delle volanti o vedeva un uomo in divisa, gli si annebbiava la vista e non riusciva più a muoversi. «Sette anni di carcere non passano indenni», mi ha raccontato. Avrebbe dovuto iniziare un percorso psicoterapeutico, ma non poteva permetterselo. Così lo hanno licenziato dicendogli: «Sappiamo dei suoi problemi passati, ma non possiamo permetterci persone problematiche». Nel mese successivo ha fatto un altro colloquio e lo ha superato. Ma quando si è presentato nella nuova azienda, si è visto sbattere la porta in faccia: «Ci spiace, deve esserci stato un errore, lei ha precedenti penali». Oggi, cinque anni dopo la scarcerazione, Sebastiano sta ancora provando a reinserirsi nel mercato del lavoro. Non ce l’ha ancora fatta. Nel libro racconto anche il caso di un uomo, Marcello, ingiustamente rinchiuso in prigione in via cautelare e poi scagionato dalle accuse: nemmeno l’assoluzione è servita a cancellare dal suo curriculum l’onta della detenzione».

Le «celle lisce», in particolare, sono un problema antico e mai risolto. Ci finiscono in tanti: dai cosiddetti "psichiatrici" ai "depressi". Spesso anche le matricole, che non reggono l'urto del carcere e manifestano propositi suicidari. Sono celle piantonate da un agente h24, per controllare, da uno psichiatra, per somministrare la terapia. Le chiamano «lisce» perché, per evitare che il detenuto "si faccia male", c'è solo una branda di ferro, spesso senza materasso e lenzuola. Ma poiché il carcere "fa male", nasce un circolo vizioso: il detenuto deve restare in cella liscia finché non è guarito, ma se non lascia la cella liscia continua a star male. Quindi, starà sempre male. D'altra parte, nessuno si assume la responsabilità di cambiare procedura, rispondendo con un atto di cura - e non di punizione - a una chiara esigenza di cura. Non a caso gli psichiatri concordano che per curare la salute mentale dentro il carcere bisogna fare guerra al sistema carcerario. Perché il funzionamento del carcere si misura sulla sua vivibilità, intesa come qualità della vita.

«Hanno tentato in tutti i modi di non farmi entrare - dice l’On. Enza Bruno Bossio su Gazzetta del Sud 11 agosto 2014 - Mi chiedevano di tornare in altro momento, adducendo che non vi era in servizio né il Direttore né il Comandante di Reparto. Alla fine, solo per la mia ferma opposizione, gli Agenti di Polizia Penitenziaria mi hanno consentito di entrare. E’ stato comunque impedito l’ingresso all’esponente dei radicali Emilio Quintieri con il quale stiamo facendo diverse visite ispettive a sorpresa. Ieri mi sono presentata alla Casa di reclusione di Rossano per svolgere, come mi consente la mia funzione di parlamentare della Repubblica, una ispezione, Una delle tante che sto compiendo in questi mesi. Com’è noto l’Art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario consente anche ai membri del Parlamento ed ai loro accompagnatori di ispezionare in qualunque momento gli Istituti Penitenziari senza la necessità di essere autorizzati per accertare se le condizioni di detenzione siano conformi al dettato costituzionale e cioè che non siano contrarie al senso di umanità e che rispettino la dignità della persona. Volevo verificare, in particolare, la condizione di un detenuto che avevo precedentemente incontrato a Catanzaro e che, dalla sera alla mattina, senza alcun motivo, era stato trasferito al Carcere di Rossano anche perché, lo stesso, tramite i familiari, mi aveva segnalato che si trovava segregato in isolamento in modo inumano e gli avevano bloccato la corrispondenza epistolare e telegrafica anche con me mentre non lo potevano fare. Gli Agenti della Polizia Penitenziaria credevano, invece, che si trattasse di una “tranquilla visita di cortesia”. Tant’è vero che mi hanno detto: “Onorevole, attenda in questa stanza, le andiamo a prendere il detenuto che ha chiesto di vedere.” Io mi sono opposta dichiarando il carattere ispettivo della mia visita tesa ad accertare le condizioni in cui era ristretto il detenuto in questione. Finalmente ho potuto visitare il Reparto di Isolamento, posto al piano terra della struttura penitenziaria che, attualmente, a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti, ospita 258 detenuti (43 in esubero), tantissimi dei quali appartenenti al Circuito differenziato dell’Alta Sicurezza (AS3 ed AS2). Gli Agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in Isolamento, lasciando aperta solo quella del detenuto che volevo visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedessi in che condizioni erano costretti a vivere. Ho chiesto di aprire le celle ma gli Agenti mi hanno detto che non avevano le chiavi per cui non sono potuta entrare. In ogni caso ho visto le condizioni illegali che, sinceramente, non pensavo esistessero in un carcere d’Italia. Ho trovato detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip, in delle celle in cui non c’era neanche il letto, quindi seduti per terra, in mezzo ai loro escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Uno di loro, italiano, era stato messo lì per aver tentato il suicidio e quindi, assolutamente, non poteva essere tenuto in isolamento. L’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo. Gli altri due, a quanto pare, avevano tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati pestati dalla Polizia Penitenziaria ed infatti si vedeva che avevano ricevuto delle percosse. Ad uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e non avrebbero ricevuto alcuna assistenza sanitaria. Ho avuto anche un duro colloquio telefonico con la comandante della Polizia Penitenziaria di Rossano che mi contestava il diritto/dovere di svolgere ispezioni senza preavviso. Nei prossimi giorni presenterò una interrogazione a risposta scritta rivolta al Governo e ritornerò a Rossano per compiere una ulteriore ispezione».

Ispezione al carcere di Rossano: il drammatico racconto dell'onorevole Bossio, scrive Andrea Spinelli su “Crime Blog”. Sul carcere di Rossano (Cs): la parlamentare PD denuncia una situazione drammatica per i detenuti in isolamento. La frase clou si è sentita al termine dell'ispezione del carcere di Rossano (un diritto dovere di ogni parlamentare, del quale non molti si avvalgono): "Onorevole lei non si doveva permettere di venire al Carcere senza preavviso. Quando si va a casa degli altri si chiede il permesso." Questo è quanto è stato detto alla parlamentare del Partito Democratico Enza Bruno Bossio dal Comandante della Polizia Penitenziaria di Rossano, il Vice Commissario Elisabetta Ciambriello, al termine dell'ispezione della deputata presso il carcere cosentino. Bossio si era recata nel tardo pomeriggio di sabato 9 agosto ai cancelli del carcere calabrese dopo che, da tempo, intrattiene una conversazione epistolare con un detenuto in isolamento. Tra i diritti-doveri dei parlamentari infatti c'è quello delle visite ispettive nelle carceri italiane, cosa che gli onorevoli deputati e senatori possono fare in qualunque momento e in qualunque carcere dello Stivale: memorabili le visite ispettive dei deputati e dei senatori Radicali durante la loro permanenza in Parlamento, grazie alle quali è stato possibile far uscire dalle mura delle carceri le violenze, il disagio e sopratutto il regime di illegalità dilagante che imperversa un po' in tutte le case circondariali italiane. Un diritto dovere codificato all'art. 67 dell’Ordinamento Penitenziario, che consente proprio ai membri del Parlamento ed ai loro accompagnatori di ispezionare in qualunque momento gli Istituti Penitenziari senza la necessità di essere autorizzati per accertare se le condizioni di detenzione siano conformi al dettato costituzionale e cioè che non siano contrarie al senso di umanità e che rispettino la dignità della persona. Al suo arrivo al carcere di Rossano la deputata Bossio è stata in ogni modo ostacolata nella sua visita: inizialmente gli agenti di Polizia Penitenziaria si rifiutavano addirittura di farla entrare, cosa avvenuta solo al termine di molte insistenze della parlamentare e l'accettazione di rinunciare ai propri accompagnatori (di fatto, un diritto negato alla stessa parlamentare). A convincere Enza Bruno Bossio a visitare il carcere di Rossano è stata, dicevamo, una conversazione epistolare e telegrafica con un detenuto che lamentava, nei suoi scritti, di essere ristretto in un regime di isolamento inumano nel quale gli erano negate anche lettere e telegrammi. Inizialmente gli agenti si erano offerti di portare il detenuto dalla Parlamentare in parlatorio, ma anche qui, dopo lunghe insistenze, la deputata democratica è riuscita a farsi condurre nel Reparto di Isolamento del carcere: "Gli Agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in Isolamento, lasciando aperta solo quella del detenuto che volevo visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedessi in che condizioni erano costretti a vivere. Ho chiesto di aprire le celle ma gli Agenti mi hanno detto che non avevano le chiavi per cui non sono potuta entrare. In ogni caso ho visto le condizioni illegali che, sinceramente, non pensavo esistessero in un carcere d’Italia. Ho trovato detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip, in delle celle in cui non c’era neanche il letto, quindi seduti per terra, in mezzo ai loro escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Mi riferisco, in particolare, alle celle 1, 2 e 7. Uno di loro, italiano, era stato messo lì per aver tentato il suicidio e quindi, assolutamente, doveva essere tenuto in Isolamento. L’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo. Gli altri due, a quanto pare, avevano tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati pestati dalla Polizia Penitenziaria ed infatti si vedeva che avevano ricevuto delle percosse. Ad uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e non avrebbero ricevuto alcuna assistenza sanitaria". Il carcere di Rossano registra anch'esso un grave stato di sovraffollamento: a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti ospita infatti ben 258 detenuti, tra cui molti ristretti in regime di Alta Sicurezza. L'atteggiamento ostracista della Polizia Penitenziaria è già stato segnalato dalla parlamentare del PD a chi si occupa di carceri da una vita, il segretario di Radicali Italiani Rita Bernardini, ma anche al responsabile carceri del PD ed alla segreteria del Ministro Andrea Orlando; nei prossimi giorni la parlamentare procederà anche ad una formale denuncia indirizzata alla Procura della Repubblica di Castrovillari ed ad una Interrogazione a risposta scritta rivolta al Governo. Va detto che quanto riferito dal vice Commissario Ciambriello all'onorevole Bossio è, in sostanza, fondamentalmente sbagliato: i parlamentari, ed in particolare quelli del Sindacato Ispettivo Parlamentare, hanno una sorta di diritto/dovere in tal senso: le condizioni del carcere di Rossano raccontate dall'onorevole Bossio dimostrano l'importanza di tali visite.

In cella nudi tra vomito e escrementi. Abu Ghraib è in Calabria. Il blitz della deputata Bruno Bossio, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Costretti a vivere nelle loro feci e nel loro vomito. A dormire per terra, senza un materasso. I detenuti delle celle 1, 2 e 7 hanno ematomi su tutto il corpo. Alcuni di loro sostengono di essere stati pestati dai carcerieri. Ad uno gli avrebbero rotto un orecchio a forza di botte. Nessun medico, dice, l’ha poi visitato. Segregati completamente, anche durante l’ora d’aria che viene trascorsa in uno spazio più piccolo della cella, circondata da una rete metallica. Non è la descrizione del carcere di Guantamo o di Abu Grahib, e nemmeno delle celle turche descritte nel film “Fuga da mezzanotte”. Accade qui da noi. A Rossano, provincia di Cosenza. Nello stesso carcere dove circa un mese fa un detenuto di etnia curda si è dato fuoco usando la piccola bomboletta di gas del fornellino usato per cucinare ed un accendino. Due anni fa si è suicidata anche una guardia carceraria, un assistente capo di 44 anni. Si è sparato un colpo di pistola alla tempia. A descrivere l’orrore del carcere di Rossano è la deputata Enza Bruno Bossio del partito democratico. Ha accertato le condizioni inumane e degradanti durante una visita ispettiva, senza preavviso. Accompagnata dal Emilio Quintieri, ragazzo dei Radicali, calabrese, da sempre attento i diritti dei detenuti. Gli addetti del carcere hanno cercato di impedire la visita della deputata, chiedendole di entrare in un altro momento. Lei ha insistito e alla fine hanno acconsentito che entrasse, ma da sola. Poiché voleva capire come mai un detenuto che era al carcere di Catanzaro fosse stato trasferito all’improvviso a quello di Rossano, la deputata ha accettato di entrare alle condizioni poste. Una volta varcata la soglia dell’ istituto ha trovato una condizione terribile. Il detenuto in questione era in un reparto di isolamento. Non l’hanno fatta entrare nella sua cella, che comunque presentava condizioni accettabili. I familiari avevano detto alla Bruno Bossio che gli era stata bloccata la corrispondenza epistolare. Ad un certo punto però i detenuti, per attirare l’attenzione della deputata, si sono messi a gridare e allora ha potuto scoprire una situazione che lei non pensava nemmeno potesse esistere all’interno di un carcere italiano. Una realtà atroce che in pochi hanno l’opportunità di vedere, compresi i deputati che fanno le visite ispettive con preavviso: detenuti semi-nudi, con le sole mutande addosso; un uomo in una cella senza il letto né un materasso, seduto per terra in mezzo ai suoi escrementi e sporcizia; un altro ha il letto nella, ma senza lenzuola e non ha vestiti; un altro per terra circondato dal suo vomito perché sta male, è celiaco e vomita in continuazione. Ha visto detenuti ricoperti di lividi, uno con un orecchio rotto che non ha ricevuto nessuna assistenza sanitaria. Le guardie si sono giustificate dicendo che questi detenuti sono tenuti in quelle condizioni perché hanno tentato il suicidio, altri perché hanno tentato di evadere. Giustificazione senza senso, l’esperienza ha dimostrato gli effetti deleteri che l’isolamento produce sulla psiche e sul fisico delle persone costrette a subirlo. Ad aggravare la situazione è stata la telefonata della comandante delle guardie penitenziarie, la vice commissaria Elisabetta Ciambrello: ha insultato la deputata dicendole che non si doveva permettere di entrare in carcere senza chiedere prima il permesso. Le è stato ricordato che il regolamento, per quanto riguarda le visite ispettive parlamentari, permette di fare le ispezioni anche all’improvviso e senza chiedere il permesso a nessuno. Enza Bruno Bossio ha informato dell’accaduto la segretaria dei radicali Rita Bernardini, il responsabile nazionale carceri del Pd Sandro Favi e la segreteria del ministro della giustizia Orlando. Nei prossimi giorni procederà ad una formale denuncia indirizzata alla procura di Castrovillari e presenterà un’interrogazione parlamentare per chiedere una risposta scritta del governo. Il Ministro ha fatto sapere di essere stato informato della visita della deputata del Pd e di essere anche lui indignato, e ha giurato che interverrà immediatamente. Speriamo che sia vero, speriamo che lo faccia con efficacia.

Carcere Rossano, Bruno Bossio: “Hanno tentato di non farmi entrare”, scrive “cn24tv”. “Mi chiedevano di tornare in altro momento, adducendo che non vi era in servizio né il Direttore né il Comandante di Reparto. Alla fine, solo per la mia ferma opposizione, gli Agenti di Polizia Penitenziaria mi hanno consentito di entrare privandomi dei miei collaboratori tra cui l’esponente radicale Emilio Quintieri con il quale stiamo facendo diverse visite ispettive a sorpresa.” E’ quanto denuncia Enza Bruno Bossio, Deputato del Partito Democratico e membro della Commissione Bicamerale Antimafia che nel tardo pomeriggio di ieri, si era presentata, senza alcun preavviso, alla Casa di Reclusione di Rossano per effettuare una ispezione. Com’è noto l’articolo 67 dell’Ordinamento Penitenziario consente anche ai membri del Parlamento ed ai loro accompagnatori di ispezionare in qualunque momento gli Istituti Penitenziari senza la necessità di essere autorizzati per accertare se le condizioni di detenzione siano conformi al dettato costituzionale e cioè che non siano contrarie al senso di umanità e che rispettino la dignità della persona. “Volevo verificare, in particolare, la condizione di un detenuto che - racconta la Bossio - avevo precedentemente incontrato a Catanzaro e che, dalla sera alla mattina, senza alcun motivo, era stato trasferito al Carcere di Rossano anche perché, lo stesso, tramite i familiari, mi aveva segnalato che si trovava segregato in isolamento e gli avrebbero bloccato la corrispondenza epistolare e telegrafica anche con me mentre non lo potevano fare. Gli Agenti della Polizia Penitenziaria credevano, invece, che si trattasse di una tranquilla visita di cortesia”. Tant’è vero che avrebbero detto alla Parlamentare, secondo quanto riferisce lei stessa: “Onorevole, attenda in questa stanza, le andiamo a prendere il detenuto che ha chiesto di vedere.” La Bruno Bossio però si è opposta: “Questa è una ispezione, voglio andare a vedere dov’è ristretto questo detenuto e le condizioni delle celle. Non serve a nulla avere un colloquio in questa stanza”. Detto questo, finalmente, ha avuto la possibilità di accedere nel Reparto di Isolamento, posto al piano terra della struttura penitenziaria che, attualmente, a fronte di una capienza regolamentare di 215 posti, ospita 258 detenuti (43 in esubero), tantissimi dei quali appartenenti al Circuito differenziato dell’Alta Sicurezza (AS3 ed AS2). “Gli Agenti stavano provvedendo a chiudere le porte blindate delle celle di tutti i detenuti allocati in Isolamento - aggiunge la parlamentare - lasciando aperta solo quella del detenuto che volevo visitare. Ad un certo momento gli altri ristretti si sono messi ad urlare chiedendo che vedessi in che condizioni erano costretti a vivere. Ho chiesto di aprire le celle ma gli Agenti mi hanno detto che non avevano le chiavi per cui non sono potuta entrare. In ogni caso ho visto le condizioni illegali che, sinceramente, non pensavo esistessero in un carcere d’Italia". "Ho trovato detenuti sostanzialmente nudi, soltanto con gli slip - continua la Bossio - in delle celle in cui non c’era neanche il letto, quindi seduti per terra, in mezzo ai loro escrementi, al vomito ed ai piatti sporchi. Mi riferisco, in particolare, alle celle 1, 2 e 7. Uno di loro, italiano, era stato messo lì per aver tentato il suicidio e quindi, assolutamente, doveva essere tenuto in Isolamento. Gli altri due, a quanto pare, avevano tentato una evasione. Questi ultimi hanno sostenuto di essere stati pestati dalla Polizia Penitenziaria ed infatti si vedeva che avevano ricevuto delle percosse. Ad uno di loro avrebbero rotto anche un orecchio e non avrebbero ricevuto alcuna assistenza sanitaria.” Ad aggravare la situazione si sarebbe aggiunto il comportamento del Comandante della Polizia Penitenziaria di Rossano, il Vice Commissario Elisabetta Ciambriello, il quale avrebbe preteso, secondo la parlamentare, che la Bossio fosse accompagnata fuori dal Reparto, ad una postazione telefonica, per potergli parlare. “Onorevole lei non si doveva permettere di venire al Carcere senza preavviso. Quando si va a casa degli altri si chiede il permesso.”, sarebbero le parole che il comandante avrebbe detto alla stessa rappresentate del Pd, affermazioni alle quali il Deputato avrebbe risposto di essere “un Parlamentare ed in tale qualità posso ispezionare le Carceri quando ritengo opportuno, senza preavviso e senza chiedere il permesso a nessuno.” Di quanto accertato ne sono stati già informati Rita Bernardini, Segretario Nazionale dei Radicali Italiani, Sandro Favi, Responsabile Nazionale Carceri del Partito Democratico e la Segreteria del Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Nei prossimi giorni si procederà ad una formale denuncia indirizzata alla Procura della Repubblica di Castrovillari ed ad una Interrogazione a risposta scritta rivolta al Governo. L’Onorevole Bruno Bossio, ha inteso precisare che, nei prossimi giorni, ritornerà a fare una ennesima visita ispettiva alla Casa di Reclusione di Rossano per fare degli approfondimenti.

«L’irruzione dell’on. Enza Bruno Bossio nel carcere di Rossano ci ha svelato all’improvviso una realtà che forse nemmeno potevamo sospettare. Una cosa è indignarsi per le celle minuscole, per il sovraffollamento, per l’assenza di strutture, per la mancata rieducazione, per la repressione, eccetera eccetera. Tutte cose che sappiamo, da tanto tempo. Una cosa diversa è scoprire che dentro le celle ci sono persone trattate peggio delle bestie, che c’è violenza estrema, sadismo, sopraffazione, violazione di ogni legge. Le immagini che l’articolo qui accanto descrive sono quelle dei lager, come Guantánamo, come Abu Ghraib. Siamo scesi in piazza tante volte per chiedere che fossero chiuse Guantánamo e Abu Ghraib. Se è vero che nel carcere di Rossano c’era un detenuto lasciato a terra, sul pavimento, malato, circondato dal suo vomito, se è vero che diversi detenuti presentavano ematomi e dicevano di essere stati picchiati (…) Se è vero che qualcuno trascorreva l’ora d’aria in quattro o cinque metri quadrati, peggio di un maiale all’ingrasso, di una gallina in batteria, se tutto questo è vero bisogna chiudere il carcere di Rossano. Chiudere. E forse – per una volta lasciatelo dire a noi – sarebbe anche il caso che la magistratura aprisse un’indagine. Dopodiché, fatte queste due cose essenziali e urgentissime, bisognerà anche porsi delle domande. Se l’on Bruno Bossio, che ha fatto irruzione senza preavviso nel carcere, in agosto, quando nessuno se l’aspettava, ha trovato questa situazione, è legittimo sospettare che la medesima situazione possa esserci in molte altre carceri, dove magari non sono avvenute visite improvvise dei deputati? È chiaro che è possibile. L’iniziativa dell’on Bruno Bossio ci fa capire a quel grado di gravità e di inciviltà sia giunta la situazione delle carceri in Italia. E quanto ipocrita e insufficiente sia stato il varo di una leggina che dispone qualche giorno di sconto di pena o una mancia di 240 euro al mese per chi subisce le torture del sovraffollamento. Il problema delle carceri è gigantesco, e lo standard delle nostre prigioni spinge l’Italia, in una virtuale classifica della civiltà, tra i più arretrati paesi del terzo mondo. Non si può restare fermi di fronte a questa situazione. Il problema carceri è il più urgente nell’agenda. Se vogliamo che l’Italia resti nel novero dei paesi civili bisogna che le forze politiche, almeno per una volta, si tappino le orecchie, non ascoltino gli urlacci e gli insulti della vasta platea giustizialista, mettano in conto la perdita di un po’ di voti e pongano mano a una riforma seria delle carceri. In quattro passi. Primo passo: subito amnistia e indulto, per allentare la pressione nelle celle e nei tribunali. Va fatto a settembre, come hanno chiesto il papa e Napolitano, e come da anni, senza sosta, con le proteste e gli scioperi della fame, è sostenuto dai radicali e da Pannella. Secondo depenalizzazione di tutti i reati minori. Terzo, riforma radicale della carcerazione preventiva che riduca a poche decine di casi le custodie cautelari. Quarto, norme sulla responsabilità civile dei giudici, che abbattano il numero dei procedimenti penali pretestuosi. In questo modo si può arrivare in tempi rapidissimi alla riduzione del 60 o 70 per cento della popolazione carceraria. E a quel punto sarà necessario trovare il modo per avere la certezza di controlli su come si vive nelle prigioni, e probabilmente anche una forte riforma, in senso garantista, di tutti i regolamenti carcerari (a partire dall’abolizione dello sciaguratissimo articolo 41 bis). Non costa niente una riforma di questo genere. Anzi, produce risparmi. Costa dei voti, questo sì, costa le grida di Travaglio e dell’Anm. E se per una volta, solo per una volta, cari politici di sinistra e di destra, ve ne fregaste di Travaglio e dell’Anm? P.S. Certo che se ci fossero in giro più deputate e deputati come Enza Bruno Bossio, sarebbe una buona cosa. Piero Sansonetti» Il Garantista, 12 agosto 2014.

INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….

Carceri, carcerati e parenti dei carcerati. Dove sbagliano i Radicali? Inchiesta di Antonio Giangrande.

I radicali da anni si distinguono con il Satyagraha per la loro lotta non violenta a favore dei diritti dei detenuti. I risultati sono scarni e su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti della giustizia ha pubblicato dei volumi: "Ingiustiziopoli, ingiustizia contro i singoli"; "Malagiustiziopoli, malagiustizia contro la collettività"; "Impunitopoli, legulei ed impunità". Egli afferma: «Una lotta impari destinata alla sconfitta. Forse perché sono sempre le stesse facce a rappresentare lo sparuto gruppo radicale o forse perché l’Italia è in mano a quattro pennivendoli che scrivono le stesse cose, od in mano a quattro legulei che fanno le stesse cose, od in mano a quattro politicanti che dicono le stesse cose. Dov'è il nuovo che avanza, che si è palesato come la brutta copia dei forcaioli? Fatto sta che è inutile lottare a favore degli italiani. Un popolo sodomizzato, che da masochista tace sulle sofferenze subite e non si ribella alla sua situazione. Difatti, come mai si lasciano a sparute rappresentanze di cittadini questo enorme aggravio di denuncia sulla giustizia, mentre i parenti dei detenuti sono centinaia di migliaia? Sarebbero milioni se si considera che a loro si aggiungono i parenti di quei 5 milioni di italiani che negli ultimi 50 anni sono rimasti vittima di errore giudiziario o ingiusta detenzione. Sarebbero il primo partito in Italia, pronto a metter mano a quelle riforme tanto auspicate e reclamizzate, ma mai approvate dalle lobbies e caste al potere. La masso-mafia che tacita le coscienze ed uccide la speranza.»

Nella città invisibile, dove il sovraffollamento delle carceri e i diritti dei detenuti sono temi su cui raramente ci si sofferma, c’è chi opera anche tacitamente affinché questo muro del silenzio crolli definitivamente. Ciò nonostante un'informazione non democratica e poco veritiera determina i sentimenti rancorosi. I tg si basano su fatti di sangue. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità su una semplice questione: di carcere si muore.

28 luglio 2014, l'AGI diffonde. "Ore di grande tensione si sono vissute nella mattinata di ieri all'interno del carcere di Taranto ove un paio di detenuti dopo aver distrutto la loro stanza avrebbero incitato tutti gli altri detenuti a rivoltarsi contro il personale di Polizia Penitenziaria". Lo denuncia in una nota il Sappe, il sindacato degli agenti della Polizia Penitenziaria. "Fortunatamente – è scritto nella nota del Sappe – è giunto prontamente sul posto il comandante di reparto che dopo aver parlato con i rivoltosi ha risolto il tutto non senza conseguenze per i poliziotti penitenziari poiché un paio sarebbero dovuti ricorrere alle cure dell'ospedale. Ormai il problema della sicurezza del carcere di Taranto, considerata l'irresponsabilità dell'Amministrazione penitenziaria, a cominciare dal Dap a Roma e per finire al provveditore regionale a Bari, non consente più perdite di tempo". Per il Sappe, "è necessario che il prefetto di Taranto prenda in mano la situazione e convochi con urgenza un comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica sulla situazione del carcere di Taranto alla presenza dell'Amministrazione penitenziaria e dei sindacati che tutelano i lavoratori su cui ricade la tragicità della situazione. Ormai - conclude la nota – è tempo di fatti poiché è in gioco oltreché la sicurezza del carcere e dei lavoratori quella della città di Taranto e dei propri cittadini".

Nonostante tutti sappiano, sono pochi, però, i familiari dei carcerati disposti a metterci la faccia. Delegano ai pochi di buona volontà l’arduo compito di denuncia.

31 luglio 2014: Cronaca del presidio dello Slai Cobas sindacato di classe di Taranto in solidarietà coi detenuti del carcere. Dai pochi familiari dei detenuti intervenuti la testimonianza della pesante condizioni nel carcere di Taranto.

«Sul sovraffollamento, sono costretti a stare in 5/6 nelle celle previste per due, massimo tre persone; d'estate si muore dal caldo, d'inverno piove acqua dentro le celle. C'è degrado. I detenuti che vengano mandati giù in isolamento, sono poi abbandonati. Il letto è sporco, pieno di polvere. Il cibo qui viene portato dopo. Vengono puniti perchè si ribellano? Perchè hanno protestato per le condizioni in cui vivono? Al di là dell'impegno del personale sanitario, possono passare anche mesi prima che vengano visitati; anche se i detenuti hanno problemi urgenti, per es. ai denti, gli viene detto che provvederanno ma poi niente. Certo gli agenti sono pochi, ce ne vorrebbero di più e neanche loro stanno bene, ma sono i detenuti quelli che stanno male e, invece, non hanno voce. Per loro non c'è alcun intervento di recupero, quando escono non c'è lavoro. Soprattutto i giovani stanno perdendo gli anni più belli. Vi sono ragazzi che non hanno fatto cose gravi eppure restano per mesi e mesi, anche anni. Certo i nostri familiari che stanno in carcere hanno sbagliato, nè pensiamo che possano stare in carcere come se stessero in villeggiatura, ma devono essere trattati come persone non come animali.»

Analoghe iniziative, manifestazioni, picchetti, “presidi” e richieste di impegno sono in corso in altre realtà, dall'Abruzzo a Napoli, in Veneto, Emilia Romagna…ad opera dei Radicali italiani, con il difficile Satyagraha con i mezzi (scarsi), le risorse (fantasia tantissima, denaro assai poco), e cercando di insinuarsi negli spazi sempre più stretti di istituzioni e mezzi di comunicazione, “armati”, come si diceva un tempo, di nonviolenza.

Eppure tutti sanno. Carcere: storie di ordinaria follia, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani, racconta alcune delle vicende ai limiti della realtà. Che si fa, si ride o si piange? Questa storia l’ha scoperta la Segretaria di Radicali italiani Rita Bernardini, Segretaria di Radicali italiani; è una storia paradossale, ma lasciamola raccontare alla stessa Bernardini. “Mentre si scaricano sui Magistrati di Sorveglianza e sui loro uffici ulteriori compiti ai quali adempiere, e mentre da anni i Tribunali di Sorveglianza non riescono a seguire nemmeno l'ordinaria amministrazione, all'Ufficio di Sorveglianza di Modena può accadere che una signora da tempo stia cercando di interloquire con il Magistrato, stressata da telefoni che non rispondono, da uffici che non chiariscono e che rimandano sine die gli adempimenti che competono loro per legge”. Bisogna dire che da tempo a Modena non c'è il Magistrato di Sorveglianza che ha la competenza anche degli internati di Castelfranco Emilia; questo significa che nessuno si occupa delle istanze dei detenuti dei due istituti; significa, solo per fare qualche esempio, niente permessi, niente licenze, niente ingressi nelle comunità terapeutiche. Dopo giorni e giorni di peripezie alla signora l’Ufficio di Sorveglianza fa sapere che "neanche loro sanno quando arriverà da Roma il sostituto magistrato, e che è tutto fermo fino al suo arrivo". Decisa a non mollare, la signora telefona al Ministero della Giustizia; le viene consigliato di telefonare al Consiglio Superiore della Magistratura. Una signora ostinata, alla fine ce la fa a parlare con la sezione Settima del CSM; e le riferiscono che a loro risulta che il magistrato ha già preso l'incarico, si tratta del dottor Sebastiano Bongiorno. Forte di questa notizia ritelefona all'ufficio di Modena dove finalmente le dicono che effettivamente il magistrato ha preso l'incarico... ma è andato in ferie e, comunque, anche dopo le ferie non rientrerà perché... andrà in pensione! “Quando la signora in questione mi ha raccontato questo fatto”, dice   Bernardini “non ci volevo credere. Constato, attraverso una ricerca fatta al volo su internet, che in effetti il dottor Bongiorno, magistrato e politico eletto nel 1994 nella lista dei Progressisti, ha assunto servizio l'8 luglio scorso e che la decisione del Csm risale al 19 febbraio. Faceva parte della vasta schiera di Magistrati fuori ruolo presso il Ministero della Giustizia (Dap): la pacchia pertanto avrebbe dovuto finire, ma il  dottor Bongiorno, come abbiamo visto, ha trovato un'alternativa. Dal  canto suo, il magistrato Dal canto suo, il magistrato di Reggio Emilia  – che in teoria sostituisce quello di Modena - non firma le licenze, quindi il risultato è che tutti i semiliberi che regolarmente usufruiscono di licenze, proprio nei mesi più caldi di luglio, agosto e settembre, non avranno la possibilità di esercitare un loro diritto. Inoltre, in molti avevano già prenotato le ferie per andare nei loro paesi di origine a trovare i genitori, che a loro volta aspettavano da tutto l'anno questo momento. Di fronte a questa situazione, il Ministero della Giustizia tace, così come tacciono al Csm e la Procura Generale della Corte di Cassazione: è estate, i magistrati vanno in ferie e quanto prescritto dalla legge può attendere, in un Paese pluricondannato per violazione dei diritti umani fondamentali”. E ora la storia di una persona che viene sottoposta ad anni di carcere, li sconta, viene assolto e per l’ingiusta detenzione non viene risarcito. Si chiama Giulio Petrilli, questa vittima della giustizia ingiusta italiana. Ha scritto una lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. Attende risposta. "Gentile Presidente Renzi", scrive il signor Petrilli, "visto che la legge attuale sulla responsabilità civile dei magistrati prevede di inoltrare il ricorso e anche il risarcimento al presidente del consiglio dei ministri, le inoltro la richiesta di risarcimento danni, quantificabile in dieci milioni di euro, per l'errore giudiziario commesso dal procuratore del tribunale di Milano e la Corte dello stesso tribunale che mi condannò in primo grado. Da anni mi batto per avere giustizia sulla mia vicenda giudiziaria. Una vicenda che mi vide arrestato nel 1980 con l'accusa di partecipazione a banda armata (Prima Linea) e rilasciato nel 1986, dopo l'assoluzione in giudizio d'appello presso il tribunale di Milano. Uscii innocente dopo cinque anni e otto mesi di carcere, da un'accusa di banda armata, che prevedeva anche la detenzione nelle carceri speciali e sotto regime articolo 90, più duro dell'attuale 41 bis. Anni d'isolamento totale, blindati dentro celle casseforti insonorizzate, senza più poter scrivere, leggere libri, anche quelli per gli studi universitari, qualche ora di tv ma solo primo e secondo canale. Sempre, sempre soli, con un'ora d'aria al giorno, in passeggi piccoli e con le grate. Un'ora di colloquio al mese, con i parenti, ma con i vetri divisori. Dodici carceri ho attraversato in questi sei lunghi anni. Ebbi la sentenza di assoluzione dalla Cassazione nel 1989". Chissà se Renzi ha risposto, anche un solo twitter.

«Ecco perché proseguo il Satyagraha, dice Rita Bernardini. Vi spiego perché proseguo il Satyagraha insieme a Marco Pannella  con il sostegno attivo di oltre 200 cittadini. Marco Pannella sta praticando il Satyagraha nella forma dello sciopero della sete, nonostante i medici glielo sconsiglino nel modo più assoluto:

- è inconcepibile per uno Stato che si definisca democratico che il boss di “cosa nostra” Bernardo Provenzano sia ancora detenuto in regime di 41-bis (carcere duro). Occorre immediatamente interrompere questa vergogna che mette lo Stato italiano a un livello di criminalità superiore a quello dei peggiori mafiosi o terroristi.

- occorre intervenire immediatamente per garantire le cure oggi negate a migliaia di detenuti che non possono essere “curati” nelle strutture carcerarie. Responsabili di questa situazione sono il Ministero della Giustizia, quello della Sanità e i magistrati di sorveglianza.

- il decreto sulle carceri in fase di conversione alla Camera, nel prevedere le misure risarcitorie per i detenuti che hanno subito trattamenti inumani e degradanti – che noi radicali abbiamo definito “il prezzo della tortura” – non ha corrisposto minimamente a quanto previsto dalla Corte EDU e a principi elementari di costituzionalità. Questo non lo affermiamo solo noi radicali, ma anche la Commissione Affari Costituzionali della Camera che ha espresso seri dubbi circa queste misure chiedendo alla Commissione Giustizia se “siano pienamente rispondenti ai principi stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella richiamata sentenza dell’8 gennaio 2013 (causa Torreggiani e altri contro Italia, ricorsi 43517/09 più altri riuniti) ed al principio di proporzionalità di matrice costituzionale”.

- Oltretutto, gli 8 euro per ogni giorno di trattamenti inumani e degradanti subiti in violazione dell’art. 3 della CEDU, o il giorno di sconto di pena ogni 10 giorni passati in carcere nella condizione suddetta, costituiscono misure inapplicabili per una Magistratura di Sorveglianza già sotto organico e non in grado -da tempo- di affrontare i doveri quotidiani ai quali è chiamata; lo stesso vale per i Giudici civili che dovrebbero ricostruire giorno per giorno e per ciascun detenuto le condizioni di carcerazione nei diversi spostamenti che i reclusi subiscono durante la permanenza nei penitenziari italiani: cambio di cella, di sezione, di istituto.

- occorre che Televisioni pubbliche e private rimedino all’ignobile censura che hanno riservato agli esiti della visita effettuata in Italia (dal 7 al 9 luglio) da parte delle Nazioni Unite tramite il “Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria”. Nel documento redatto e nelle richieste rivolte al nostro Paese dall’ONU ci sono tutti gli obiettivi della nostra lotta e tutti i contenuti del Messaggio al Parlamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, amnistia e indulto compresi. Gli esperti ONU hanno anche avuto da recriminare su un argomento tabu in Italia come quello del 41-bis, al quale solo noi radicali ci opponiamo. Secondo l’ONU non ci siamo ancora “adeguati ai requisiti internazionali per i diritti umani.

Troppo pochi 8 euro al giorno ai detenuti che hanno sofferto una carcerazione inumana. Il rischio è che l’Europa ci sanzioni anche per questa maniera di mettere pezze ai danni già fatti. Non lo dicono solo i radicali italiani di Rita Bernardini e Marco Pannella, che di questa battaglia hanno fatto da tempo una ragione di vita e di verità, ma lo hanno messo nero su bianco i membri del Csm, con un voto che quasi all’unanimità, 19 voti favorevoli e due astenuti, ha bocciato il decreto del ministro Andrea Orlando.

“L’obiettiva esiguità del quantum risarcitorio da liquidarsi – si legge nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione (relatrice la togata di Unicost Giovanna Di Rosa) – senza che alcuna discrezionalità sul punto residui al giudicante, potrebbe infatti essere sospettata di svuotare di contenuto la tutela offerta dalla disposizione sovranazionale, la cui violazione non darebbe luogo ad un effettivo ristoro per equivalente da parte dell’amministrazione”.

“Al di là della evidente esiguità della somma – ha osservato il Csm – chiaramente riconducibile al timore che il riconoscimento di importi assai cospicui a favore dei danneggiati possa gravare eccessivamente sulle finanze dello Stato, la previsione di un siffatto limite appare discutibile anche sotto il profilo della rigidità del tasso di risarcimento previsto per legge, senza che sia prevista alcuna possibilità di graduarlo in ragione della gravità del pregiudizio eventualmente accertato”.

Rita Bernardini sul Satyagraha in corso: ''Serve la mobilitazione anche dei detenuti''. Nelle carceri, intanto, ci si continua ad ammalare e a morire. Sono 82 i morti dall'inizio dell'anno, dei quali 24 per suicidio, riporta “Espresso on line”. La puntata di Radio Carcere andata in onda martedì 29 luglio 2014 ha visto la presenza in studio della segretaria di Radicali Italiani, Rita Bernardini, e quella di Marco Pannella. Come ricordato dal conduttore del programma, Riccardo Arena, Rita Bernardini è giunta a quota 29 giorni di sciopero della fame contro la "morte per pena" e affinché lo stato la smetta di comportarsi come "il peggiore dei criminali" in riferimento anche alla vicenda umana di Bernardo Provenzano e la sua permanenza al 41 bis in condizioni pressoché larvali. La puntata ha inoltre ananlizzato i contenuti dell'interrogazione presentata giovedì scorso dal vicepresidente della Camera, On. Roberto Giachetti (Pd) su sovraffollamento carcerario e capienza degli istituti. Arena ha quindi ricordato che venerdì scorso c'è stato un nuovo suicidio al carcere Due Palazzi di Padova. Un morto è morto per impiccagione nella propria cella, il suo nome era Giovanni Pucci, 44 anni di Lecce, che stava scontando una pena di 30 anni di reclusione. A questo detenuto era stato da poco negato il permesso di lavoro esterno al carcere, a causa di una rissa dietro le sbarre in cui sarebbe stato coinvolto e su cui è in corso un'indagine. Si tratta dell'82 esimo detenuto morto nelle carceri italiane nel 2014. Tra questi 24 sono i suicidi. Il deputato ha ribadito la necessità di amnistia e indulto, citando gli interventi di Giovanni Paolo II in Parlamento (2002 e in qualche modo prodromico all'indulto del 2006) e il più recente messaggio di Giorgio Napolitano alle Camere, datato otto ottobre dello scorso anno. Il Parlamento però, secondo Melilla, non ha il coraggio di prendere certe decisioni per paura dell'opinione pubblica che confonde "l'esigenza di sicurezza con una lotta disumana nei confronti di chi ha sbagliato".

"L'informazione determina i sentimenti rancorosi evocati da Melilla – ha proseguito la Bernardini – un'informazione non democratica e poco veritiera. Il centro d'ascolto ha documentato che i tg si basano su fatti di sangue quando è risaputo che gli omicidi sono in netto calo rispetto ad alcuni anni fa. Si tocca la pancia degli italiani e non li si fa ragionare con fatti di verità su una semplice questione: ovvero che in realtà se si fa un carcere diverso, se si usano misure alternative c'è più sicurezza per tutti. Quando non si mandano direttamente le persone nelle carceri illegali italiane, la recidiva si abbassa drasticamente".

Anche il tema della sanità in carcere è tornato al centro della discussione: "Non è solo una questione di metri quadrati – ha dichiarato la Bernardini - ma anche di sanità e in generale di mancanza di cure. Una percentuale intorno al 30% dei detenuti ha problemi psichiatrici e in carcere c'è un'alta probabilità di veder manifestare problemi psichiatrici proprio per le condizioni in cui si è costretti a vivere. Poi ci sono il 32% che sono tossicodipendenti e hanno già problemi di loro. Anche se sei sano ti ammali, il carcere è un luogo dove ci si ammala spesso gravemente e troppe volte si muore per mancanza di cure e perché indagini urgenti tipo le Tac non vengono eseguite se non dopo quattro mesi o un anno, quando ormai è troppo tardi. Inoltre ci sono detenuti che vengono accusati di fare scena, non vengono creduti e muoiono in carcere. Non tutte le carceri hanno la guardia medica h24, pochissime hanno il defibrillatore e anche dove c'è non sanno usarlo. Andrebbero fatti dei corsi per gli agenti e per chi è presente in carcere ma non vengono svolti".

"C'è da occuparsi e preoccuparsi di questo – ha poi dichiarato Pannella entrando nel merito delle questioni - Renzi non si rende conto che, con queste condanne formali e quando il massimo magistrato costituzionale (Presidente della Repubblica) manda un messaggio alle Camere in cui scrive che quanto viene detto da Cedu, Corte Costituzionale (e perfino dall'Onu, benché in un momento successivo) è qualcosa che crea l'obbligo, questo parlamento non ha neppure discusso e in questo dà la misura di se stesso". Ha sentenziato l'anziano leader che si è soffermato anche sulla vicenda riguardante l'irragionevole durata dei processi ricordando che: "Già nel 1976 mi schieravo contro i comunisti che erano contrari all'amnistia preferendo le prescrizioni". Quindi Pannella ha letteralmente tuonato contro l'indegnità del nostro paese a far parte di quella stessa Unione Europea che pure ha contribuito a fondare: "L'Italia andrebbe espulsa dalla comunità europea per la somma e per il prodotto delle violazioni commesse – Pannella ha evocato in proposito una ricerca sul costo economico delle procedure d'infrazione contro l'Italia, a cura di Massimiliano Iervolino - e con la nonviolenza dobbiamo giocare al massimo la partita per il diritto e per i diritti". Tra questi il diritto costituzionale alla salute in carcere.

A proposito viene i aiuto la toccante testimonianza di Davide Grassi su “Il Fatto Quotidiano”. Sovraffollamento delle carceri: Michele se n’è andato. È una calda giornata di luglio. Le imponenti mura di recinzione che circondano l’edificio principale sono la prima cosa che mi lascio alle spalle quando oltrepasso il massiccio portone blindato, che sembra ruggire mentre si apre e si richiude a battente. Prima di arrivare alle “sezioni” che ospitano i detenuti devo percorrere alcuni metri a cielo aperto, interrotti da almeno altri due fabbricati di cemento armato e acciaio, all’interno dei quali vengo sottoposto a rapidi controlli dalle guardie carcerarie che mi riconoscono subito e si limitano ad una superficiale occhiata al “pass” che il loro collega mi ha rilasciato all’ingresso. Mi capita spesso di addentrarmi dentro “l’inferno”. Lo chiamano così, quelli che ci finiscono dentro, per colpa loro o, in certi casi, anche per  un errore giudiziario. Dentro “l’inferno” ci trovi quelli che sono gravati da una misura cautelare e che, secondo il magistrato, finché il procedimento non si conclude, potrebbero inquinare le prove, tentare la fuga o commettere un altro reato. Tra di loro anche chi sta scontando una condanna definitiva. Ho superato l’ultimo controllo e percorro gli ultimi metri all’aperto. Inevitabilmente alzo lo sguardo. Dalle inferiate saldate al perimetro di una finestra fuoriescono le braccia a penzoloni di un detenuto. Scorgo i suoi occhi rassegnati che fissano il vuoto. Dietro di lui credo di aver intravisto le ombre dei compagni che si agitano dentro la cella. Proseguo ancora. Davanti a me sento il fischio del motorino elettrico che fa scattare la serratura dell’ultima porta d’acciaio che mi separa dall’”inferno”. Sono dentro. Noto che alcuni agenti della penitenziaria parlano tra di loro in modo concitato. Capita a volte quando ci sono problemi con i detenuti. Il piantone mi fa segno di andare. Mi accomodo in una delle stanze messe a disposizione per i colloqui e attendo. “Oggi è una giornata molto pesante.” Esordisce Marco che è appena sceso dalla seconda sezione. Marco ha 22 anni ed è nato in Marocco ma è in Italia da quando aveva dieci anni. Parla un italiano impeccabile. È cresciuto con gli zii e non ha mai conosciuto i suoi genitori. È dentro da 11 mesi per una rapina aggravata. Ha preso una condanna in primo grado di 3 anni. Abbiamo appellato la sentenza. Marco è la prima volta che finisce in carcere e mi ha nominato da poco. È stato Michele ad avergli consigliato di nominarmi ed io sto facendo un favore a Michele, un mio cliente, che ha da scontare delle vecchie condanne per spaccio. Roba vecchia, ma con le quali prima o poi Michele sapeva di doverci fare i conti. Michele ha sessant’anni e dal carcere ci era già passato. Visto che era uno dei più anziani aveva deciso di prendere sotto la sua ala protettiva quelli come Marco che fanno il carcere per la prima volta. Michele si è affezionato a Marco. Sarà per la differenza d’età. Marco potrebbe essere suo figlio. Michele mi ha chiesto di difendere Marco gratuitamente ed era molto contento quando gli ho detto che avrei accettato. “Ne hanno portati altri due e adesso nel “buco” siamo in otto.” Mi dice Marco. Lo guardo per niente sorpreso. Quel carcere aveva già avuto qualche problema: condizioni igienico sanitarie pessime e sovraffollamento. Soprattutto quando arriva l’estate e si riempie di ladruncoli e piccoli spacciatori. “Hanno dovuto aggiungere un letto a castello. Siamo stipati come delle sardine. Con questo caldo non gira l’aria e mi sembra di soffocare. Facciamo a turno per stare in piedi, anche solo per dare un’occhiata fuori dalla finestra. Abbiamo una sola tazza del cesso per otto persone. E’ giusto secondo te?” Marco è un ragazzino intelligente, più maturo della sua età. Lo guardo e ascolto senza fiatare. Annuisco soltanto e non posso fare altro che prenderne atto. Dopo lo sfogo iniziale parliamo d’altro. Di cosa farà un giorno quando sarà fuori e che dovrà cercarsi un lavoro. Ha deciso che si rimetterà in contatto con gli zii che non vede da un paio d’anni. Da quando ha deciso di vagabondare da una città all’altra. Nessuno da quando è dentro è mai passato a trovarlo. Forse nessuno dei suoi familiari sa che lui è dentro. Noto che Marco non ha molta voglia di parlare, allora provo a cambiare discorso e a quel punto lui mi interrompe. “Michele se n’è andato…” “Michele se n’è andato?”, ripeto come un automa.  Provo a spiegargli che è impossibile che Michele se ne sia andato, perché mi sarebbe arrivata una comunicazione in studio e comunque la sua posizione doveva essere ancora vagliata dal magistrato di sorveglianza. Mi sembra ridicolo dovergli spiegare che uno non può andarsene dal carcere quando gli pare. Ma subito mi rendo conto che sono io quello ridicolo. Marco ha gli occhi lucidi. In un istante realizzo e mi sento un groppo in gola. “Quando è successo?” “Questa mattina. Durante l’ora d’aria. Nella cella in cui era stato trasferito le finestre del bagno erano abbastanza alte.." Era bravo con i nodi Michele. Li aveva imparati sul lavoro. Per molti anni era andato per mare. Imbarcato su un peschereccio. Michele era un pescatore. Michele quella mattina aveva atteso che la cella si liberasse. Aveva preso un lenzuolo e aveva fatto un cappio ad una estremità. Poi lo aveva girato attorno al collo. L’altra estremità l’aveva già legata alle inferiate della finestra. Quindi si era arrampicato sul piccolo lavabo d’acciaio. Prima di andarsene aveva dato un’occhiata attraverso le sbarre. Fuori il cielo era di un limpido azzurro. Si era lasciato sfuggire un sorriso. Era una splendida giornata d’estate.

Morte naturale, qualcuno dirà. No. E’ omicidio di Stato. Quel reato abbietto di cui nessuno parla.

Così si muore nelle “celle zero” italiane.  Dai pestaggi ai suicidi sospetti. Le foto incredibili, scrive Antonio Crispino  su “Il Corriere della Sera”. Per quando questa inchiesta sarà tolta dal sito del Corriere (più o meno 48 ore), in carcere sarà morta un’altra persona. Sono 2230 decessi in poco più di un decennio. Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario. Sono le ombre del sistema. La versione ufficiale è che il carcere è “trasparente”, sono tutte fantasie, storie metropolitane. «I detenuti, ormai, l’hanno presa come una moda quella di denunciare violenze». Parola di Donato Capece, leader del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria). Per essere credibili bisogna portare le prove, le testimonianze. In che modo? «Il carcere è un mondo a parte, un sistema chiuso dove si viene a sapere quello che io voglio che si sappia e dove le carte si possono sistemare a piacimento. Il sistema tende a proteggere se stesso» sintetizza Andrea Fruncillo, ex agente penitenziario di Asti. Lo avevamo incontrato già qualche anno fa. Grazie anche alla sua denuncia (caso più unico che raro) venne alla luce il sistema di pestaggio organizzato all’interno del carcere dove prestava servizio. In primo grado non si trovò nessun responsabile. In secondo grado sono arrivate le condanne. E’ una lotta impari, una fatica di Sisifo. «Anche lì dove riusciamo faticosamente a reperire delle prove finisce quasi sempre con una prescrizione» spiega l’avvocato Simona Filippi. È uno gli avvocati di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti. Carte alla mano, ci mostra come i reati per cui si procede sono attinenti alle sole lesioni. I tempi di prescrizione sono facilmente raggiungibili rispetto a un reato di tortura. Se fosse introdotto nel nostro ordinamento. Ad oggi, infatti, questo reato non esiste. Come praticamente non esistono condanne passate in giudicato. Esistono, invece, foto e documenti agghiaccianti che pochi dubbi lascerebbero sulla natura della morte del detenuto. Ma tutto è interpretabile e la scriminante è sempre dietro l’angolo. Lo avevamo testato anche noi, nel 2012, dopo l’aggressione ricevuta da parte del comandante degli agenti penitenziari di Poggioreale che minacciò: «Se non spegni questa telecamera te la spacco in testa... I detenuti li trattiamo anche peggio, lo puoi anche scrivere». Anche in quel caso chiedevamo di presunti casi di violenza. Tante scuse per l’accaduto, la richiesta - cortese - di non denunciare da parte della direttrice e promesse di azioni disciplinari da parte del Dap. Nulla di concreto. Anzi. Sul sito della polizia penitenziaria il comandante viene descritto come un ‘martire della battaglia’, in puro stile corporativo, provocato da giornalisti in cerca di scoop. «Nessuna prova». Qualche foto gira su internet per la pervicacia di genitori che chiedono giustizia: sono i casi di Stefano Cucchi, Marcello Lonzi (la mamma ha venduto tutto quello che aveva per pagare avvocati e periti. Ultimamente ha messo in vendita il proprio rene per poter pagare il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. La battaglia legale va avanti da 10 anni) o Federico Perna. Gli altri non li conosce nessuno. Come Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo e troppi altri. Raccogliamo tutto quello che si può documentare. Lo mostriamo, in una miscellanea di orrore e terrore, al garante dei detenuti della Lombardia Donato Giordano, la regione con il più alto numero di carcerati. «E’ una follia, se è vero come è vero quello che ho visto siamo messi peggio del nazismo». Eppure casi di pestaggio sulla sua scrivania non sono mai arrivati. Nemmeno uno. Invece da mesi ci arrivano via posta segnalazioni dal carcere di Opera. «Fate luce sulla cella 24», ci scrivono. Cos’è la cella 24? «Solo una cella come tante altre dove mettono drogati e alcolizzati. Il direttore del carcere mi ha detto che è vuota per evitare che si facciano male. Indagherò» ci fa sapere il garante Giordano. In tutta Italia la cella 24 ha tanti nomi. Ogni detenuto, a seconda della provenienza geografica, la apostrofa in modo diverso, ma il senso è quello: cella 0, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale… Ogni termine ha una spiegazione. Incontriamo un poliziotto di Poggioreale per chiedergli del sovraffollamento ma il discorso vira inevitabilmente sull’esistenza della “cella zero”, la cella dove verrebbero portati i detenuti da punire. Non sa di essere ripreso. Spaventa la normalità con la quale afferma cose di una certa gravità: «Poggioreale è stato scenario di tante cose violente, dentro Poggioreale si è sparato, ci sono stati i morti, sono girate pistole… fino a quando non c’è stata la svolta autoritaria delle forze dell’ordine. Nella gestione di una popolazione del genere, permetti che c’è anche il momento di tensione, che si superano dei limiti, da ambo le parti e si interviene in questo modo? Penso che è naturale… E’ un po’ come lo schiaffo del padre in famiglia, no?». La denuncia che il garante si aspetta sulla scrivania dovrebbe partire da un detenuto pestato che si trova all’interno del carcere e convive con altri detenuti che non vogliono problemi. La stessa denuncia prima di essere spedita passerebbe tra le mani del sistema carcerario. Dopodiché il detenuto dovrebbe continuare a convivere con i suoi presunti carnefici, ogni giorno. Il tutto partendo dal presupposto che un detenuto, per definizione, ha una credibilità pari allo zero e una possibilità di documentare quello che dice praticamene nulla. «Anche se viene trasferito dopo la denuncia, il detenuto sa che le prende lo stesso. Tra di noi arrivava la voce di chi aveva fatto l’infame e si trovava ugualmente il modo di punirlo. Chi sa sta zitto, anche i medici. Ad Asti dicevamo noi al medico cosa scrivere sulla cartella clinica dopo un pestaggio. Ovviamente nei casi in cui lo portavamo da un medico. Ci sono tanti bravi agenti che fanno solo il loro dovere ma seppure assistessero ai pestaggi non potrebbero parlare. Sarebbero mandati in missione in chissà quale carcere sperduto d’Italia, gli negherebbero le licenze, i permessi, farebbero problemi con le ferie, verrebbero discriminati... Insomma il carcere è un mondo con le sue regole» ricostruisce così la sua esperienza, Fruncillo. «Ci aveva provato Carlo Saturno a denunciare le violenze subite nel carcere minorile di Bari» ricorda Laura Baccaro autrice con Francesco Morelli del dossier “Morire di carcere” pubblicato su Ristretti Orizzonti. E’ stato sfortunato. Era l’unico testimone ed è morto impiccato una settimana prima dell’udienza in cui doveva deporre. Il processo si è chiuso per mancanza di prove. Katiuscia Favero. Anche lei aveva denunciato: un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova. La avrebbero violentata ripetutamente. «Dopo la denuncia viene trovata impiccata a un albero in un recinto accessibile solo al personale medico-infermieristico. Sfortunata anche lei. Perché spariscono anche le perizie ginecologiche effettuate dopo la denuncia». Caso chiuso. Nel 2008 verranno assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove. Cristian De Cupis diceva che alcuni agenti della Polfer di Roma lo avevano picchiato durante l’arresto. Denuncia tutto al Pronto soccorso. Muore prima ancora che gli convalidino l’arresto. Aveva 36 anni. Manuel Eliantonio viene fermato all’uscita di una discoteca. Aveva fumato, usato droghe. Gliene trovano alcune in tasca e lui scappa. L’agente lo rincorre e lo porta nella caserma della Polizia stradale di Carcare, provincia di Savona poi in carcere. Ufficialmente muore per «arresto cardiaco» ma il giorno prima aveva scritto alla mamma: «Mi ammazzano di botte, mi riempiono di psicofarmaci, quelli che riesco li sputo, se non li prendo mi ricattano». Anche qui, nessuna prova. Nessuna prova e nessuna testimonianza neppure per Bohli Kaies. E’ uno spacciatore tunisino morto per «arresto cardiocircolatorio». La perizia disposta dal procuratore di Sanremo precisa: «Avvenuta per asfissia violenta da inibizione dell’espansione della gabbia toracica». In pratica: soffocato. Così il procuratore Roberto Cavallone decide di indagare i tre carabinieri che procedettero all’arresto. Dirà: «E’ una morte della quale lo Stato italiano deve farsi carico. Chi ha visto si faccia avanti e i tre militari raccontino come è andata». Non si saprà mai come è andata nemmeno per Rachid Chalbi. Trovato morto in cella per “suicidio”. Qualche giorno prima era stato punito con il trasferimento nel penitenziario di Macomer. Quando i parenti si recano all’obitorio notano ecchimosi sul volto e sul petto. I parenti si chiedono: «Nonostante la richiesta del consolato e dei legali l’autopsia non è stata eseguita. Perché?».

Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata “cella zero”, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: ‘ se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.

Dopo tutto questo si sente l’opprimente bisogno di scomunicare “solo” i mafiosi. "Ora Bergoglio venga qui a spiegarci se possiamo prendere l'ostia", scrive Giuseppe Caporale su “La Repubblica”.  «A questo punto, vogliamo incontrare il Papa. Solo lui può dirci se possiamo ricevere o no i sacramenti. E questo noi dobbiamo saperlo ». Quando, alle cinque di ieri pomeriggio, nella "sala della socialità" del reparto Alta sicurezza 3 del carcere di Larino, prende la parola uno dei quindici ‘ndranghetisti, il vociare che fino a quel punto aveva accompagnato la visita ispettiva al penitenziario dell'assessore regionale alle Politiche sociali del Molise, Michele Petraroia, si spegne. «Noi, tutti insieme — dice il boss, indicando con il dito il gruppo di detenuti calabresi intorno a lui e guardando l'assessore — due settimane fa, dopo la scomunica del Papa alla ‘ndrangheta durante la visita in Calabria, abbiamo posto una domanda al nostro prete (il cappellano del carcere don Marco Colonna, ndr). E, visto che siamo tutti condannati per reati di mafia, gli abbiamo chiesto se potevamo continuare a prendere i sacramenti. Don Marco ha preso tempo, giustamente — prosegue il detenuto — Ha detto che si doveva informare, che non aveva sentito bene le parole del pontefice e che le aveva ascoltate solo distrattamente alla televisione. Ci ha detto che ne avrebbe parlato con il vescovo (don Gianfranco De Luca della diocesi di Larino-Termoli, ndr). Noi, nel dubbio, a messa non ci siamo andati fino a quando non è venuto il vescovo a parlarci, e a darci con le sue mani la comunione. Ma quando, dopo la messa di domenica, abbiamo posto la stessa domanda anche a lui, ci ha detto che c'è ancora bisogno di riflettere e approfondire. Poi ci ha lasciato da leggere il discorso integrale del Papa a Sibari». Quindi il boss rivolge un invito all'assessore: «Visto che è qui per conoscere questa vicenda da vicino, faccia sapere fuori che vogliamo incontrare Papa Francesco. Che da lui vogliamo la risposta alla nostra domanda». Petraroia annuisce e prende appunti con un'assistente: «Capisco il vostro turbamento e non sono la persona adatta per parlarvi di pentimento o conversione. Conosco questo carcere e le persone che ci lavorano e sono certo che potranno aiutarvi». Nella sala c'è anche Carmelo Bellocco, capo cosca di una potente ‘ndrina di Rosarno: «Assessore, faccia anche arrivare un messaggio alle nostre famiglie. Dica loro che noi non abbiamo offeso la chiesa, mai», dice. «Abbiamo solo fatto una domanda, tutti insieme. Non c'è nessuna rivolta come dicono invece i telegiornali. Noi non siamo come quelli dell'inchino... (con un chiaro riferimento alla vicenda della sosta della statua della Madonna davanti all'abitazione di un boss a Oppido Mamertina, ndr )». A quel punto i detenuti rompono il silenzio e cominciano a prendere la parola uno alla volta. «Perché esce questa immagine di noi? Perché ci vogliono far passare per rivoltosi? », si sfoga uno di loro, seduto accanto al boss della Sacra corona unita Federico Trisciuoglio: «Ci vogliono punire », dice. «Tutti questi articoli di giornale e servizi della tv ci fanno solo del male». Nella "sala della socialità" dovrebbe esserci anche Giuseppe Iovine, fratello del boss del clan dei Casalesi pentitosi da un mese, ma non c'è: è rimasto in cella e non ha voluto partecipare all'incontro. Ma nemmeno quando Petraroia passa attraverso il reparto Z (dove si trovano i parenti dei collaboratori di giustizia che devono scontare una pena in carcere) Iovine si avvicina. La direttrice del penitenziario, Rosa La Ginestra, che segue la visita, illustra all'assessore le attività dell'istituto: «Facciamo tante iniziative per fare socializzare i detenuti e per recuperarli. Hanno ragione quando dicono che tutto questo clamore non ci aiuta. Una parte dei nostri ospiti, quelli che frequentano il corso di studi interno, ogni anno si reca in visita a Roma per ascoltare il Papa in piazza San Pietro». Quando, dopo un'ora di ispezione dei reparti, Petraroia esce dal penitenziario, è stato appena stato diffuso l'ultimo messaggio di monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso. Che sulla vicenda dice: «Occorre chiudersi a riflettere su come conciliare la forza della misericordia con il dramma della scomunica». Nessuna rivolta, spiega poi il presule: i detenuti, sostiene, hanno voluto porre una «questione».

L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.

Da Formigoni a Errani, la caduta dei governatori 2010.

Roberto Formigoni è stato a capo della Regione Lombardia per 18 anni. Si è dimesso dopo aver concordato la dissoluzione della giunta e di un consiglio regionale nel quale la Lega Nord aveva chiesto la sua testa, bersagliata in quel momento dalle inchieste giudiziarie. Avrebbe voluto mantenere un piede a Milano, come commissario generale dell’Expo. Ma ha dovuto mollare anche quello. Eletto in Senato con il Popolo della libertà nel 2013, è passato con Ncd e ora è nella maggioranza che sostiene Matteo Renzi. E’ anche presidente della commissione Agricoltura di Palazzo Madama.

Renata Polverini è rimasta con Berlusconi. Ma come Formigoni è caduta in piedi. L’hanno eletta in Parlamento nel 2013, a dispetto di un passaggio meteorico alla presidenza della Regione Lazio. Nel settembre 2012 la sua giunta cola a picco insieme al consiglio regionale affondato dallo scandalo dei fondi milionari dei gruppi politici consiliari, di cui è stato portabandiera Franco Fiorito, il “batman di Anagni”.

Roberto Cota, ex governatore del Piemonte, se n’è dovuto andare per decisione dei magistrati amministrativi che hanno dato ragione alla sua avversaria Mercedes Bresso circa irregolarità nelle firme per le liste elettorali commesse 3 anni prima.

Vasco Errani. Condannato a un anno per la vicenda Terremerse decide per le dimissioni irrevocabili. Dopo 15 anni ininterrotti alla guida della Regione, e 19 di presenza nella giunta.

Giuseppe Scopelliti, ex presidente della Regione Calabria, condannato a 6 anni di reclusione per falso e abuso d’ufficio. Accompagnato alla porta dalla legge che porta il nome dell’ex ministro di Giustizia Paola Severino, che stabilisce la decadenza degli amministratori condannati.

Giancarlo Galan, ex governatore del Veneto. Per lui i giudici hanno chiesto l’arresto, ritenendolo una delle pedine chiave dello scandalo Mose. Sicuro di essere rieletto per un quarto mandato, ha dovuto mollare la presidenza della Regione che occupava da 15 anni. Due volte ministro e ora deputato: presidente della commissione Cultura della Camera.

…E PROTESTANO PURE…..

Politici in piazza. A casa mai? Gli imprenditori che aspettano i rimborsi dallo Stato, le partite Iva perseguitate dal fisco, gli esodati, i pensionati: ecco chi avrebbe diritto ad avere udienze non richieste da Napolitano, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Marciare da parlamentare sulle istituzioni, occupare per protesta i luoghi simbolo dello Stato, diventa improvvisamente lecito. E dire che ancora adesso a Forza Italia si rinfaccia, come un attentato alla Costituzione, il sit in del marzo scorso davanti al Palazzo di giustizia di Milano per protestare contro l'accanimento dei pm nei confronti di Silvio Berlusconi. Senatori grillini, pezzi consistenti della sinistra e leghisti ieri hanno cambiato idea e in corteo hanno raggiunto il Quirinale occupandone il piazzale. Non ci stanno a varare la riforma del Senato, impantanata in aula in un drammatico braccio di ferro: da una parte il governo (sostenuto da Forza Italia) che vuole arrivare al voto per mettere fine alla sciagura del bicameralismo perfetto entro l'8 agosto usando tutti gli strumenti di cui dispone, dall'altra le opposizioni (e pezzi del Pd) che per impedirlo hanno presentato ottomila emendamenti alla legge. Noi restiamo fermi al giudizio espresso all'epoca del sit in anti magistrati politicizzati: ognuno ha il diritto di protestare dove e come meglio crede. Ma oggi siamo anche convinti che chi ieri ha marciato sul Quirinale rappresenta solo la difesa di se stesso. Difende il suo prestigioso posto di lavoro e il relativo lauto compenso, non gli interessi degli italiani. I quali, se il Senato chiudesse domani mattina, non verserebbero una lacrima. Anzi, credo che un applauso si leverebbe dal più profondo del Paese. Se qualcuno ha il diritto di occupare lo spiazzo del Quirinale non sono certo quei privilegiati dei senatori. Gli imprenditori che aspettano i rimborsi dallo Stato, le partite Iva perseguitate dal fisco, gli esodati, i pensionati: ecco chi avrebbe diritto ad avere udienze non richieste da Napolitano. Il futuro e gli stipendi sono temi che non ci appassionano. E il danno che provocano resistenze così violente a una legge di riforma tutto sommato «soft» dimostra una sola cosa: è gente fuori dal tempo. Il Senato è un'istituzione obsoleta, inutile e ora anche dannosa. Prima questa partita si chiude prima si affronteranno, finalmente, le questioni vitali. Se poi Grillo o la sinistra vorranno fare precipitare la situazione, si accomodino. Voglio vederli andare a elezioni anticipate al motto di: «Più Senato per tutti».

Ci avete rotto con questa Costa Concordia! Scrive Fulvio Abbate su “Il Garantista”. E basta! La storia della Costa “Concordia”, nonostante i suoi poveri morti, non riuscirà mai a creare un’epopea, com’è accaduto invece alla sagoma del “Titanic”. Già, iceberg contro scoglio è quasi una metafora, una povera immagine da strapaese. Già, nulla che vada oltre l’immaginario da rotocalco nazionale con tutti gli strilli dei titoli che sappiamo, e con questo ritengo di avere già detto tutto, o comunque molto dello stato delle cose. Basta con la “Concordia”, insomma. Dimenticavo: ancora c’è da mettere in conto la figura dal fulgore rionale di capitan Schettino, cominciando dalla cura che l’uomo metteva nella pettinatura, gel su gel, da vero orgoglioso, fascinoso capitano sul ponte, appunto, di comando, che poi non si rivelò affatto tale. Altrimenti l’unico fermo-fotogramma della nostra vicenda non mostrerebbe l’immagine della nave lì spiaggiata, come ulteriore metafora della balena italiana, come un capitolo significativo dell’autobiografia nazionale. Capitolo chiuso. Basta con la “Concordia”, dai. E poi ecco le parole dell’eroe positivo, l’altro ufficiale, finalmente gentiluomo, che non può mancare in ogni melodramma italico, quel “Torni a bordo, cazzo!” che in pochi giorni, tra nuovi titoli dei giornali e battute da cabaret, da “Bagaglino” redivivo, ha assunto lo stesso peso simbolico del garibaldesco “Nino, domani a Palermo”, e infine i turisti, tutti lì, al Giglio, a fotografare l’intruso, il mostro del mare, l’orca bianca spiaggiata, e ancora tutte le parole spese nella rosea prospettiva di riportare presto il pesce-relitto fuori dallo sguardo per ristabilire la pax turistica, lungamente violata per colpa di quel maledetto “inchino”, capitolo ulteriore del già citato costume da pagliaccio nazionale, salvo poi scoprire che proprio quel relitto era diventato un’attrazione non meno turistica di una basilica di Pompei o di Loreto, una sorta di Torre di Pisa trasfigurata in cadavere di natante, un po’ come l’immagine di King-Kong morto sulla spiaggia di Long Island che il regista Marco Ferreri piazzò in un suo film sul declino del maschio. Maschio italiano o comunque italico, campano, con accompagnatrice esotica, anche Schettino in questa nostra storia accompagnata a sua volta dal fiato sospeso nel tentativo di liberarsi dall’incubo, e dunque ecco arrivare i Pico della Mirandola e gli Archimede in grado di riportare in asse la “Concordia”, e da lì allontanarla verso il suo ultimo viaggio con rotta verso il bacino del disarmo, fra un: “E’ mia!”, e un  “No, la voglio io”, e ancora “No, ho detto che è mia”, un po’ come certe liti condominiali tra sfasciacarrozze quando c’è da rottamare, metti, un pezzo meccanico di valore come, che so?, la Porsche 550 Spyder di James Dean, visto che non si sa mai che non possa diventare un cimelio, una reliquia, un ottovolante d’affari. E poi, una volta rimessa dritta, ecco le foto dei saloni risparmiati dalla ruggine, i resti dei bagagli, e allora riecco lo spettro del Titanic con le sue argenterie finite nel fondo del mare, quasi una location perfetta per un reality sulle catastrofi non meno da rotocalco. E basta con la “Concordia”. E i servizi per mostrare che il tempo si è fermato, retorica e ancora retorica asserragliata dietro al pianoforte rimasto intanto, quasi che se arrivasse lì, per puro caso, un Fred Bongusto o perfino un Vinicio Capossela, il pianobar potrebbe ricominciare come se nulla fosse accaduto, e c’è perfino da giurare che lo stesso Schettino lascerebbe la plancia di comando e i fianchi della simpatica Domnica Cemortan, così come il vassoio di ostriche galantemente offerto per senso d’ospitalità, per scendere giù a cantare pure lui perché, come dirà la moglie del eroe negativo in un’intervista a “Oggi”, rotocalco a favore delle alghe dei fondali: “Mio marito non è un mostro”. E allora, anche se così fosse, basta con la “Concordia”. E intanto, mentre la sagoma bianca si allontana dal Giglio, viene voglia di dire davvero che questa storia è insostenibile! Sognando di liberarsi da questo incubo perché, sì, come ha detto proprio Domnica: “Sì, mi ero presa una cotta per il capitano Schettino. Sì, ci siamo baciati. Penso che saremmo finiti a letto, ma poi la nave ha colpito lo scoglio e si è capovolta”. Così parlò la signorina Cemortan, 25 anni, moldava che era a bordo della Costa Concordia la notte del disastro davanti all’isola del Giglio, in un’intervista al domenicale britannico Mail on Sunday. Ora che ci penso, anche Gemma Politi, allo scoccare dei suoi novant’anni, madre del sottoscritto, era il 2010, come testimonia una foto che la vede accanto a un sorridente d’ufficio commissario di bordo, fu ospite della “Concordia”, al momento di rimettere piede a terra però disse soltanto: “Un viaggio da schifo, Fulvio! Ho litigato pure con mio fratello Gino”, e io, prendendola sotto braccio, cercando di liberarla dall’incubo scampato: “E dunque, mamma?” E lei: “Mai più crociere”. Già, mai più “Concordia”, cazzo!

Qual è la vera Italia? L'impresa di Nibali, le lamentele dei commessi alla Camera, il recupero della Concordia la lentezza della politica. Facce della stessa medaglia: il nostro paese, scrive Marco Ventura su “Panorama” Qual è la vera Italia? E' quella di Vincenzo Nibali, la “pulce” diventata “Squalo” che pedala macinando chilometri e dondolando testardo sul sellino fino a trionfare sul Tourmalet al Tour de France? O è quella dei commessi e dipendenti miracolati da decenni di privilegi alla Camera con mega-pensioni e che da semplici centralinisti o documentaristi guadagnano più d’un primario d’ospedale e poi se gli diminuisci lo stipendio fischiano e urlano ai deputati dentro Montecitorio (a dimostrazione che quei soldi non erano meritati, almeno non da tutti)? L’Italia è l’ingegneria italiana, è l’ingegno e l’efficienza degli italiani che hanno rimesso in linea, in “navigazione”, addirittura in anticipo sui tempi, la Costa Concordia dopo che un altro italiano l’aveva portata a schiantarsi sugli scogli, fatta affondare e abbandonata con disonore al suo destino di morte? L’Italia è quella che con abilità si inserisce in una trattativa tra la Sudan e gli Stati Uniti, due Paesi che non dovrebbero neppure guardarsi in faccia per l’embargo che il primo applica al secondo e perché il leader sudanese è sotto accusa all’Aja per crimini contro l’umanità, e tuttavia il nostro viceministro Lapo Pistelli con scatto felin-diplomatico riesce a imbarcare sul volo di Stato tricolore e riportare libera a Roma Meriam, con i piccoli Martin e Maja e il marito somalo-americano, sottraendola alla sorte possibile di 100 frustrate e, peggio, dell’impiccagione nel 2016? L’Italia è quella che persegue il rinnovamento, le riforme, la sobrietà, il merito, mettendo fine a un’ubriacatura di privilegi castali e corporativi, dalla magistratura ai sindacati, dalla politica agli ordini professionali (o almeno ci prova), o è quella che nel pieno del crollo di un sistema si aggrappa miseramente al soldo e mentre i giovani oggi non sanno se avranno mai una pensione decente, anzi sanno perfettamente che mai l’avranno, nelle sembianze di consiglieri regionali lombardi di vari partiti (compresi nomi famosi come la Minetti e il figlio di Bossi) si precipita a chiedere la liquidazione dei contributi già versati, prima che nuove regole insidino il “tesoretto”? Ecco, l’Italia è fatta di slanci generosi e testarda voglia di fare bene il proprio lavoro, ma anche di freni, marce indietro, recidive (im)morali. Forse è sempre stato così. Forse adesso i comportamenti positivi e quelli negativi risaltano di più perché la torta è più piccola e gli squilibri sono più evidenti (e quindi ingiusti). Ma è positivo almeno questo: che sempre di più si diffonda la percezione di un’equità necessaria che consenta all’Italia di rialzare la testa. Anche perché alternativa è una “Concordia nazionale”, nella versione che affonda.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.  

 (Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)   

Lasciatemi votare 

con un salmone in mano 

vi salverò il paese 

io sono un norvegese…  

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima.

Fino a poco tempo fa nessuno aveva mai parlato di inchini. Poi i giornali, in riferimento alla Concordia, hanno parlato di "Inchini tollerati". Lo sono stati fino a qualche ora prima della tragedia sulla Costa Concordia che ha provocato morti e feriti incagliandosi sulla scogliera davanti al porto dell'Isola del Giglio. Repubblica.it lo ha documentato: nei registri delle capitanerie di porto che dovrebbero controllare il traffico marittimo, emerge che la "Costa Concordia" - così come tutte le altre navi in zona e in navigazione nel Mediterraneo e nei mari di tutto il mondo - era "seguita" da Ais, un sistema internazionale di controllo della navigazione marittima che è stato attivato da alcuni anni e reso obbligatorio da accordi internazionali dopo gli attentati dell'11 settembre (in funzione anti-terrorismo) e dopo tante tragedie del mare avvenute in tutto il mondo. Si è scoperto così che quel passaggio così vicino all'isola del Giglio era un omaggio all'ex comandante della Costa Concordia Mario Palombo ed al maitre della nave che è dell'isola del Giglio. Si è scoperto anche che per ben 52 volte all'anno quella nave aveva fatto gli "inchini". Inchini che fino al giorno prima, fino a prova contraria, erano stati tollerati: nessuno fino ad allora aveva mai chiesto conto e ragione ai comandanti di quelle navi. Nessuno aveva cercato di capire perché passassero così vicini alla costa dove per legge è anche vietato (se una piccola imbarcazione sosta a meno di 500 metri dalle coste, se beccata dalle forze dell'ordine, viene multata perché vietato). Figuriamoci se a un bestione come la Costa Concordia è consentito "passeggiare" in mezzo al mare a 150-200 metri dalla costa. Il comandante Schettino, come confermano le indagini e le conversazioni radio con la capitaneria di porto di Livorno, ha fatto errori su errori, ma nessuno prima gli ha vietato di avvicinarsi troppo all'isola del Giglio. Quando si è incagliata era troppo tardi.

Da un inchino ad un altro. Dopo il 2 luglio 2014 l’anima italica, ipocrita antimafiosa, emerge dalle testate di tutti i giornali. I moralisti delle virtù altrui, per coprire meglio le magagne governative attinenti riforme gattopardesche. Si sa che parlar dei mondiali non attecchisce più per la male uscita dei pedanti italici. Pedanti come ostentori di piedi pallonari e non di sapienza. Lo dice uno che sul tema ha scritto un libro: “Mafiopoli. L’Italia delle mafie”.

Una protesta plateale. Se la Madonna fa l’inchino ai boss, i carabinieri se ne vanno. Se i fedeli e le autorità, civili e religiose, si fermano in segno di “rispetto”, davanti alla casa del mafioso, le forze dell’ordine si allontanano, in segno di protesta. E ne diventano eroi. Tanto in Italia basta poco per esserlo. È successo il 2 luglio 2014, a Oppido Mamertina, piccolo paese in provincia di Reggio Calabria, sede di una sanguinosa faida tra mafiosi: durante trenta secondi di sosta per simboleggiare, secondo tutti i giornali, l’inchino al boss Giuseppe Mazzagatti, i militari che scortavano la processione religiosa si sono allontanati. Tutti ne parlano. Tutti si indignano. Tutti si scandalizzano. Eppure l’inchino nelle processioni è una tradizione centenaria in tantissime località del sud. Certo è che se partiamo con la convinzione nordista mediatica che il sud è terra mafiosa, allora non ci libereremo mai dei luoghi comuni degli ignoranti, che guardano la pagliuzza negli occhi altrui. Gli inchini delle processioni si fanno a chi merita rispetto: pubbliche istituzioni e privati cittadini. E’ un fatto peculiare locale. E non bisogna additare come mafiosi intere comunità (e dico intere comunità), se osannano i singoli individui e non lo Stato. Specie dove lo Stato non esiste. E se ha parvenza di stanziamento, esso dà un cattivo esempio. A volte i giudizi dei tribunali non combaciano con quelle delle comunità, specie se il reato è per definizione nocumento di un interesse pubblico. Che facciamo? Fuciliamo tutti coloro che partecipano alle processioni, che osannano chi a noi non è gradito? A noi pantofolai sdraiati a centinaia di km da quei posti? Siamo diventati, quindi, giudici e carnefici? Eliminiamo una tradizione centenaria per non palesare il fallimento dello Stato?

Dare credibilità agli amministratori locali? Sia mai da parte dei giornali. Il sindaco di Oppido Mamertina, Domenico Giannetta, ha rilasciato un lungo comunicato per spiegare l'accaduto «Noi siamo una giovane amministrazione che si è insediata da 40 giorni e non abbiamo nessuna riverenza verso un boss. Se i fatti e le motivazioni di quella fermata sono quelli ricostruiti finora noi siamo i primi a condannare e a prendere le distanze», spiega Domenico Giannetta, sindaco di Oppido Mamertina. «A quanto appreso finora - spiega ancora il sindaco - la ritualità di girare la madonna verso quella parte di paese risale a più di 30 anni, ma questa - chiarisce Giannetta - non deve essere una giustificazione. Se la motivazione è, invece, quella emersa condanniamo fermamente. Noi - sottolinea - siamo un’amministrazione che vuole perseguire la legalità. Ci sentiamo  come Amministrazione Comunale indignati e colpiti nel nostro profilo personale  e istituzionale. Era presente al corteo religioso tutta la Giunta Comunale, il Presidente del Consiglio Comunale, il Comandante della Polizia Municipale e il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Oppido. Giunti all'incrocio tra via Ugo Foscolo e Corso Aspromonte, nel seguire il Corteo religioso tutti i predetti camminando a piedi svoltavamo a sinistra, circa 30 metri dietro di noi vi erano i presbiteri e ancora dietro la vara di Maria SS. Delle Grazie. Mentre tutti procedevamo a passo d'uomo la vara si fermava all'intersezione predetta e veniva girata in direzione opposta al senso di marcia del Corteo, come da tradizione. Peraltro, nell'attimo in cui i portatori della vara hanno espletato tale rotazione, improvvisamente il Comandante della Stazione locale dei Carabinieri che si trovava alla destra del Sindaco si è distaccato dal Corteo, motivando che quella gestualità era riferibile ad un segno di riverenza verso la casa di Mazzagatti. Sentiamo dunque con sobrietà di condannare il gesto se l'obiettivo era rendere omaggio al boss, perché ogni cittadino deve essere riverente alla Madonna e non si debba verificare al contrario che per volontà di poche persone che trasportano in processione l'effigie, venga dissacrata l'onnipotenza divina, verso cui nessun uomo può osare gesto di sfida. Dal canto nostro nell'immediatezza del fatto, nel dubbio abbiamo agito secondo un principio di buon senso e non abbiamo abbandonato il Corteo per non creare disagi a tutta la popolazione oppidese ed ai migliaia di fedeli che giungono numerosi da diversi paesi ed evitare il disordine pubblico».

Se non vanno bene, possiamo cambiare le regole. Bene ha fatto a centinaia di km in quel di Salerno il clero locale. Meno applausi e più preghiere, affinchè la processione di San Matteo ritorni ad essere «un corteo orante» e non un teatro o un momento «di interessi privatistici», scrive “La città di Salerno”. L’arcivescovo Luigi Moretti annuncia così le nuove “regole” che, in linea con la Cei, caratterizzeranno la tradizionale celebrazione dedicata al Santo Patrono, invitando tutti - fedeli, portatori, istituzioni - a recuperare il senso spirituale della manifestazione. Non sono previste fermate dinanzi alla caserma della Guardia di Finanza,  nè dinanzi al Comune. Aboliti gli “inchini” delle statue che per nessuna ragione dovranno fermarsi sulla soglia di bar e ristoranti, visto che «sono i fedeli che si inchinano ai Santi e non il contrario». Nessuna “ruota” delle statue, fatta eccezione per tre momenti di sosta all’altezza di corso Vittorio Emanuele, corso Garibaldi e largo Campo. I militari che sfileranno dovranno essere rigorosamente non armati e le bande saranno ridotte ad un unica formazione. Le stesse statue saranno compattate «in un blocco unico per evitare dispersioni». Nei giorni che precedono la processione saranno organizzate iniziative nelle parrocchie della zona orientale, «che prima erano tagliate fuori dalla celebrazione». Il corteo sarà aperto da croci e candelabri, poi le associazioni, con l’apertura anche a quelle laiche, altra novità di quest’anno. A seguire la banda, le statue, il clero «su doppia fila», l’arcivescovo che precederà San Matteo e dietro i Finanzieri, il Gonfalone del Comune e le autorità con il popolo. Durante la sfilata «si pregherà e verranno letti dei brani del Vangelo». No ai buffet allestiti per ingraziarsi il politico di turno con brindisi e pizzette. «Quelle, se i fedeli vorranno, potranno recapitarle a casa dei portatori», ha ironizzato Moretti. «Ben venga chi vuole offrire un bicchiere d’acqua a chi è impegnato nel trasporto delle statue, ma il resto no, perchè c’è un momento per fare festa ed uno per pregare».

In conclusione sembra palese una cosa. Gli inchini nelle processioni non sono l’apologia della mafia, ma spesso sono atti senza analisi mediatica dietrologica. Molte volte ci sono per ingraziarsi, da parte dei potenti, fortune immeritate. Sovente sono un segno di protesta contro uno Stato opprimente che ha vergognosamente fallito.

L’italiano è stato da sempre un inchinante ossequioso. Ti liscia il pelo per fottersi l’anima. Si inchina a tutti, per poi, un momento dopo, tradirlo. D'altronde ognuno di noi non si inchina a Dio ed ai Santi esclusivamente per richieste di tornaconto personale? Salute o soldi o carriera?

Ricordatevi che lo sport italico è solo glorificare gli appalti truccati ed i concorsi pubblici falsati.

MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.

Magistratura senza vergogna: "Sbagliato chiedere scusa oggi per il caso Tortora", scrive Gabriele Tebaldi su “Elzeviro”. A distanza di trent'anni dal caso di malagiustizia che Giorgio Bocca definì come "il più grande esempio di macelleria giudiziaria", i magistrati e giudici coinvolti continuano a darci un triste spettacolo. All'incirca una settimana fa infatti il pm Diego Marmo, il protagonista dell'accusa contro Enzo Tortora, ha rilasciato delle dichiarazioni grottesche a "Il Garantista" (un nome-invito per i magistrati?): "Adesso dopo trent'anni è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia Tortora per quello che ho fatto",  così si pente il pm e ancora aggiunge "Mi feci prendere dalla foga". Una foga testimoniata dall'arringa tragicamente famosa che inchioda l'innocente Tortora con parole infamanti quali "cinico mercante di morte", pronunciate con una tale veemenza da fargli scendere una "famelica" e ben visibile bava alla bocca. Diego Marmo, auto definitosi come "assassino morale di Tortora" non ha scontato la benché minima pena per quest'errore non degno di un paese civile. Divenuto Procuratore capo di Torre Annunziata, dopo essere andato in una tranquilla e serena pensione è stato addirittura nominato Assessore alla legalità a Pompei. In questi trent'anni di idilliaca carriera non una parola di scuse nei confronti della famiglia Tortora, non un passo indietro. E le scuse di ora sembrano così un modo tardivo per pulirsi egoisticamente la coscienza. Ancora più gravi però sono le dichiarazioni di Felice di Persia, uno dei due sostituti procuratori di Napoli che diede avvio all'"impresa" giudiziaria. Non un controllo bancario, non un pedinamento, nemmeno un'intercettazione telefonica. Tutto si basò su delle testimonianze di personaggi già screditati in passato e su un nome scritto su un'agenda (che il test grafico rivelerà come "Tortona" e non "Tortora"). Questo luminare della magistratura, che divenne inspiegabilmente uno "spettabile" membro del Csm, oggi si indigna per le parole di Marmo e dice "Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale", e ancora "Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa. A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana". Ci sembra inutile aggiungere qualcosa per commentare queste parole vergognose, pronunciate dal personaggio che ha la responsabilità diretta dell'avvio delle indagini su Tortora. Un uomo che è riuscito mettere da parte una coscienza più che sporca godendosi una gran carriera, anche lui senza una parola di scuse alla famiglia vittima di questo sopruso. Una pagina di indelebile vergogna per il mondo della magistratura, la cui responsabilità civile non è ancora regolata da legge. 

La lezione choc del giudice: una toga d'onore non si pente, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Errare, si sa, è umano. Ma perseverare, i latini insegnano, è diabolico. Perché un conto è sostenere la propria tesi. Altro però è negare l'evidenza di due sentenze, quelle che in Appello e in Cassazione hanno sancito che Enzo Tortora era innocente. Eppure Felice Di Persia, il pm che istruì con Lucio Di Pietro quel processo diventato a posteriori l'emblema della giustizia ingiusta in Italia, di questo non si cura. Anzi, con pervicace ostinazione, a trent'anni di distanza, difende (...) (...) la bontà (sic!) di quella tesi accusatoria poi franata. E non solo. L'ex pm, ormai in pensione dopo una luminosa carriera percorsa sino a Palazzo de' Marescialli, se la prende anche col pm d'udienza Diego Marmo, che con trent'anni di ritardo qualche giorno fa ha chiesto scusa alla famiglia per lo scempio della vita di Tortora. È la giustizia italiana, bellezza. La giustizia malata, oggi come allora, che può distruggere la vita di un innocente, mentre chi in toga l'ha distrutta fa carriera e non paga. Facile scusarsi adesso, come ha fatto Marmo ora che è nell'occhio del ciclone perché la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei ha scatenato, visti i suoi trascorsi, le ire della famiglia Tortora. Ma facile anche non scusarsi affatto, come fa Di Persia che in un'intervista al Velino non si muove di una virgola da quella che fu la sua posizione all'epoca, quando lui, membro del Csm, fu costretto a difendersi a Palazzo de' Marescialli perché gli avvocati dell'ormai defunto Tortora chiedevano un risarcimento da 100 miliardi. Del resto, risultati alla mano, perché scusarsi? Quell'inchiesta disciplinare finì, ça va sans dire, a tarallucci e vino, con il proscioglimento di tutti e tre i magistrati finiti nell'occhio del ciclone: lo stesso Di Persia; l'altro pm istruttore, Lucio Di Pietro; e il giudice istruttore Giorgio Fontana, che però indispettito lasciò la toga per diventare avvocato. E sicuramente, per il caso Tortora, né Di Persia né i suoi colleghi hanno subito alcuna conseguenza, meno che mai stop in carriera. Anzi. Lui, Di Persia, è salito su fino in cima diventando, nel 1986, membro dell'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm. L'altro pm che aveva istruito il processo di primo grado a Tortora, Lucio Di Pietro, è subentrato alla guida della Direzione nazionale antimafia nell'interregno tra la morte di Pier Luigi Vigna e l'arrivo di Pietro Grasso, e adesso è procuratore generale di Salerno. Per non parlare poi di Marmo, il pm che ha chiuso la carriera in toga da procuratore capo di Torre Annunziata e ora si è beccato anche il premio di consolazione, l'assessorato alla Legalità a Pompei. Il bilancio del caso Tortora, dal punto di vista delle toghe che in primo grado hanno ottenuto la condanna del presentatore, è più che positivo: nessun danno subìto, risarcimento zero ai familiari del defunto, e anzi un po' di querele vinte qua e là, contro giornalisti «rei» di avere raccontato quel processo monstre, come è accaduto nel 2011 a Lino Jannuzzi. Perché scusarsi, dunque? E infatti Di Persia, al contrario di Marmo, non si scusa affatto. Anzi, se la prende proprio con Marmo che sia pure a scoppio ritardato ha fatto mea culpa per quel «mercante di morte» attribuito a un innocente. «Non ho letto - dichiara Di Persia al Velino - quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale». E ancora: «Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa». Infine: «A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana». Dulcis in fundo, la sentenza: «Non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura». Errare è umano, perseverare è diabolico. Marmo almeno ha sentito il bisogno di scusarsi. Di Persia invece no. Per lui il tempo si è fermato al 1988, quando Il Mattino di Napoli pubblicò le 40 cartelle dattiloscritte di cui si componeva la memoria difensiva da lui inviata all'allora ministro di Giustizia, Giuliano Vassalli. «Ministro, io sono innocente», diceva allora. E lo stesso fa oggi. E in fondo, dal suo punto di vista, ha ragione. Perché sbagliata, davvero, è una giustizia che non paga gli errori che commette.

Caso Tortora trent'anni dopo, Di Persia: “Nessun errore giudiziario”. "Se Marmo è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale", scrive “Il Velino”. “Vuole sapere cosa penso del caso Tortora? Si legga Il Mattino di mercoledì 8 giugno 1988 quando fui costretto a difendermi in sede disciplinare e dissi Ministro anch’io sono innocente”. A primo impatto risponde così in esclusiva al VELINO Felice Di Persia il magistrato che con Lucio Di Pietro fu titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, il popolare conduttore televisivo. Un caso giudiziario che ancora scotta e fa discutere soprattutto alla luce delle dichiarazioni di questi giorni rilasciate al Garantista da colui che sostenne l’accusa in aula contro Tortora, Diego Marmo, oggi nominato tra le polemiche assessore alla Legalità del Comune di Pompei. Ha fatto le sue scusa per aver chiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. Da anni di Pietro e Di Persia non parlano di quel capitolo della loro storia professionale. Di Persia, contattato dal VELINO ribadisce: “Ci vogliono ore per affrontare il caso Tortora”. Dopo lunghe insistenze Di Persia commenta però le recenti dichiarazioni di Marmo. “Non ho letto quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti (compagna di Tortora, ndr) a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale. Tra l’altro avrebbe dovuto chiedere scusa anche ai circa 130 imputati del cosiddetto troncone Tortora, assolti con il presentatore". "Di quei 130 liberati, a differenza di Tortora morto in condizioni così tragiche, un numero imponente venne successivamente ammazzato in conflitti a fuoco tra clan di camorra, altri addirittura si pentirono tutti offrendo la prova ulteriore della correttezza della nostra indagine istruttoria che portò alla condanna di ben 480 imputati. Tortora fu assolto - continua Di Persia - e rispetto il dispositivo di quella sentenza perché nella dialettica processuale non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Di Persia aggiunge: “Nel processo Tortora, Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. L’ex titolare dell’inchiesta non vuole dilungarsi e conclude: “A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto”.

Di Persia, un’occasione persa per tacere, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Anche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata al Velino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo. «Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia.  Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”.  Lucio Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico. È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti». Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano,  dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.

«Taci Di Persia, sei solo una soubrette», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. «Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi.

L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta. Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?

«Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio».

Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?

«Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo. Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione».

Che cosa intende di preciso?

«Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare. Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato. Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento. È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso. Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”. Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro. Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra. Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia».

Si riferisce alla famigerata ”nazionale dei pentiti”?

«Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto».

Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?

«Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero. Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del ”magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia. La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.» 

L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.

A distanza di oltre un secolo viene svelato l'assassino Joe Petrosino, il poliziotto italo americano venuto a Palermo per sgominare una banda di mafiosi. Il 29enne Domenico Palazzotto si vantava spesso con gli amici che a uccidere Petrosino era stato uno zio del padre. "Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino", aveva detto agli amici mentre le microspie lo registravano. L'esecuzione di Petrosino, freddato alle 20.45 del 12 marzo 1909 don tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo, suscitarono il panico nella piccola folla che attendeva il tram al capolinea di piazza Marina a Palermo.

La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede».

Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.

Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?

«A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.»

Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.

«In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.»

Verrà pagato per questo incarico?

«Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.»

A che cosa si riferisce?

«Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a  sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.»

Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?

«È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.»

Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?

«Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.»

È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.

«Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.»

Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?

«Mi vuole fare il processo?»

No,voglio delle risposte.

«A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io.  Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.»

Si sente il capro espiatorio?

«Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.»

Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?

«Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.»

È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.

«La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.»

Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?

«Non l’ho detto.»

Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.

«Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.»

Che cosa?

«Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.»

Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?

«Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.»

Che cosa intende esattamente?

«Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.»

Perché chiese la condanna?

«Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.»

Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?

«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.»

Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.

«Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.»

Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?

«Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.»

E forse ha paura di chiedere perdono.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.»

Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.

Il caso Tortora trent'anni dopo. Nel giugno del 1983 l'arresto del popolare conduttore televisivo. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l'assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì "il più grande esempio di macelleria giudiziaria" nessuno ha mai pagato, scrive Carlo Verdelli su “La Repubblica”. Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi". Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione". Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame". L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora". Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni. "Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis". Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto". Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro". Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...". Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo". Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".

I moralisti con a capo il Presidente della Repubblica. Ecco il testo integrale della lettera del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al vicepresidente del Csm Michele Vietti.

"Caro onorevole Vietti, le comunico che esprimo il mio assenso all'ordine del giorno da lei predisposto per le sedute del Consiglio superiore della magistratura del 18 e 19 giugno 2014. Con riferimento alle pratiche della Prima e Settima Commissione relative ai contrasti insorti all'interno della Procura della Repubblica di Milano, mi corre l'obbligo di evidenziare che l'argomento affrontato nelle citate proposte coinvolge delicati profili dell'organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero, nel quadro delle attuali norme sull'ordinamento giudiziario. In occasione del mio intervento all'Assemblea plenaria del Consiglio superiore della magistratura del 9 giugno 2009, ho ricordato la necessità di superare gli elementi di disordine e di tensione all'epoca clamorosamente manifestatisi nella vita di talune Procure, ponendo in rilievo che tale superamento non sarebbe stato possibile "senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al Capo dell'Ufficio". In tal senso mi preme sottolineare che, a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza "interna" del Pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato. Come è noto, ai magistrati del Pubblico ministero non si applicano le previsioni di cui all'art. 25, primo comma, della nostra Costituzione; infatti, ciò che deve caratterizzare gli Uffici di procura è l'impersonalità e l'unitarietà della loro azione, sicchè i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso. Al riguardo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 8388/2009, Novi), nel sottolineare che la riorganizzazione degli uffici del Pubblico Ministero ha costituito uno dei più significativi obiettivi della riforma dell'ordinamento giudiziario, hanno rilevato che il vigente quadro normativo si caratterizza per l'accentuazione del ruolo di "capo" del Procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti, e per la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio. Proprio per tale ragione i poteri di organizzazione dell'Ufficio sono prerogativa del Procuratore della Repubblica e le funzioni di controllo e garanzia istituzionale affidate al C.S.M. devono essere indirizzate solo ad assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria. E' pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri, dilatando i propri spazi di intervento, non più consentiti dall'abrogazione dell'art. 7-ter R.D. n. 12/1941. Come ho già avuto modo di segnalare, il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purchè si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale. Raccomando quindi che nell'esame e nella deliberazione conclusiva di tali pratiche l'Assemblea plenaria valuti la condotta del Procuratore della Repubblica, cui è affidato il potere - dovere di determinare i criteri generali di organizzazione della struttura e di assegnazione dei procedimenti, sotto il profilo del perseguimento delle esigenze di efficienza, uniformità e ragionevole durata dell'azione investigativa, tenendo presente anche il fondamentale ruolo di verifica che l'art. 6 del D.Lgs. 106/2006 affida ai Procuratori Generali presso le Corti di appello e presso la Corte di Cassazione in merito al puntuale esercizio dei compiti dei Procuratori della Repubblica". Nel rispetto delle determinazioni finali rimesse alla decisione dell'Assemblea plenaria, invito pertanto i consiglieri a tener conto di queste osservazioni nella trattazione delle citate pratiche, al solo fine di evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria, indispensabili per salvaguardare l'indipendenza e l'autonomia della magistratura. Con viva cordialità, Giorgio Napolitano".

Così Napolitano ha piegato il Csm. I giudici hanno obbedito al Colle: nella lettera a Vietti resa nota il 27 giugno 2014 "ordina" di archiviare lo scontro in Procura a Milano, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Più che un parere, un diktat. Giorgio Napolitano, per mettere argine a «polemiche e strumentalizzazioni», rende noto il testo della lettera con cui il 13 giugno scorso è entrato a piedi uniti nello scontro in corso all'interno della Procura della Repubblica di Milano. E si scopre che le vulgate, le tradizioni orali circolate nei giorni della lettera erano in realtà ancora più caute del contenuto reale della missiva. Con un gesto senza precedenti, Napolitano ha di fatto ordinato al Consiglio superiore della magistratura di chiudere la faccenda con un nulla di fatto, senza scavare su come e perché i fascicoli di inchiesta più delicati di questi anni siano stati assegnati dal procuratore Edmondo Bruti Liberati solo e soltanto ai pm di sua fiducia. Il Csm, come è noto, ha battuto i tacchi e si è adeguato agli ordini del Colle. Di Bruti - con cui è da tempo in piena sintonia, e di cui sponsorizzò apertamente la nomina a procuratore capo - il presidente della Repubblica ovviamente non fa il nome. Non cita le indagini, da Ruby all'Expo alla Sea, che il procuratore aggiunto Alfredo Robledo ha accusato Bruti di avergli sottratto in violazione delle regole interne della stessa procura milanese, affidandole a Ilda Boccassini e agli altri pm a lui vicini. Ma è chiaro che è di questo che Napolitano parla quando scrive che «i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso». In realtà nessuno, neanche Robledo, ha sostenuto che le regole siano «immodificabili». Il problema è che Bruti non le ha modificate ma semplicemente ignorate, senza mai motivare i suoi provvedimenti. Ma questo, per Napolitano, fa parte evidentemente della «equilibrata elasticità». Al vicepresidente del Csm Michele Vietti - che dopo averlo incontrato si era esibito in una irrituale intervista in difesa di Bruti - Napolitano nella lettera del 13 giugno detta insomma la linea: giù le mani da Bruti, per «evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria». Il Capo dello Stato richiama la legge che ha allargato i poteri gerarchici dei procuratori, «sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti» e ha previsto «la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio». Fin dove si possa spingere la «parziale compressione» dell'autonomia dei singoli pm, e se in questo concetto rientrino anche gli ordini impartiti da Bruti a Robledo nelle inchieste su Formigoni o su Expo, il capo dello Stato non lo dice. D'altronde il passaggio chiave è un altro, quello in cui il presidente della Repubblica scrive nero su bianco che in fondo la libertà dei pm non è così importante: «le garanzie di indipendenza interna del pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato». Per questo, con tono quasi ultimativo, Napolitano ammonisce Vietti: «È pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri». L'unico ruolo del Csm, secondo il Colle, non è controllare sul rispetto delle regole da parte dei procuratori, ma unicamente «assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria». D'altronde «il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purché si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale». In realtà, è proprio sulla «imparzialità» del ruolo svolto da Bruti e dalla sua Procura che - a torto o a ragione - si incentrava l'esposto di Alfredo Robledo. Ma di questo il Csm dopo la lettera ha deciso di non occuparsi, rifiutando di trasmettere le carte alla commissione che dovrà vagliare se mantenere Bruti al suo posto di procuratore.

“Liberati e Csm: solo sbagli”, scrive Antonio Di Pietro su “Il Garantista”. Da Francesco Saverio Borrelli a Edmondo Bruti Liberati, vale a dire “c’era una volta la Procura della Repubblica di Milano”. Una Procura sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana e soprattutto sempre in prima linea – ora come allora – nella lotta alla corruzione ed alle malefatte dei cosiddetti “colletti bianchi” (di quei personaggi, cioè, che approfittano del loro ruolo istituzionale e di potere per farsi gli affari propri in modo illecito alle spalle e con i soldi delle persone oneste). Ultimamente, però, è successo qualcosa di strano in quella Procura. Qualcosa che ha messo e sta mettendo a serio rischio la credibilità di quell’Ufficio giudiziario, anche e soprattutto perché molti soggetti esterni ad essa sono fortemente interessati a sguazzarci sopra per delegittimarla e far apparire così meno credibili agli occhi dell’opinione pubblica le delicate inchieste che i magistrati milanesi hanno portato e stanno portando avanti con grande competenza professionale ed enormi sacrifici personali. Mi riferisco allo scontro intervenuto fra l’attuale capo della Procura della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ed il suo vice Alfredo Robledo, il quale è anche coordinatore dell’apposito pool di magistrati che si occupano dei reati contro la pubblica amministrazione. È successo che Bruti Liberati, forte del suo titolo di capo della Procura, ha deciso di non assegnare alcune delicate indagini riguardanti reati commessi a Milano contro la pubblica amministrazione al pool coordinato dal procuratore aggiunto Robledo (pur essendone quest’ultimo il naturale destinatario), come ad esempio l’inchiesta Ruby (ovvero quella che ha portato alla condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione per concussione e prostituzione minorile) e l’inchiesta Expo (tutt’ora in fase di indagini preliminari ma che ha già evidenziato una serie così impressionante di reati da parte di personaggi di primo piano della politica e dell’imprenditoria italiana, da far passare in secondo piano persino la famosa inchiesta Mani Pulite di vent’anni addietro). Francamente non so e non ho capito il motivo per cui Bruti Liberati l’ha fatto ma – pur senza mettere in dubbio la sua buona fede – di una cosa sono convinto: la sua decisione a me pare all’un tempo sbagliata sul piano tecnico ed inopportuna sul piano fattuale. È tecnicamente sbagliata in quanto – se è pur vero che Bruti Liberati, in quanto capo della Procura, ha pieni poteri di organizzare al meglio il lavoro dell’ufficio che dirige – è anche vero che egli non può esercitare tale suo potere in modo arbitrario e contro le regole generali previste dall’Ordinamento giudiziario per il funzionamento di uffici così delicati ed addirittura contro le specifiche regole che egli stesso ha dato per il miglior funzionamento del suo ufficio. Mi riferisco, in particolare – per quanto riguarda gli aspetti di tecnica investigativa – alla previsione ed alla concreta istituzione, presso la Procura di Milano – del cosiddetto “Pool di pm contro la pubblica amministrazione” ovvero di quel gruppo di magistrati inquirenti, appositamente costituito sin dai tempi di Mani Pulite (appunto da Saverio Borrelli più di vent’anni addietro), proprio per permettere a chi deve indagare sui reati contro la pubblica amministrazione di avere un quadro d’insieme unitario dei fatti e delle persone coinvolte ed una strategia coordinata delle relative indagini e dei necessari riscontri probatori. Orbene non capisco proprio la ragione per cui l’attuale capo della Procura di Milano Bruti Liberati non abbia voluto attenersi a queste semplicissime e collaudatissime regole di buona investigazione nei casi giudiziari sopra indicati (ed anche in altri casi simili, come ad esempio l’inchiesta sulla vendita delle azioni Sea da parte del Comune di Milano, chiusa e dimenticata in cassaforte dal procuratore Bruti Liberati per quasi un anno, senza alcun atto di indagine, con il rischio di aver pregiudicato l’esito finale di una delicata vicenda). Ma quel che più mi preoccupa è l’evidente strumentalizzazione a cui si presta questa sua decisione (ripeto, a prescindere dalla buona fede o meno per cui essa è stata adottata) da parte di chi accusa i capi degli uffici giudiziari di fare a volte specifiche “assegnazioni pilotate” per arrivare a tesi precostituite contro o a favore di questo o quel personaggio politico o comunque di rilevanza pubblica. Strumentalizzazione, peraltro, già manifestatasi con forza da parte di taluni dei diretti interessati coinvolti nelle indagini in cui Bruti Liberati non ha rispettato il criterio oggettivo dell’assegnazione al “Pool reati contro la pubblica amministrazione” e tra essi, soprattutto il solito Silvio Berlusconi, provvisoriamente condannato per la vicenda Ruby a 7 anni di carcere e che ora, in attesa del giudizio definitivo, sta ricorrendo a tutte le armi di comunicazione di massa per sostenere che egli sarebbe semplicemente una vittima della “solita” magistratura milanese. È evidente, quindi, che – alla luce di quel che è successo – il Consiglio superiore della magistratura (ovvero l’organo costituzionalmente incaricato di valutare e sindacare il comportamento disciplinare dei magistrati) aveva il dovere di esaminare approfonditamente la situazione e prendere i conseguenti provvedimenti. Senonché è accaduto quel che a me – semplice ex magistrato di campagna – appare un’altra “anomalia nell’anomalia”, ovvero l’intervento a gamba tesa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale – forte del suo ruolo di presidente del Csm – ha inviato una lettera-diktat al vicepresidente Michele Vietti, per giunta da quest’ultimo “secretata” senza spiegarne le ragioni, invitando (si fa per dire) il Consiglio superiore della magistratura a smussare le osservazioni critiche nei confronti del procuratore della Repubblica di Milano Bruti Liberati, all’insegna del detto “quel che è fatto è fatto”, passiamoci sopra ed andiamo oltre. Una decisione questa, a mio avviso, assai poco opportuna ed anzi pericolosa sul piano dei “precedenti interpretativi e decisionali”, nel senso che – se si lascia passare, senza prendere una chiara e netta posizione sulla questione delle forme e dei limiti con cui il capo di un ufficio giudiziario possa assegnare i fascicoli al pm Tizio piuttosto che al pm Caio – si rischia di non avere più certezza sull’obiettività ed obbligatorietà delle indagini penali e sulle reali finalità per cui esse vengono attivate (o non attivate, a seconda del caso). Il fatto, poi, che – come credo nel caso di specie – il tutto avvenga in buona fede non può valere di per sé a scagionare e legittimare ogni cosa, giacché una cosa è l’errore procedurale (che, per definizione, può capitare a tutti) altra cosa è il non fare tesoro di tale errore e rimediare per tempo lasciando così la possibilità che – in un vuoto normativo e regolamentare – ciò possa accadere di nuovo e magari, la prossima volta, anche per finalità e motivazioni meno nobili.

Tonino, il povero moralista silurato dalle manette ai suoi. La legge del contrappasso punisce Di Pietro, l'ex pm diventato capopopolo in nome dell'etica: dalla Liguria al Lazio, i guai giudiziari del suo esercito lo hanno travolto, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Se fossi milanese, e non lo sono, e se avessi avuto la vena di Jannacci, avrei scritto una piccola ballata sul Pover' Tonin, nel sens' del moralista sul modello di Pover purcèl nel senso del maiale di Ho visto un re. La sua gente, il suo piccolo esercito moralista, pian piano finisce in galera e immagino quanto Di Pietro soffra. Lo dico seriamente, Milano è stata del resto il suo palcoscenico: noi cronisti di allora eravamo tutti lì nel Palazzo di Giustizia quando Tonino tuonava, sudava, arringava, arrestava, interrogava. Ho ancora due bloc notes neri, fitti delle sue imprese. Lui sembrava un Calvino di Montenero di Bisaccia. E noi giornalisti vivevano aggrappati alla sua toga come i bambini alla gonna materna. Lui allora ricopriva per intero tutte le fantasie italiane, salvo - immagino - quelle erotiche, incarnando tutti i miti possibili: era l'angelo sterminatore come Saint Just nella rivoluzione francese, il pupazzo dei presepi napoletani di San Gregorio Armeno, l'antipolitica fatta persona, il pre-Grillo, il post Masaniello e se lo avessero messo nella Nazionale avrebbe certamente vinto i mondiali. Troppa grazia, sant'Antonio (Di Pietro). Perse (è la mia opinione) la testa: aveva l'Italia ai suoi piedi e mise all'incasso il patrimonio. Così, gettò la tonaca alle ortiche, si spretò come procuratore e si fece capopopolo in Parlamento inventandosi una surreale Italia dei Valori, una sua invenzione banale e convenzionale. E così, gli venne in mente di infliggere un esperimento moralizzatore artificiale, diffuso con la sua voce sgrammaticata, tonante nel deserto della gente comune (era evidente il conflitto d'interesse con la sintassi). Ebbe intanto un bel po' di guai con una scatola da scarpe, una Mercedes che furono pessimi segni premonitori. Poi nella sua arca imbarcò di tutto: discepoli ruspanti, opportunisti di provincia, personaggi fin troppo coloriti come Razzi, e Scilipoti, paesane di bell'aspetto e la schiuma della cosiddetta società civile che si chiamava ancora popolo dei fax. Una ciurma irrequieta e un bel po' imbarazzante. Passa qualche anno e l'esperimento si chiude: la meglio moralità dipietresca finisce in manette o comunque nei guai. Inquisiti, arrestati, denunciati, una catastrofe: pover Tonin, nel senso del fallimento. Ieri l'altro, ultimo evento, gli hanno ingattabuiato anche le fresche ragazzette del nuovo che avanza, in Liguria. In quella regione le truppe di Di Pietro sono state peggio dei lanzichenecchi. Fra loro Maruska Piredda e Marylin Fusco, giovani dalle consonanti esotiche, dedite ai rimborsi spese di fantasia, stando a quel che scrivono i magistrati. Di nuovo, roba da vergognarsi. Avrebbero fatto la cresta su ogni genere voluttuario e alimentare a spese del contribuente arrivando a pagarsi il gratta vinci nonché le salsiccia con polenta. Bel risultato. Bella rivoluzione e lezione di moralità. È ovvio che Di Pietro non può chiamarsi fuori: quella roba è tutta sua. Erano tutti miei figli, come si intitolava un dramma di Arthur Miller. Che razza di figli fossero, lasciamo perdere. Lui e il suo movimento sono diventati da tempo indifendibili ma poiché facevano parte dello schieramento antiberlusconiano con la bava alla bocca, sono stati difesi ben oltre i limiti della prudenza da Marco Travaglio e da Micromega. Cioè da tutto il mondo di coloro che presumono di appartenere alla razza ariana del bene, secondo la lezione del tutto perdente dello struggente Enrico Berlinguer che era struggente come persona, ma che non solo sbagliò tutto politicamente (con lui chiuse di fatto il Pci) ma ebbe la colpa di inventare la creatura genetica dei moralisti superiori, una specie separata da quella della gente comune. Per citare Calvino (che era ligure come gli ultimi disastri causati da gente dell'Idv) Di Pietro e i suoi epigoni somigliano ai personaggi del Cavaliere Inesistente che era un guscio di latta vuoto, mentre l'umanità comune corrisponde al suo scudiero Gurdulù che aveva il torto di rotolarsi nel fango, ma il pregio di essere reale. Tonino ha avuto dunque quel che prevede la legge del contrappasso: hai speculato sul moralismo genetico e superumano? E adesso béccati non un caso isolato, ma la catastrofe etica, la rottamazione morale (chi volesse l'elenco completo delle malefatte può allietarsi su Internet). Quando era procuratore di Mani Pulite gli estorsi l'unica intervista di quell'epoca. Oggi mi piacerebbe fargliene una seconda per chiedergli: caro Di Pietro, hai visto che fine hanno fatto le tue pretese razziste (sempre nel senso etico ariano)? Nulla da dichiarare? A questa domanda dei doganieri americani Oscar Wilde rispose: «Nulla, tranne la mia genialità». Tu potresti dire altrettanto?

Ed i leghisti potrebbero dire altrettanto?

Bossi, "The Family" e il lungo paradosso della Lega, scrive Luigi Pandolfi su “L’huffingtonpost”. La politica oggi ha tempi veloci, si sa. Nell'arco di 2-3 anni sono cambiate tante di quelle cose nel nostro paese che della richiesta di rinvio a giudizio per Umberto Bossi e i suoi due figli da parte della Procura di Milano potrebbe, legittimamente, non importare a nessuno. Tra l'altro il loro partito, la Lega Nord, come in molti sostengono, avrebbe pure cambiato pelle, sarebbe ormai un'altra cosa rispetto al movimento che inventò la Padania e tenne in scacco il paese per anni con le sue menate secessioniste. Ora c'è la Le Pen, mica siamo ai tempi di Roma ladrona! In verità le affinità politiche e programmatiche, ancorché non dichiarate, con la fiamma d'oltralpe e con le altre forze dell'estrema destra europea c'erano già allora, così come c'erano già allora, alla corte del senatur, tutti gli attuali protagonisti del "nuovo corso", a cominciare dal segretario Salvini. Insomma, sarà pure vero che il tema dell'uscita dall'Euro ha preso oggigiorno il sopravvento su quello della Padania, ma vuoi mettere il significato, politico e storico, di un'inchiesta che spazza via decenni di retorica sulla "diversità leghista", sui vizi del sud e della politica "romana"? Il senatur e i suoi figli sarebbero chiamati a rispondere di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici, usati per spese personali, dalle multe al carrozziere, ai vestiti, fino alla laurea in Albania di Renzo "il Trota" ed ai lavori di casa a Gemonio. Per tutte le persone coinvolte nella vicenda le accuse,a vario titolo, sarebbero di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato per circa 40 milioni di euro. Come non andare con la memoria a quei "favolosi" primi anni novanta, quando lo spavaldo senatur tuonava: "Noi, davanti a questa banda, ai ladri di Tangentopoli, siamo qui per dire avanti Di Pietro". È noto, l'esordio della Lega, quello della ribalta sul palcoscenico della politica nazionale, coincise con il l'epopea di tangentopoli. È alle elezioni del 1992 che il Carroccio, con l'8,6%, portò in parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori, che gli varranno il pieno inserimento nelle dinamiche della vita politica italiana, il posto al sole nel grande "gioco romano". È il tempo in cui il partito padano ed il suo leader, cavalcheranno con successo le indagini del Pool di Milano, gridando alla degenerazione di un ceto politico che, da decenni, occupava le istituzioni dello Stato. Emblematico, scenico, fu, a tal riguardo, l'atteggiamento che i leghisti ebbero in parlamento, all'indomani della presentazione, da parte del governo Amato, del cosiddetto decreto Conso, quell'insieme di norme che andavano ad incidere sulla punibilità di coloro che avevano preso le tangenti, passato alla storia come il "colpo di spugna" per i reati di tangentopoli. Allorquando il Presidente del Consiglio Giuliano Amato, dopo dieci giorni dal varo del decreto, entrò nell'aula di Montecitorio, dai banchi della Lega si scatenò il finimondo: il deputato di Como Luca Leoni Orsenigo si lanciava nell'esibizione di un macabro cappio, mentre Marco Formentini, allora capogruppo alla Camera, incitava i colleghi a gridare:"Mafia, mafia, mafia!". Bei tempi. Come quando la Camera negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Altra scena, altra bella giornata di indignazione e di lotta: "è un golpe bianco", "questa è una mascalzonata", "il regime se ne sbatte i coglioni dell'opinione pubblica", gridava in quei frangenti il capo della Lega, seguito da tutti i suoi sodali. Presto però la scena cambierà per la Lega, e le parti nella commedia si rovesceranno. Lo stesso film, bello, avvincente, coinvolgente, spericolato, si trasformerà nel giro di pochi mesi in una pellicola da incubo, per Bossi in primo luogo. Anche il partito più forcaiolo, nel senso letterale del termine, del parlamento italiano, cadrà nelle maglie dell'inchiesta di Milano (maxitangente Enimont). Una roba apparentemente inverosimile, considerato che la storia della Lega era appena iniziata, fuori e contro il sistema partitocratico della prima Repubblica. A ragion veduta, oggi, possiamo dire, nondimeno, che non fu un incidente di percorso, ma un caso significativo, premonitore, il primo di una lunga serie, che, in ogni modo, avrebbe dovuto far riflettere di più, con vent'anni d'anticipo, sulle incoerenze di questo partito. Un partito eversivo da un lato, per i suoi propositi di rottura dell'unità nazionale, e perfettamente integrato dall'altro nel sistema che diceva di voler combattere. Ora però tutto è più chiaro. E non basta l'euroscetticismo di maniera a cancellare l'onta di un imbroglio politico durato per più di cinque lustri. The Family non è solo il nome di un'inchiesta giudiziaria: è il paradigma del lungo paradosso leghista.

Rosi Mauro scagionata: chi le chiederà scusa? Accusata di malversazioni, nel 2012 era stata espulsa dalla Lega. Oggi la Procura di Milano la proscioglie: è l'ennesimo caso di gogna mediatica. Senza risarcimento, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. La Lega nord (ma anche molti, molti giornali) oggi dovrebbe chiedere scusa a Rosi Mauro: accusata di gravi malversazioni ai danni del partito (e dei fondi del finanziamento pubblico), nel 2012 era stata l'unica espulsa dal partito, insieme con l’ex tesoriere Francesco Belsito, per voto unanime del consiglio federale. Oggi la Procura di Milano chiede per lei, e soltanto per lei, l’archiviazione dall’accusa di appropriazione indebita nell’ambito dell’inchiesta «The Family» che due anni fa ha scosso il Carroccio e portato allo spodestamento di Umberto Bossi. Due anni fa l’allora vicepresidente del Senato aveva scelto di non dimettersi dalla carica, con totale disappunto del partito. «Il rancore prevale sulla verità» aveva dichiarato Rosi Mauro, parlando dell’epurazione che invece era stata temporaneamente risparmiata a Bossi e suoi figli Renzo e Riccardo, anche se «il Trota» si era poi dimesso da consigliere regionale. Ieri il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini hanno chiesto il rinvio a giudizio per tutti i membri della famiglia Bossi e per altre 6 persone, tra cui Belsito, accusato di avere gestito con metodi da «finanza più che allegra» la tesoreria della Lega. Per Rosi Mauro, invece, magistrati hanno chiesto il non luogo a procedere: la donna infatti si era scagionata presentando lo scorso novembre alla procura una serie di documenti e di spiegazioni sui 99.731 euro che, secondo l’accusa, erano stati da lei sottratti dalle casse di via Bellerio. Mauro ha dimostrato che 16 mila euro le erano dovuti dal partito perché aveva venduto una vecchia auto che non le serviva più; che un assegno da 6.600 euro sulla cui matrice Belsito aveva scritto «Rosi» sarebbe stato un escamotage del tesoriere «per ritirare denaro contante attribuendolo ad altri»; e, infine, che non aveva speso 77 mila euro per comprare una laurea in Albania a Pierangelo Moscagiuro, un uomo della sua scorta che in realtà non era neppure diplomato. Le tesi di Mauro, scrivono i magistrati, «sono accoglibili e comunque tali da rendere assai dubbia la solidità della prospettazione accusatoria». Rosi Mauro, che nel frattempo è scomparsa dall'orizzonte politico, meriterebbe la riabilitazione. E almeno qualche risarcimento. Rosi Mauro: «Io assolta, ma dalla Lega zero telefonate, neppure Bossi».

Intervista esclusiva alla ex vicepresidente del Senato: «Così mi sono ripresa la dignità e ho saputo resistere, ad altri sarebbe venuto un infarto», scrive Paola Sacchi su “Panorama”.

"Qualcuno mi ha chiesto scusa? No, finora nessuno, ma io so aspettare, come la mia assoluzione dimostra". Dalla Lega Nord che l'aveva espulsa all’unanimità nessuna telefonata: né da Roberto Maroni (il segretario che la fece espellere e chiese pulizia fino in fondo a suon di ramazze ndr) né da Matteo Salvini, che «giovanissimo fu accanto a me consigliere comunale a Milano».

Ma forse quello che provoca più amarezza a Rosi Mauro è non aver ricevuto neppure una telefonata da Umberto Bossi, né da sua moglie Manuela Marrone.  E neppure dall’ex capogruppo della Lega a Montecitorio Marco Reguzzoni, colui che insieme a «la Rosi» era descritto nelle cronache come l’altro esponente di spicco del «cerchio magico» bossiano. Silenzio anche dall’ex fedelissimo «Federico Bricolo, il mio capogruppo al Senato», che si muoveva come un’ombra dietro di lei.

«No, nessuno di loro mi ha chiamata, né ora né in questi orribili due anni  e due mesi, mi sono stati vicini invece tantissimi militanti che stanno ancora in Lega. Io ancora leghista nell’anima? Ero e resto un’autonomista, non solo dei territori, ma anche della mente e delle coscienze delle persone».

Si toglie tanti sassolini dalla scarpa Rosi Mauro in questa intervista esclusiva a Panorama.it, dopo l’assoluzione piena da parte della Procura di Milano dalle infamanti accuse piovutegli addosso nell’ambito del caso Belsito, compresa quella di aver acquistato diamanti con i soldi della Lega. Rindossa i pani della festa la ex vicepresidente del Senato che resistette ai vertici di Palazzo Madama mentre tutto il partito le chiedeva di mollare. Ma lei era convinta della propria innocenza.  Roberto Calderoli la definì «la sindacalessa feroce», nella stessa Lega e non solo sui giornali veniva sprezzantemente chiamata «la badante» o « la terrona» perché nata a S. Pietro Vernotico in Puglia. Maroni disse quando venne espulsa: «Finalmente avremo un segretario padano del Sinpa». Ma lei è rimasta alla guida del Sinpa a dispetto dei santi.

Senatrice Mauro, cosa prova dopo essere passata dalle stalle della gogna politica e mediatica alle stelle dell’assoluzione?

«Ho passato due anni e due mesi in una gogna mediatica senza precedenti… ho letto cose che non stanno né in cielo né in terra. Certo che in questo momento sono felice. Non posso che ringraziare la Procura. Adesso resto in attesa del decreto di archiviazione. Vivo momento per momento, sapendo fin dall’inizio come stavano le cose. Io sono andata contro la mia stessa volontà. Sono una che fino a due anni fa  non era mai andata in televisione,  e sui giornali, ho fatto migliaia e migliaia di comizi dal 1987 al 2012 (iniziò ragazzina come operaia metalmeccanica a Milano e delegata della Uilm nel 1985 ndr), mai un rapporto con i giornalisti….».

Avvicinarla era impossibile, per farlo bisognava essere davvero tosti…

«E certo, se lo ricorda bene. Ma semplicemente perché io facevo i miei comizi, facevo la sindacalista, erano altri che dovevano portare la linea del movimento sui giornali e andare in televisione. La cosa per me molto brutta è stata aver visto tutte quelle cose in un momento scomparire, in un attimo diventai il capro espiatorio che non ho ancora capito bene di che cosa».

Il termine più gentile nei suoi confronti fu «la badante» o «la terrona» che nella Lega era un marchio infamante o la capa del «cerchio magico»…

«Hanno detto di tutto, quanto al cerchio la capa per i giornali era la Manuela, non voglio togliere i primati a nessuno (ride ndr). Questo cerchio magico era un’invenzione dei giornalisti, perché poi chi ha portato alla disfatta si è visto».

Veramente non era solo un’invenzione dei giornalisti che invece riportavano quello che dicevano nella Lega. Lei ha resistito, come un sol uomo, parafrasando Bossi che elogiandola le disse: «Tu per me sei un vero uomo», alle richieste pressanti di Maroni che le voleva imporre  le dimissioni da vicepresidente del Senato. Come ha fatto?

«Io quella sera infatti ecco perché, rompendo le mie consuetudini, andai a Porta a Porta e durante la trasmissione andò in onda la serata della ramazze a Bergamo con Maroni (andò anche Bossi piangente ndr). Mi dissi: adesso mi sveglio, perché questo è un incubo. E non capivo. Ma decisi: io non mi dimetto da vicepresidente del Senato (Mauro era il vicario del presidente Renato Schifani ndr) perché io non ho fatto niente. Ho finito i miei cinque anni a Palazzo Madama, dopodiché, mi sono detta, aspettiamo gli eventi, la giustizia farà il suo corso. Ho aspettato due anni e due mesi. E adesso attendo il decreto di archiviazione».

Nell’intervista esclusiva a Panorama nell’aprile 2012 lei fu profetica: «Non vi temo, la partita con me è solo agli inizi. Come ha passato questi due anni?

«Io penso che ad altri al posto mio sarebbe venuto un infarto.  Ho continuato a fare la sindacalista, alla guida del Sinpa che esiste e non è più collegato alla Lega. Il 16 maggio 2012 andai al congresso e mi hanno rieletto segretario.  Ci siamo distaccati all’unanimità dalla Lega. Dico quindi grazie ai miei iscritti, ai miei collaboratori, che  mi hanno creduto perché mi conoscono da 25 anni. Dico grazie ai pochi amici che mi sono rimasti vicini e non a quelli che non si sono fatti più sentire. Il coraggio non si può comprare, lo si deve avere dentro».

Chi le è rimasto vicino?

«Della nomenclatura della Lega nessuno».

Neppure Bossi?

«No, assolutamente no. L’ultima volta che ci ho parlato ero ancora in Senato, dopodichè non ho più sentito nessuno, n-e-s-s-u-n-o (lo ripete, scandendolo ndr). Ci sono stati invece tanti militanti che mi hanno sostenuto e io non ne ho mai fatto i nomi. Qualcuno dice che non è stato un complotto, io oggi continuo a dire: è stato un complotto. E questa è la cosa che mi provoca dolore».

Bossi è stato rinviato a giudizio con i figli Renzo e Riccardo. Cosa pensa?

«Ho letto le dichiarazioni in cui afferma: siamo innocenti. Io dico: buon per loro, se hanno le prove dimostreranno la propria innocenza, come io ho dimostrato la mia. Io ho sempre aiutato tutti senza chiedere mai niente in cambio, mai, mai, mai».

Chi le ha telefonato dopo l’assoluzione?

«Tanti militanti ancora dentro la Lega ma anche tanti che sono usciti e che mi continuano a dire: non mollare. Ribadisco: dalla nomenclatura zero telefonate».

Quindi, neppure il segretario Salvini?

«No, tra l’altro Salvini è stato consigliere comunale con me a Milano nel ’93, quando era proprio un ragazzo».

E Reguzzoni?

«No. E neppure Federico Bricolo, allora mio capogruppo al Senato, che tra l’altro venne a casa mia in Sardegna e vide con i suoi occhi che sono due locali e non la mega-villa di cui parlavano i giornali. E già da allora Bricolo non disse nulla. Queste sono veramente le cose che dispiacciono di più».

Eppure Bricolo come gli altri quando lei era potente la temeva e la omaggiava, era in  codazzo con lei che del resto folgorò Bossi quando ancora ragazzetta in piedi su un tavolo urlò e mise in riga un’assemblea di tranvieri inferociti…

«Se mi temevano evidentemente è perché io non ho nulla da nascondere, evidentemente sono altri che hanno qualcosa da nascondere. Io non sono mai stata né invidiosa né gelosa di nessuno, anzi ho difeso in alcuni momenti storici della Lega anche chi era indifendibile. Purtroppo è un problema loro e mi auguro che riescano a conviverci bene perché quello che hanno fatto è indegno».

Lei ora lavora?

«Faccio volontariato al Sinpa».

Come si mantiene?

«In questo momento con i risparmi miei, tant’è che ho detto ai magistrati: continuate a controllare il mio conto, controllatemi passo passo perché io possa riprendermi la mia dignità, perché hanno fatto di tutto per togliermela».

Oltre al Sinpa fa politica?

«Già quando ero in Senato ho costituito il movimento Sgc: “Siamo gente comune”, abbiamo due sedi, piano piano ci stiamo muovendo  partendo dal territorio. Controllate sul sito, c’è tutto. L’altra fondatrice è Arianna Miotti, una commercialista anche lei per vent’anni in Lega da dove se ne è andata per le schifezze che mi hanno fatto».

Lei fu infangata anche nella vita privata, le attribuirono come amante il caposcorta Pierangelo Moscagiuro. Ora cosa ha da dire?

«Moscagiuro, vi prego di scriverlo in neretto, non è mai stato il mio compagno, ma era solo il mio caposcorta. Punto».

E comunque lei disse a Panorama: «Se all’alba dei miei 50 anni mi attribuiscono un uomo di 37 faccio anche una bella figura…

«Quella era una battuta spiritosa (ride ndr). Ma chi mi conosce sa che sono sempre stata legata a un uomo che ha un bel decennio più di me».

Verrebbe spontaneo chiederle per mera curiosità chi è…

«E no, non voglio più intromissioni nella mia vita privata, a meno che non sia io a parlarne. Perché quello che hanno fatto è stato tutto mirato per cercare di distruggermi politicamente ma anche personalmente. Le cose io le ho sempre fatte alla luce del sole. Da mio marito ero già separata dal 1998 e poi anche divorziata».

È stato anche scritto che lei avrebbe comprato la laurea a Moscagiuro e gli avrebbe fatto avere benefit dal Senato…

«Ma se Moscagiuro non ha neppure il diploma! E poi scrivono che non è un poliziotto quando lui lo è ancora oggi. Comunque d’ora in poi io parlo solo per me stessa. Sono rimasta talmente scottata che non metterei più le mani sul fuoco per nessuno».

Manuela Marrone l’ha più chiamata?

«Assolutamente no».

Che morale trae dalla sua vicenda?

«La mia vicenda è stata archiviata, mentre nella Lega ci sono molti rinviati a giudizio».

Si riferisce alla storia dei rimborsi spese alla Regione?

«Sì, anche per questa parte sono stata assolta. Per altri che hanno fatto invece i duri e puri nessuna archiviazione».

 Lei si sente ancora leghista a dispetto del comportamento della Lega?

«A dispetto della Lega io ho creduto e credo ancora all’autonomia vera, che vale per tutti, da Nord a Sud, perché autonomia significa essere responsabili delle proprie azioni, del proprio lavoro, del proprio territorio. Ed io queste cose le ho nell’anima, non solo nelle parole. Ho fatto migliaia e migliaia di comizi dagli anni ’80, ero una ragazzina. Sono passata dalle fabbriche al consiglio regionale lombardo dove feci approvare il federalismo fiscale che poi a Roma Calderoli e Giulio Tremonti stravolsero. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza. La mia è a posto».

La coscienza dei magistrati è sempre a posto?

Premio Ischia a Manzo, il giornalista che intervistò Esposito. E il giudice manda una lettera alla giuria per dissuaderla, scrive “Tempi”. Esposito (non si capisce assolutamente a quale titolo) ha preso carta e penna per scrivere al presidente della giuria del premio di giornalismo Giulio Anselmi, già direttore di Espresso, Stampa, Ansa, oltre che ad altri giurati (tra i nomi che compongono la giuria ci sono i direttori del Mattino, Alessandro Barbano, dell'Ansa Luigi Contu, del Messaggero Virman Cusenza, e di SkyTg24 Sarah Varetto). Esposito è accusato di aver violato i doveri «di riserbo e di correttezza», a causa di un’intervista sulla condanna dell’ex premier rilasciata al cronista del Mattino. Per questo il magistrato gli ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento. «Sono a Ischia a ritirare il premio». Antonio Manzo, cronista giudiziario del Mattino, non ha altro da aggiungere a tempi.it sull’anomala decisione del giudice Antonio Esposito di lanciare un “appello” affinché non gli venga assegnato un premio giornalistico. Esposito, presidente della sezione feriale di Cassazione che condannò l’anno scorso l’ex premier Silvio Berlusconi, ha cercato di bloccare il premio al giornalista del Mattino, facendo notare ai giurati che a causa dell’intervista («gravemente manipolata», secondo il suo avvocato) rilasciata a Manzo, all’indomani della condanna di Berlusconi a 4 anni di carcere per frode fiscale, è stato messo sotto accusa dagli organi disciplinari della magistratura. Della lettera che Esposito ha inviato a tutti i giurati del premio speciale Ischia assegnato a Manzo ne parla oggi il Fatto Quotidiano. Il giudice, comunica ai lettori Marco Lillo, «ha scritto alla fondazione Valentino che organizza il Premio Ischia per chiedere che il riconoscimento sia bloccato», nonostante non vi sia, «nessuna relazione fra l’intervista di Esposito e il riconoscimento al giornalista del Mattino». Quell’intervista è «costata cara» al giudice che condannò Berlusconi, ricorda Lillo. Dopo la pubblicazione delle parole del giudice sul quotidiano di Napoli, «sono nati per lui un’azione disciplinare del Procuratore Generale e un procedimento davanti al Consiglio della Magistratura, rinviato al 3 luglio prossimo». Al giornalista del Mattino, infatti, Esposito avrebbe rivelato anticipatamente i contenuti delle motivazioni della sentenza. Lillo rivela un altro particolare della vicenda: Esposito «ha avviato un’azione civile per chiedere 2 milioni di euro di risarcimento a Manzo e solidalmente il direttore Alessandoro Barbano e l’editore Caltagirone». Il magistrato non ha chiesto risarcimenti solo a Manzo e al Mattino, ma anche al Giornale (400 mila euro), a Libero (1 milione e mezzo), a Piero Ostellino e al Corriere della Sera (150 mila euro), al Foglio e a Giuliano Ferrara (120 mila euro). Secondo il giudice e il suo avvocato, Alessandro Biamonte, Manzo non dovrebbe ricevere il premio speciale Ischia (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica e del Consiglio) perché avrebbe commesso una «grave violazione deontologica per aver pubblicato un testo difforme da quello concordato e per di più difforme dal colloquio effettivamente avvenuto». Il Fatto Quotidiano riporta l’audio nel quale il giudice aveva tentato di schermirsi dalle domande incalzanti di Manzo dicendo: «Non mi fare esprimere giudizi sulle sentenze, ci dobbiamo esprimere con la motivazione». La frase non è poi stata riportata nell’intervista. Il giornalista del Mattino si è difeso dalle accuse di Esposito, spiegando, in una intervista a Tempi, di aver trascritto fedelmente quanto detto dal giudice Esposito. «Esposito ha detto esattamente le cose che hai letto nell’intervista – ha spiegato Manzo all’inviato di Tempi Peppe Rinaldi -. I nastri sono a disposizione, le quasi mitiche copie dei fax reciproci pure. Quando l’autorità giudiziaria ce li chiederà, se ce li chiederà, li metteremo a disposizione». Per quanto riguarda la frase omessa di Esposito, il giornalista ha ricordato, nel dicembre 2013, al procuratore generale di Cassazione, Carlo Destro, che «è perfettamente in linea con il lavoro giornalistico quello che viene definito da noi “editing” cioè il legame logico tra il parlato e lo scritto onde evitare che una acritica trasposizione, sia pure letterale e fedele, non porti il lettore a una comprensione netta e precisa delle parole che lo stesso magistrato aveva pronunciato nel corso della conversazione». Dopo la fase istruttoria, a inizio giugno, il procuratore generale di Cassazione, ha accusato il giudice che condannò Berlusconi di essere incorso in una violazione dei doveri «di riserbo e di correttezza». Esposito, secondo l’accusa, avrebbe «sollecitato la pubblicità di notizie relative alla propria attività d’ufficio e alla trattazione del processo» dinanzi alla Cassazione, «utilizzando canali personali privilegiati ai quali già in precedenza aveva fatto ricorso», nonostante «dovesse a ciò sconsigliarlo, oltre la particolare risonanza mediatica che aveva accompagnato la celebrazione del processo, l’elevata funzione svolta nell’ambito del collegio giudicante». Esposito prese «di sua iniziativa il contatto telefonico, circa un’ora dopo la lettura del dispositivo della sentenza» con il giornalista del Mattino, «affermando di non poter parlare immediatamente e accordandosi con il giornalista per il rilascio di un’intervista, “per spiegare la sentenza” entro i successivi due o tre giorni». L’intervista fu poi rilasciata il 5 agosto con una «conversazione telefonica di circa 35 minuti», nel corso della quale «il magistrato ha interloquito sia sui criteri di assegnazione del processo alla sezione feriale sia sui temi che il collegio era stato chiamato ad affrontare in quel giudizio».

Anche la coscienza di alcuni politici è sempre a posto?

Grillo minaccia il giornalista di Repubblica Ciriaco: "E' uno stalker, durerà poco". Il Comitato di Redazione del quotidiano romano: "Farneticazioni minacciose, tutta la redazione è con Tommaso. Non ci faremo condizionare". La Fnsi: "Ora basta sappia che non ci piegherà". La stampa parlamentare: "Cessi l'atteggiamento aggressivo dei 5 Stelle", scrive “La Repubblica”. Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. Un "wanted" sul suo sito questa volta rivolto contro il giornalista di Repubblica Tommaso Ciriaco. Ma anche qualcosa di più. Grillo parla di ricerche fatte sul nostro collega e conclude con un "quelli come lui dureraranno poco". Il cronista politico di Repubblica Tommaso Ciriaco è 'reo' di aver raccontato le divisioni in seno al gruppo europeo dei grillini. Sotto il titolo apparentemente ironico di 'Braccia rubate all'agricoltura', il blog pubblica un lungo un articolo con tanto di foto del giornalista. Un 'wanted' on line che Grillo ha già riservato ad altri cronisti, ma che stavolta svela una specie di 'indagine preventiva' fatta sul giornalista. Scrive infatti il blog: "Tommaso è calabrese, ma in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che Tommaso non abbia mai lavorato in un giornale locale nella sua regione. In rete è invisibile, a parte un profilo Twitter, non ha un sito, non è reperibile un suo cv. Che ha fatto nella vita?" L'accusa a Ciriaco è quella di fare il suo lavoro con 'troppo zelo': "Tommaso gira per il Parlamento a fare stalking sui rappresentanti del M5S, capta battute in ascensore, li segue fino al treno, li segue in macchina, li segue in aeroporto, li segue fin dentro l'aereo. Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti!" La conclusione è nel consueto stile dell'invettiva: "Quanti Tommasi ci sono nel le redazioni dei giornali di regime italiani? Tanti, ma non incazzatevi perché una cosa è certa: dureranno poco. Dopo di che dovranno cercarsi un lavoro come milioni di italiani, e di questi tempi non è facile". Il Comitato di Redazione di Repubblica stigmatizza quelle che definisce le "farneticazioni minacciose" di Grillo. "Purtroppo - scrive il sindacato dei giornalisti di Repubblica - siamo costretti a tornare ad occuparci delle farneticazioni minacciose di cui un nostro collega, Tommaso Ciriaco, è stato oggetto in queste ore sul Blog di Beppe Grillo. Il merito, il tono, la viltà e l’incedere allusivamente mafioso con cui viene esposto al pubblico ludibrio un giornalista che ha la sola colpa di fare il proprio mestiere la dice lunga sul coraggio e le intenzioni dell’estensore del post. Tommaso Ciriaco sa che l’intera redazione è con lui. Chi lo insulta protetto dall’anonimato deve sapere che, non saranno le minacce a determinare la qualità del giornalismo di Repubblica e a condizionare il lavoro dei suoi giornalisti". Anche Franco Siddi a nome dell'Fnsi esprime "incondizionata solidarietà a Tommaso Ciriaco". Secondo il segretario del sindacato dei giornalisti: "Il nuovo attacco assurdo di Grillo contro un giornalista che si occupa di conoscere a fondo i fatti e di renderli pubblici ai lettori è sintomo di un'insofferenza ormai palese e della sua difficoltà ad essere un vero leader democratico". Poi Siddi lancia la sfida: " Grillo si confronti con i giornalisti e le loro rappresentanze. Per ogni giornalista da lui colpito con parole sempre più gravi e pericolose per la democrazia tanti altri continuano a scrivere con onestà e competenza. E questi crescono sempre di più, Non li abbatterà. Ci sono mele marce anche nel giornalismo e di questo siamo pronti a parlare con tutti. Se il leader dei 5 Stelle continua così sappia che non ci piegherà. Saranno sempre più i Tommaso Ciriaco che non si fermano davanti ad una dichiarazione minacciosa. Il sole della censura che lo affascina non passerà. Gli ripetiamo, accetti il contronfto pubblico nella sala tobagi della Fnsi ma se non gli piace la sede delle conferenze intitolata a un martire dell'informazione accettiamo di confrontarci anche a casa sua. Ora basta". Dura la reazione dell'Associazione stampa parlamentare che insieme alla solidarietà "auspica che da parte del  Movimento 5 stelle cessi un atteggiamento aggressivo nei confronti dei cronisti che liberamente e con serietà esercitano la loro professione".

Dalle parole ai fatti. Dopo mesi di campagne virulente contro la stampa, due attivisti «disoccupati» del Movimento 5 Stelle hanno deciso di chiedere conto ai cronisti delle «menzogne» e hanno fatto irruzione nella sede del Secolo XIX, a Genova, scrive “Il Corriere della Sera”. I due, visibilmente alterati, hanno chiesto di parlare con i cronisti che avevano scritto un articolo sull’immunità e si sono filmati mentre parlavano con il portiere (mandando il video ieri su Facebook): «Devono venire qui a dare spiegazioni. Mi devo calmare? Se tutti i giorni scrivono qualcosa di falso su di te, tu ti calmi? Voi giornalisti sarete i primi a pagare...». Poi la citazione del «signor Ilario Lombardo, noto diffamatore». Non è l’unico cronista finito nel mirino dei 5 Stelle. Sul blog di Grillo compare un attacco violento contro Tommaso Ciriaco, giornalista di Repubblica. La gogna mediatica, con tanto di foto, è intitolata «Braccia rubate all’agricoltura». L’articolo, anonimo, attacca dicendo che Tommaso è calabrese, ma «in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che non abbia mai lavorato in un giornale locale». Poi ancora: «Non ha un sito, non ha un cv in rete. Che ha fatto nella vita?». Illazioni false oltre che disinformate: Ciriaco è un cronista molto noto, che ha lavorato per anni all’agenzia di stampa Tmnews (ex Apcom), prima di approdare a Repubblica. Ma l’anonimo estensore del post insiste, definendo «stalking» l’attività cronistica e concludendo: «Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti». Seguono molti commenti pesanti, con lettori che si dicono pronti alle maniere forti per far cessare le menzogne. In difesa di Ciriaco si schiera il cdr di Repubblica: «Farneticazioni minacciose». Ma anche l’associazione della stampa parlamentare e molti politici di diverso orientamento (nessun 5 Stelle). Negli ultimi giorni Grillo aveva attaccato Marta Serafini, del Corriere della Sera, e un cronista dell’Ansa che aveva riportato le voci su divisioni nel gruppo europeo dei 5 Stelle, annunciando una proposta di legge per obbligare i cronisti a rivelare le fonti. Di recente, Grillo aveva spiegato che ai cronisti dovrebbe essere vietato l’accesso a Montecitorio. 

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. ”C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca“, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte“, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto“. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una ”struttura’‘ attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta ”necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.

Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi  “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr )». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr )». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr ) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».

Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilita' di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte.  Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".

L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto,  pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".

L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello".  E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".

Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".

«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

In Italia potente è uguale a impunito. Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale, mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi” proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe, raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi, disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione: «All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente. Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una «riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così, mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013), raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro) e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento, è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori” Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise, Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di “Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana, basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000, una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza d’appello la direzione  dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti». «Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa. Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire: dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di Padova, solo uno aveva rifiutato  di rioperarsi: «È morto durante il processo, il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia», ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere  accusato di aver maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con una  neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina, nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento, procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio (rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere, Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali. Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.

IL GIORNALISTA, SICURAMENTE FILO TOGHE, OMETTE DI DIRE CHE LA RESPONSABILITA' DEI TEMPI LUNGHI E' DELLE TOGHE.

E poi, il cittadino, quanto deve aspettare per avere giustizia e vedersi riconosciuta l'innocenza, sotto la mannaia perdurante della gogna aizzata da tesi giudiziarie strampalate?

E poi di chi ci dobbiamo fidare?!?

FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

Corruzione Gdf, Pm: «Nella Finanza sistema di tangenti», scrive “Il Messaggero”. Una macchina perfetta lubrificata dalle mazzette e messa in moto dagli ufficiali della Finanza. L’inchiesta della procura di Napoli, che due giorni fa ha portato all’arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza di Livorno, Fabio Massimo Mendella, e all’iscrizione sul registro degli indagati del vicecomandante generale Vito Bardi, non riguarda un solo episodio di corruzione. E’ sul sistema che lavorano i pm, «sull’abitudine» con caratteristiche di «professionalità nel reato»: imprenditori disposti a pagare e militari, a tutti i livelli e senza soluzione di continuità, propensi a incassare. Da Emilio Spaziante, comandante in seconda del corpo arrestato per il Mose di Venezia, al suo successore, Vito Bardi. E a confermarlo ai pm sono anche alcuni alti ufficiali della Finanza. L’indagine è ancora ”coperta”: agli atti non ci sono soltanto le testimonianze dei fratelli Pizzicato, che hanno raccontato di avere pagato Mendella 15mila euro al mese (poi diventati 30) per evitare che gli accertamenti avessero conseguenze. Altri, come loro, hanno deciso di parlare. All’esame c’è anche la posizione di Achille D’Avanzo, il proprietario degli immobili adibiti a caserme, che ogni mese incassava il massimo dei canoni. La struttura del sistema, del quale Bardi avrebbe fatto parte, emerge con chiarezza dal decreto di perquisizione a carico di Bardi firmato dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Si legge nel decreto che ieri ha portato proprio gli uomini della Finanza a perquisire gli uffici del capo: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme, illecitamente richieste asseritamente per sé e altri, e il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni». E ancora: «Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». All’esame dei pm sono finiti anche i canoni d’affitto pagati alla Solido Property dell’imprenditore napoletano Achille D’Avanzo, per alcuni immobili adibiti a caserme. In base alle risultanze, l’Ufficio tecnico erariale aveva fissato i canoni più bassi nelle tabelle di locazione ma, proprio Bardi, contrariamente alle indicazioni dell’Ute, avrebbe dato l’autorizzazione per pagare il prezzo massimo previsto. Inoltre, la sede della società di D’Avanzo, esattamente come quella dei fratelli Pizzicato, sarebbe stata spostata da Napoli a Roma in coincidenza con il trasferimento di Mendella. Gli avvocati dell’imprenditore, Roberto Guida, Luigi Petrillo e Luigi Pezzullo, precisano che «le società del gruppo di Achille D'Avanzo hanno sede in Roma dal settembre del 2004, epoca antecedente al trasferimento dell'ufficiale, che sarebbe avvenuto solo nel 2012». E aggiungono che la vicenda degli affitti era già stata oggetto di un’indagine chiusa con un’archiviazione. In realtà, l’inchiesta del 2012, poi archiviata, riguardava alcuni immobili che la società di D’avanzo aveva venduto a prezzi fuori mercato ai familiari dell'ex capo del Sismi Niccolò Pollari e del generale della Finanza Walter Cretella Lombardo.

Fiamme Gialle travolte dagli arresti ai vertici. Riemerge il caso: chi controlla i controllori? Alti ufficiali della Guardia di Finanza fermati, perquisiti e indagati che gettano ombre sull'impegno dei militari onesti. E, come venti anni fa, si ripropone il problema della prevenzione: come impedire che i funzionari corrotti facciano carriera, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Chi controlla i controllori? Per la seconda volta in pochi giorni, le istruttoria coinvolgono ufficiali di alto livello della Guardia di Finanza. Ieri è stato arrestato per corruzione il colonnello Fabio Massimo Mendella, attualmente comandante delle Fiamme Gialle a Livorno, ma soprattutto è stato perquisito l'ufficio del numero due del Corpo, il generale Vito Bardi, anche lui indagato. Non era mai successo prima. Il comando generale della Finanza non era stato perquisito nemmeno nella tempesta del 1994, quando Mani Pulite coinvolse decine di graduati e ufficiali che in Lombardia avevano alimentato un sistema di bustarelle. La scorsa settimana, la piena del Mose aveva investito con violenza l'istituzione. L'ex generale Emilio Spaziante è stato arrestato, con un'accusa ancora più grave delle bustarelle per chiudere un occhio sulle verifiche fiscali: secondo i magistrati avrebbe ottenuto oltre due milioni di euro per garantire alla macchina di quattrini veneziana la protezione dalle inchieste penali. Una circostanza mai accaduta durante la vecchia Tangentopoli. Con lui sono stati perquisiti Mario Forchetti, ex generale a tre stelle nominato garante per la trasparenza degli appalti Expo, e il colonnello Walter Manzon, ex comandante di Venezia: entrambi non risultano indagati. Spaziante è stata fino a pochi mesi fa una figura di primissimo piano, arrivata fino alla carica di capo di stato maggiore e comandante dell'Italia Centrale. Un ufficiale a dir poco discusso. Le intercettazioni del faccendiere Valter Lavitola avevano rivelato le pressioni nel 2009 su Silvio Berlusconi per farlo arrivare al vertice del Corpo. «No, non per fare il numero uno. Per fare una mediazione e lui fare il numero due», diceva Lavitola al premier: «La mediazione la sta facendo il ministro (dell'Economia Giulio Tremonti, ndr) ed è quasi fatta. Lei mi autorizzò a parlargliene. Lui mi ha detto che teneva tutto fermo fino a quando lei non si muoveva e noi si rischia il caso che da persone proprio amiche amiche amiche rischiamo insomma quanto meno che gli diventiamo antipatici». Il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di finanza indagato per corruzione, intervistato a Bari nel 2012 spiega i principi del finanziere modello: ''Un cittadino non avulso dal contesto che lo circonda, di sani principi e pronto ad affrontare le difficoltà'' (immagini da AntennaSud). Nonostante questo, Spaziante è riuscito nel 2013 ad arrivare alla poltrona caldeggiata da Lavitola, grazie agli automatismi che regolano le carriere. Poco dopo è esplosa un'altra inchiesta, questa volta della procura antimafia di Roma, che ha registrato gli interventi sull'ufficiale di un'industriale di Ostia per ottenere un documento, con cui realizzare un falso e farsi assegnare un bene demaniale. Una vicenda in cui compariva anche un ruolo dello studio professionale di Giulio Tremonti, chiamato a mediare su un finanziamento da 100 milioni di euro che doveva essere stanziato da Unipol. Guarda caso, la stessa società da cui pochi mesi fa Spaziante ha ottenuto una consulenza dopo avere lasciato l'uniforme. Adesso l'ex generale è agli arresti. Secondo gli accertamenti, condotti dalle stesse Fiamme Gialle, Spaziante e la sua convivente hanno complessivamente dichiarato entrate per poco più di 2 milioni di euro, mentre sono state scoperte uscite pari a quasi 3,8 milioni. Scrivono i pm: «In questo caso emerge inequivocabile l’elevatissimo tenore di vita. Dalla scheda patrimoniale risultano auto sportive, barche di lusso, villa con piscina, prestigiosi immobili, nonché la frequentazione di costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia. Soggiorni settimanali a Milano in hotel da mille euro a notte». E durante le perquisizioni nella residenza della sua convivente, gli investigatori hanno trovato 200 mila euro con banconote sporche di terra che sembravano essere state appena dissepolte. La correttezza dell'istituzione non viene messa in discussione. Sono i militari delle Fiamme Gialle a condurre le istruttorie più delicate del momento. Ed è stato proprio un ufficiale, il colonnello Renato Nisi, a impedire che Spaziante venisse a conoscenza della rete di microspie che hanno smascherato la ragnatela di tangenti dell'Expo. Anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, che ha ordinato la perquisizione nel comando generale, ha detto: «Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici». Gli ultimi sviluppi mostrano però con chiarezza l'esistenza di un problema di prevenzione, che riguarda tutta la pubblica amministrazione. Quali strumenti esistono per impedire che la corruzione dilaghi? La questione era stata posta venti anni fa, quando Mani Pulite aveva fatto finire in carcere decine di militari e di funzionari degli uffici fiscali. Allora erano stati proposti organismi di controllo, banche dati sui beni e altre iniziative, rimaste lettera morta. E adesso tutto si ripropone. Uno dei punti chiave, che anche in questo caso riguarda l'intera pubblica amministrazione, è l'assenza di efficaci meccanismi disciplinari per valutare il comportamento dei funzionari. Prima delle sentenza definitiva, non vengono quasi mai presi provvedimenti. Ma il verdetto della Cassazione arriva dopo parecchi anni e la prescrizione cancella quasi sempre le ipotesi di reato per i colletti bianchi. Come ha evidenziato due mesi fa un'inchiesta de “l'Espresso”, in Italia l'impunità per la corruzione è praticamente garantita. E nel frattempo le carriere proseguono, fino ai piani più alti delle istituzioni. Figure come Spaziante o come Bardi erano già state segnalate a vario titolo in diverse istruttorie: nell'estate 2011 entrambi erano citati nelle intercettazioni sulla cosiddetta P4. All'epoca i pm avevano ricostruito una fuga di notizie sulle indagini, che aveva permesso di mettere in guardia Gianni Bisignani, uomo chiave del potere romano. Ma non c'erano state ripercussioni. Così come nulla è stato fatto per arginare le frequentazioni molto interessate tra ufficiali e politici, in quella commistione tra affari e nomine che è diventata il pilastro della nuova Tangentopoli, da Milano a Venezia. Ora è necessario che questa nuova lezione si trasformi in misure concrete, per evitare che accada ancora. E per impedire che la corruzione di pochi getti ombre sull'attività di centinaia di militari delle Fiamme Gialle, che tutti i giorni si impegnano con rigore e onestà per difendere quel che resta della legalità nel nostro Paese.

Gdf, indagato per corruzione il comandante in seconda Bardi. L’inchiesta della Procura di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Indagato per corruzione il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare» verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in servizio a Napoli. Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma. Il colonnello Mendella - comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno - è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali.

Bufera giudiziaria sulla Finanza. Arrestato per concussione il comandante Gdf di Livorno: tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Indagato il generale Bardi. Il provvedimento a carico di Fabio Massimo Mendella nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Fermato anche il commercialista napoletano De Riu. Perquisiti gli uffici romani del numero due della Guardia di Finanza che risulterebbe sotto inchiesta per corruzione in vicende collaterali, scrivono Dario Del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Finiscono in carcere l'attuale comandante provinciale della Finanza di Livorno, colonnello Fabio Massimo Mendella e il commercialista napoletano Pietro De Riu. Nell'inchiesta risulta indagato il generale Vito Bardi, numero due della Guardia di Finanza: i suoi uffici romani sono stati perquisiti. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock ipotizzano per gli arrestati il reato di concorso in concussione per induzione e di rivelazione del segreto d'ufficio. Per l'accusa, l'importo delle dazioni di denaro e di varie utilità incassate dagli indagati ammonta, in totale, ad un milione di euro. Somme che, è scritto in una nota della Procura di Napoli, sarebbero state "asseritamente richieste ed incassate da De Riu per conto di Mendella". I fatti, stando alle indagini condotte dalla Digos napoletana con la direzione centrale della polizia criminale e dai finanzieri del Comando provinciale partenopeo e della Tributaria di Roma, si riferiscono a rapporti intercorsi negli anni tra il 2006 e il 2012, quando Mendella era responsabile del settore Verifiche al comando provinciale di Napoli, e successivamente trasferito a Roma. A beneficiare dei presunti favori della Finanza sarebbero stati due fratelli imprenditori napoletani della società Gotha. Secondo la tesi accusatoria, il legame tra quel colonnello e quella società, saldata attraverso l'opera del commercialista, era così forte che quando il colonnello fu trasferito nella capitale, anche la Gotha cambiò sede, pur di continuare ad usufruire di quei vantaggi illeciti. Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici del comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi, che risulterebbe indagato per corruzione in vicende collaterali. Il generale di corpo d'armata, in pratica il numero due del corpo, è subentrato al generale Emilio Spaziante che è andato in pensione ed è stato arrestato con l'accusa corruzione nell'ambito della maxi inchiesta sulle tangenti del Mose. Bardi, 63 anni, è originario di Potenza. Ha ricoperto, tra l'altro, l'incarico di comandante interregionale dell'Italia meridionale. Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, dopo una lunga telefonata con il comandante generale della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, tiene a ribadire: "Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici, tanto che abbiamo affidato congiuntamente ad essa e alla Digos l'esecuzione delle misure, e l'attività integrativa continua ad essere svolta dalle Fiamme Gialle insieme all'ufficio della Digos". Tra gli episodi della vicenda giudiziaria viene riportata anche una festa in barca con Vip per Mendella. Il colonnello, nell'estate del 2006 partecipò alla festa di compleanno dell'imprenditore Paolo Graziano assieme ai calciatori Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro (i tre sono del tutto estranei alla vicenda; il solo Graziano è stato sentito come persona informata sui fatti). La festa si svolse sulla barca di Graziano, attuale presidente dell'Unione industriali di Napoli. La circostanza viene riferita dal gip Dario Gallo solo come elemento di riscontro delle dichiarazioni accusatorie dell'imprenditore Giovanni Pizzicato, che sarebbe stato indotto da Mendella a pagare somme di denaro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali. Nell'estate del 2007, invece, sia Mendella, accompagnato dalla fidanzata, sia il commercialista De Riu avrebbero trascorso le vacanze in Sardegna a spese di Pizzicato. Trasferito da Napoli a Roma, il colonnello Mendella - dice l'inchiesta - suggerì agli imprenditori Giovanni e Francesco Pizzicato di trasferire nella capitale anche la loro società Gotha spa. Dopo appena due giorni dal trasferimento della società, l'ufficiale propose ai suoi superiori una nuova verifica fiscale, che necessitava di una specifica autorizzazione a derogare dagli ordinari criteri di competenza. L'autorizzazione giunse 24 ore dopo. La tempistica dell'operazione, sottolinea il gip, è un decisivo elemento di conferma dell'ipotesi accusatoria: in quella circostanza spuntò il coinvolgimento di "due generali". Anche le modalità di concessione della deroga appaiono sospette, dal momento che non fu interessato il comando generale della Guardia di Finanza ma solo quello provinciale, mentre nè nella richiesta nè nell'autorizzazione erano specificate le circostanze eccezionali per derogare dai criteri di competenza. Nella sua denuncia, l'imprenditore Giovanni Pizzicato ha riferito di avere appreso dal commercialista Pietro De Riu, anche lui arrestato oggi, che la verifica "aveva richiesto una speciale autorizzazione da parte di due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante". In quella circostanza, De Riu chiese a Pizzicato 150.000 euro "perchè a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell'iniziativa, i generali". Il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in pensione, è stato arrestato la settimana scorsa nell'ambito dell'inchiesta sul Mose.

Terremoto Gdf: arresti, perquisizioni ed incredulità. Arrestato il comandante della Finanza di Livorno, Mendella, con l'accusa di concussione ed indagato il comandante in seconda Bardi a Roma per corruzione. Lo sgomento delle fiamme gialle, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. "...è davvero impossibile". Diverse telefonate, identico però il tono e quel filo di voce di chi davvero ha preso un pugno nello stomaco. Sono le reazioni (anonime) dei militari delle Fiamme gialle di Livorno dopo l'arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella, accusato di concorso in concussione nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Il colpo è davvero tremendo: in caserma, nella città di Livorno e anche a Roma. In pochi hanno voglia di parlare. Mendella era arrivato al comando provinciale livornese neanche un anno fa, nel luglio del 2013, guadagnandosi immediatamente la stima del personale. Anche alti ufficiali della Finanza, raggiunti telefonicamente da Panorama.it, manifestano stupore ed incredulità. Oltre ad una profonda tristezza e smarrimento: E' impossibile per Mendella e ancora di più per il generale Bardi. Sembra quasi una voglia di colpire il Corpo.. cosa pensano di trovare all'interno di un ufficio di un comandante in seconda che cambia continuamente..” Poi qualcuno prosegue: "Mai una voce su Mendella..non è mai stato un collega chiacchierato come a volte ci può essere". Infatti, mentre la Digos di Napoli stava arrestando il comandante di Livorno, la procura di Napoli stava effettuando una perquisizione, sempre nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto del colonnello, nell’ufficio del generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza presso il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Il generale Bardi, al momento, risulterebbe indagato per corruzione. Ma perché il colonnello Mendella sarebbe finito in carcere?  E perché perquisire le stanze del Comando Generale di Roma? Secondo i pm napoletani, Piscitelli e Woodcock, gli imprenditori partenopei avrebbero versato oltre un milione di euro tra il 2006 ed il 2012 al commercialista Pietro De Riu, anche lui finito in manette questa mattina, che faceva da tramite con il responsabile verifiche ed accertamenti del Comando provinciale Guardia di Finanza di Napoli, ovvero il colonnello Fabio Massimo Mendella. Mendella, dopo sei anni nel capoluogo campano, fu trasferito dal Comando di Napoli a Roma. E in concomitanza con il suo trasferimento anche  la holding "Gotha s.p.a.", oggetto di una verifica pilotata eseguita dall'ufficio coordinato dal colonnello, avrebbe trasferito la propria sede legale nella Capitale. Se l’arresto del comandante di Livorno ha destato non poco stupore, meno “impatto”, tra alcuni finanzieri, ha avuto la notizia della perquisizione a carico del generale. Il generale Vito Bardi, infatti, non è nuovo alle vicende giudiziarie. Nel 2011 era stato indagato con le accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4. L'anno successivo, tuttavia, la sua posizione fu archiviata dal gip su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Al centro dell'inchiesta era l'ex deputato del Pdl Alfonso Papa, per il quale ora e' in corso il processo. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'ex parlamentare riceveva notizie coperte da segreto su indagini in corso e se ne serviva per ricattare alcuni imprenditori dai quali riceveva cosi' denaro o altre utilita'. Nell'inchiesta era coinvolto anche l'uomo d'affari Luigi Bisignani che ha patteggiato la pena. Ma la tristezza di moltissimi alti ufficiali della Finanza è dettata anche dal susseguirsi, di accuse verso gli appartenenti al Corpo o graduati ormai in pensione. E’ il caso del generale Emilio Spaziante rientrato nella maxi inchiesta, pochi giorni fa, sulle tangenti del Mose, a Venezia. Emilio Spaziante, in qualità "di Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza" è  stato arrestato perché "influiva in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova" e avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, in cambio, la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. E' quanto stato scritto nell'ordinanza del gip dove si precisa anche che la somma versata fu poi di 500 mila euro divisa anche con Milanese e Meneguzzo. Le indagini della Procura di Napoli che hanno portato all'arresto di Mendella, sono state condotte dalla Digos partenopea con il contributo della Direzione centrale di Polizia criminale e anche del Comando Provinciale e del nucleo di Polizia tributaria della stessa Guardia di Finanza di Roma.

Ci sono imprenditori che collaborano, ma a parlare sono soprattutto ufficiali e sottufficiali, scrive Fiorenza Sarzanini su  “Il Corriere della Sera”. Uomini della Guardia di Finanza che accusano i loro superiori di aver preso tangenti. E svelano al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock l’esistenza di un «sistema» di corruzione che ha già fatto finire in carcere il colonnello Fabio Massimo Mendella, mentre sono indagati il comandante in seconda Vito Bardi e il suo predecessore Emilio Spaziante, tuttora agli arresti per lo scandalo del Mose di Venezia. Non sono gli unici. Ci sono nomi ancora coperti, componenti di quella «rete» che avrebbe preteso soldi, vacanze, favori e forse, ma su questo i controlli sono tuttora in corso, appuntamenti con alcune escort. È l’ordine di perquisizione notificato ieri al generale a svelare gli elementi raccolti dai pubblici ministeri facendo emergere un quadro di testimonianze incrociate: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme illecitamente richieste asseritamente per sé ed altri, ed il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni. Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». Tra gli imprenditori interrogati c’è Achille D’Avanzo, in passato legato al generale Nicolò Pollari e poi molto vicino a Bardi. Sono soprattutto due le circostanze emerse dagli accertamenti affidati agli investigatori della Digos. Il primo riguarda l’affitto della caserma di Napoli dove ha sede il Comando provinciale delle Fiamme Gialle e altri stabili che l’immobiliarista avrebbe concesso proprio ai finanzieri. I canoni vengono fissati dall’Ufficio tecnico erariale, ma per questo caso si è deciso di fare un’eccezione. E dunque Bardi avrebbe stabilito di concedere all’amico il massimo possibile ottenendo una contropartita che sarebbe già stata svelata e sulla quale sarebbero tuttora in corso le verifiche. Ma a destare sospetto è anche la decisione presa dallo stesso D’Avanzo di spostare la sede di una delle sue società da Napoli a Roma proprio in seguito al trasferimento di Mendella nella capitale. Esattamente come accaduto per la «Gotha spa» dei fratelli Pizzicato che collaborano con i magistrati e hanno raccontato di aver ricevuto il suggerimento proprio dal colonnello. I difensori dell’imprenditore mettono le mani avanti sostenendo che «le società del gruppo hanno sede nella capitale sin dal 2004». Al fascicolo di inchiesta è stato allegato il verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già coinvolto insieme ad Angelo Capriotti nell’inchiesta sugli appalti all’estero gestiti dal faccendiere Valter Lavitola. Il 23 luglio scorso l’uomo viene interrogato da Woodcock e dichiara: «Mi chiedete se Capriotti mi abbia mai riferito di rapporti con ufficiali della Guardia di Finanza e di eventuali richieste avanzate da questi ultimi. Posso dire che intorno al 2006 Capriotti mi mandò negli uffici del generale Bardi per consegnargli un esposto denuncia. Ricordo che io e Capriotti andammo una prima volta insieme dal generale Bardi nel suo ufficio di Napoli e poi Capriotti mi mandò da solo sempre negli uffici del Comando regionale. In questa occasione prese una copia del mio esposto e mi disse che avrebbe seguito lui direttamente la vicenda, tuttavia non abbiamo saputo più nulla. Credo un anno dopo Capriotti mi disse che il generale Bardi gli aveva fatto delle richieste “strane” ovvero richieste di utilità, se non sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia». L’8 marzo scorso viene intercettata una telefonata tra Mendella e un amico avvocato, Marco Campora. Il colonnello dovrebbe aver appreso di avere i telefoni sotto controllo e dunque usa il legale come tramite per incontrare il commercialista Pietro De Riu. Per questo i pubblici ministeri vogliono adesso accertare se l’incontro con la donna sia effettivamente avvenuto o se invece fosse una «finta» per mascherare invece un appuntamento.

Mendella : ué Marco! Ti chiamo dopo

Campora : no, no Fabio! Perché ti stavano aspettando

Mendella : ma chi?

Campora : no là ... quella ragazza che ti volevo presentare a piazza dei Martiri là, quindi ti aspetto un quarto d’ora

Mendella : no e non ce la faccio a venire. Oggi non ce la faccio

Campora : eh ... ma scusa questo ti ... cioè qua sta figa qua, ti sta aspettando Fabio

Mendella : non ce la faccio!

Campora : ... una figura di merda. Sta amica di Cristiana qua devi

Mendella : ma non ce la faccio dai, sto al Vomero!

Campora : e devi venire per forza, che cazzo! Cioè

Mendella : dai, non ce la posso fare. C’ho pure ... adesso è arrivata pure Catia

Campora : eh no e Fabio dai, vieni, vieni! Fammi sta cortesia perché ... vieni, vieni capisci... Perché questo mò ti vo ... ti voleva sc.. mò, qua ... se ti dico vieni è perché devi venire, insomma, capito? Sennò mica ti dicevo cazzate ... hai capito?

I soldi in contanti gli sarebbero stati consegnati nelle scatole dei telefonini cellulari, continua la Sarzanini. Ma evidentemente quei 30 mila euro al mese non bastavano. E allora il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella si faceva pagare anche le vacanze in Sardegna, oppure le gite in barca a Capri con i calciatori del Napoli. Atteggiamento spregiudicato che i magistrati di Napoli inseriscono in un vero e proprio «sistema» di corruzione che avrebbe avuto tra i referenti il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Il sospetto degli inquirenti è che proprio a lui possa essere finita una parte dei soldi versati dai fratelli Pizzicato, amministratori della «Gotha spa» che si occupa di metalli e gestori di alcuni locali notturni napoletani per evitare le verifiche fiscali. Non è l’unico. Anche altri alti ufficiali tuttora in servizio - oltre all’ex numero due delle Fiamme Gialle Emilio Spaziante - potrebbero aver partecipato alla spartizione delle «mazzette» pagate dagli imprenditori. Un dubbio alimentato da quanto raccontato al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock proprio da Giovanni Pizzicato che sostiene di aver ricevuto anche notizie sulle indagini in corso, compresa la decisione «di mettere sotto controllo 42 utenze». «Fondi in Romania e Lituania». È il 14 novembre scorso quando l’imprenditore decide di collaborare. E dichiara: «Nel 2005 venni avvicinato da un mio collega Pietro Luigi De Riu e mi disse che sarebbe stato bene che per la mia attività incontrassi un suo amico, il maggiore Fabio Massimo Mendella, con il quale fu organizzata una cena presso uno dei locali che all’epoca gestivamo, “La Scalinatella” di Napoli... De Riu ci propose di trovare un accordo economico con Mendella, in misura proporzionale al volume d’affari della società. Mi fu detto che con 15 mila euro al mese avremmo potuto star tranquilli... Cominciai quindi a pagare, ma poi nel tempo i versamenti sono cresciuti a 20 mila e poi fino a 30 mila euro. Non abbiamo avuto mai alcun controllo generale o comunque mirato dalla Guardia di Finanza. Complessivamente avrò versato oltre l milione di euro. Questi versamenti sono stati tutti quanti effettuati a Napoli... in qualche circostanza io avevo messo i soldi contanti in una confezione di un cellulare richiedendo alle mie segretarie di consegnarli al dottor De Riu. L’ultimo dei pagamenti è avvenuto a settembre, ottobre del 2012. Il contante lo abbiamo ritirato in banca in Italia fino al 2011 più o meno, poi ho utilizzato somme che venivano prelevate dai conti presenti in Lituania e Bulgaria». «Soldi ai due generali». Fila tutto liscio, poi Mendella viene trasferito a Roma. Ma lì avrebbe trovato la soluzione: trasferire nella capitale la sede della «Gotha spa» in modo da poter far partire una verifica «pilotata». Racconta Pizzicato: «De Riu mi aveva detto che questa verifica per poter essere autorizzata, in quanto di competenza territoriale di altro Comando, aveva richiesto una speciale autorizzazione concessa da due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante. De Riu mi disse anche che successivamente c’era stata una segnalazione da parte del colonnello Baldassari di Napoli. Quest’ultimo, poi trasferito anche lui a Roma, aveva segnalato questa anomalia richiedendo spiegazioni al Comando generale sul perché la verifica era stata aperta dal Comando di Roma. In proposito devo aggiungere che il De Riu, in relazione a questa verifica mi aveva richiesto la somma di euro 150 mila perché a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell’iniziativa, i generali che avevano autorizzato la stessa. Io anche in questa occasione ritenni di dover pagare». In barca con i calciatori. Ci sono le «mazzette», ma anche gli svaghi. L’imprenditore ha svelato di aver «pagato nel 2007 una settimana di soggiorno al residence “Smeraldina” di Porto Rotondo dove alloggiarono sia il De Riu che il Mendella, che era con la sua compagna, e io, che ero presente, pagai tutte le cene della settimana». Ma anche di aver organizzato nel 2006 una gita «a Capri con il presidente degli industriali napoletani, Paolo Graziano, amico di Mendella, che festeggiava a bordo della sua barca il suo compleanno. La barca di Graziano era un Mangusta e a bordo della stessa c’era l’ex calciatore del Napoli Ciro Ferrara con la famiglia di Fabio Cannavaro, quest’ultimo a bordo della sua barca. La barca del Graziano fu da noi raggiunta con un gommone che era di proprietà di mio cugino, Sergio Reale. Noi partimmo da Ischia dove io ero con la mia barca, a bordo della quale c’era Mendella con la sua compagna, oltre De Riu con la sua fidanzata dell’epoca». Nell’ordinanza il giudice elenca gli elementi di riscontro ai viaggi. E poi allega le intercettazioni di conversazioni durante le quali il colonnello Mendella fa finta di incontrare «belle donne» quando invece vede il commercialista De Riu per farsi consegnare le tangenti.

INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.

Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”. L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi.

"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere". Il presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”.  «Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.

«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».

Il giudice parteggia?

«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell'imputato».

Partito preso?

«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».

Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?

«Non penso proprio. Poi è ben assistito».

Intanto è in galera e non si intravede la fine.

«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».

Maramaldeggiano?

«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».

Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi...

«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».

Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?

«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».

In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l'incolpevole.

«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in cui sono ammesse».

Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.

«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».

Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?

«Questo reato è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».

Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?

«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece gli umori della piazza».

E le toghe sono dilagate.

«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».

Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?

«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).

Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.

«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».

Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).

«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».

Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?

«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».

La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?

«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».

Come se ne esce?

«Con la ventilazione della magistratura».

Frullarla via?

«Aprire ad altri l'accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».

E?

«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».

"I magistrati forzano le leggi. Ormai è scontro con lo Stato". Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti, nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario, perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che, oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale, come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio, quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato, direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete dunque l'intervista con queste lenti.

Il giudice è più vicino al pm che ai diritti della difesa?

«Sostanzialmente vero. Il grande problema del processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».

Equilibrio che manca.

«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».

Cioè?

«Quello tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato (trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».

C'è abuso del carcere prima del processo?

«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare, semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».

C'è abuso di intercettazioni?

«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge per farle».

I giudici violano le leggi?

«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato, che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».

Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in piazza.

«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è sensibilissimo a questi umori».

È tollerabile la legislazione speciale per i mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?

«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno impiccato i terroristi in carcere».

Con la scusa dei mafiosi si è finito per colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno. Costituzionale?

«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il caso Contrada».

Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa per concorso esterno.

«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».

L'Università come si schiera di fronte a queste bestiali forzature?

«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista. Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i principi di garanzia della Convenzione Ue».

La magistratura dilaga dalla politica industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?

«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe solo applicare la legge».

Le colpe della politica per le invasioni di campo?

«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie. Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».

L'ultimo Guardasigilli degno del nome?

«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di procedura penale».

Separazione delle carriere tra giudici e pm?

«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri. Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».

Pensiero finale.

«Grande confusione sotto il cielo».

Tanto fanno parte tutti della grande mangiatoia. Lo scandalo del doppio lavoro: busta più ricca per mille toghe, scrive Stefano Sansonetti su “Il Giornale”. Un festival di incarichi extragiudiziari. Per un cospicuo numero di toghe italiane, a quanto pare, la cuccagna non accenna a finire. Negli ultimi tempi sono letteralmente fioccate le collaborazioni che i magistrati riescono a ottenere da un'infinita serie di enti pubblici e privati. Inutile dire che tutti questi lavori extra, svolti cioè al di fuori della missione tipica di giudici e pubblici ministeri, si portano appresso un bel corredo di compensi che vanno a cumularsi ai già lauti stipendi. Il fatto è che l'organo di autogoverno della magistratura, guidato dal vicepresidente Michele Vietti, ha appena sfornato un «volumone» di 362 pagine che contiene l'ultimissimo aggiornamento delle attività extragiudiziarie autorizzate dal 14 novembre 2013 al 13 maggio del 2014. A impressionare è il loro numero: parliamo di 1.085 incarichi, più che raddoppiati rispetto ai 466 del semestre precedente e comunque in aumento rispetto ai 961 autorizzati nello stesso semestre di un anno fa (ovvero dal 14 novembre 2012 al 13 maggio 2013). Molti incarichi vengono assegnati da società private di consulenza e formazione, per non parlare di veri e propri centri di potere come la Luiss, l'ateneo della Confindustria guidato dall'ex numero uno degli industriali Emma Marcegaglia, che per questa via si trova a pagare numerosi giudici. E qui restano di grande attualità due questioni. Innanzitutto la montagna di incarichi rischia di sottrarre ore preziose di lavoro a un sistema-giustizia stritolato da pendenze sempre più difficili da smaltire. E poi la «vitale» questione della terzietà: siamo sicuri che ricevere compensi da Confindustria e gruppi privati, seppur autorizzati dal Csm, garantisca l'imparzialità della toga nel momento in cui è chiamata a svolgere il suo «vero» lavoro? Nelle 362 pagine gli esempi si sprecano. Si prenda Paolo Sordi, presidente della sezione lavoro del tribunale di Roma, che per lezioni di diritto del lavoro ha ottenuto la bellezza di 9 incarichi: 4 ore dalla Scuola nazionale dell'amministrazione per complessivi 600 euro, 3 ore dalla Scuole superiore dell'economia e delle finanze per 390 euro, 2 ore dall'Università Roma Tre per 200 euro, 40 ore dalla Lumsa per 4 mila euro, ancora 4 ore da Roma Tre per 480 euro, un'ora dalla società di formazione Optime srl per 400 euro, un'ora dalla Synergia Formazione srl per 500 euro, 20 ore dalla Scuola di specializzazione in professioni legali della Sapienza per 3.600 euro e 6 ore dalla Fondazione dell'avvocatura pontina per 750 euro. Oppure la situazione di Angelo Spirito, consigliere della Corte di Cassazione che ha ottenuto 5 incarichi per docenze di procedura civile dal gruppo Altalex: due da 14 ore e 2.600 euro ciascuno, un altro da 14 ore per 2.450 euro e due da 5 ore ciascuno per complessivi 1.450 euro. Poi c'è il caso della Luiss, l'università di Confindustria che direttamente o per il tramite della sua Scuola di specializzazione in professioni legali ha assegnato nel semestre incarichi a 10 magistrati. Tra questi c'è Domenico Carcano, capo dell'ufficio legislativo del ministero della giustizia, che per 45 ore di lezione di diritto processuale civile prenderà 6 mila euro. A seguire il sostituto procuratore di Roma Barbara Sargenti, con 36 ore di lezioni di diritto penale dell'informatica pagate 4.500 euro. Ancora, tra le toghe più dinamiche si segnala Gaetano Ruta, pm di Milano, il castigatore degli stilisti Dolce e Gabbana. In questo caso parliamo di 5 incarichi per lezioni di diritto penale: 5 ore per 650 euro dalla Scuola superiore dell'economia e delle finanze, 2 ore per 325 euro dalla Cattolica di Milano, un'ora per 400 euro da Synergia Formazione srl e 2 ore da 500 euro l'una da Informa srl. Un altro pm milanese, Carlo Nocerino, sempre per docenze di diritto penale ha ottenuto 20 ore dall'Università Bicocca per 2.064 euro, un'ora da Optime srl per 400 euro e un'ora da Paradigma srl per 800 euro. Tra i più impegnati a livello di ore ci sono anche Bruno Giordano, giudice del tribunale di Milano, e Marcello Buscema, giudice del tribunale di Roma. Il primo ha ottenuto dall'università di Milano e dal Consorzio interuniversitario per il diritto allo studio 50 ore di docenza per complessivi 7 mila euro. Il secondo 42 ore dall'onnipresente Scuola superiore dell'economia e delle finanze per 5.460 euro. Dall'elenco emergono i profili di alcune società private di formazione che la fanno da padrone. Optime srl, Paradigma srl, Synergia, Wolters Kluwer e Altalex pagano decine di magistrati. Anche se la maggior parte degli incarichi arriva dalle Scuole di specializzazione nelle professioni legali delle varie università italiane. È bene ripetere che si tratta di incarichi regolarmente autorizzati dal Csm, che però non spazzano via le questioni «tempo» e «terzietà» del magistrato. Del resto lo stesso Csm è consapevole del problema se solo si considerano le circolari che si sono succedute sul tema. In sostanza oggi si individuano tre tipologie di incarichi extra: espletabili senza autorizzazione, inderogabilmente vietati e soggetti ad autorizzazione. Il fatto è che ogni norma viene interpretata, ed è soprattutto la linea di confine tra le ultime due categorie a rischiare di rivelarsi labile.

Ma tutto questo alle toghe di tutti i ranghi non basta. Mose, politici e magistrati: mazzette per tutti, scrive “L’Unità”. I conti segreti e criptati all’estero li hanno già trovati nelle prime due tranche di questa inchiesta (2013). Ora salta fuori «Il fondo Neri», fondo comune di danaro contante versato pro-quota dalle imprese. Il meccanismo arriva al punto «di integrare in un'unica società corrotti e corruttori». Di più: «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha accettato l'incarico e quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale, quale rendita di posizione che prescinde dal singolo atto illecito commesso e che trova giustificazione solo nel ruolo rivestito dal pubblico ufficiale e nella possibilità, che egli comunque mantiene, di poter influire sfruttando le proprie conoscenze e relazioni personali con i funzionari che - scrive ancora il gip - permangono in servizio». Il sistema L'ex presidente della Regione Giancarlo Galan e l'ex generale della Gdf Vincenzo Spaziante, i dirigenti del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso: «Ciascuno di essi, per anni e anni, ha asservito totalmente l'ufficio pubblico che avrebbe dovuto tutelare, agli interessi del gruppo economico criminale, lucrando una serie impressionate di benefici personali di svariato genere». Scrive il gip che Giovanni Mazzacurati, il presidente del Consorzio Nuova Venezia (CvN) «dopo aver concordato» con i principali componenti del Consorzio «la necessità» di pagare tangenti, dal 2005 al 2011 avrebbe corrisposto - tramite l'assessore Chisso (che a sua volta riceveva il denaro o direttamente dallo stesso Mazzacurati o dai collaboratori di quest'ultimo) - a Galan, «non solo lo stipendio annuo di un milione, ma anche 1 milione e 800 mila per il rilascio di due pareri favorevoli ai progetti». In particolare 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 e altri 900 mila tra il 2006 e il 2007 «per il rilascio del parere favorevole della Commissione Via della Regione Veneto, sui progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia». La campagna per le comunali Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni entra nell'inchiesta sui fondi neri delle aziende legate agli appalti del Mose per aver ricevuto, secondo l'accusa, oltre 110mila euro in più occasioni a sostegno della campagna elettorale delle comunali nel 2010. Orsoni avrebbe ricevuto i fondi tramite «contributi formali» di aziende che a loro volta ottenevano il denaro dal Cvn sulla base di false fatturazioni. Le ditte coinvolte, a vario titolo, sarebbero Mazzi, Grandi Lavori Fincosit, Mantovani e Covela, Consorzio Italvenezia e Società italiana condotte d'acqua, Coveco, San Martino e Clodia. Secondo il gip queste società partecipavano al sistema di false fatturazioni «consapevoli della destinazione a fine di finanziamento illecito di esponenti politici del denaro sovraffatturato in favore del Cvn per la realizzazione del Mose». I postini delle somme sarebbero stati Luciano Neri e Federico Sutto, uomini di fiducia dell'ex presidente del Cvn, Mazzacurati, entrambi arrestati. I passaggi sono tre: i primi due riguardano l'emissione di due fatture per 500 mila euro emesse da Coveco e da San Martino a favore del Cvn. Il terzo passaggio riguarda la dazione vera e propria, che sarebbe avvenuta con tre consegne a uomini di fiducia di Orsoni, per un totale di 110 mila euro». La domanda è se Orsoni fosse o meno consapevole delle provenienza di quel danaro. In una delle intercettazioni, Nicola Falconi (ai domiciliari), uno degli imprenditori del CvN, riferisce che Orsoni gli ha detto: «Siete dei veri amici, sono meravigliato dello sforzo addirittura superiore alle attese e ti ringrazio molto». E quella per la regionali Tra gli arrestati anche Giampietro Marchese, consigliere regionale veneto del Pd. Avrebbe ricevuto un finanziamento illecito di 33mila euro per la campagna delle regionali 2010. Il finanziamento risulterebbe confermato dall’imprenditore Pio Savioli (già arrestato nel 2013), consigliere del CvN e consulente della cooperativa Coveco nella cui contabilità è stato rintracciato il passaggio di denaro. «Finanziamento ufficiale» (con relativa fattura) si difendono gli indagati. Per l’accusa, invece, «frutto dei pagamenti del CvN sulla base di false fatturazioni Coveco». Nelle carte dell'inchiesta c’è un appunto scritto a mano sequestrato a luglio 2013 ad una dipendente del Coveco con le «erogazioni» effettuate dalla cooperativa fino all'11 ottobre 2011. Ci sono i nomi di Marchese, del consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo (33mila euro), della Fondazione Marcianum (100mila euro), il polo pedagogico-accademico dell'allora patriarca di Venezia Angelo Scola, il Pd provinciale di Venezia (33mila) e il Premio Galileo a Padova (15mila euro). Il giudice Giuseppone della Corte dei Conti, prima a Venezia e poi a Roma, «avrebbe percepito uno stipendio annuale oscillante tra i 300mila e i 400mila euro che gli veniva consegnato con cadenza semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008». Tra il 2005 e il 2006 la dazione aumenta: «Non meno di 600mila tra il 2005 e il 2006». I soldi, afferma ancora il gip, servivano per «accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli sui bilanci e sugli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova». Il generale e le Fiamme Gialle Tra gli arrestati anche l’ex, ormai è in pensione, generale di corpo d’armata Emilio Spaziante. Secondo il gip, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del CvN», avrebbe ricevuto la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. La somma versata poi è solo di 500 mila euro divisa anche con Marco Milanese (indagato), allora collaboratore politico del ministro Tremonti e parlamentare della Commissione Bilancio. La cifra sarebbe stata versata tra aprile e giugno 2010, «per influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose».

Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori". Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno Amoroso, scrive Giusepep Caporale su “La Repubblica”. Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro. "Poi, signora, a un certo punto registriamo all'interno del suo ufficio la consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima del suo arresto" dice il pm Buccini. "Sì lo ricordo - risponde la Minutillo - quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di rapporti importanti, tant'è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico presidente del Tar del Veneto, Amoroso". Chiede il pm Tonini: "Perché essere consegnata questa somma?". "Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull'Autostrada del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n'erano stati anche altri. Maltauro aveva fatto ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo. Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d'accordo Mantovani e Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre". La interrompe il pm Ancilotto: "Ecco, ma allora perché pagare?". "Perché questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar..." risponde l'ex segretaria di Galan. "Senta, è l'unico pagamento fatto ad Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?" chiede ancora uno dei tre inquirenti. "Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo". Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. "Conosco Crialese quando come vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell'acquisto dell'area ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in nero". "E come la giustifica questa parte in nero?" chiedono i magistrati. "Che lui ha i suoi rapporti da... pagare ". E poi fa la lista delle mazzette per i giudici: "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...". Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola accusa di millantato credito.

Sbirri venduti e magistrati corrotti: il sistema Mose. Il generale Spaziante chiese 2 milioni di euro per orientare le indagini. La guerra nella Gdf, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. La Guardia di Finanza ha dovuto indagare su se stessa nell’inchiesta sul Mose di Venezia dove è stato arrestato il generale Emilio Spaziante. Ma anche nell’indagine sull’Expo 2015 di Milano l’ex Dc Gianstefano Frigerio, il professore della cupola, millantava rapporti con il capo generale delle fiamme gialle Saverio Capolupo. Non è un caso che l'operazione veneziana si chiamasse in codice "Antenora" (come ricordato dal quotidiano IlPiccolo), seconda "delle zone in cui è distinto il cerchio nono dell'Inferno dantesco", quello dei traditori. «In essa sono puniti coloro che hanno tradito la fede spezial (If XI 63) creata dall'appartenenza alla stessa patria o allo stesso partito politico». Gli scandali che stanno terremotando il Nord Italia in queste ultime settimane, colpendo esponenti del Pdl o del Pd, tirano in ballo non solo i ladri, ma anche «le guardie» (copyright Matteo Renzi). E oltre ai guardiani delle legalità, personaggi spesso impegnati in interviste tese a condannare la corruzione, a finire in arresto ci sono anche magistrati della Corte dei Conti, come Vittorio Giuseppone o giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche. Non solo. In entrambe le inchieste compare l’ombra dei nostri servizi segreti (in particolare in relazione all'imprenditore Enrico Maltauro, costrutture di caserme e basi militati statunitensi in Italia ndr), altro tassello funzionale a garantire sicurezze giuridiche e a far viaggiare spedito il giro di appalti, mazzette e conti all’estero con l’aiuto di uno come Roberto Meneguzzo, numero della Palladio Finanziaria, la Mediobanca del Nord-Est. Del resto non è la prima volta che la nostra Guardia di Finanza viene travolta dalle inchieste della magistratura. Già nel 2011 il generale Spaziante, insieme con l'ex capo di stato maggiore Michele Adinolfi comparve per alcune soffiate nell'inchiesta sulla P4 di Luigi Bisignani. E a ben guardare i protagonisti sono sempre gli stessi e riportano a galla una guerra che si consumò nel 2008, quando nel cambio della guardia tra il governo Prodi a quello Berlusconi, l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti fece fuori tutti gli uomini dell’ex numero uno di via XX settembre Vincenzo Visco. Il deus ex machina di quella operazione di spoil system fu Marco Milanese, ex Gdf, ex braccio destro, indagato nell’inchiesta sul Mose e accusato di aver intascato una mazzetta da 500mila euro. Ma la vera mente dell’operazione di occupazione del potere da parte dei tremontiani fu Vincenzo Fortunato, ex magistrato, potente capo di gabinetto del ministero dell’Economia per quasi dieci anni, che caso vuole sia stato fino al marzo del 2014 “collaudatore” proprio del Mose, del sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dalle maree. A nominarlo nel 2011 insieme a Pietro Ciucci, presidente di Anas, fu il Magistrato dell’Acque di Venezia, allora ancora di nomina della cricca del capo supremo, Giovanni Mazzacurati. Grazie alla Gdf gli indagati sapevano di essere intercettati. Spaziante, arrestato giovedì scorso all’Hotel Savoia di Milano, secondo gli inquirenti, è stato un tassello fondamentale per la cricca bipartisan che gestiva il giro delle tangenti su un’opera faraonica da svariati miliardi di euro. Perché oltre a collaborare insieme a Milanese per sbloccare i fondi del Cipe, teneva informati i sodali della cricca sulle indagini della Guardia di Finanza. Non solo. Consigliò pure a Mazzacurati di acquistare un blackberry con una nuova scheda telefonica per evitare di essere ascoltato. Nell’ordinanza di custodia cautelare i magistrati spiegano nel dettaglio le richieste che i vertici del Consorzio Nuova Venezia volevano sapere sulle inchieste in corso. E’ l’allora generale della Gdf della provincia di Venezia, Walter Manzon, perquisito nei giorni scorsi, ad attivarsi. E a chiedere al colonnello Renzo Nisi, l'ufficiale che per primo ha indagato sul Cvn scoprendo il marcio delle acque veneziane, di fornirgli le informazioni delle ultime indagini in corso. Nisi è il cosiddetto «buono» di tutta la vicenda, grazie al suo operato l'inchiesta non è stata insabbiata. Nel 2013 è stato trasferito a Roma e prima di andarsene disse: «La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga». Come si legge nei verbali agli atti, Nisi, uomo appunto integerrimo, non avendo in quel momento «alcun tipo di sospetto trattandosi di dati richiesti da suo diretto superiore gerarchico» fornì i dati. E’ il 26 ottobre del 2010. Grazie all’intervento di Speziante e Manzon la cricca viene a sapere tutto. «Il nominativo dei soggetti nei cui confronti sono in corso le indagini tecniche e la qualifica»; il tipo di intercettazioni in corso, se ci fossero cimici o fossero solo intercettati i cellulari; le utenze monitorate dalla fiamme gialle per conto della procura. Per questo motivo Mazzacurati e Spaziante non parlano mai al telefono, perché sanno di essere intercettati. Ma il 3 dicembre del 2010 una microspia piazzata nell’ufficio delll’ex presidente del Cvn svela che il gran burattinaio del Mose conosce la situazione. Ne parla con un ex diplomatico, Antonino Armellini. E svela: «Mi hanno detto di una telefonata che hanno registrato con il dottor Letta, una con Matteoli...le hanno registrate». L'accordo con la Guardia di Finanza trovato nella casa di Baita: 2 milioni di euro per orientare le indagini. Il sodale di Mazzacurati è Piergiorgio Baita, l’ex top manager della Mantovani costruzioni, Il re del project financing arrestato lo scorso anno, altra gola profonda nell’inchiesta. È nella sua casa che gli inquirenti trovano in un'agenda la conferma dell’accordo con il relativo importo delle spese a «risultato raggiunto». E nel corso dell'interrogatorio Mazzacurati spiega che non solo Milanese ringraziò dopo aver ricevuto una tangente di 500mila euro («Io ho un po’ di ritegno su queste cose, mi colpì» dice ai magistrati), ma che dopo si trovò a dover fronteggiare le richieste di Spaziante che per «orientare le indagini» chiedeva una tangente di 2 milioni di euro. Di questi soldi Mazzacurati ne verserà solo un quarto in due tranche, nel 2011 e 2012. «Mi rifiutai di corrispondere altro denaro, anche per le difficoltà di reperire una somma quale quella richiesta» afferma durante l’interrogatorio del 9 ottobre del 2013. Servizi segreti e magistrati. Oltre a Giuseppone della Corte dei Conti, anche lui arrestato e anche lui addetto, secondo gli inquirenti, a dare una mano al Consorzio Nuova Venezia, nelle carte dell'inchiesta ci sono pure i magistrati del Tar. E' soprattutto Claudia Minutillo, ex segretaria del Doge Giancarlo Galan, a raccontare ai magistrati delle lotte interne alla burocrazia italiana, alla Gdf e ai Servizi. La Minutillo racconta anche degli intrecci tra Baita, Corrado Crialese, avvocato cassazionista e numero uno di Adria Infrastrutture già in Fintecna, e Bruno Amoroso, presidente del Tar di Venezia. Lo stesso Baita conferma a più riprese di aver pagato giudici del Consiglio di stato fino a 120 mila euro per avere sentenza favorevoli. Se nelle carte dell'Expo 2015 spunta il nome del numero uno del Dis Giampiero Massolo, in quelle sul Mose è sempre la Minutillo a raccontare altri dettagli sull'assuzione di una figlia «di uno dei servizi segreti». Si legge: ««I cognomi di queste due ragazze sono significativi: una si chiama Splendore, il cui padre è comandante dei Servizi segreti (si tratta del direttore dell'Aise del Triveneto Paolo Splendore ex Sisde noto alle cronache per aver lavorato con Bruno Contrada ndr), che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della Laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse».

1. MOSE, LE MAZZETTE-VITALIZIO: “PAGA FISSA, VIAGGI E HOTEL”, scrive Paolo Berizzi per “La Repubblica”. Mose ha aperto le acque, sotto c’è il baratro di Venezia. Un fondale melmoso dove hanno strisciato per dieci anni politici squali affamati di tangenti «anche dopo il pensionamento», tipo vitalizio, «pacchetti e pacchettini» per «ristrutturare la villa» come è riuscito a Giancarlo Galan al quale, bontà sua, non bastassero i muratori pagati dalla Mantovani spa, casualmente nella torta Mose, era assicurato «uno stipendio annuo di 900mila euro». Più morigerato, ma forse è solo questione di ruoli e di tempi, il sindaco Giorgio Orsoni: 560 mila. Una tantum anzi no, a rate. «In tre mesi ho portato i soldi a casa sua», confessa Giovanni Mazzacurati. Il «capo supremo», il «re», il «monarca», l’«imperatore», il «doge». Lo chiamano così i sottoposti, le iperboli che si addicono a chi presiede il consorzio a cui è stata affidata un’opera da 5miliardi, «il progetto più grande del mondo». «Il capo supremo era scoglionato... ma poi è diventato tutto arzillo dopo la cena con il mio amico di Padova » (il sindaco di Padova Zanonato, ndr), dice del suo dominus uno dei più fidati collaboratori. Avevano addosso gli occhi dei sindacati: «C’è uno che al Tg3 ha detto: “È ora di finirla, questi qua fanno soldi con il Mose, poi vengono qua e si comprano la sanità pubblica”». Questi qua sono loro, il branco di piranha che s’addensava intorno agli squali. I «loro» imprenditori. Quelli che «prima li paghiamo — i politici — e poi andiamo a batter cassa». Dice ancora l’ingegnere Mazzacurati: «Adesso con i tagli grossi vengono pacchetti piccoli... ». Glieli portava direttamente lui i soldi al consigliere regionale Pd Giampiero Marchese, invero non il più ingordo giacché il «meccanismo », come lo chiamano i magistrati nelle 710 pagine di ordinanza del gip Alberto Sacaramuzza, si accontentava di piccole tranches «da 15 mila euro a volta». Più che un’idrovora una cerniera, Marchese. «Era il collettore di soldi del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) per la sinistra. Galan e Chisso (Renato Chisso, assessore regionale forzista alle Infrastrutture, ndr) lo erano per la destra». C’è un codice più o meno sofisticato che i mazzettari della Laguna osservavano per tessere la loro rete. È fatto di «dazioni obbligate», «rendite di posizione», «fondi neri» che qui, splendido anagramma della corruzione, diventano «fondo Neri» (dal nome di Luciano Neri, il “cassiere” di Mazzacurati” del Cvn). Bisogna leggere attentamente le parole del gip. «Il meccanismo — annota — arrivava al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori». Un abisso «talmente profondo che non sempre è stato possibile individuare il singolo atto specifico contrario ai doveri d’ufficio». Eccoli gli ingranaggi del meccanismo. C’è un sindaco che nella sua bella casa di San Silvestro, due passi dal ponte di Rialto, riceve il corruttore: il «grande amico» Mazzacurati. Un caffè veloce? «Ho saturato la cifra richiesta», ammette il costruttore. «Anche tranches da 150 mila euro». Non è uno che va per il sottile il «doge». «Tutti i nostri amici gonfiano», ammonisce al telefono. Fatturazioni off shore, «esterovestizione» per dirla con l’economichese della polizia tributaria. Ma anche di carta igienica si parla. Racconto di Pio Savioli, responsabile del Consorzio per i rapporti con le cooperative: «Il magistrato alle Acque era in subordine al Consorzio Venezia Nuova... cioè Venezia Nuova li comprava... sudditanza psicologica e anche operativa... Cioè gli comprava anche la carta igienica, è vero, non è una battuta». Tutto nello stesso contenitore che tiene dentro squali, piranha e pesci piccoli. «Le nomine del Magistrato delle Acque da sempre le ha fatte l’ingegnere Mazzacurati — dice Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e imprenditrice del cemento — Cioè faceva in modo che venisse nominata una persona a lui gradita, gradita al Consorzio». Non manca nessuno nel canovaccio di questa commedia dell’arte (di rubare). Il sindaco (Orsoni). L’assessore (Chisso). Il “governatore” (Galan). Gli altri politici da oliare (Marchese, Lia Sartori eurodeputata Pdl non rieletta). Poteva mancare il generale della Guardia di Finanza in pensione? No, infatti è spuntato lui, Emilo Speziante. «Con Mazzacurati si incontrano nella residenza romana dell’imprenditore ». Residence Ripetta, via di Ripetta. Il doge gli chiede un occhio di favore. E qualche soffiata. Speziale è richiesto di «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Cvn». Tutto bene oliato con «la promessa di 2,5 milioni di euro». Il sistema Mose sapeva essere riconoscente. Anche quando uno lasciava il suo incarico. Anche dopo la pensione. «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha cessato l’incarico o quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale», recita l’ordinanza del gip. Si chiama «rendita di posizione». Un «conguaglio», o «stipendio fisso» che «prescinde dal singolo atto illecito commesso». Così ingrossava il conto Vittorio Giuseppone, ex magistrato della Corte dei conti. Così Orsoni e Chisso e Lia Sartori potevano farsi le campagne elettorali ma non solo. «Orsoni prima ha fatto una cifra e poi l’ha aumentata», dice Mazzacurati che del primo cittadino veneziano ricorda, in alcune occasioni, la prudenza. «Chiedeva di consegnare denaro a qualcuno che lo copriva». I «pacchettini» sono scivolati di mano in mano dal 2003 a oggi. Ognuno riceveva in base a quanto era in grado di dare. Ecco, se esiste un asso pigliatutto quello potrebbe rispondere al nome di Giancarlo Galan. «Era a libro paga dei costruttori del Mose», scrive il gip. Tra 2005 e 2008 l’ex governatore e fedelissimo berlusconiano si è messo in tasca emolumenti per 900 mila euro l’anno. Un affarista il Galan che esce dalle carte. Tra conti a San Marino e pacchetti azionari nelle società coinvolte negli affari della Regione, con il suo fidato assessore Chisso faceva lavorare «imprese con le quali era in debito». «Galan ha continuato a chiedermi denaro anche dopo la scadenza del suo mandato in Regione», dice l’ad della Mantovani spa Piergiorgio Baita. VERA E PROPRIA LOBBY. Questo era il Consorzio Venezia Nuova. «Un gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d’interesse», scrive il gip. «Buste bianche» e «bigliettoni». E poi viaggi. Viaggi per agganciare i big della politica. Come Tremonti, allora superministro, a cui Mazzacurati prova a arrivare attraverso il suo braccio destro Marco Milanese oliato con 500mila euro. «Prenotami una stanza al Grand Hotel», chiede il “Doge” alla sua segretaria. «Sì, che in quei due giorni c’è Matteoli che parla». Non gli è andata giù, a Mazzacurati, che il governo abbia nominato Ciriaco D’Alessio presidente del Magistrato alle Acque. «Oggi vedo il Dottore», promette sior Giovanni. Il Dottore è Gianni Letta. Lo riceva a Roma il 23 settembre 2011. Ma forse Letta non basta. «Lì ci vuole un atto di imperio di Berlusconi». Così parlo l’uomo del Mose prima che le acque si aprissero.

2. IL MANAGER REO CONFESSO “AL GENERALE SPAZIANTE TRECENTOMILA EURO” - MAGISTRATI E 007 A LIBRO PAGA PER SPIARE LE INDAGINI, scrive Paolo Colonnello per “La Stampa”. «Questo incontro che Mazzacurati aveva fatto con Meneguzzo avrebbe comportato il pagamento di due milioni e mezzo alla Guardia di Finanza, di cui 300 mila subito e il conferimento a Meneguzzo (ad di Palladio Holding, ndr) di 300 mila euro all’anno, più 400 mila euro di fee… Seppi poi che la Guardia di Finanza a cui si riferiva era il generale Emilio Spaziante e, oltre ai 300 mila euro, ne furono richiesti altri 200 mila…». Parola di Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani Costruzioni, grande reo confesso di questa vicenda. Per esempio: «Se il presidente della Regione mi dice: “Mi dai una mano?”, lei gliela dà, non si chiede perché». Chiede il pm: quindi lui chiedeva e voi davate? «Per forza, come fai a dire di no?… Sì ma, voglio dire, Galan non era più governatore, era ministro, eh!…». Non c’è scampo: un milione all’anno «di stipendio», più lavori in villa pagati. Ricatti, intrighi, spionaggio, tangenti: c’è di tutto in questa marea di schifezze che sta sommergendo Venezia. Confronto alla cricca maneggiona e un po’ millantatrice che ruotava intorno all’Expo, questi del Mose sono un’organizzazione di geometrica potenza il cui fine «era quello di una sistematica e continuativa condotta corruttiva di pubblici ufficiali, sia in qualità di funzionari che di politici… essendo la corruzione finalizzata all’ottenimento di finanziamenti e di lavori da parte delle società consorziate rientranti nel gruppo Mantovani». Un gruppo che, a partire dall’ingegner Baita, finito nel mirino anche nelle inchieste milanesi di Expo, per arrivare al «Grande Vecchio» del Consorzio Venezia Nuova, l’ingegner Giovanni Mazzacurati, (liquidato l’anno scorso dalla società pubblica con 7 milioni di euro) si era strutturato perfino con un servizio di «controspionaggio» per intercettare le inchieste che li riguardavano. Ed è questo, forse, il dato più inquietante che emerge dall’indagine e che si riassume nel nome del generale di corpo d’armata Emilio Spaziante, un passato nei Servizi Segreti, fino a due mesi fa numero due della Guardia di Finanza, che ieri gli ha messo le manette. Al generale, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova», vengono promessi da Mazzacurati 2 milioni e mezzo di euro, di cui 500 mila versati e spartiti con Marco Milanese, altro personaggio plurinquisito (è indagato nell’inchiesta Bpm), ex braccio destro del ministro delle Finanze Giulio Tremonti, e con Roberto Meneguzzo, Ad di Palladio Holding, gruppo finanziario vicentino molto noto. D’altronde la torta da spartire era quasi illimitata: 5 miliardi di euro per salvare Venezia dalle sue acque ma non dagli squali, e avere in concessione la quasi totalità degli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun confronto tra costi e progetti alternativi. Nelle carte è documentato un incontro tra il generale e Meneguzzo nella sede di Palladio a Milano l’8 settembre 2010 per ricevere una parte dei soldi. Scrivono i giudici: «Ecco che proprio nel momento in cui riceve i soldi, Spaziante chiama per 4 volte il comandante del Nucleo della Gdf di Venezia che stava svolgendo attività di verifica, per dimostrare… di essere in grado di acquisire notizie riservate sulle indagini». Del resto, i benefici effetti del rapporto tra il presidente del Consorzio Mazzacurati e Spaziante, mediato da Meneguzzo, si vedono in fretta: «Sei mesi di registrazioni… il mio telefonino, mi hanno detto è ancora sotto controllo fino alla fine dell’anno», spiega Mazzacurati all’ex diplomatico Antonio Armellini. «Mi hanno detto, che mi hanno registrato una telefonata con Matteoli (l’ex ministro di An finito sotto inchiesta, ndr) e col dottor Letta… pensi che la telefonata che mi hanno raccontato io me la ricordavo benissimo…». Secondo i magistrati la rete di spionaggio comprendeva di tutto: da magistrati contabili, a poliziotti, a funzionari dei Servizi. L’acqua marcia di Venezia.

3. MOSE, LA SEGRETARIA DI GALAN AI PM: “PER LUI UNO STIPENDIO DALLE AZIENDE”, scrive Mario Portanova per "Il Fatto Quotidiano". “La cosa era molto variabile, si può considerare un milione l’anno”. Così, agli atti dell’inchiesta della Procura di Venezia sul Mose, che ha portato all’arresto di 25 persone, tra le quali il sindaco Giorgio Orsoni, è descritta la retribuzione di Giancarlo Galan, già presidente della Regione Veneto e attuale deputato di Forza Italia, da parte delle aziende che si sono aggiudicati i lavori del sistema di dighe mobili destinato a proteggere la città lagunare dall’acqua alta. Un affare da oltre 5 miliardi di euro. A raccontarlo ai pm, nell’interrogatorio del 31 luglio 2013, è Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, che raccoglie appunto quelle imprese. Una conferma arriva ai magistrati da Claudia Minutillo, segretaria di Galan all’epoca dei fatti, poi passata alla Mantovani costruzioni, grande protagonista dei lavori del Mose: ”Era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. Dall’ordine di custodia – che per quanto riguarda l’onorevole Galan dovrà essere esaminato dalla Camera – emergono tanti altri pagamenti. Un milione e 100mila euro per ristrutturare la villa sui Colli Euganei; 200mila euro consegnati nel 2005 all’Hotel Santa Chiara di Venezia da Piergiorgio Baita, allora presidente della Mantovani Costruzioni, diventato la gola profonda dell’inchiesta con ampie confessioni, per finanziare la sua campagna elettorale.  E ancora: 50mila euro, nello stesso anno, versati in un conto corrente presso S.M. International Bank Spa di San Marino. Più altri finanziamenti per altre campagne elettorali consegnati sempre da Baita alla Minutillo. Ed è ancora la segretaria a raccontare ai pm che un’ulteriore ricompensa consisteva nell’”intestare quote di società che avrebbero poi guadagnato ingenti somme dal project financing a prestanome dei politici di riferimento”, Galan in primis. Qual era, secondo l’indagine, la contropartita di retribuzioni così sostanziose? Dalla Regione, per procedere con i lavori, il Consorzio Venezia Nuova doveva ottenere essenzialmente la Valutazione d’impatto ambientale e la salvaguardia per la realizzazione delle dighe in sasso.  Da qui, secondo l’accusa, la necessità di ungere abbondantemente le ruote. In interrogatorio, a proposito dei soldi versati a Galan e all’assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso (Forza Italia), Baita parla di “fabbisogno sistemico” e afferma: “Credo che noi abbiamo pagato tra Adria e Mantovani 12 milioni di euro. Penso che ne siano stati retrocessi sei”. Galan ha un ruolo fondamentale: è lui ad accompagnare Mazzacurati, presidente del Consorzio, al cospetto di Gianni Letta, quando quest’ultimo è sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo di Silvio Berlusconi. Nel 2006, ricostruisce il gip Alberto Scaramuzza, “la giunta regionale  - presidente Giancarlo Galan, relatore Renato Chisso – individuava nel segretario alle Infrastrutture Silvano Vernizzi il ruolo del presidente della Commissione di valutazione di’impatto ambientale. In violazione della legge regionale 10/1999″, che assegna il compito “al segretario regionale competente in materia ambientale”.  Passo successivo, “l’estromissione” di un ente di controllo terzo, l’Ispra, emanazione del ministero dell’Ambiente, sostituito dalla Regione medesima per iniziativa, ancora, di Chisso. Dice Baita nell’interrogatorio del 28 maggio 2013: per “l’approvazione da parte della Commissione Via della regione Veneto delle dighe in sasso, Mazzacurati mi disse che gli era stato richiesto dall’assessore Chisso a nome di Galan il riconoscimento di 900mila euro. Altro episodio specifico è stata l’approvazione in Commissione di salvaguardia del progetto definitivo del sistema Mose per il quale, sempre attraverso l’assessore Chisso, ma a nome del presidente Galan, fu richiesta la somma di ulteriori 900mila euro”. Era Chisso a farsi portavoce delle richieste, “perché Galan lo pressava”. E ancora Baita, il 27 settembre 2013, a precisare ai pm che le somme non erano per il partito, ma “per il singolo lucro del singolo destinatario”. Da qui l’accusa di corruzione, e non di finanziamento illecito. Il comportamento del presidente della Regione, scrive il gip, ha “particolannente danneggiato l’interesse pubblico alla tutela ambientale“. Secondo Baita, i versamenti a Galan sono continuati anche quando il politico padovano non era già più presidente del Veneto. Lo conferma in interrogatorio, il 19 marzo 2013, l’ex segretaria dello stesso Galan, Claudia Minutillo, secondo la quale i pagamenti non erano finalizzati a ricompensare i singoli passaggi amministrativi del Mose. “Le procedure andavano avanti (…), ma era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. “Come fosse uno stipendio“, chiede il pm? “Sì, di fatto”. Tanto che “Baita a volte si lamentava di quanto veniva a costare Galan”. Soldi comunque ben spesi, a quanto spiega ancora Minutillo: “A fronte dei pagamenti, il governatore e l’assessore Chisso agevolavano il Gruppo Mantovani nella presentazione e nell’iter burocratico relativo al project financing che le società del gruppo Serenissima Holding presentavano in Regione. Quasi sempre era la Mantovani a presentare il progetto, ma i tempi di presentazione, i lavori in relazione ai quali presentarli erano concordati con il Galan e il Chisso da parte del Baita”. Tale era poi il controllo di Galan su “commissioni e assessorati”, che qualunque progetto passava senza “alcun tipo di intoppo o di obiezione”. E’ Mazzacurati a ricordare, per esempio, quella volta che Galan tornò precipitosamente in sede per far approvare un’opera in laguna, funzionale al cantiere Mose, “contrastata dai Verdi”. Fra le contestazioni a Galan c’è quella di aver ottenuto il pagamento della ristrutturazione della propria villa di Cinto Euganeo, nel padovano. Nel 2007/2008 venne ristrutturato il corpo principale del casale e nel 2011 la “barchessa”. Per portarli a termine, la Tecnostudio Srl “sovrafatturava alla Mantovani alcune prestazioni effettuate presso la sede e per il Mercato Ortofrutticolo di Mestre”. La ristrutturazione della villa quindi a Galan non costò nulla: con le fatture false a pagare era la Mantovani Costruzioni. Il politico di Forza Italia, più volte ministro e attuale parlamentare, si dichiara estraneo a tutta la vicenda. “Dalle prime informazioni che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d’informazione, mi dichiaro totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare”.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.  “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.

FINANZA E GIUSTIZIA.

«L’archiviazione, falla al più presto per il mio amico Berneschi». Anche l’avvocato Andrea Baldini nelle intercettazioni della maxitruffa: il banchiere lo pressava perché facesse chiudere il caso, scrive Cristina Lorenzi su “La Nazione”. Un pasticciaccio brutto che ha coinvolto banchieri, magistrati, avvocati, professionisti. L’arresto di Giovanni Berneschi, ex presidente di Carige e vice della Cassa di risparmio di Carrara, e di altre sei persone per una presunta truffa ai danni della banca ha avuto come effetto domino una ricaduta su procuratori e avvocati della nostra zona coinvolti dalle intercettazioni telefoniche a ambientali. Nello specifico Berneschi avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio, attraverso la gentile intercessione dell’avvocato di Pontremoli Andrea Baldini e della moglie di quest’ultimo Pasqualina Fortunato, detta Lilly, giudice del lavoro alla Spezia. Casus belli il nostro articolo sulla cronaca di Carrara della Nazione attraverso cui lo stesso Berneschi sarebbe venuto a sapere di essere indagato in seguito a una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Poli denunciò alla Procura, e sul nostro giornale, di essere stato rovinato, fino al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia, circa 2 miliardi di lire, dallo stesso Berneschi, da Araldo Michelini, funzionario di Carige, e dal figlio di quest’ultimo il commercialista Enrico, adesso irraggiungibile. Dalle intercettazioni emerge che Baldini sarebbe stato incaricato da Berneschi di informasi a che punto era in Procura la denuncia di Poli. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: «Sono andato a parlare con Caporuscio...il quale procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer sì... sì la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l’ha data solo perchè son io eh!...». Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. «Grazie all’intervento di Lilly (sua moglie, ndr) è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi». Non si sa se le dichiarazioni di Baldini abbiano riscontri di verità o se, come riferisce di lato lo stesso avvocato, abbia «raccontato un sacco di balle per rassicurare una persona depressa, agitata e instabile», di fatto sulla denuncia per truffa di Poli dalla Procura della Spezia era già partita la tanto attesa richiesta di archiviazione. Richiesta che non avrebbe nemmeno avuto bisogno di tante spinte dal momento che Poli riferisce di fatti avvenuti 20 anni fa e quindi facilmente soggetti a prescrizione. Tuttavia la denuncia sembra bruciasse particolarmente a Berneschi visto che lo stesso Baldini si prende la briga di rassicurarlo: «E’ il più bel giudice che c’è a Spezia... intelligente e buona. Vado da lei a parlarle e le dico Oriana... il mio amico Berneschi... C’è l’archiviazione, falla al più presto possibile. Lei lo archivia e a questo punto siamo liberi di fare tutto quello che vuoi». E Berneschi risposte: «Il giornalista che scriva quattro righe. Sulla diffamazione gli voglio far paura eh». Con Berneschi, 77 anni, sono finiti nei guai anche l’ex numero uno di Carige Vita, Ferdinando Menconi, 67 anni, l’imprenditore immobiliare Ernesto Cavallini, 66, sono tutti e tre ai domiciliari. L’avvocato svizzero Davide Enderlin, 42 anni, l’imprenditore Sandro Calloni (61), il commercialista Andrea Vallebuona (51) e la nuora di Berneschi Francesca Amisano (48) sono invece in carcere. Le ipotesi di reato vanno dalla truffa al riciclaggio.

Carige - Indagine su 4 magistrati talpe di Berneschi: nomi e dettagli, scrive “Oggi Notizie”. Se nei giorni scorsi si diceva che era partita la caccia alla cosiddetta talpa in Procura che avrebbe aiutato Giovanni Berneschi, quando era presidente del Cda di Carige Spa a portare a termine la truffa e il riciclaggio ai danni della stessa banca, ora, mentre le indagini procedono serrate, ecco che si scopre come le talpe, in realtà, sarebbero state almeno quattro, e le procure coinvolte tre. La Procura di Torino ha infatti ricevuto da quella di Genova gli atti relativi a sospetti contatti tra magistrati vicini a Berneschi. Le procure interessate sono quella di La Spezia, Savona e Milano. Nello specifico Berneschi, secondo quanto emerge dalle indagini della Guardia di finanza di Genova nel merito della presunta truffa a Carige e Carige Vita Nuova, attraverso l'avvocato di Pontermoli Andrea Baldini e la moglie di quest'ultimo, Pasqualina Fortunato, detta Lilly, magistrato del lavoro a Spezia, avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio. A Savona il procuratore Francantonio Granero, procuratore capo, il cui figlio Gianluigi Granero è consigliere del Cda di Carisa, avrebbe offerto suggerimenti processuali a Berneschi nell'ambito del crack Geo Costruzioni in cui risulta indagato. A Genova l'ex vice presidente di Carige Vita Nuova Ferdinando Menconi avrebbe assunto informazioni da un "vice procuratore" sull'indagine sulla Carige. Tutto ciò si evince dalle intercettazioni telefoniche e ambientali sviluppate dalla Finanza (coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente e dal sostituto Silvio Franz). A La Spezia Berneschi aveva appreso il primo marzo del 2013 da un articolo della Nazione di essere indagato in seguito ad una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Un funzionario di Carige lo avrebbe portato alla rovina, giungendo al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia. E lui, ad un passo dal tracollo, aveva denunciato tutti, anche Berneschi. Baldini era stato incaricato di informarsi sul caso. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: "Sono andato a parlare con Caporuscio... procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer si... si la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l'ha data solo perchè son io eh!... Cossu... mi son consultato con lui dico... inc.le... io mi appoggio a Gianardi... va benissimo?". Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. "Grazie all'intervento di Lilly (sua moglie) - dice - è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi". A Savona, Berneschi è coindagato nell'ambito del crack della Geo Costruzioni. Convocato per un interrogatorio e si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dell'episodio l'11 novembre 2013 Berneschi riferisce a Baldini, i finanzieri annotano: "Sono andato a Savona e il giudice mi dice: ma... non risponda per favore (si sente Berneschi ridere) si avvalga della facoltà di non... solo per far casini... e gli ho detto giudice lo dice lei, però se permette le dico anche fuori verbale dico due tre cose...  quindi, non ho risposto però però gli ho già detto tutto...". Il giudice è il procuratore Francantonio Granero titolare dell'inchiesta sul crack Geo Costruzioni con Ubaldo Pelosi. Poi Genova. Ferdinando Menconi il 13 febbraio del 2014 dice al telefono: "Il vice procuratore di Genova... mio carissimo amico mi ha detto te non sei... stattene fuori" invitandolo a discostarsi dagli affari in e con Carige. Qualche giorno prima, in un'altra conversazione, Menconi dice: "Ma comunque io credo che a Genova sorprese... c'è il procuratore capo... già procuratore capo momentaneamente... di Di Lecce... che tra l'altro lui mi ha detto che è di sinistra, di magistratura democratica... aver fatto una domanda, allora fra un anno e mezzo va in pensione... chiedo a lui... quello che lo è già stato due anni adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè e tutto... non credo... non credo... poi tutto può.. in quest'Italia, figurati...". Il procuratore di Genova Michele Di Lecce ha affermato di avere inviato questi atti a Torino, procura competente su presunti reati commessi da magistrati liguri.

Carige e lo scandalo talpe, indagine su 4 giudici, scrive "Il Secolo XIX". L’inchiesta sulla maxi-truffa a Carige si trasforma in uno tsunami per pezzi da Novanta della magistratura ligure. La Procura di Genova invia infatti a Torino tutte le intercettazioni nelle quali banchieri, immobiliaristi e prestanome arrestati giovedì scorso, chiamano in causa almeno quattro fra giudici e pm quali presunte “sponde” nella loro ricerca di protezioni e informazioni segrete. È un passaggio cruciale, che si consuma mentre vengono depositate nuove carte nel fascicolo che ha portato ai domiciliari in particolare l’ex presidente di Carige Giovanni Berneschi, l’ex numero uno del comparto assicurativo Carige Vita Ferdinando Menconi e l’immobiliarista Ernesto Cavallini. I primi due, secondo l’accusa, erano soci occulti dell’imprenditore, e facevano comprare a Carige Vita immobili e società di Cavallini a prezzi spropositati; poi si dividevano la “cresta”, che nascondevano all’estero tramite vari prestanome. Dai nuovi documenti si capisce meglio quali erano, potenzialmente, «le inquietanti entrature» di Berneschi e Menconi «in ambienti giudiziari in tutta la Liguria». Partendo da Genova, il primo magistrato su cui si concentrano gli accertamenti è l’attuale procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico. È Menconi a circoscriverne la figura parlando con Walter Malavasi, che di Carige Assicurazioni è stato condirettore generale. Non lo nomina direttamente, ma definisce «carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato» il magistrato che ha retto la Procura genovese prima dell’insediamento di Michele di Lecce, e che attualmente gli fa da vice. Solo Scolastico corrisponde a quel ritratto e al Secolo XIX risponde: «Non si fa mai il mio nome; inoltre, io ho la scorta e si potranno facilmente verificare i miei movimenti. Conoscere Menconi? In Liguria si può sapere chi sono i massimi dirigenti di una banca, ma escluso un rapporto di frequentazione come quello descritto in quelle conversazioni». «Situazione delicatissima», per sua stessa ammissione, è quella dell’attuale procuratore capo della Spezia Maurizio Caporuscio. Un colloquio telefonico fra l’avvocato spezzino Andrea Baldini (ex componente cda Carige) e Berneschi rivelerebbe come proprio Caporuscio fece in modo che fosse fornita all’ex numero uno dell’istituto genovese la copia d’una denuncia «riservata», che l’imprenditore Gianfranco Poli sporse contro lo stesso Berneschi per truffa. Non solo. Sempre Baldini spiega a Berneschi che grazie all’intercessione «della Lilly» (per i finanzieri si tratta di sua moglie Pasqualina Fortunato, magistrato del lavoro di nuovo alla Spezia) la Procura chiederà l’archiviazione del fascicolo. «Al momento non voglio aggiungere altro - conclude Caporuscio - risponderò a chi mi verrà a chiedere conto». Baldini rifiuta invece commenti su di lui e la moglie: «Siete molto cari - dice al telefono - arrivederci e tante grazie». In un altro stralcio si fa riferimento a un terzo magistrato spezzino, una donna dal nome forse travisato nelle registrazioni, che avrebbe favorito l’archiviazione. L’ultimo capitolo preso in esame sul fronte toghe chiama in causa capo dei pm savonesi Francantonio Granero. Berneschi, discutendo con il manager Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio cui doveva essere sottoposto a Savona, dov’è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che Granero gli avrebbe suggerito di non rispondere. E ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi Granero, membro del cda della Cassa di risparmio di Savona (controllata da Carige). «Tutto falso - replica Francantonio Granero - e sporgerò querela semplicemente perché non l’ho mai incontrato».

Talpa in Procura anche Torino indaga su Carige. Si cerca chi anticipava le mosse degli inquirenti. Nelle carte sequestrate il piano “Mungi la mucca”. Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. La caccia alla talpa può partire. Gli atti sull’informatore all’interno della procura di Genova sul quale potevano contare l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, e l’ex boss della controllata Carige Vita Nuova, Ferdinando Menconi, arrestati con altre 5 persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, sono in partenza per la procura di Torino, competente sui magistrati del capoluogo ligure. Lo conferma il procuratore capo, Michele Di Lecce, che ha affidato il coordinamento delle indagini dalla Guardia di Finanza all’aggiunto Nicola Piacente e al pm Silvio Franz. «Devo uscirne perché sento odore di procure - dice, intercettato, Menconi -. Ho delle previsioni... il viceprocuratore di Genova, mio carissimo amico, mi ha detto... stattene fuori». Menconi però si sente le spalle coperte e qualche tempo dopo parlerà dei magistrati che hanno in mano l’inchiesta Carige: «Quello lì - dice riferendosi al pm Silvio Franz - sogna di risolvere un problema che non ha risolto in sette anni, in realtà non risolve un cazzo». Previsione errata: passa qualche mese, Menconi viene arrestato. Nelle 122 pagine dell’ordinanza del gip Adriana Petri ci sono anche altri riferimenti. Primo novembre 2013, Berneschi dice all’avvocato toscano Andrea B.: «Devi farmi un piacere, devi vedere se a Genova c’è qualche contenitore a nome mio, mi segui? Mi hai capito?». Risponde il legale: «No, per ora mi risulta che è tutto contro ignoti».  Ed ecco la telefonata fra Menconi e Sandro Maria Calloni, prestanome di Berneschi: «Lo trasmettono due miei amici che son venuti qua due volte... il capo della sala operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi... gli dai un nome e un numero, data di nascita, nome e cognome ti leggono la vita e tutto... Prima avevo anche la Legione Carabinieri, l’Investigativa qui di via... dove c’è la Questura... Il numero uno... a prendere il cappuccino più volte... poi lo abbiamo aiutato... andato ai Servizi... Ma quello là, l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico chi è questo testa di cazzo, sai quello che minacciava... l’han buttato fuori». La gestione disinvolta e truffaldina ha finito per creare una voragine nei conti, mentre il titolo in Borsa è crollato nel giro di due anni, bruciando i risparmi di migliaia di piccoli azionisti. Duecento di questi hanno promosso una class action e si sono affidati all’avvocato Mirella Viale dello studio legale bolognese Galgano. Ieri la sesta sezione del tribunale civile di Genova avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’iniziativa: si è invece dichiarata incompetente, rimandando la questione alla prima sezione. Se ne riparla fra una decina di giorni.  Sempre ieri la nuora di Berneschi, Francesca Amisano, è stata interrogata per due ore in carcere dal Gip. «Ha risposto a tutte le domande - dice il suo avvocato, Enrico Scopesi - Ha detto di non sapere nulla della provenienza del denaro. E di essersi limitata a eseguire regolari operazioni di compravendita». Il lavoro degli inquirenti, intanto, si allarga. Durante le ultime perquisizioni nelle case degli indagati sono stati trovati appunti, accordi e anche il business plan dell’operazione “Mungi la Mucca”, quella che secondo gli inquirenti ha portato Banca Carige, guidata dall’ex padre-padrone Berneschi, a ripianare i debiti del ramo assicurativo, nominare ad Menconi e farlo diventare filtro di acquisizioni supervalutate. L’operazione serviva per costituire le plusvalenze che, tramite la società dell’immobiliarista Ernesto Cavallini, finivano in Svizzera.  “Mungi la Mucca”, appunto. Ossia Carige Vita Nuova che comprava alberghi, quote societarie, società intere, proprietà immobiliari che venivano stimate da un commercialista che era anche consulente di Carige (Andrea Vallebuona, arrestato) che provvedeva a gonfiarne il prezzo. Nell’inchiesta ci sono altri quattro indagati per riciclaggio in concorso: le mogli di Menconi (Adriana Westerweel) e Calloni (Maria Imelda Bellini Dominguez), il commercialista Alfredo Averna, collega di Vallebuona (arrestato) e l’avvocato Ippolito Giorgi di Vistarino. Nell’inchiesta “madre” su Carige, nata dalla relazione di Bankitalia, ci sono invece una decina di indagati: ostacolo alla vigilanza e falso in bilancio.

Carige, nel 2002 inchieste archiviate. Il gruppo era sponsor della squadra del GIP.

Dall'ordinanza che ha portato all'arresto dell'ex presidente Berneschi emergono rapporti strettissimi con giudici e forze dell'ordine. Entrature grazie alle quali poteva verificare l'esistenza di procedimenti a suo carico e addirittura condizionarne l'andamento. E sui dipendenti a rischio diceva: "Quelli si mandano via", scrive Ferruccio Sansa da Il Fatto Quotidiano di sabato 24 maggio 2014. “Sento odore di Procure… io c’ho delle previsioni… il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, così dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova e braccio destro di Giovanni Berneschi indicato dai suoi amici come il “Magro”. A Genova vacilla anche il Palazzo di Giustizia. Si apre il capitolo sui rapporti della magistratura con un potere per anni risparmiato dalle inchieste. E la Liguria si scopre malata fino al midollo. Sono finiti in manette gli uomini che hanno dominato la regione, quelli cui tutti – a destra e a sinistra – baciavano la pantofola. Prima Claudio Scajola, re del Ponente. Poi Luigi Grillo, che dominava a Levante. Quindi Giovanni Berneschi, che con la sua Carige (dove sedevano mezza famiglia Scajola, amici del centrosinistra e uomini della Curia) teneva i cordoni della borsa e distribuiva centinaia di milioni di finanziamenti (come all’operazione immobiliare degli Erzelli, voluta dal centrosinistra e sponsorizzata da Giorgio Napolitano). Intanto l’amico Ior comprava – e rivendeva – cento milioni di bond Carige. Liguria, primatista di scandali. Qui sono in ginocchio la Lega di Francesco Belsito e l’Idv di Giovanni Paladini e Marylin Fusco. Quasi mezzo consiglio regionale è nei guai per i rimborsi. Le “entrature” negli ambienti giudiziari – Ora tocca alla magistratura. Come mostra l’ordinanza che ha portato all’arresto di Berneschi, Menconi e altre cinque persone (ci sono dieci nuovi indagati). Così il gip Adriana Petri motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (originario di Pontremoli, marito di magistrato e considerato vicino alla famiglia del suo concittadino, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. Il 28 ottobre 2013 Berneschi chiama Baldini: “Devi vedere se a Genova ci sono contenitori (fascicoli, ndr) a nome mio”. E Baldini: “Qui non c’è ancora aperto niente!… No, per ora non c’è… Da quello che mi risulta dalla persona che si è mossa, è tutto contro ignoti”. Interpol, carabinieri, servizi: solo millanterie? – Ce n’è anche per carabinieri, Interpol e servizi. “Menconi – annota il gip – cita le sue numerose conoscenze presso esponenti di vertice delle varie forze pubbliche”. Ecco l’intercettazione: “…se poi ricade nel penale… gli viene trascritto all’Interpol e lo ricevono anche là! Lo trasmettono due miei amici… son venuti qua due volte… il Capo della Sala Operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi… prima c’avevo anche la Legione Carabinieri… c’è l’Investigativa dei carabinieri, il numero uno… a prendere il cappuccino più volte… poi lo abbiamo aiutato… andato ai Servizi… ma quello là che fa l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico…”. Millanterie? I magistrati sono convinti di no. Scrive il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti penali che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. Quali sono le “ragioni diverse”? In Tribunale c’è chi ricorda che proprio la società assicuratrice della Carige, guidata da Menconi e Berneschi, era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 – dopo un lavoro immane del Gico – archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna oggi è in pensione, indagato a Torino per presunte false sponsorizzazioni della sua squadra. Tra i cronisti c’è chi ricorda le reprimende di passati vertici della Procura in occasione di inchieste giornalistiche su imprenditori legati al centrosinistra e soci di Carige, che erano sponsor della squadra di Fucigna oltre ad avere legami di amicizia con gli allora vertici della Procura e della Corte d’Appello. I vertici del Palazzo di Giustizia ora sono cambiati. I 140 dipendenti? “Quelli si mandano via” – Ma le carte genovesi contengono altro. A cominciare dalle operazioni che avrebbero provocato a Carige un danno di 34 milioni. Con il padre padrone della banca che, secondo le accuse, spenna la sua creatura come un pollo: “Vengano a far tutte le indagini che vogliono… non mi possono accusare di riciclaggio, perché è una vita, da 35 anni che accumulo”. Così ecco, a sentire la Finanza e i pm Nicola Piacente e Silvio Franz, il tentativo di Berneschi di ripescare il consuocero morto per usarlo come prestanome quando scopre di essere indagato per altri 13 milioni scudati: “Va bene, io approfitterò del tuo cognome”. La donna (arrestata) si allarma: “Nonno, per favore, qualsiasi cosa ne parliamo un attimino”. Intanto, sostiene l’accusa, la “banda del magro” avrebbe investito dalle Canarie alla Cina, soprattutto nei porti. Fino al progetto di trasferirsi a Panama. Pagine che faranno rabbrividire i dipendenti Carige. Mentre la “banda del magro”, incassati 34 milioni, si scanna per consulenze da 200mila euro, la Carige Vita Nuova rischiava di licenziare: “L’ideale… è che società così… vadano in commissariamento, il commissario manda via i dipendenti… mi preoccupa il fatto c’ha 140 persone…”, dice Menconi. Berneschi, annota il gip, non sembra preoccuparsi: “Quabielli si mandano via”. Il commercialista Vallebuona: “Io i milioni in tasca li ho infilati” -  Ecco in 127 pagine il ritratto dell’Italia delle banche, della Liguria del potere. Con frasi inconsapevolmente geniali, come quando Berneschi definisce Menconi “testa di pera”. Come quando parla dei milioni come di “ragazze” e poi di “vecchie un po’ rincoglionite”. Come la “banda del magro”. O quella breve autobiografia stile Blade Runner del commercialista Andrea Vallebuona: “Io qualche cazzatina nella mia vita l’ho fatta… passare un confine con duecentomila… milioni in tasca infilati, io l’ho fatto, morendo di paura… ho capito che poi certe cose era meglio non farle, però le ho imparate sulla mia pelle”. O forse su quella dei dipendenti Carige.

Carige e i regali allo Ior, "Anche il Papa chiamò per avere spiegazioni". Dalle intercettazioni spuntano gli affari con la banca vaticana Il manager: "Assunte 28 persone tra parenti o amanti di giudici", scrivono Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. Anche papa Francesco ha "indagato" su Carige e lo Ior. Le intercettazioni dell'inchiesta che ha portato agli arresti l'ex presidente della banca genovese, confermano l'esistenza di quell'asse bancario Genova-Vaticano che nasconde ancora segreti. Rivelano un inquietante intreccio di rapporti tra l'istituto diretto dal vicepresidente nazionale dell'Abi Giovanni Berneschi e la magistratura ligure: "C'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri o amanti di magistrati liguri " dice Ferdinando Menconi ex ad del comparto assicurativo anche lui ai domiciliari. In un'intercettazione dell'11 novembre del 2013, racconta il verbale dei finanzieri della tributaria che "Berneschi parla di papa Francesco che avrebbe chiamato i tre vescovi del ponente ligure a Roma per chiarire la faccenda legata allo Ior. Due giorni fa Berneschi dice di aver ricevuto monsignor Luigi Molinari il quale per conto di Bagnasco (Angelo, cardinale di Genova e presidente Cei, ndr) voleva sapere cosa era successo tra la Fondazione e lo Ior". Si tratta dell'operazione del 2010 voluta dal presidente di Fondazione Carige Flavio Repetto (nemico giurato di Berneschi). In pratica 100 milioni di euro di obbligazioni acquistate dallo Ior che però non si trasformarono in azioni come preventivato e vennero poco dopo rilevate dalla Fondazione la quale, peraltro, non incassò i diritti visto che "aveva deliberato di metterli a disposizione dello Ior". Berneschi si confida con l'attuale vicepresidente della Fondazione Roberto Rommelli: "Lo Ior, non puoi regalare da 7 a 9 milioni al... Papa, no, non c'entra il Papa.. a Bertone, mi segui?". Sull'operazione il ministero delle Finanze ha chiesto chiarimenti, anche alla luce delle elargizioni, 2008 e 2010, della Fondazione ad ambienti vicini al cardinale Tarcisio Bertone: 300mila euro alla Lux Vide per i dvd della fiction La Bibbia e 90mila euro per le stole dei vescovi. Dal sacro al profano, ossia le relazioni "proibite" tra il potente banchiere e i magistrati. L'episodio più inquietante è quello che riguarda La Spezia. Berneschi utilizza l'avvocato Andrea Baldini, ex consigliere Carige, affinché si interessi della querela presentata contro di lui da un imprenditore della Val di Magra, Gian Paolo Poli. Il legale lo aggiorna: "Sono andato a parlare con Caporuscio (Maurizio, procuratore capo, ndr) e gli ho detto... ehm ... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi vediamo subito! ... ha aperto il computer sì ... sì la pratica è qua, è nelle mani di (segue nome di un pm, ndr) quindi è riservatissima... me l'ha data solo perché son io eh!". Baldini informerà successivamente Berneschi che è stata chiesta l'archiviazione e lui andrà dalla gip che "tra l'altro è una f...". La moglie, il giudice Pasqualina Fortunato, interviene nel colloquio spiegando che non è riuscita a convincere una segretaria ad ottenere informazioni e allora ha detto al marito: "Andrè, va a parlà tu cò Maurizio direttamente". Altro fronte imbarazzante quello genovese dove Menconi al telefono con un amico spera che l'attuale procuratore capo Michele Di Lecce vada presto in pensione e spiega che gli è stato detto da "quello che (procuratore) lo è già stato due anni e adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè". Il riferimento sembra essere a Vincenzo Scolastico, unico ad aver ricoperto la funzione, che però nega categoricamente tale frequentazione. Sembra invece pura millanteria il riferimento ad un colloquio che Berneschi dice di aver avuto con il procuratore di Savona Francantonio Granero (il figlio Gianluigi è consigliere della controllata Carisa) quando il banchiere venne indagato per la prima volta. Granero nega di aver mai incontrato Berneschi. Parlando della polemica tra la Coop e Esselunga che a Genova incontrò grandi difficoltà ad aprire un punto vendita, Menconi dice "l'artefice del rinvio è stato Berneschi... la sinistra, c'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri, amanti di magistrati liguri". Berneschi racconta invece di quando fu processato e assolto per la scalata alla Bnl: "Sulla pratica Bnl... non ho sbindato di una virgola, però ... se avessi avuto paura e dicevo "eh si quelli dell'Unipol mi hanno fatto delle pressioni" il signor Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr) era morto".

Anche l’Ing De Benedetti è intoccabile, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Anche mia nonna invecchiando si fece un po’ più dura. Ma mai quanto Carlo De Benedetti. La sua è una parabola micidiale. Sembra quel cartone animato, Cattivissimo me. Nella fiction il cattivone è un buono, ha solo l’aria dello spregiudicato delinquente. Deb, l’Ing, Cdb, insomma il Nostro, invece sta diventando proprio cattivello. Proviamo a citare i suoi ultimi bersagli. «A Marchionne darei un voto 4 in sincerità, a Romiti zero, a Elkann il voto dei nipoti. Colaninno? Un poveraccio. Agnelli? Un pessimo imprenditore. Il Vaticano una fogna. Tronchetti? Un incapace». E poi ancora sulla gestione Telecom da parte di Mtp: «La comunicazione è fatta bene, la rapina ancora meglio». Ma guai a replicare. Ci ha provato, incautamente, Tronchetti e si è beccato una querela e un’inchiesta da parte della Procura di Milano per diffamazione a mezzo stampa, con annessa aggravante della continuità del reato. Insomma Mtp rischia il carcere perchè Carletto non tollera la seguente frase: «Se anche io raccontassi – si legge nell’avviso di conclusioni indagini, in riferimento ad una dichiarazione rilasciata all’Ansa da Tronchetti – la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli…». Abbiamo cercato di ricostruire punto per punto i casi citati da Tronchetti per capire dove ci fosse la diffamazione o il sanguinario insulto da dover lavare con una pena massima, comprese le aggravanti, di sette anni.

LO SCANDALO LEGATO ALLE POSTE. Se c’è una cosa sicura come il sole sono le tangenti pagate dalla Olivetti, guidata da De Benedetti, per fornire apparecchiature alle Poste. Non è un luogo comune, è una certezza. E a confessarlo, assumendosene la responsabilità, è lo stesso De Benedetti. In questo senso Tronchetti è fin troppo generoso. Una domenica mattina, in piena bufera Tangentopoli, Deb si presenta in una caserma dei carabinieri (è il 16 maggio del 1993) e ammette davanti a Di Pietro di aver pagato stecche per una ventina di miliardi di lire, di cui solo 10 per forniture alle Poste. Presenta un memoriale in cui racconta la rava e la fava. Repubblica, di sua proprietà, in un famoso titolo detta la linea della casa: «Era un clima da racket, o pagavi o non lavoravi». De Benedetti pagò. Eccome. Solo dopo un paio di giorni rilascia un’intervista al Wall Street Journal, sperando, forse, che De Pietro non avesse il tempo di leggerla, o non capisse l’inglese. La reporter, Lisa Bannon, nota: «De Benedetti non chiede scusa per le tangenti pagate e dice che lo rifarebbe, perchè queste erano le regole del gioco negli anni 80». Cdb, tra le virgolette, dichiara: «Lo rifarei con lo stesso disgusto con cui l’ho fatto negli anni passati». Insomma è il contesto che gli fa fare quelle cose brutte. Ohibò. Chissà se oggi, per fare un esempio, l’Expo può ispirare medesime giustificazioni. Il filo tra concussione e corruzione è sempre sottile. Come quello che c’è tra dichiarazione spontanee e paracule. Cdb all’epoca disse di essersi liberato da un macigno nel fornire il suo dossier a Di Pietro. Eppure nel medesimo documento scrive, riguardo alle tangenti alle Poste: «Ho visto che è circolato il nome Olivetti». Inoltre avevano già pizzicato tal Lo Moro, il grande collettore delle mazzette Olivetti. Insomma il cerchio si stava chiudendo. La dichiarazione è spontanea, ma giusto un attimo prima…Quanto è valso all’Olivetti di De Benedetti sottoporsi a questo racket? In cinque anni circa 600 miliardi di lire. Nel 1987 Ivrea fatturava 2 miliardi con le Poste, l’anno dopo 205 miliardi. Già nel 1983 Olivetti aveva predisposto una bella voce di bilancio per l’abbisogna. La dicitura era: spese non documentate. Insomma si erano preparati contabilmente a subire quei mascalzoni dei politici. Indro Montanelli su questo giornale scrisse: «Forse i piccoli e indifesi devono subire, ma per i grandi che avrebbero avuto tutti i mezzi – compresi i più autorevoli organi di stampa – per resistervi, la corsa al Principe era non solo voluttuaria, ma anche voluttuosa». Tronchetti non si preoccupi, la memoria sulle tangenti viene e va all’Ing. Due settimane prima della consegna del memoriale a Di Pietro, lo stesso Ingegnere davanti all’assemblea degli azionisti e in conferenza stampa giurava: «Non ho mai pagato tangenti». Dopo due settimane mise nero su bianco il contrario. In seguito Cdb provò a difendersi: queste cose «si dicono prima ai magistrati e poi alla stampa». Ahi ahi ahi, non ci siamo anche con questa. Circa dieci anni prima, il 16 giugno del 1985, lo stesso Ingegnere, meno rispettoso evidentemente delle prerogative della magistratura, urlò al mondo intero: «Per l’affare Sme mi hanno chiesto tangenti». Dopo qualche settimana fu ovviamente convocato dal magistrato Pasquale Lapadura all’oscuro di tutto, che dopo poco archiviò. Come la mettiamo con la storiella delle tangenti che prima si raccontano ai magistrati e poi alla stampa? Qualcuno può forse contestare che «la vicenda di apparecchiature alle Poste» non sia stata scandalosa? E soprattutto qualcuno ha il coraggio di slegarla da Carlo De Benedetti, dopo che proprio lui ammise tutto con un memoriale e un’intervista cazzuta al Wall Strett Journal?

L’INGEGNERE FINI' DENTRO PER TANGENTOPOLI. Anche questa affermazione è vera. Della tangentopoli postale abbiamo abbondantemente parlato. Sergio Luciano, in un’intervista per la Stampa, il 18 maggio del 1993 chiese al Nostro: «Oltre che fornire prodotti alle Poste, l’Olivetti ha avuto molti altri rapporti con la pubblica amministrazione. Ha dovuto pagare anche per questo? Risposta di Cdb: «Non posso rispondere, c’è il segreto istruttorio». Bene così. Poche settimane prima uno dei manager di punta delle sue aziende (la Sasib) aveva ammesso di aver pagato due miliardi estero su estero a Dc e Psi, relativamente ad alcuni appalti per la metro milanese. Si parlò di stecche per i pc dei magistrati e del sistema informatico dell’Inps. Ma il punto fondamentale è: l’Ingegnere finì o non finì in galera? Per una giornata, per una benedetta giornata, la risposta è sì. A Roma, a Regina Coeli. Dal memoriale, cosiddetto spontaneo, sono passati solo sei mesi. Il 31 ottobre del 1993 due magistrati romani, Maria Cordova e il gip Augusta Iannini, spiccano un mandato di cattura. A Milano l’Ing è indagato; a Roma temono che possa inquinare le prove o reiterare il reato. La Repubblica ci dice che entra in carcere con doppiopetto grigio e camicia celeste e che, dopo le formalità del caso e l’ufficio matricola, gli verrà consentito di mantenere la fede al dito. Il cronista, con enorme sprezzo del pericolo, nota come lo psicologo di Regina Coeli «sia rimasto colpito dalla chiacchierata con De Benedetti e che alla fine i due si sono salutati come vecchi amici». Più dura la Iannini che spiega i motivi del provvedimento per la «pericolosità sociale» e il rischio di reiterazione del reato. Il pm lamenta che ci sono fatti nuovi: macchinari scadenti accatastati al ministero. Gli arresti si tramutano dopo poco in domiciliari. Il processo finirà con assoluzioni e prescrizioni. Ma una cosa è certa: l’Ing tecnicamente dentro c’è finito. E lo diciamo senza alcun compiacimento. La Iannini recentemente alla nostra Anna Maria Greco ha detto: «L’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura nel confronti dell’Ingenger De Benedetti è abbondantemente motivata, mettendo in luce una serie di elementi esistenti a carico dell’indagato» che nell’interrogatorio di garanzia aveva ammesso di aver pagato «alcuni miliardi per corrompere al ministero delle Poste chi aveva garantito all’Olivetti l’acquisto di telescriventi obsolete». Comprendiamo sia duro ricordare l’episodio alla ex tessera numero uno del Pd, come all’epoca fu duro per Eugenio Scalfari ammettere che De Benedetti non fosse quel «cavaliere solitario non intaccato da nessuna macchia e nessun compromesso» che il direttorone sperava.

DE BENEDETTI E' STATO DISCUSSO PER MOLTI BILANCI OLIVETTI. La parola discusso è il minimo che si possa dire. L’ingegnere De Benedetti è stato indagato per false comunicazioni sociali, falso in bilancio e insider trading. E se non fosse stato per le cosiddette (proprio dal gruppo De Benedetti) leggi ad personam fatte da Silvio Berlusconi, oggi probabilmente avrebbe la fedina penale meno linda. Un po’ di discussione la concediamo dunque? Sarebbe erroneo dire che l’Olivetti sia tecnicamente fallita. Ma che i suoi bilanci siano stati un colabrodo questo è provato. Nell’estate del ’96 succede il patatrac. Negli ultimi tre anni Ivrea aveva perso ai livelli di un ubriaco al tavolo della roulette: 3mila miliardi di lire. Nel settembre del 1995, l’ubriaco aveva chiesto ai soci risorse fresche per 2.250 miliardi. A luglio del 1996 l’Ingegnere si dimette da amministratore delegato per lasciare il posto a Francesco Caio che si porta con sè come capo della finanza Renzo Francesconi. Dopo poche settimane di lavoro i due capiscono che le cose sono peggio del previsto, l’azienda è in coma etilico, e vogliono nuovi quattrini e un piano di salvataggio da parte di Mediobanca. Caio mette nero su bianco le sue considerazioni pessime sui conti. Il titolo crolla. La semestrale post aumento di capitale brucia 440 miliardi. L’uomo dei numeri sbatte la porta e dice: «Sul piano strategico si possono fare mediazioni, sui numeri e la cassa, no». La Procura di Ivrea e la Consob iniziano ad indagare. Che sta succedendo nei bilanci di Olivetti? Passa qualche settimana e i giudici di Torino aprono un fascicolo per insider trading. L’Ing. avrebbe venduto allo scoperto titoli Olivetti prima della semestrale, per poi ricomprarli a valori più bassi dopo la stessa. Giulio Anselmi sulla prima del Corriere della Sera il 18 settembre di quell’anno scrive: «Tutti ricordano nel caso Olivetti quattro bilanci consecutivi accompagnati da promesse di pareggio. C’è da stupirsi se diffidando della trasparenza contabile delle aziende italiane si dà credito ai giudici». E ancora «il dato più grave e sconcertante è il fatto che l’ipotesi di enormi perdite occulte nei conti del gruppo di Ivrea non sia apparsa immediatamente inverosimile, ma sia stata considerata da tutti, analisti finanziari, banchieri, gestori di patrimoni tristemente possibile fino a prova contraria». La storia finisce con un patteggiamento per l’insider trading che gli costerà 50 milioni. Anche la partita del falso in bilancio si conclude con un patteggiamento. Ma la sentenza nel 2003 viene revocata. Sapete perchè? Grazie alla revisione del reato di falso in bilancio introdotta nel 2002 da Berlusconi. E non diteci che sui bilanci di Deb e sui falsi non ci sia stata alcuna discussione. Tronchetti, se proprio vogliamo, si è dimenticato il caso di insider. Su cui la discussione si è chiusa con un patteggiamento.

DE BENEDETTI COINVOLTO NELLA BANCAROTTA DEL BANCO AMBROSIANO. Vi diciamo subito che questa vicenda è davvero intricata. E a beneficio degli avvocati dell’Ingegnere che, come si è capito, sono dal grilletto facile, bisogna dire che il Nostro alla fine ne è uscito pulito. Chiaro? Pulito. Assolto dalla Cassazione. Ma il punto resta. Tutto si può dire tranne che l’Ing. non sia stato coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano. Se non si può dire neanche questo, bisognerebbe fare una legge speciale per la quale appena si nomina l’Ing. si inizi a cospargere di petali il suolo e si declami: bello, bravo e buono. Vi risparmiamo i dettagli. Ma la cosa è semplice. De Benedetti fa un passaggio veloce nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ci rimane, come vicepresidente e azionista, per una sessantina di giorni. Lui sostiene di esserne uscito senza una lira di plusvalenza. L’universo mondo pensa che abbia realizzato un guadagno di 30 miliardi. Peppino Turani dalla Repubblica sintetizzò: «Calvi si è dichiarato pronto a riacquistare le sue azioni (51,5 miliardi più gli interessi) e a comprare le azioni Brioschi, di futura emissione, per 32 miliardi. De Benedetti non ha potuto rifiutare l’affare». I magistrati di Milano prima ipotizzano l’estorsione: Deb sapeva dei conti in profondo rosso del Banco e per il suo silenzio e uscita di scena, si è fatto profumatamente liquidare. La tesi viene respinta dal Tribunale. Ma si insinua un nuovo reato: la bancarotta fraudolenta. L’Ing. si fa liquidare sapendo del prossimo fallimento della banca. Viene condannato in primo grado a sei anni, in secondo ridotti a quattro. La Cassazione casserà per una illogicità procedurale. Ma è netta, poichè neanche rinvia ad un possibile riesame. De Benedetti ne esce pulito. Per scappare dal Banco ci mette 65 giorni, per liberarsi da questo gorgo giudiziario nove anni. Vi risparmiamo le dure critiche ai giudici che lo hanno condannato, alle insinuazioni e alle ispezioni che sono state fatte ai magistrati dell’accusa. Tutto troppo simile al caso Berlusconi, con la drammatica differenza del diverso esito in Cassazione. E allora si può dire che l’Ingegnere sia stato coinvolto nella bancarotta dell’Ambrosiano? Decidete voi. Con una postilla d’obbligo (prima di sparare, avvocati dell’Ing., leggete): e cioè De Benedetti è stato alla fine assolto. Buon per lui.

DE BENEDETTI FU ALLONTANATO DA FIAT. Un signore che conosce bene la Fiat di quegli anni, per averci lavorato, mi dice: «nel 1976, quando De Benedetti diventa amministratore delegato della Fiat e azionista al 5%, i soci erano debolissimi. Io non so se l’Ingegnere avesse in mano le carte per una scalata, di cui pure molto si parlò. In molti, all’epoca, pensavano che un golpe in Fiat si potesse fare. Anzi si può dire che ci furono solo due grandi manager Fiat che non ebbero questa ambizione: Romiti e Valletta. D’altronde De Benedetti poi, in Société Générale de Belgique, una scalata dalle modalità simili la mise in piedi». l nostro resterà al Lingotto per una centinaio di giorni e ne uscirà con un bel gruzzoletto. Appena arrivato non perde tempo, va dall’Avvocato, allora presidente del gruppo, e gli dice: «Bisogna mandare via 20mila persone e 500-700 dirigenti». L’avvocato fece un rapido passaggio per i palazzi romani tornò a Torino e replicò: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile un’operazione del genere». Chi allontana chi, allora? Cesare Romiti, l’uomo di Mediobanca in Fiat e anch’egli amministratore delegato del gruppo in quegli anni (due galli in un pollaio, che sciocchezza) in un’intervista rilasciata nel 2013 dice: «De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici: diceva in giro di essere il primo azionista individuale di Fiat. Cosa vera perchè gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi mi disse che bisognava cacciare via i dirigenti a lasciare a casa 50mila persone, l’Avvocato rispose: «Mi spiace non si può fare». «Allora me ne vado». «Va bene se ne vada» fu la risposta». E sulla possibile scalata, Romiti dice: «Non escludo che ci pensasse». Scalata o non scalata, anche in questo caso, come in quello del Banco Ambrosiano, è sempre difficile stabilire la verità. Ci sono sfumature che si giocano e nascondono in conversazioni che rimarranno sempre private. Ma pensare che De Benedetti, con le sue idee, potesse essere accettato e anestetizzato in azienda dall’Avvocato è davvero difficile.

RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!

E' CHIARO CHE LA SINISTRA E' A FAVORE DEI MAGISTRATI E CONTRO I CITTADINI, LORO VITTIME DESIGNATE. SI APPALESA CHI E’ CONTRO I CITTADINI PER TUTELARE LE TOGHE.

Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.

Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.

Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?

Sbatti l'azienda in prima pagina. Troppo spesso la magistratura è entrata a gamba tesa nella vita delle imprese, lanciando inchieste che poi si sono sgonfiate. Lo dimostrano le accuse della Procura di Parma sul caso Lactalis-Parmalat. Un copione che potrebbe ripetersi su Unipol-Sai e Ilva. Come ha chiesto Giorgio Squinzi, è un problema che va finalmente affrontato, scrive Oscar Giannino su “Panorama”. In nessun paese avanzato asset industriali restano per anni sotto il pieno controllo della magistratura. Il tema è stato seccamente posto da Giorgio Squinzi, all’ultima assemblea annuale di Confindustria. Poiché l’Italia ha tra i suoi numerosi nervi scoperti quello della legalità, i più hanno finto di non sentire. Ma è un errore di ipocrisia. Il tema andrebbe invece affrontato. Seriamente. Non è solo una questione di principio, visto che per dato di fatto i magistrati non hanno la competenza adeguata per giudicare piani aziendali, esaminati invece da periti delle Procure "attenti", come ogni perito di parte, ai fini del committente. Basta esaminare tre casi eclatanti in corso da anni, per capire che il problema esiste. Parmalat, Ilva e Unipol-Sai. In Parmalat, società quotata e dal luglio 2011 controllata dalla multinazionale francese Lactalis, solo il 26 maggio la Corte d’Appello di Bologna ha posto fine a un anno e mezzo di reiterate pronunzie della Procura di Parma volte alla revoca del cda e del consiglio sindacale, a seguito delle indagini civili e penali per l’acquisto di Lactalis America nel 2012. I procedimenti civili sono ora estinti, quelli penali no. A fine 2013 il cda si è dimesso, ad aprile in assemblea ne è stato eletto uno nuovo. Ma nell’anno e mezzo di scontro giudiziario nessun peso sembravano avere i risultati che Parmalat accumulava: nuove acquisizioni in Australia e Brasile, 24 prodotti nuovi nei 31 paesi in cui il gruppo opera, crescita del fatturato a parità di perimetro dai 4,4 miliardi del 2011 ai 5,7 nel 2013, aumento del margine operativo lordo da 374 a 493 milioni. Per l’Ilva, a luglio saranno due anni dall’arresto dei Riva. Da allora, una sfilza di provvedimenti giudiziari e molti divergenti nel merito, due decreti ad hoc dei governi Monti e Letta. Ma siamo al punto che il commissario straordinario Enrico Bondi ha un piano industriale che non convince né i privati né il pubblico, visto che il premier Matteo Renzi ha detto "così non va", promettendo novità a breve. La sopravvivenza delle produzioni è più che mai in gioco, le bonifiche e i relativi capitali ancora da vedersi. Per le indagini aperte dalla Procura di Milano sui concambi tra Unipol e Fonsai, è stato il senatore pd Massimo Mucchetti, di certo non sospettabile di pregiudizi avversi ai pm e favorevoli alla Consob di Giuseppe Vegas, a scrivere su Repubblica tutti i suoi dubbi, sul fatto che il magistrato possa far sicura questione di diritto partendo da opinabili valutazioni sulle analisi quantitative dei prezzi. Servirebbero interventi di legge. Volti a porre argini a una deriva cominciata con la legge 231 del 2011, che estende all’impresa, ai suoi manager e controllanti responsabilità amministrative e penali per reati compiuti da dipendenti. E che poi via via, con ordinanze e decreti ad hoc sui singoli casi aziendali, ha esteso le facoltà della magistratura di nominare commissari giudiziali che diventano capiazienda, e di inibire cda regolarmente nominati. La magistratura deve fare il suo dovere, non sostituirsi a proprietà e manager. Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei giudici

Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.

Sabelli (Anm): "Fatto grave". Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto "un fatto grave". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che : "in un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione". Con l'emendamento votato oggi "si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli - cioè un'introduzione dell'azione diretta di responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento occidentale e che presenta evidenti profili di incostituzionalità". Parte all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice: "E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio del magistrato". Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte dei conti "l'emendamento all'art. 26 della legge comunitaria, che prevede l'azione diretta di responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa, oltre ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli Stati membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus all'autonomia e all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino. "Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è  giusto, come chiede l'Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte contro i giudici e peraltro anche per mero errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - . Piuttosto bisogna proporre un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno". Nell'emendamento approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "La norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d'accordo la parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una proposta alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di mano del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento esistono proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso - aggiunge Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza Italia, come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata azzurra Daniela Santanchè, che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e gli organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente la volontà degli italiani. D'altro canto, l'astensione del M5S è del tutto vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini". Anche i 5 Stelle mostrano soddisfazione: "La nostra decisione di astenerci ha tirato fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il grillino Andrea Colletti.

A fine aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del Senato, l'emendamento del M5S che cancella l'art.1, cioè il cuore del testo.  Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma non colpisce magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia", dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla responsabilità civile dei giudici e qiundi a battere il governo, 187 a 180. "Il tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge, "non so perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il centrodestra".

E comunque in ogni giornalista c'è il comunista che è in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su “L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato, senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere “strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan (e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla necessità di rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come farlo. A presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge comunitaria in discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle, suona almeno in parte come una risposta della politica all’accanirsi della magistratura con inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti. “In questo momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, puntando l`indice contro chi, “proprio ora, cerca di intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”. Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente vero, infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria, era stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che il vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì (quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale), e soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori, i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema sia affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia del Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il via libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier - pur favorevole a cambiare la Vassalli - spiegò che “finché c’è un clima da derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”. Ecco, insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una pericolosa ambivalenza.

I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci ed in malafede.

Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto.

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.

La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.

Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.

«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».

Che rapporto ha avuto con l'Anm?

«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».

Separazione delle carriere?

«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».

Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?

«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».

Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?

«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».

A che serve il Csm?

«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».

Come va riformato?

«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».

Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?

«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».

Per questo volevano rovinarle la vita?

«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».

Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?

«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».

In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?

«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».

Il fantomatico terzo livello...

«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».

Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?

«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».

Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?

«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».

Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?

«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».

Come ricondurre le toghe nell'alveo?

«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».

Giudizio finale sullo stato della giustizia?

«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».

SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.

In occasione della prima udienza del processo d'appello per il caso Ruby, Franco Coppi, difensore di Silvio Berlusconi, ha commentato le pesanti esternazioni fatte dal suo assistito a Napoli, dove è stato sentito come teste al processo Lavitola. "Non l'ho sentito né prima né dopo, ma se ha fatto quelle dichiarazioni avrà avuto un motivo. Ed è stato sicuramente tirato per i capelli dal presidente, che poteva avere più garbo", ha concluso Coppi. A scatenare la furia dei magistrati è stata una frase del Cav pronunciata in Aula: "Magistratura incontrollabile. E impunita". Lo sfogo del Cav è arrivato dopo che la presidente della Corte aveva affermato: "Lei - rivolgendosi a Berlusconi - non deve capire il senso delle domande, deve rispondere". Terminata la testimonianza, Silvio ha parlato in Aula anche del ruolo dei giudici: "La magistratura è incontrollabile, irresponsabile e gode di immunità". L'esternazione del Cav arriva dopo una provocazione del giudice Giovanna Ceppaluni che gli aveva rivolto delle domande il Cav aveva chiesto spiegazioni in merito. La risposta del giudice però è stata piccata: "Lei non deve capire il senso delle domande". Il diverbio lo ha chiuso il magistrato affermando che "la magistratura è ancora tutelata dal codice penale".

Ruby: "Berlusconi condannato per nulla". La giovane: "Se mi avesse dato 5 milioni non dovrei chiedere soldi ai suoceri per fare la spesa", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”.  Lei non ci verrà, al processo che porta il suo nome, anche perché stavolta non l'hanno nemmeno invitata come «parte offesa». Parte stamattina 20 giugno 2014 il processo d'appello a Silvio Berlusconi, e per tutto il mondo è il «processo Ruby».

«Un soprannome che mi sono inventata quando avevo nove anni, e che adesso mi pesa. Vorrei liberarmene, vorrei tornare a essere Kharima, voglio essere la ragazza che vendeva tappeti in spiaggia a Catania. Ma non mi viene permesso, vengo massacrata in continuazione. So che il vero bersaglio non sono io ma è Berlusconi. Ma lui è maggiorenne e vaccinato, io invece devo pensare a difendere me stessa e mia figlia. E mi domando: quanto deve durare questo massacro?».

Converrà, signora el Mahroug, che una mano a questo putiferio lo ha dato anche lei. Nelle sue intercettazioni diceva di avere avuto rapporti con Berlusconi, «l'altra è la pupilla e io il c...». E ai pm quando l'hanno interrogata ha descritto le sere di Arcore in modo abbastanza colorito.

«Avevo diciassette anni, ero totalmente allo sbando, e in quelle telefonate mi attaccavo ad amiche che poi amiche non erano, e mi inventavo cazzate per darmi arie. Errori di gioventù che non credo di dover pagare in eterno. Il problema vero è quello che è successo dopo, quando sono arrivati i pm a interrogarmi, e ho capito subito che di me non gli interessava assolutamente niente, volevano solo e a tutti i costi questo signor Berlusconi, e io gli ho dato quello che volevano. Sono stata anche pittoresca, certo. Faccio mea culpa, va bene? Ma da qui a prendere per oro colato le parole di una ragazzina di diciassette anni scappata di casa ce ne corre».

E allora qual è la verità? Quella dei verbali, delle intercettazioni, degli interrogatori in aula?

«La verità è che Berlusconi mi ha rispettato più di tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita precedente nei locali e nelle discoteche. Gli hanno dato sette anni per nulla».

Per avere sostenuto questa versione durante il processo di primo grado, lei è stata incriminata per falsa testimonianza e oggi è sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari. I giudici dicono che Berlusconi ha comprato il suo silenzio.

«Io di essere sotto inchiesta l'ho saputo solo dai giornali, perché nessuno mi ha detto niente. È dall'inizio di questa storia che leggo tutto sui giornali. Sono sotto inchiesta? Bene. Io sono tranquilla, perché se Berlusconi mi avesse dato i cinque milioni di cui parlavo nelle intercettazioni, non sarei ridotta adesso a chiedere ai miei suoceri i soldi per fare la spesa. Invece quando cerco lavoro, anche come commessa, trovo solo porte chiuse perché la gente pensa "ma come, questa ha cinque milioni di euro e vuole lavorare, chissà cosa c'è sotto". Adesso forse ho trovato un posto in un ristorante a Milano. Se va male anche lì, andrò dalla Boccassini a chiederle di prendermi come donna delle pulizie».

Ilda Boccassini non è stata tenera con lei, nella sua requisitoria. L'ha accusata di «furbizia orientale».

«Io l'ho incontrata per la prima volta in aula, al processo, quando dovevano interrogarmi e poi non mi hanno interrogata. Poi ho letto quella frase e mi ha lasciata di sasso. Diciamo che non mi è sembrata per niente garbata né nei miei confronti né delle donne orientali. Mi è sembrata una frase razzista. E soprattutto mi ha lasciata incredula che una persona del livello della Boccassini non sapesse che il Marocco non è in Oriente. Magari adesso faccio una colletta e le regalo un atlante o un mappamondo».

Io sarei più cauto.

«Io sono stanca. Sono finita dentro una macchina da guerra, davanti a gente che non voleva sapere la verità ma solo perseguire un obiettivo, l'interesse non era per me ma per una persona che aveva un ruolo infinitamente più grande. Quando sono entrata in aula e ho letto scritto sul muro che la legge è uguale per tutti mi è venuto da ridere, perché in questi quattro anni ho potuto toccare con mano come per colpire una persona abbiano rovinato la vita e la psiche di una ragazza di diciassette anni. Grazie a loro sono stata coperta di spazzatura mediatica, ho dovuto cambiare città, a volte faccio ancora fatica a girare per strada. Mi sento trattata come un killer mentre i veri killer sono a piede libero».

SENTIAMO CESARE BATTISTI.

Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara, scrive Angela Nocioni su “Il Garantista”.  Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) – condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente – sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva.

«Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione», dice Battisti. «Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall’Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani».

Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare.

Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?

«Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.»

Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?

«Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.»

Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.

«Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no…»

Ti consideri un perseguitato dalla giustizia?

«No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l’attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta.»

Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac?

«La considero un’esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto.»

E’ vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l’arresto per rapina?

«E’ un’altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac.»

Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?

«Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono stati condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.»

E le prove documentali?

«Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.»

E perché ti avrebbero coinvolto?

«Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.»

Hai mai sparato?

«Contro persone no.»

E a chi sparavi? Agli uccelletti?

«Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.»

In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?

«Non facevo più parte dell’organizzazione.»

Ma c’eri o no?

«No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?»

Se ti fossero garantite delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?

«Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.»

Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.

«Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?»

Cosa è successo con Alberto Torregiani?

«Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.»

Da chi?

«L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.»

Non c’è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti?

«Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente.»

Francesi o italiane?

«Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto.»

E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?

«No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.»

E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?

«Perché evidentemente era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.»

Ti eri accorto di essere seguito?

«Era chiaro, non si sono mai nascosti.»

Allora perché ti nascondevi tu?

«Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti.»

In carcere in Brasile come sei stato trattato?

«Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c’era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito.»

Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro?

«A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.»

Parli di Lula?

«Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.»

Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?

«Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.»

Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?

«Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, A gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?»

Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?

«Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi.»

Compresi gli amici tuoi francesi…

«Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.»

Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?

Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.»

A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?

«Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?»

YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Venti domande ai magistrati del caso Yara poste da Marco Ventura su  “Panorama”. Sono ancora tante, troppe, le cose che non tornano di quest'inchiesta. E finché i giudici non le chiariranno, rimarrà sempre un dubbio sulla colpevolezza di Bossetti.  A qualche domanda dovranno pur rispondere magistrati e investigatori, O davvero vogliamo credere che il caso di Yara Gambirasio e del “presunto” assassino, Massimo Bossetti, sia chiuso e la conclusione di questa orribile storia già consegnata agli annali di criminologia? Parlano tutti. E parlano troppo. “Un’indagine pazzesca, faticosissima”, ha detto il pubblico ministero Letizia Ruggeri in conferenza stampa. Passate al setaccio 120mila utenze telefoniche dopo il ritrovamento dei resti della povera Yara tra gli arbusti di un campo incolto a Chignolo d’Isola, tre mesi dopo la scomparsa il 26 novembre 2010. Da lì s’è partiti per estrarre il Dna del cosiddetto “Ignoto 1”, trampolino per uno “screening altissimo di Dna dei residenti della zona”. Diciottomila, pare. E “l’individuazione del nipote del Guerinoni”. Il cadavere di quest’ultimo, autista a Gorno, riesumato si è rivelato quello del padre di “Ignoto 1”, il presunto assassino il cui codice genetico combacerebbe con la piccola traccia organica rinvenuta negli slip di Yara. E ancora: gli investigatori raccontano lo sconforto quando hanno capito che l’“assassino” non era un figlio legittimo ma andava trovata la madre naturale fra 500 donne con le quali Guerinoni aveva avuto contatti. E alla fine eccola, anziana, sposata, con figli. Ed ecco il figlio, e quel Dna “carpito” dalla saliva in un boccaglio, con la scusa dell’etilometro. È Massimo Bossetti, sposato e padre di tre figli fra gli 8 e i 13 anni. “Una indagine da scuole di polizia giudiziaria”, dice Raffaele Grassi capo dello Sco, il Servizio centrale operativo. “Un’operazione di assoluta avanguardia nel settore”, conferma il capo del Ros (carabinieri), Mario Parente. “Il Dna è stato il faro alla luce del quale proseguire le indagini, il puzzle è quasi completato”, conferma la Ruggeri. “Ho gioito come uomo, ma soprattutto come rappresentante di giustizia”, insiste il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, di solito così prudente. Il test del Dna “inchioderebbe” il carpentiere di Mapello. I risultati sono stati formalmente comunicati, spiega una nota dell’Università di Pavia cui appartengono i genetisti che hanno svolto le analisi, lunedì 16 giugno. Il giorno stesso Angelino Alfano, ministro dell’Interno, dava in pasto ai media “l’assassino”. In caserma Bossetti veniva ascoltato, e fuori c’era già chi gli urlava contro: “Bastardo, devi morire”. Eppure, manca tutto il resto: l’arma del delitto, il movente, il contesto, riscontri decisivi. Perfino la convalida del fermo, che poi non c’è stata in quanto il Giudice delle indagini preliminari ha stabilito che non c’era pericolo di fuga (ma, vista la gravità del delitto, ha disposto la custodia cautelare).

Le domande sorgono spontanee.

1.   È vero che la traccia organica sugli indumenti di Yara era talmente piccola che il test non è più ripetibile ed è perfino incerto che si tratti di sangue o altro?

2.   È vero che la cella alla quale si è agganciato il telefonino di Bossetti circa un’ora prima della sparizione di Yara nella zona della palestra potrebbe coprire pure la casa dove Bossetti sostiene di essere rimasto quella sera (col cellulare scarico, in carica)?

3.   Se è vero che è stato fatto lo screening genetico a 18mila persone e il cellulare di Bossetti era stato “captato” nella zona della scomparsa, perché il suo Dna non è stato analizzato in precedenza?

4.   E se lo è stato, che risultati ha dato?

5.   Qual è l’arma del delitto?

6.   Perché si parla di ferite punta-taglio? Giovanni Arcudi, direttore di Medicina legale dell’Università di Roma Tor Vergata, contesta che si possano riscontrare dopo tre mesi su un corpo in quelle condizioni.

7.   Se un processo accertasse che la traccia è di Bossetti, in assenza di altre prove il colpevole dev’essere per forza lui? (Nel delitto di Via Poma, il test del Dna non ha fatto condannare Raniero Busco, l’ex fidanzato, e in altri processi importanti lo scenario è cambiato nei gradi di giudizio, nel caso Meredith o in quello di Garlasco).

8.   Posto che centinaia di casi passati in giudicato in base a test del Dna negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sono stati poi inficiati da ulteriori indagini, si può dire che il Dna sia infallibile, o sia da solo una prova assolutamente certa? NB: gli stessi genetisti di Pavia parlano soltanto di “probabilità estremamente elevata, dal punto di vista statistico”.

9.   Non è strano che Bossetti sia arrivato a 44 anni, avendo compiuto un delitto così terrificante, senza che mai vi sia stata nei suoi confronti una denuncia, una segnalazione, un gossip per patologie o reati sessuali?

10.  Perché Bossetti in tre anni e mezzo non si è trasferito e anche negli ultimi tempi, con la madre sottoposta al test del Dna e lui stesso fermato per la rilevazione dell’etilometro, è rimasto tranquillamente al suo posto?

11.   Perché la madre, sapendo, si sarebbe sottoposta tranquillamente al test? È vero che Bossetti lo sapeva e non l’aveva fermata, anzi?

12.  Manca la prova di un contatto diretto tra Bossetti e la vittima. Possibile?

13. Se le prove sono così schiaccianti, perché Bossetti si ostina a proclamarsi innocente, estraneo, col conforto di tutta la famiglia?

14. Era proprio necessario trascinare nella pubblicità “negativa” tutte le famiglie coinvolte, compresi i figli minorenni?

15. Perché non sono state prese precauzioni per non calpestare la privacy di persone che col delitto non c’entrano nulla, per esempio il padre anagrafico di Bossetti, la stessa madre, e la vedova dell’autista di Gorno con relativi figli, fratelli, nipoti, etc.?

16. Che senso ha andare a perquisire la casa di Bossetti, dove vive tutta la sua famiglia, a tre anni e mezzo dal delitto?

17. Il Pm, Letizia Ruggeri, ha ricordato che secondo il fratellino, Yara era infastidita da un uomo che la guardava in chiesa. Possibile che ricordi qualcosa di utile un bambino che oggi ha 13 anni e allora ne aveva 9, e al quale sono attribuiti svariati ricordi (ultimo, quello di un uomo “col pizzetto” che osservava la sorella)?

18.  È giusto e legittimo fare a qualcuno (non indagato) il test dell’etilometro per un uso del suo Dna diverso da quello previsto? (Attenzione: questa domanda afferisce a diritti fondamentali).

19. Una pressione così forte della pubblica opinione, del governo e delle gerarchie di magistratura e investigatori, può aver indotto a una forzatura delle tracce, a un accanimento investigativo, come emerge anche dalle interviste a poliziotti e carabinieri (anonimi)? (NB: in passato un marocchino, Mohamed Fikri, è finito in carcere come l’assassino di Yara per la traduzione sbagliata di una telefonata ed è rimasto indagato per 2 anni e 8 mesi!).

20.  Perché trasferire alla pubblica opinione questo spettacolo di irritazione, gara a chi arriva primo e diversità di vedute, col ministro dell’Interno che annuncia la cattura dell’”assassino”, bacchettato dal procuratore capo di Bergamo che chiede riserbo e a sua volta usa toni di prudenza discordanti rispetto a quelli trionfalistici del procuratore generale di Brescia per il quale il caso è “chiuso” (mentre il questore di Bergamo lo smentisce)?

L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.

L’ultimo smacco a Enzo Tortora, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Questi sono alcuni estratti testuali della requisitoria del pm Diego Marmo nel luglio 1985:

Enzo Tortora ha sempre accusato la giustizia napoletana di averlo coinvolto in questa vicenda, non capisco bene perché, non è un mistero per nessuno che io sono convinto della responsabilità di Tortora ma non perché ne fossi convinto nel momento in cui ho messo piede in quest’aula ma perché me ne sono convinto leggendo gli atti, valutando il comportamento processuale ed extra processuale dell’imputato che mi serve non al fine di criminalizzare Tizio, Caio, Sempronio o Mevio, assolutamente no, ma mi serve soltanto il comportamento dell’imputato al fine di valutare la personalità dell’imputato”.

“Lo sappiamo tutti purtroppo che se cade la posizione di Enzo Tortora si discredita tutta l’istruttoria, questo lo sa Tortora ma lo sanno anche coloro che mandano i vari compagni a immolarsi su questo altare per potere screditare questa accusa”.

“Di Monaco, interrogato dal giudice istruttore Spirito che cosa dice: “Lo Iaculli mi fece il nome del presentatore Enzo Tortora”. Cioè significa che non ci può essere errore, non ci può essere dubbio, Enzo Tortora è uno solo, è l’uomo di Portobello, è l’uomo di Cipria, è il presentatore della televisione. Però poi si dirà che Enzo Tortora è Enzo Berri, ma io napoletano non lo conosco, non l’ho mai visto, gli auguro di avere la stessa notorietà di Enzo Tortora ma sicuramente non ha la stessa notorietà di Enzo Tortora”.

“Se prima ci poteva essere equivoco, adesso l’equivoco non c’è più. “Ecco il nostro compare”, perché gli altri detenuti sapevano, non si può giustificare diversamente, non si può dire che c’è stato errore di persona. Vuol dire che dietro queste lettere c’è un regista, c’è Enzo Tortora che fa di tutto per salvarsi da questa imputazione, e lo capisco perché lo fanno tutti gli imputati, ma non ha il diritto assolutamente di dire io combatto per voi, no, lui combatte solo per se stesso”.

“Di Enzo Tortora deputato non mi interessa assolutamente niente, e ci tengo a precisare ma non per giustificarmi, perché le istituzioni sono dalla mia parte, perché il fatto che il capo del mio ufficio abbia ribadito la sua fiducia nei miei confronti è un fatto che mi onora profondamente, quando sarò chiamato nelle sedi istituzionali dirò le mie ragioni. Però quando io ho parlato del voto camorrista non intendevo criminalizzare le centinaia di migliaia di persone che hanno votato Tortora, nemmeno mia madre che probabilmente ha votato Enzo Tortora. Però insisto nel dire che il voto del carcere di Poggioreale significa voto camorrista. Io analizzavo solo quella parte del voto, per dire che è un camorrista che ha chiesto l’appoggio degli altri camorristi, il signor Enzo Tortora è un camorrista, io sto qua per scalzare la presunzione di innocenza, é il mio mestiere quando me ne convinco, e ne sono convinto”.

“Questo Enzo Tortora è quello che ha detto sempre: “Io uscirò dal carcere solo se assolto perché sono innocente”, e se così avesse fatto io l’avrei rispettato veramente perché i signori d’onore io li rispetto, il signor Tortora invece ha pensato che il processo fosse uno spettacolo. Si è verificato che ha chiesto quello che tutto sommato chiedono tutti i detenuti, adombrato delle situazioni di salute per poter uscire dal carcere, con questo non voglio dire che un imputato deve morire in carcere, chi è malato deve essere curato, lo Stato deve attrezzarsi per curare i detenuti. Enzo Tortora ci dice che è malato, e che non può stare in carcere, non faccio della facile ironia, e sarebbe facile farlo sul carcere di Bergamo, la perizia conclude in un certo modo, il giudice disattende, il tribunale della sorveglianza concede. Però se andate a rileggere quelle cartelle cliniche, vedete che quell’imputato viene presentato come uno veramente malato. È quello stesso imputato che ha una vita frenetica, io che sono iperteso non riuscirei a fare un decimo di quello che fa questo signore. Allora sei malato o non sei malato, è vero o non è vero. Tortora non fa una vita tranquilla, in questo lo invidio, ben per lui, hai detto che uscirai dal carcere o libero o con i piedi davanti e invece fai di tutto per uscire dal carcere”.

“Sapete perché Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza e più uscivano le prove della sua colpevolezza. Gli accusatori sono tanti e tutti hanno una estrazione diversa, il signor Tortora abbia la dignità di dire ho sbagliato e di chiedere clemenza”.

Cosa è successo da quel lontano 1985 a oggi?

- Ieri 19 giugno 2014 il pm Diego Marmo è stato nominato assessore per la Legalità a Pompei, ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico e ambientale.

- Lui, insieme con gli altri giudici istruttori del processo Tortora, non ha subìto alcun procedimento disciplinare.

- I delatori del conduttore tv non sono mai stati incriminati per calunnia.

- La citazione di Tortora nei confronti delle toghe è stata archiviata dal Csm.

- Il referendum a favore della responsabilità civile dei magistrati non ha avuto alcun seguito.

- E naturalmente Tortora non era un camorrista.

C’è da indignarsi o no?

Lui è Diego Marmo, ed è il pubblico ministero del processo a Enzo Tortora, che venne arrestato il 17 giugno 1983 con l'accusa di associazione camorristica e traffico di droga, scrive “Libero Quotidiano”. Una delle più clamorose storie di malagiustizia in Italia, quella di Tortora. Una storia alla quale però non seguirono né scuse né autocritiche da parte del pm che lo accusava. Una storia di cui si ricorda il travaglio dell'innocente Tortora, i suoi problemi di salute, le violente campagne di stampa, la sofferenza del carcere e una carriera professionale completamente distrutta. Una storia che in qualche modo continua anche oggi: Marmo, infatti, è stato scelto dal sindaco di Pompei per diventare assessore. Nando Uliano, il sindaco neoeletto, lo ha chiamato a far parte della sua squadra: l'ex pm sarà uno dei cinque assessori, si occuperò di legalità e sicurezza ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico ed ambientale. Marmo è in pensione dopo una lunga carriera, che lo ha visto anche essere procuratore aggiunto di Napoli, prima di assumere la guida della procura di Torre Annunziata. Nel 2012 curò l'inchiesta sui crolli della schola armaturarum e della casa del moralista. Sulla nomina ad assessore ha spiegato al Corriere del Mezzogiorno: "Quando ho sentito della proposta il mio primo impulso è stato dire no. Poi ha prevalso il fascino della parola Pompei. E quindi mi sono detto che non era giusto rifiutare. Ho deciso di metterci la faccia".

Marmo, il pm del caso Tortora ora è assessore alla legalità, scrive

Si chiama Diego Marmo ed è stato nominato assessore alla legalità del Comune di Pompei. Che c’è di strano? Che Diego Marmo è un ex Pm e non è un ex Pm qualunque: è quel Pm che spedì in carcere Enzo Tortora, ce lo tenne mesi e mesi, si fidò di pentiti bugiardi, non gli indizi e definì Tortora un cinico mercante di morte. Va bene difendere coi denti la non-responsabilità civile dei giudici; va bene esaltare i meriti della magistratura; va bene pretendere autonomia indipendenza e insindacabilità. Va bene tutto, ma addirittura divertirsi ad esaltare la figura del pm che perseguitò Enzo Tortora, lo calunniò in modo feroce, cercò di annientarlo, e poi fu censurato da una clamorosa sentenza di assoluzione, diventando il simbolo dei simboli della giustizia ingiusta e della persecuzione, e decidere, proprio nell’anniversario del barbaro arresto del presentatore, di nominare questo ex pm assessore alla legalità del comune di Pompei…beh, è un po’ esagerato. Credo che persino molti magistrati perbene, onesti, seri, considerino offensiva la decisione del sindaco di Pompei che ha stabilito di affidare questo incarico all’ex pm Diego Marmo. Figuratevi se non siamo favorevoli al diritto all’oblio, anche per i giudici che sbagliano clamorosamente un processo. Figuratevi se siamo noi del Garantista a chiedere pene o vendette. Per carità! Però il valore simbolico di certe scelte non può essere negato. E l’ex pm Marmo è stato nominato assessore alla Legalità proprio nell’anniversario (il trentunesimo) dell’arresto di Enzo Tortora e dell’inizio del calvario che lo portò prima al linciaggio morale e al carcere, poi alla malattia e alla morte. Gli eroi non esistono, naturalmente. Però Enzo Tortora è un po’ un eroe del nostro tempo. Ha sopportato con incredibile dignità la persecuzione e non ha mai rinunciato a lottare. E’ riuscito a sgretolare il castello di accuse e a dimostrare la sua innocenza. Non ha mai perso i nervi, neppure quando il pubblico ministero Diego Marmo lo definì , testualmente, «un cinico mercante di morte», e neanche quando lesse il capo di accusa per colpa del quale gli mettevano le manette e lo chiudevano a San Vittore: ”associazione camorristica e traffico di droga”. Il caso-Tortora lo conoscete tutti: è stato un caso giudiziario vergognoso. Tra l’altro, i radicali proposero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati proprio come risposta a quella incredibile ingiustizia, dovuta alla superficialità dei magistrati dell’accusa. E vinsero il referendum: i cittadini decisero che i giudici avrebbero dovuto rispondere dei loro errori, come tutti gli altri cittadini, ma poi il governo cancellò quella decisione, stravolgendola. Tortora, al processo di appello, prima che la Corte si riunisse per emettere la sentenza, la sfidò pronunciando parole famosissime: «Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». I giudici che emisero la sentenza, per fortuna, erano innocenti: e assolsero Tortora senza l’ombra di un dubbio. Adesso, senza eccessi di polemiche, vorremmo rivolgerci anche all’Anm. Con una domanda sommessa: non vi sentite, in qualche modo, offesi anche voi da una decisione così sfacciata? Non credete che, ingiustamente, si finisce in questo modo per offuscare la buona reputazione di tanti magistrati forti e seri, dando a un pm che si porta addosso l’immagine e la responsabilità di quel clamoroso errore giudiziario, addirittura l’incarico di vigilare sulla legalità? Che messaggio si vuole trasmettere? Che la legalità si realizza meglio perseguitando un po’ alla cieca?

LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.

La repubblica dei magistrati. Quello dei giudici è un ordine che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. E che sancisce nascita e morte di politici e partiti, ma che ha correnti come un partito. Un ordine che fa politica e che fa paura, scrive Marco Ventura su “Panorama”. C’è un governo invisibile, diffuso, potentissimo, che fa le leggi, stabilisce che cosa è giusto e sbagliato, fa la fortuna o la sfortuna di aziende, città e categorie sociali, che disegna l’architettura dello Stato e riforma la legge elettorale (o si oppone alla sua riforma). Un governo che non è eletto, anzi non ha alcuna base rappresentativa, che risponde solo a se stesso e concede ai propri membri gli stipendi che desiderano. Un governo, un ordine, che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. Un governo che è anche un autogoverno. Che sancisce nascita e morte di politici e partiti, che ha correnti come un partito. Che fa politica, nelle grandi come nelle piccole cose. Che interviene nei casi di coscienza, sui temi etici, sociali, e siede su un gradino più alto rispetto ai rappresentanti del popolo e agli scienziati. Un governo che può proclamare la prevedibilità dei terremoti. Che vive crisi temporanee di potere solo per lo scontro fratricida dei suo esponenti più in vista. È il governo dei magistrati. Un governo i cui risultati, stando alla sua “ragione sociale” di garantire la giustizia, è fallimentare secondo gli standard europei (l’Italia è all’ultimo posto nella UE per numero di arretrati nella giustizia civile e al penultimo per durata media dei processi). L’Europa è scandalizzata dalla “irresponsabilità” per legge dei magistrati italiani che non pagano di persona per i propri errori, a differenza dei loro colleghi. La magistratura governa l’Italia, fa le veci di Palazzo Chigi ma anche del Parlamento. Costringe quasi l’Ilva a chiudere e il governo a fare decreti per evitare il tracollo dell’industria siderurgica italiana e di tutta una regione (la Puglia). Impone la costruzione delle moschee nelle città. Oggi ha smantellato con una sentenza della Cassazione la legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. L’altro ieri ha sancito che è illegittimo licenziare un dipendente che usi i computer aziendali per navigazioni private. Il suo potere discrezionale è così ampio da poter decidere quasi a piacere sui licenziamenti in base al famoso articolo 18. È una magistratura che a distanza di anni può bocciare una legge elettorale e consacrare la non rappresentatività di governi e parlamenti, in più le sue sentenze si trasformano di fatto in nuove leggi elettorali (pur folli e lontane dalla volontà del Parlamento). Una magistratura che può bocciare il blocco gli aumenti automatici ai magistrati, cioè a se stessa, a dispetto della crisi epocale che l’Italia sta attraversando e della difficoltà di fare la spending review. Alla faccia, soprattutto, di chi non arriva alla fine del mese. Infine, una magistratura che dopo vent’anni di braccio di ferro con Berlusconi, oggi leader dell’opposizione, è riuscita a condannarlo e a fargli scontare una pena che in una misura o nell’altra lo costringerà a limitare la propria campagna elettorale (e a non candidarsi). Non so perché ma mi tornano alla mente due brani del grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. Nel primo (“La panne”) un ex magistrato si rivolge a un malcapitato rocambolescamente trasformato in imputato di un processo-gioco: “Carissimo signor Traps… noi quattro, seduti attorno a questo tavolo, siamo in pensione e ci siamo liberati dalla inutile farragine delle formule, dei protocolli, delle scribacchiature, delle leggi e di tutta quella robaccia che opprime le nostre aule di tribunale. Noi giudichiamo senza alcun riguardo alla meschinità dei codici e dei paragrafi”. L’altro da “Il sospetto”: “La legge è la legge. X = X. La frase più spaventosa che sia mai salita verso quel cielo eternamente sanguinante, eternamente notturno che sta appeso sopra di noi. Come se esistesse una determinazione indipendente dalla forza e dal potere che ciascuno detiene! La legge non è la legge, la legge è il potere”.

Chiudiamo l'Italia, comandano i giudici. Tempo fa proposi provocatoriamente di chiudere Montecitorio, Palazzo Madama e perfino Palazzo Chigi, delegando tutto il potere - legislativo ed esecutivo - al Quirinale. In tempi di spending review forse si può fare qualche cosa di meglio e cioè chiudere anche la presidenza della Repubblica, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Tirando giù le serrande di parlamento, governo e anche dell'edificio che ospita il capo dello stato risparmieremmo circa 2,5 miliardi di euro l'anno, più o meno ciò che Renzi recupera da Iva e banche, con la differenza che il taglio non sarebbe una tantum, ma definitivo. Pensate un po': non esisterebbe più neppure il parametro dei 239 mila euro cui fermarsi per limare gli stipendi dei manager pubblici (a proposito, ma a 88 anni Napolitano ha ancora bisogno di un simile appannaggio? Non potrebbe fare il beau geste di rinunciarvi, accontentandosi della pensione?) e dunque i boiardi potrebbero essere pagati ancor meno e gli italiani si risparmierebbero un sacco di complicazioni burocratiche che i Palazzi del potere partoriscono ogni giorno. Proposta provocatoria? Mica tanto. Del resto a che serve il baraccone istituzionale che ci teniamo da oltre sessant'anni? In fondo ormai in questo paese decidono tutto i giudici, dunque meglio cambiare la Costituzione e stabilire che la Repubblica è fondata non sul lavoro ma sulla magistratura, ordinaria, amministrativa e perfino speciale. Esagerazioni? Macché: nei fatti è già così. Prendete ciò che è successo in questi giorni, a cominciare dalla vicenda che riguarda Silvio Berlusconi. Il destino di una forza politica che è stata fino a ieri maggioranza nel Paese e ad oggi è un elemento determinante della vita politica e del processo di riforme della Repubblica è in mano alle toghe. Tocca a loro decidere per il pollice verso, ovvero per il divieto al Cavaliere (ex) di fare politica. Loro, non gli elettori saranno determinanti nella decisione che riguarderà l'uomo politico che ha guidato l'Italia per anni. E, sempre loro, stabiliranno se gli italiani potranno sentire il loro leader o vederlo impegnato nella prossima campagna elettorale. Si dirà, Berlusconi è stato condannato e la giustizia fa il suo corso. Vero, ma chissà perché quando si tratta del leader del centrodestra è un corso che viene percorso in fretta, tanto in fretta che perfino il direttore del Fatto quotidiano ha suggerito di rallentare, rinviando ogni decisione a dopo le elezioni europee. Ma tant'è. Il Cavaliere ha quasi settantotto anni, è un pericoloso criminale e non si può lasciare a piede libero, pena il rischio che reiteri il reato e rivinca le elezioni. Ma non è tutto. A conferma che la nostra è una Repubblica giudiziaria ci sono altri fatti. Il primo è quello che riguarda la decisione della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa. Siccome il Parlamento in passato aveva approvato una legislazione restrittiva, ci hanno pensato i supremi giudici a renderla più ampia. Via i divieti e fecondazione assistita per tutti. Chi se ne importa delle decisioni dei rappresentanti del popolo, quelli che contano sono i rappresentanti della Consulta, i quali ormai si sono sostituiti al Parlamento, bocciando e modificando tutto ciò che non gli garba. A ciò si aggiunge che le toghe, massime o minime non fa differenza, non modificano soltanto le norme che riguardano principi etici come il dono della vita e la possibilità di procreare secondo natura, ma mettono mano anche altrove, ad esempio su coppie di fatto e matrimoni gay. Camera e Senato si attardano e non approvano la legge che consente la regolarizzazione delle unioni omosessuali (per altro provvedimento che dovrebbe essere preso al più presto, proprio per evitare che la giustizia faccia da sè)? Niente paura, ci pensa il giudice, che ordina al comune di registrare le nozze fra due uomini celebrate all'estero. La legislazione italiana non lo consente? Fa nulla, il giudice dispone l'ordinanza e se il comune si opporrà a decidere sarà la Corte costituzionale, cioè quelli della fecondazione eterologa e il Parlamento si adeguerà. Altra dimostrazione? La faccenda Emirates che raccontiamo oggi su Libero. La compagnia araba decide di scommettere sull'Italia e di inaugurare un volo Roma-New York, ma alla concorrenza non piace, così - in barba agli inviti agli stranieri a venire a investire nel nostro paese - interviene il Tar, che sospende il volo e lascia a terra gli aerei di Dubai. E poi dicono non sia vero che la giustizia tarpa le ali all'Italia. All'Alitalia no, ma alla Emirates si. Potremmo continuare per pagine e pagine a raccontarvi di sentenze che scavalcano le leggi e cambiano le carte in tavola: dall’eutanasia (vedi caso Eluana) ai rapporti tra famigliari. Ma ci siamo capiti. Dunque, visto che comandano i giudici e che decidono loro sia in materia di leggi, che di politica e concorrenza, meglio darci un taglio. Resteremo sempre sudditi, ma almeno avremo la consolazione di risparmiare due miliardi e mezzo. Giudicate voi se è poco.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

Colpevole di essere innocente. «E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli Dei si prenderanno cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare». Si chiamava Socrate, era nato ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, abile scultore, e Fenarete, apprezzata levatrice. Fu coraggioso combattente, eroe di guerra, membro del Consiglio dei Cinquecento, filosofo e bevitore. Morì innocente. Condannato dai giudici che sapevano di condannare un innocente, scrive Nino Spirlì. Ah, quanto bene scrisse di lui il Grande Platone. Quanti insegnamenti, da un condannato. Eppure… Fosse stato per i suoi concittadini e, soprattutto, per coloro che lo trascinarono in tribunale, noi posteri non avremmo dovuto nemmeno conoscerlo, quel nome. Invece, Socrate ha cavalcato e cavalcherà i secoli, mentre di loro, di quegli infami, non resta ricordo. Sappiamo solo che quella massa senza nome si fece rappresentare da un certo Meleto, poetucolo di piccola fama, pubblico accusatore, che ebbe al proprio fianco un cuoiaio, Anito, e un demagogo, Licone. L’accusa? Socrate corrompe i giovani, offende gli dei della città e ne crea di nuovi. La verità? Socrate spingeva il popolo a pensare, a chiedersi il perché, a rileggere la propria esistenza, partendo dall’assunto “So di non sapere”. E questo lo rendeva nemico del Potere. Perché, di per sé, era Potere. La Libertà è, infatti, la sola Forza della Natura. E, dunque, esercitarla, goderla, ricercarla, e offrirla è già una dichiarazione di guerra verso il Palazzo. Con Socrate, e con molti dopo di Lui, non è mai stata in pericolo la democrazia, ma il Potere sì. Perché la democrazia è voce di popolo, mentre il Palazzo è terrore e mistero. Segreti e interessi. Poteva, il Palazzo di quel tempo, e può, Quello di oggi, sopportare che esistano Uomini Liberi, non assoggettati, mai schiavi delle logiche di potere? Sarebbe un suicidio del Palazzo stesso. Una sorta di condanna a morte. E, quindi, il processo, fra tanti, al Giusto. Che accetta la condanna, nel rispetto della Legge, pur conoscendo la propria innocenza. Che decide di non scappare. Di scontare la pena, per non dover mortificare il proprio pensiero sul doveroso rispetto di quella Legge. Che beve la cicuta, amaro calice, croce divina, per amore di Verità. E’ la storia di certi processi. Da Socrate in poi, passando per Gerusalemme, fino a noi.

CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.

Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.

Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”. 

LA CELLA ZERO.

Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata "cella zero", scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: “se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.

CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.

Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.

Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”. 

LA CELLA ZERO.

Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata "cella zero", scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: “se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti.

DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.

Un’altra madre, un’altra famiglia impotente di fronte a una vicenda carceraria che si conclude con il peggiore degli epiloghi: la morte di un uomo che, varcato il cancello che separa i liberi dai reclusi, smette di essere trattato come tale,  scrive Michele Marangon su “Il Corriere della Sera”. Quel confine, troppo spesso in Italia, si sta trasformando in un punto di non ritorno. La vicenda di Federico Perna, 34enne originario di Latina deceduto l’8 novembre scorso mentre era ristretto a Poggioreale, ha ora la voce della madre Nobila Scafuro, decisa a tutto pur di far emergere la verità sul calvario patito dal figlio, malato, tossicodipendente, palesemente non in grado di sopportare il regime detentivo. Eppure tenuto in cella, sbattuto di carcere in carcere, sino a quando il suo corpo non ha detto basta. Per giorni nessuno, dall’alto, è intervenuto per uno così: senza santi al ministero, con una famiglia né ricca né influente. Fino a venerdì, quando il guardasigilli Annamaria Cancellieri ha disposto una «rigorosa indagine amministrativa interna» parallela all’inchiesta della procura della Repubblica. Ogni storia è a sé, ma questa di Federico - tossicodipendente con precedenti per furto, rapina, lesioni personali, evasione - per certi versi non può che rimandare a quella del romano Stefano Cucchi, che si è conclusa allo stesso modo. La prima cosa che viene da chiedersi è se lui si mai stato picchiato, ma la signora Nobila, tono fermo seppur stremato da questi giorni di dolore, rincara la dose: «Le dico di più -dice raggiunta telefonicamente da Corriere.it -secondo me è stato torturato. Siamo di fronte a un vero e proprio omicidio di Stato. Io ho tantissimi interrogativi a cui avere risposta…mica uno solo». Si legge, nella risposta del ministero datata giovedì 28 novembre, a seguito di una interrogazione in commissione Giustizia, di come Federico abbia rifiutato il ricovero in ospedale, ma Nobila è di altro avviso. «Mi pare che si stiano dando la zappa sui piedi: a Viterbo, come riporta un referto medico, mio figlio non era in grado di stare in piedi, non era lucido. È evidente come sia stato sedato, imbottito di psicofarmaci». Da alcune lettere, infatti, si evince quanto Federico sognasse il ricovero in ospedale perché lì «non ci sono celle e si possono fare colloqui». E sempre da Viterbo, però, non smettono le parole di disperazione: «Mamma mi stanno uccidendo. Portami a casa». La donna, insieme ai legali di Latina Camillo Autieri e Fabrizio Cannizzo, ha intenzione di non far spegnere i riflettori sulla vicenda, a partire da quella autopsia sul corpo di Federico effettuata a sei giorni di distanza dalla morte, così, a detta di Nobila da non poter far trovare tracce di lesioni che potrebbero dar sostegno alla tesi del maltrattamento, del pestaggio o delle torture vere e proprie come sostiene la donna. Spiegano gli avvocati : «La signora Scafuro aveva visto il figlio pochissimi giorni prima della morte. Lui mostrava segni di maltrattamenti (lividi…) e lamentava uno stato di malessere generale, psichico e fisico, dovuto e aggravato dalla vita carceraria, certamente non facile ma che, a dire di Perna, troppo spesso diventava intollerabile a causa dei soprusi e delle violenze subite da parte del personale carcerario. Tale circostanza - spiegano - dovrà essere verificata in sede di deposito della perizia autoptica. Numerose sono le lettere in possesso della madre nelle quali Federico si definiva “pungiball” o dichiarava che “con me ci giocano a ping pong”, riferendosi al fatto che ogni qualvolta chiedesse il ricovero o maggiore cura del proprio stato di salute, veniva trasferito ad altro istituto carcerario». Federico avrebbe dovuto terminare la pena il 13 aprile 2018. Una data lontanissima per qualsiasi carcerato e ancor più per lui, che aveva iniziato a scontare i suoi anni a Regina Coeli il 20 settembre 2010, passando poi a Velletri e Cassino e nel 2012 a Viterbo per motivi sanitari. Già qui viene ritenuto incompatibile con lo stato di detenzione a causa di una grave compromissione epatica con tendenza cirrotica. Seguono diversi gesti di autolesionismo, visite psichiatriche, sino a che, come ricostruisce il ministero ,«il magistrato di sorveglianza, con provvedimento del 16 luglio 2012, non aveva accolto la richiesta di scarcerazione per incompatibilità, sia in relazione alla pericolosità sociale connessa allo stato psicologico in cui versava il Perna, sia in considerazione del fatto che quest’ultimo aveva più volte rifiutato il ricovero in luogo di cura e che si era fatto dimettere – contro il parere dei sanitari – dall’ospedale Belcolle». Sempre secondo la ricostruzione ufficiale resa in commissione Giustizia il 28 novembre, «a Secondigliano il Perna aveva rifiutato il ricovero suggerito dai sanitari a seguito di un’ustione riportata nel gennaio 2013 ed aveva posto in essere gesti autolesionistici». A Poggioreale, dove esiste un centro clinico penitenziario, Federico ci arriva a luglio 2013, e qui sembra accadere il miracolo: « Nel corso dell’ultima visita psichiatrica, avvenuta a Poggioreale alla fine di settembre 2013, il Perna si era manifestato, al colloquio con lo specialista, calmo, lucido e orientato,e non aveva evidenziato disturbi percettivi». Si parla sempre del suo stato psichico nelle ricostruzioni ufficiali, mai del suo stato fisico, di cui solo la madre denuncia: « Sputava sangue dalla bocca e aveva chiesto di essere ricoverato il 5 novembre, ma l’8 è morto», ricorda Nobila. Ma per lo Stato, almeno fino a giovedì 28, è andato tutto bene, come si legge nella relazione del ministero della Giustizia: «All’esame del diario clinico e della cartella di osservazione del detenuto – documentazione contenuta nel suo fascicolo personale – risulta che nel corso della detenzione il Perna è stato seguito con costanza e regolarità sia dal personale sanitario e del Servizio Tossicodipendenze che dal personale penitenziario. In particolare, appare evidente che le autorità penitenziarie ne hanno costantemente monitorato le condizioni di salute e hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri in ospedale in ragione delle sue condizioni di salute, senza purtroppo riuscirvi». Con rabbia e dolore, una famiglia cerca la verità, mentre vengono i brividi, oggi, a guardare le foto scioccanti dell’autopsia e allo stesso tempo leggendo le lettere di Federico alla madre. Le parole di un ragazzo che sogna da dietro le sbarre un’assoluta normalità: la lasagna, il giorno del colloquio e pochi euro per le piccole spese. «Appena esco vengo da te, che sarò l’uomo più felice del mondo. Ora sono un uomo, basta con l’eroina, è solo distruzione. Un lavoretto e una vita serena. Adesso voglio il Federico vero, quello che non è mai uscito…» .

Il 34enne, tossicodipendente affetto da cirrosi epatica ed epatite C, è deceduto nel carcere di Napoli l'8 novembre. "Avevamo più volte chiesto il trasferimento. Da una settimana sputava sangue, aveva chiesto di essere ricoverato", scrive Silvia D’Onghia su “Il Fatto Quotidiano”. Federico come Stefano. Ascoltando la storia di Federico Perna, 34 anni, il pensiero va subito a Stefano Cucchi, che di anni ne aveva appena 31. Anche Federico è morto nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, certo, ma anche curarlo. Perché quel ragazzo di 34 anni della provincia di Latina, tossicodipendente da 14, oltre a dover scontare un cumulo di pene che lo avrebbe tenuto dentro fino al 2018 (l’ultima condanna per lo scippo di un telefonino), era malato di cirrosi epatica e di epatite C cronica, aveva problemi di coagulazione del sangue e disturbi psichici. Eppure aveva già scontato tre anni, rimbalzando da un carcere all’altro – Velletri, Cassino, Viterbo, poi di nuovo Cassino, Secondigliano, Benevento, ancora Secondigliano – ed era finito a Poggioreale, “undicesimo detenuto in una cella di undici metri quadrati”. È lì che è morto, l’8 novembre, “dopo una settimana che sputava sangue”, in circostanze – come dicono le autorità in questi casi – ancora da chiarire. Mi hanno dato tante versioni diverse – racconta la mamma di Federico, Nobila Scafuro, al Fatto Quotidiano –: mi hanno detto che era morto nell’infermeria del carcere, poi in ambulanza, poi nel reparto dell’ospedale Federico II di Napoli. Ho telefonato alla direzione del carcere, vivendo a 300 chilometri di distanza, non mi sono stati neanche a sentire. Io mi sono dovuta andare a cercare il morto vagante”. Così come la famiglia Cucchi, anche la signora Scafuro ha deciso di diffondere le immagini – terribili – di suo figlio sul lettino dell’obitorio. Nel caso di Stefano, la scelta fu determinante ai fini dell’interessamento mediatico. I risultati dell’autopsia, eseguita il 14 novembre, non sono ancora arrivati – “il magistrato si è riservato 90 giorni di tempo, ma spero che la verità emerga prima” – ma per la mamma di Federico una cosa è certa: “Mio figlio non doveva stare in carcere. Lo scorso anno, attraverso il nostro avvocato, Camillo Autieri, abbiamo presentato tre referti di medici legali e primari ospedalieri e abbiamo chiesto l’incompatibilità carceraria. Ma le istanze sono state tutte rigettate dai magistrati di sorveglianza”. “Ora abbiamo fatto richiesta per conoscere le motivazioni”, conferma il legale. Per tenere buono Federico in cella, denuncia la famiglia, gli venivano somministrate pesanti dosi di psicofarmaci e tranquillanti: “Valium, Rivotril, più le medicine passate dal Sert”. “Questo faceva sì che il ragazzo non potesse provvedere alla propria cura quotidiana – spiega l’avvocato Autieri – e non avesse, in più di un’occasione, la capacità di discernimento”. Esattamente come nel caso della famiglia Cucchi, nessuno fa mistero della tossicodipendenza di Perna. “L’ho visto con lo zigomo gonfio – prosegue la signora Scafuro – e un suo compagno di cella lo ha convinto a dirmi che gli avevano dato un pugno. Non era la prima volta, a Viterbo c’è una denuncia penale: lo hanno picchiato perché teneva una lattina di Coca Cola in fresco sotto il rubinetto dell’acqua”. Ipotesi naturalmente tutte da accertare. Negli ultimi giorni, però, le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: “Da una settimana sputava sangue dalla bocca, il martedì prima di morire aveva chiesto di essere ricoverato”. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un’inchiesta e si annuncia fin d’ora una battaglia di perizie. Proprio come nella vicenda Cucchi. La madre del ragazzo si è rivolta alle associazioni che si occupano di detenuti: Ristretti Orizzonti ha contribuito a diffondere la storia e le immagini di Federico, Antigone sta seguendo il caso da vicino. “In questa fase posso solo auspicare una rapida soluzione dell’inchiesta”, commenta Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Intanto il Movimento 5 stelle ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è a conoscenza della situazione – anche perché sono già state presentate due interrogazioni parlamentari –, anche se il Fatto ha più volte cercato, senza esito, di mettersi in contatto con il vice capo vicario Luigi Pagano. “Non ho il numero del ministro Cancellieri, ma vorrei porle tre domande – conclude la madre –: perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato martedì, quando ha chiesto non di andare in discoteca ma di essere curato? E perché l’hanno massacrato di botte?”. Federico faceva di cognome Perna.

 Il ministro della Giustizia Cancellieri dispone una indagine interna sulle dinamiche che hanno portato alla morte del giovane. La madre Nobila al Fatto: "Mio figlio non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perché non accada a nessun altro", scrive Silvia D’Onghia e Lorenzo Galeazzi su il Fatto Quotidiano del 30 novembre 2013. “Qui c’è il dirigente che vuole ricoverarmi per farmi prendere l’incompatibilità carceraria, io voglio venire con te a casa, le cartelle ci sono di aggravamento. Mamma, mi stanno uccidendo, portami a casa, voglio stare con te”. Questo scriveva Federico Perna a sua madre Nobila il 19 giugno 2012. Ed è stata lei, ieri, durante un’intervista con la web tv del fattoquotidiano.it, che ha deciso di rendere note le parole di suo figlio. Federico non c’è più, è morto – forse a causa di un ictus, ma i risultati dell’autopsia non sono ancora stati depositati – alle 16,58 dell’8 novembre scorso nel pronto soccorso del carcere napoletano di Poggioreale. Aveva 34 anni e sognava di uscire per tornare a casa a mangiare le lasagne. Come abbiamo scritto ieri, Perna dal martedì precedente sputava sangue e aveva chiesto di essere ricoverato. Inutilmente. Nella sua ormai triennale storia carceraria, Federico spesso non era lucido, ma si rendeva perfettamente conto che in cella le sue condizioni di salute peggioravano a vista d’occhio. Sempre dal carcere di Viterbo aveva scritto un’altra lettera alla mamma: “Scusa se ero un po’ assente (al colloquio, ndr), ma qua mi hanno esaurito, mi sono aggravato di salute, il prossimo colloquio se ci sarà, sarà diverso e positivo. Avevo voglia di abbracciarti ma ero come ipnotizzato”. Federico è malato, gravemente. Soffre di cirrosi epatica cronica e di epatite C, ha una personalità definita borderline, è sottoposto a una massiccia terapia di ansiolitici e tranquillanti. In cella c’è finito per il maledetto vizio dell’eroina, perché i soldi – anche quelli di una famiglia benestante – non bastano mai: e allora vai con i furti, con le rapine, con le lesioni. Un cumulo di condanne che gli costa un brutto responso: fine pena 13 aprile 2018. Ma Federico è un soggetto ad alto rischio, e questo l’istituzione carcere lo sa bene. In data 28 giugno 2012, pochi giorni dopo la prima lettera, il responsabile dell’area sanitaria della casa circondariale di Viterbo, Franco Lepri, scrive alla Direzione della struttura e al magistrato di sorveglianza: “Il carcere al momento non è compatibile con lo stato di salute del detenuto e quindi è peggiorativo per la sua salute, i contatti con le strutture sanitarie esterne sono possibili in ogni momento. Si richiede rapido trasferimento in un Cdt (Centro di Detenzione Terapeutica, ndr)”. Federico rifiuta il ricovero nei reparti di medicina protetta, ma non lo fa perché non vuole essere curato. Lui vuole essere messo ai domiciliari. Non ne può più di essere trasferito da un carcere all’altro: Velletri, Cassino, Viterbo, Secondigliano, Benevento, Napoli. ”Sono esaurito – scrive in una terza lettera alla madre –, infatti sono stato ricoverato, mamma mi stanno rovinando, sono due anni che giro carceri, non ce la faccio più. Lo so che questa non è una scusa perché il reato l’ho fatto e devo scontarlo, ma devo scontare il carcere e non una pena umana”. C’è un altro medico che certifica, il 18 settembre 2012, l’incompatibilità di Federico col carcere, è il medico di reparto del presidio sanitario di Secondigliano: “Si ribadisce l’inadeguatezza all’allocazione in una sezione detentiva comune e si invita l’autorità preposta a prendere provvedimenti anche coercitivi ai fini di un’adeguata assistenza del paziente che in una sezione di detenzione comune non può essere garantita”. Provvedimenti coercitivi: se Federico rifiuta il ricovero lo si deve obbligare. E invece nessuna “autorità” si prende questa briga. Ma c’è un referto che più di tutti dà il senso delle condizioni del ragazzo. Il giorno dopo la prima dichiarazione di incompatibilità, il 29 giugno dello scorso anno, un medico di reparto scrive: “Ho visitato il detenuto in cella: la sua cella è tutta sottosopra, lo troviamo privo di vestiti, non riesce ad alzarsi in piedi, a sostenere il capo, a mantenere la posizione seduta e a comunicare con noi. È obnubilato, non orientato nel tempo e nello spazio”. Il deputato M5S Salvatore Micillo mercoledì ha presentato un’interrogazione in commissione Giustizia; gli ha risposto il sottosegretario Giuseppe Berretta, che, prima ancora di sapere come è morto il ragazzo, ha difeso l’operato di medici e personale penitenziario: “Seguito con costanza e regolarità”, “hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri, senza purtroppo riuscirvi”. Il ministro Cancellieri, sollecitata dalla signora Nobila, ieri ha preso carta e penna e le ha invitato “le sue condoglianze e la sua personale vicinanza”. Il guardasigilli ha anche disposto “rigorosa indagine amministrativa interna”. Ma a Nobila non basta: “Federico non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perchè quello che è successo a mio figlio non accada a nessuno altro. Non devono più toccare un ragazzo lì dentro”.

Federico Perna, un nome che rischia di diventare una nuova icona delle tragedie che, quotidianamente, vivono i detenuti reclusi nelle carceri italiane. La storia di Federico è una storia drammatica, finita nel peggiore dei modi per un ragazzo di 34 anni morto di carcere. A raccontarci la sua vicendà è stata sua madre, Nobila Scafuro, scrive Fabrizio Ferrante su “L’Espressonline”. Federico, 34 anni originario di Latina, era un ragazzo di buona famiglia con i suoi parenti che annoverano rapporti di amicizia e di collaborazione professionale con magistrati e uomini pubblici a un certo livello. Il giovane, finito tre anni fa in carcere a seguito di piccoli reati connessi alla droga, doveva scontare 9 anni di reclusione per varie condanne accumulatesi nel tempo, fino all'ultimo arresto avvenuto appunto tre anni fa. Da quel momento, Federico ha smesso di essere considerato un essere umano ed è diventato un pacco postale, sballottato qua e là per le carceri del centro-sud. Da Velletri a Viterbo, da Secondigliano a Poggioreale ed è qui che termina la vicenda terrena di questo 34enne.

"Mio figlio è morto venerdì 8 novembre alle 17:17 - ci ha spiegato Nobila Scafuro - ma già da martedì sapevamo che stava molto male, in quanto mi aveva telefonato. Era ammalato, soffriva di epatite C e mi disse che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Circostanza confermatami anche da un suo compagno di cella con cui ci siamo sentiti telefonicamente. Mio figlio si trovava nel padiglione Avellino stanza 6, in una cella che conteneva undici persone. Durante il suo periodo di permanenza a Poggioreale le cose si sono aggravate, era stato dichiarato incompatibile con la detenzione ma nonostante ciò fosse stato messo nero su bianco da due rapporti clinici stilati a Viterbo e a Napoli, un magistrato viterbese ha pensato bene di spedirlo a Poggioreale. Almeno poteva mandarlo in un carcere del Lazio, più vicino a casa, visto che per noi non era sempre possibile venirlo a trovare a Napoli. Il reato era risibile, mio figlio era uno dei tanti giovani che per divertirsi con gli amici faceva uso di qualche spinello, e pensi che la prima volta fu col figlio di un magistrato. Una volta sembra che Federico abbia dato una spinta a qualcuno, venendo accusato e condannato per questo".

Come è morto suo figlio?

"Bella domanda, è quello che vogliamo sapere tutti in famiglia ed è per questo che attendiamo i risultati dell'autopsia. Intanto posso dirle che non lo curavano, era imbottito di Valium, Rivotril e di farmaci passati dal Sert. Federico dormiva sempre e, quando non dormiva, spesso veniva picchiato. Questo non solo a Poggioreale, dove confermo che esiste la cella zero, ma anche in altre carceri dove ha soggiornato. Ovunque avvengono questi pestaggi, anche per futili motivi. A mio figlio capitò perché chiedeva aiuto in quanto non si sentiva bene, oppure perché voleva che gli aprissero l'acqua nel bagno della cella. In quell'occasione fu pestato proprio lì, nel bagno. Lo vedevo sempre pieno di lividi. In ogni caso, dopo averci chiamato martedì, Federico non ha più dato sue notizie. Abbiamo appreso della sua morte da un suo compagno di cella, che aveva molto legato con lui, il quale chiamò mia suocera – anziana e malata – dicendo che: 'Federico ormai è fuori, aprite gli occhi' lasciandoci intendere che fosse morto. Il fatto è che non sappiamo dove sia morto, non l'abbiamo ancora potuto vedere e il personale del carcere di Poggioreale non ci agevola dandoci le necessarie informazioni. Quindi non sappiamo neanche dov'è".

Quindi lei sta dicendo che non sa come è morto Federico, né dove, né tanto meno dove sia adesso?

"Esatto. Le versioni sono diverse: dicono che è morto nell'infermeria del carcere di Poggioreale, di attacco cardiaco e senza la possibilità di essere salvato con il defibrillatore. Poi dicono che è morto in ambulanza, poi che è morto prima di essere caricato in ambulanza o addirittura in ospedale, e anche su questo mi hanno nominato più di una struttura possibile. Insomma non so né come sia morto, né dove sia e tutto questo mi sta devastando. Quello che penso è che sia morto prima di essere portato in ambulanza e questo lo credo perché sempre secondo il suo compagno di cella, Fede era già morto prima che i soccorsi arrivassero. Ma non doveva trovarsi lì, doveva essere ricoverato in ospedale da molto tempo, essendo malato di epatite C. Mio figlio, che chiedeva il ricovero disperatamente da almeno dieci giorni per fortissimi bruciori di stomaco, sputava sangue e aveva bisogno di un trapianto di fegato. E' stato torturato e ammazzato dallo Stato così come gli altri morti di carcere a Poggioreale. Ma lei sa che negli ultimi giorni ci sono stati tre suicidi? Uno si è impiccato, l'altro si è ammazzato con un mix letale di farmaci e un terzo si è infilato la testa in un sacchetto mentre inalava il gas del fornelletto da campo. Ma non ci sono solo suicidi a Poggioreale e ricordo che un uomo di 43 anni è recentemente morto in cella perché malato di cuore. Gli è venuto un infarto e sa come lo curavano? Col Buscopan".

Federico Perna, evitiamo che a morti seguano altri morti, scrive Susanna Marietti su “Il Fatto Quotidiano”. Terribili e già visti gli ingredienti della vita e della morte di Federico Perna nel carcere napoletano di Poggioreale, proprio il carcere visitato da Giorgio Napolitano prima che annunciasse il messaggio alle Camere dell’8 di ottobre scorso. Poggioreale, un carcere simbolo della tragedia italiana, dove i detenuti sono ammassati, costretti a una vita degradante, resi numeri dal sovraffollamento. Un carcere dove i detenuti non hanno spazio vitale e la dignità umana è oggettivamente calpestata. La madre chiede giustizia e giustizia va assicurata. Ancora una volta, per sperare di avere giustizia, una mamma deve farsi violenza e pubblicare sui media la foto di un corpo martoriato. Il ministro della Giustizia ha disposto un’indagine interna all’Amministrazione penitenziaria. Nel frattempo si spera che scorra l’indagine penale e che l’autopsia sia fatta coscienziosamente e restituisca chiarezza sulle cause della morte. Federico Perna muore a 34 anni. La sua è una storia carceraria abbastanza comune, là dove ciò che è comune coincide oggi con ciò che è tragico. Ha problemi di tossicodipendenza. È malato di epatite C, appunto come tanti detenuti, purtroppo. Sta molto male, come tanti detenuti. Chiede aiuto, ne riceve poco. I magistrati non lo ritengono incompatibile con il carcere nonostante valutazioni difformi, pare, dei medici che invece propendevano per la non compatibilità con la detenzione.

La vicenda di Federico Perna ci impone una riflessione sul caso in questione e una di carattere più generale. Sul caso in questione, va rivendicata un’indagine condotta con determinazione, la quale chiarisca se c’è stata violenza e se c’è stata negligenza medica. Intorno alle questioni di carattere più generale, la vicenda carceraria va affrontata e decisa subito per evitare che morti seguano a morti. Bisogna intervenire su più piani: modificare in modo radicale la legge sulle droghe, liberticida e proibizionista; bisogna assicurare diritti a chi non ne ha istituendo un garante nazionale delle persone private della libertà, come ci impongono le Nazioni Unite; va introdotto il delitto di tortura nel codice penale italiano, che ridarebbe dignità a un sistema giuridico oggi in crisi di identità democratica.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

Sentenza da annullare. Diritti Mediaset, irregolare il collegio di giudici che ha condannato Berlusconi. Tra le toghe c'era anche un giudice civile, presenza non ammessa nei procedimenti penali dall'articolo 67 dell'ordinamento giudiziario. Due avvocati romani presentano ricorso alla Cassazione, scrive “Libero Quotidiano”. Salta fuori una nuova magagna nella vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale sui diritti Mediaset. Ed è una magagna non da poco. Il collegio di toghe della sezione che ha giudicato il Cavaliere era irregolare e la sentenza di condanna nei suoi confronti è da annullare. Per questo, l'avvocato Daniele Morelli e il dottor Fabrizio Benedettini dello studio legale romano Morelli & Partners hanno presentato ricorso contro la sentenza al procuratore generale della Cassazione. Il punto è che una delle toghe che componevano il collegio non era un giudice penale, bensì civile: Giuseppe De Marzio. Mentre l’articolo 67 dell’ordinamento giudiziario recita che "la Corte di cassazione in ciascuna sezione giudica con il numero invariabile di cinque votanti. Giudica a sezioni unite con il numero invariabile di nove votanti. Il collegio a sezioni unite in materia civile è composto da magistrati appartenenti alle sezioni civili; in materia penale è composto da magistrati appartenenti alle sezioni penali”. Non sono previste sezioni “promiscue”. "Abbiamo presentato questo ricorso, perché è stato violato non solo l’articolo 67 dell’ordinamento giudiziario, ma anche l’articolo 25 della Costituzione sulla precostituzione del giudice naturale e il principio di uguaglianza davanti alla legge previsto dall’articolo 3” spiega Benedettini, che tiene a precisare di essere "un semplice cittadino elettore" e di non avere "alcun mandato da parte di Silvio Berlusconi". Una copia del ricorso è stata consegnata oggi anche alla Giunta per le elezioni del Senato, che domani deciderà sul nodo della decadenza del Cavaliere. "Giunta che a questo punto, secondo noi, dovrebbe sospendere il suo giudizio in attesa che a pronunciarsi sia il procuratore generale o la Corte costituzionale, alla quale pure abbiamo inviato gli atti". 

BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.

Se lo merita, in fondo. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non ha fatto un cazzo….nemmeno per difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello che succede capita a lui, figuriamoci alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani. Detto questo, non ci si può esimere dal far diventare storia la cronaca contemporanea.

Duplice assalto della Cassazione: prima la condanna a 4 anni di carcere per il caso Mediaset, oggi la decisione sul Lodo Mondadori, scrive Andrea Indini  su “Il Giornale”. Dopo l'assalto alla libertà personale, il durissimo colpo alle aziende. Nel giro di un paio di mesi la Cassazione sferra due sentenze violentissime per far fuori Silvio Berlusconi, politicamente ed economicamente. Dopo aver confermato la condanna a quattro anni di reclusione al processo Mediaset, la Suprema Corte ha respinto il ricorso della Fininvest contro la Cir per il risarcimento del Lodo Mondadori. Risarcimento che, dopo il ritocco al ribasso di circa 23 milioni di euro sulla cifra liquidata dai giudici, farà arrivare nelle casse del gruppo di Carlo De Benedetti oltre 541 milioni di euro. Un colpo dietro l'altro, sferrati a distanza tanto ravvicinata da dare un'idea dello scopo ultimo. Mentre la Giunta per le elezioni briga e cavilla per far decadere il Cavaliere da senatore e cacciarlo dal parlamento, va in scena la più grande rapina del secolo: il saccheggio delle sue finanze a vantaggio della tessera numero uno del Partito democratico, nonché editore di riferimento delle procure. Gli ermellini mettono la parola fine alla "guerra di Segrate" dando ragione a De Benedetti e confermando la condanna inflitta alla Fininvest dai giudici milanesi a versare un maxi risarcimento alla Cir. Come si legge nella sentenza sul Lodo, La valutazione complessiva riconduce alla Fininvest la responsabilità del corruzione di cui è "imputabile anche Berlusconi", anche se soltanto dal punto di vista civilistico dal momento che era stato prosciolto per prescrizione dalla vicenda penale. Condividendo quasi totalmente le conclusioni dei giudici del merito, la Suprema Corte ha infatti accolto solo uno dei motivi di ricorso presentati dalla Fininvest. Da qui la lieve, irrisoria riduzione di 46,5 miliardi delle vecchie lire, ossia 23 milioni (euro più, euro meno) che saranno detratti dal risarcimento stabilito dalla Corte d’Appello di Milano. Sebbene sia ben lontano dai 749,9 milioni di euro decisi in primo grado dal giudice Raimondo Mesiano, il bottino che De Benedetti si porta a casa è davvero senza precedenti. "Dopo più di vent'anni viene definitivamente acclarata la gravità dello scippo che la Cir subì dalla corruzione di un giudice", ha commentato l'Ingegnere sapendo bene di aver fatto un affare migliore di quello che avrebbe messo a segno se nel 1991 gli fosse stato assegnato il controllo della Mondadori. In realtà i "giochi" erano già stati chiusi lo scorso 28 giugno 2013 quando, al quarto piano del Palazzaccio di piazza Cavour, il collegio chiudeva il dispositivo della sentenza in un cassetto per tirarlo fuori al momento più opportuno. "Sarà resa nota con la sua motivazione tra un mese, giorno più giorno meno", spiegava Liana Milella su Repubblica facendo sapere che la busta sigillata era stata subito consegnata ai massimi vertici della Cassazione, il presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani. Dalle schermaglie giudiziarie di fine giugno, però, sono passati più di due mesi e mezzo. Tanto da far sorgere il dubbio sulla coincidenza temporale. È forse un caso che l'ultima puntata dello scontro epocale tra Berlusconi e De Benedetti sia arrivata nelle ore in cui il Cavaliere sta mettendo a punto il videomessaggio da cui dipendono le sorti del governo Letta? Forse il partito delle toghe fa il tifo per una nuova maggioranza, che non contempli il Pdl, o per le elezioni anticipate?

La Cassazione ha respinto il ricorso della Fininvest contro la Cir per il risarcimento del Lodo Mondadori, che rimane confermato con un ritocco al ribasso, un taglio di circa 23 milioni di euro sulla cifra liquidata dai giudici e pari a 564,2 milioni di euro (in una nota successiva la holding De Benedetti ha precisato che la cifra ammonterebbe in realtà a 494 milioni di euro. Lo scrive la Cassazione. Ecco il dispositivo del verdetto di 185 pagine depositato dalla Cassazione sul Lodo Mondadori: «La Corte accoglie il tredicesimo motivo di ricorso (della Fininvest, ndr) e rigetta i restanti motivi. In conseguenza dell'accoglimento del tredicesimo motivo, cassa senza rinvio il capo della sentenza di appello contenente la liquidazione del danno in via equitativa, come stimata nella misura del 15% del danno patrimoniale già liquidato. Conferma nel resto l'impugnata sentenza».

I giudici respingono il ricorso dell'azienda e riducono il maxi risarcimento alla Cir di circa 70 milioni sui 564 già pagati. Le accuse al Cav: "Colpevole di corruzione, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Uno «sconto» di quasi 24 milioni (ma con gli interessi e le rivalutazioni dovrebbero arrivare a 70) sui 564 complessivi del megarisarcimento per il Lodo Mondadori che Fininvest ha già versato a Cir nel luglio 2011: con questo unico ritocco la Cassazione respinge il ricorso del gruppo di Silvio Berlusconi e dei figli contro la holding della famiglia De Benedetti. E assesta un'altra batosta, finanziariamente pesantissima ma altrettanto nel merito, al leader Pdl e alle sue aziende. Un verdetto «monumentale» di quasi 200 pagine mette la pietra tombale sulla partita aperta 25 anni fa sulla cosiddetta «guerra di Segrate», lo scontro tra il Cavaliere e l'Ingegnere per il controllo di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani. Una sentenza «corrotta», affermano gli ermellini, provocò un «danno ingiusto» alla Cir e la sua valutazione in secondo grado è corretta complessivamente. Per la difesa di Fininvest si tratta di un risarcimento monstre, non giustificato in alcun modo. Ma la Terza sezione civile, nel dispositivo depositato ieri della sentenza d'appello di giugno, conferma il verdetto d'Appello spiegando che può essere accolto, in parte, solo uno dei motivi del ricorso. È il tredicesimo, che denuncia l'eccessiva valutazione delle azioni del gruppo Espresso. Quindi, va detratta dalla somma dovuta alla Cir l'equivalente di 46.552.025.071 lire. Per il resto, «nessuna ipotesi di illegittima overcompensation o di ingiustificato arricchimento», per i supremi giudici. Il risarcimento già liquidato è «corretto e conforme ai possibili criteri di valutazione equitativa del danno». La Fininvest dovrà anche pagare metà delle spese di giudizio della Cir, cioè oltre 900 mila. La Cassazione condivide l'impostazione della Corte d'appello di Milano, secondo la quale la corruzione da parte della Fininvest del giudice romano Vittorio Metta ha privato la Cir di De Benedetti «non tanto della chance di una sentenza favorevole (come sostenuto in primo grado dal giudice Raimondo Mesiano, ndr) ma, senz'altro, della sentenza favorevole». In conclusione, scrivono i Supremi giudici, «una Corte incorrotta avrebbe, più probabilmente che non, emesso una sentenza di rigetto dell'impugnazione del lodo». Parole dure come pietre, che arrivano a prevedere il futuro, come sarebbe finita la vicenda, affidandosi al calcolo delle probabilità. La sentenza riguarda il risarcimento, ma la Cassazione vuole precisare tutti i ruoli dei protagonisti. E ricorda che il processo penale del Lodo Mondadori si è ormai «irrevocabilmente» concluso per il Cavaliere, che è stato prosciolto per prescrizione, ma in sede civile è stata accertata «la responsabilità del fatto corruttivo imputabile anche al dottor Berlusconi». I giudici calcano la mano, affermano che lui è stato «indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali». A partire da Cesare Previti, che «doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale» della Fininvest e «non occasionalmente investito di incarichi legali conseguenti alle incombenze demandategli». E tra queste, c'erano «attività di corruzione di alcuni magistrati, attuate allo scopo di conseguire illeciti vantaggi per l'azienda nella quale Previti svolgeva i suoi compiti e la sua attività» . La sentenza della Cassazione taglia circa un sesto del patrimonio netto di Fininvest, che in base ai dati del bilancio 2012 dispone di 2.437 milioni di euro, a fronte di 282 milioni di debiti. Finora, la holding della famiglia Berlusconi ha ritenuto la grossa somma già trasferita a Cir «un trasferimento di liquidità non definitivo», quasi un deposito cauzionale, temporaneo. Ma non è così, adesso è chiaro. La cifra del maxi risarcimento di Fininvest alla Cir dopo lo sconto e il calcolo di interessi e rivalutazioni.

LA CRONISTORIA

10 maggio 1988

Carlo De Benedetti acquisisce il controllo della Mondadori grazie a un’alleanza con la famiglia Formenton, erede di Arnoldo e azionista della casa editrice.

25 gennaio 1990

Cristina Mondadori e Luca Formenton rovesciano il fronte e si alleano con Silvio Berlusconi, che diventa presidente.

20 giugno 1990

Gli arbitri Pietro Rescigno (Cir), Natalino Irti (Mondadori) e Carlo Maria Pratis (procuratore in Cassazione) sanciscono che l’accordo tra De Benedetti e i Formenton è ancora valido.

25 giugno 1990

Berlusconi è costretto a lasciare la presidenza, ma prepara il ricorso in corte d’appello sostenendo che il lodo è nullo.

24 gennaio 1991

La Corte d’appello di Roma dà ragione a Berlusconi. I tre giudici sono Arnaldo Valente, Vittorio Metta e Giovanni Paolini.

29 aprile 1991

De Benedetti e Berlusconi concordano extragiudizialmente la spartizione e dichiarano di «non avere più nulla da pretendere reciprocamente». Repubblica, L’Espresso e i giornali locali vanno alla Cir, mentre Panorama, Epoca e il resto della Mondadori restano alla Fininvest. Finisce la «guerra di Segrate».

Febbraio 1995

La procura di Milano avvia una serie d’inchieste su alcuni giudici romani, ipotizzando casi di corruzione giudiziaria. Tra di loro c’è anche Metta, per la sentenza del gennaio 1991.

19 giugno 2000

Il giudice milanese Rosario Lupo proscioglie Berlusconi, Metta e altri indagati dall’accusa di corruzione sulla sentenza del gennaio 1991.

25 giugno 2001

La corte d’appello rovescia il proscioglimento: Metta e altri indagati sono rinviati a giudizio. Per Berlusconi si ipotizza la corruzione semplice, ma l’eventuale reato è prescritto.

29 aprile 2003

Metta viene condannato a 13 anni di reclusione.

Aprile 2004

La Cir notifica un atto di citazione alla Fininvest: chiede circa 500 milioni di euro oltre interessi perché sostiene che la sentenza del 24 gennaio 1991 è frutto di corruzione e l’ha indebolita nelle trattative che hanno portato alla transazione dell’aprile 1991.

23 maggio 2005

Sentenza contro Metta ribaltata in appello: assolto il giudice. Nelle motivazioni si legge: «La sentenza del gennaio 1991 non presentava aspetti di abnormità o di arbitrarietà tali da essere sintomo di un sottostante patto corruttivo».

4 maggio 2006

La cassazione annulla l’assoluzione e ordina un nuovo processo per il Lodo Mondadori.

23 febbraio 2007

Nel nuovo processo d’appello Metta viene condannato a 2 anni e 8 mesi per corruzione giudiziaria.

13 luglio 2007

Metta viene condannato definitivamente in Cassazione a 2 anni e 9 mesi di reclusione.

3 ottobre 2009

Il giudice milanese Raimondo Mesiano condanna la Fininvest a risarcire la Cir con quasi 750 milioni di euro.

9 luglio 2011

La Corte d’appello condanna la Fininvest a risarcire la Cir con 564 milioni di euro: in borsa, quel giorno, la quota Fininvest nella Mondadori vale meno della metà di quella cifra.

17 settembre 2013

La Corte di cassazione condanna definitivamente la Fininvest: il risarcimento scende di 23 milioni circa rispetto alla cifra stabilita in secondo grado, a un nuovo totale di 541 milioni. Oggi la capitalizzazione di borsa della società è di 262 milioni.

«Questa sentenza non è giustizia, è un altro schiaffo alla giustizia. Rappresenta la conferma di un accanimento sempre più evidente.  E la sua gravità lascia sgomenti. Da vent'anni certa magistratura assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti tentano di eliminare dalla scena politica mio padre aggredendolo su tutti i fronti. E ora la magistratura ci impone definitivamente di finanziare proprio il gruppo De Benedetti, per un importo spropositato, infinitamente superiore al valore della partecipazione Fininvest nella Mondadori. Tutto ciò è compatibile con la democrazia? Davvero si può far finta di niente di fronte ad una simile anomalia? Sappiamo meglio di tanti altri che le sentenze si devono rispettare, lo abbiamo dimostrato nei fatti eseguendo alla lettera quanto stabilito dai primi due gradi di giudizio. Però le sentenze ingiuste non solo si possono, si devono criticare. E anche questo, al di là delle motivazioni che leggeremo molto attentamente, è un verdetto in palese contrasto con la realtà dei fatti ma anche con le regole del diritto. Siamo dalla parte della ragione, lo abbiamo provato senza ombra di dubbio ma ci vediamo ugualmente condannati ad un autentico esproprio, che senza alcun fondamento colpisce così duramente uno dei più importanti gruppi imprenditoriali del Paese. Il ridimensionamento molto modesto della somma determinata dalla Cassazione non intacca in alcun modo l'eccezionale peso dell'ingiustizia di cui siamo vittime. Al contrario, suona come una vera e propria beffa. La Cir non ha subito alcun danno, lo sa per primo Carlo De Benedetti che continua a straparlare di «scippo», neppure un euro da parte nostra era ed è dovuto. Oggi la Cassazione aveva la possibilità di cancellare quello che non esito a definire uno scandalo giuridico. Ha deciso di non farlo. È una nuova, bruciante sconfitta per la giustizia, una ferita profonda per quanti si ostinano ancora a credere nei valori della giustizia e della verità. Ma noi non ci arrendiamo. Percorreremo tutte le strade che riguardo alla sentenza l'ordinamento consente perché questi valori possano tornare a essere rispettati.» Marina Berlusconi, presidente Fininvest e Mondadori.

Marina Berlusconi: "Ecco perché l'estremismo giudiziario può uccidere il Paese". In un'intervista esclusiva di Giorgio Mulè su Panorama il presidente di Mondadori e Fininvest ripercorre il calvario giudiziario di suo padre Silvio Berlusconi e definisce il processo Ruby "una farsa".

«E' un attacco concentrico. Un assedio. L’obiettivo è chiaro: colpire una volta di più mio padre, come politico, come imprenditore, ma anche nella sua dignità di uomo. E, una volta di più, per colpire Silvio Berlusconi non si fermano neppure davanti al rischio di fare danni gravi, molto gravi, all’intero Paese».

Marina Berlusconi lascia perdere i preamboli. La presidente di Fininvest e di Mondadori (editore, tra l’altro, di Panorama) va dritta al cuore del suo ragionamento e afferma: «Sbaglia chi pensa che oggi la questione riguardi solo le vicende giudiziarie di mio padre. No, siamo davanti a un’emergenza che riguarda tutti. E in questa situazione non è possibile tacere».

Pensa che le iniziative della magistratura possano far saltare gli accordi di governo?

«Mio padre è stato molto chiaro. Non ce la faranno. Non la si darà vinta ai signori della guerra, a un sistema che da vent’anni paralizza l’Italia e su questa paralisi ha costruito le sue carriere e le sue fortune.» 

Anche perché il Paese ha uno straordinario bisogno di stabilità…

«Credo che nessuna persona di buon senso possa tifare per l’instabilità. A maggior ragione chi di mestiere fa l’imprenditore. E, mi lasci aggiungere, se oggi, tra mille difficoltà, la politica tenta di superare le barricate e di garantire governabilità e stabilità, un grandissimo merito va proprio a mio padre. Con un atteggiamento molto responsabile e leale, più di tanti altri si è speso e si sta spendendo.»  

Beh, al di là delle dichiarazioni di principio, l’esecutivo deve ancora dimostrare quel che sa fare.

«Il governo Letta di fatto non ha ancora cominciato a operare, verrà giudicato dai risultati. Quel che è certo è che abbiamo bisogno di scelte, e scelte veloci. Anche se sappiamo bene che non tutto dipende da noi, i vincoli dell’Europa sono pesanti. È in Europa che il governo si giocherà una partita decisiva.» 

Ma la Germania non sembra disposta a fare sconti.

«Che questo rigorismo a senso unico non ci porti da nessuna parte è ormai evidente. Guardiamo a quel che sta succedendo nel resto del mondo. Di ricette alternative ce ne sono. Pensi per esempio agli Stati Uniti, e, su un piano ben più radicale, anche al Giappone. È presto per dare un giudizio, bisognerà vedere come andrà nel medio-lungo termine, ma qualche primo risultato positivo mi pare ci sia. E in ogni caso, anche se di formule magiche non ne esistono, resta il fatto che economie molto importanti hanno rifiutato la linea del rigore a ogni costo.» 

In Italia, però, ai problemi creati da una crisi economica drammatica, si aggiungono i guasti provocati dalla «guerra dei vent’anni».

«È mostruoso il solo pensare che il destino del Paese passi per le mani di un gruppo di magistrati spalleggiati da qualche redazione e qualche arruffapopoli.» 

Così però si mette in discussione un principio cardine della nostra Costituzione: l’indipendenza della magistratura.

«L’indipendenza della magistratura è un principio costituzionale sacrosanto. Il problema è che è stato usato per cancellare altri principi, altrettanto fondamentali. Si è fatto scempio dei più elementari diritti della persona: il diritto al rispetto della propria dignità, a una privacy, a non vedersi linciati sui media prima ancora non dico di una sentenza, ma di un processo… Hanno imposto un meccanismo in cui sono saltati tutti i confini tra personali opinioni di tipo morale, valutazioni di tipo politico, verdetti giudiziari. È un meccanismo diabolico, dove rischi di trovarti in totale balia dei personalismi e dei protagonismi di certe toghe. Che a volte sembrano proprio aver dimenticato quel che dovrebbero essere: servitori della giustizia, e non «giustizieri» in nome di qualche fanatismo ideologico.» 

Ma molti sostengono che suo padre insista sui problemi della giustizia soprattutto o solo perché lo riguardano da vicino.

«So bene che oggi, con la crisi, le preoccupazioni delle famiglie sono altre. Ma dobbiamo tutti renderci conto che l’incertezza del diritto può distruggere un Paese. In una comunità in cui le regole vengono sovvertite, in cui basta anche un solo avviso di garanzia per cambiare il corso della politica o devastare la vita di un’azienda, in una comunità dalla quale le imprese che potrebbero venire a investire e creare benessere si tengono alla larga spaventate da questa giungla, ecco, non credo si possa far finta di niente dicendo: tanto a me non capiterà mai. A parte il fatto che può capitare a tutti – e ogni giorno leggiamo storie di condannati poi assolti, di assolti poi condannati, di innocenti finiti in galera, di criminali in libertà – a parte questo, quello della giustizia malata non è un concetto astratto, è un problema che tocca direttamente la vita quotidiana di ciascuno di noi.» 

Con queste critiche, ha già messo nel conto che sarà accusata anche lei di delegittimare la magistratura?

«Credo che il problema, per la magistratura, non siano le critiche. Intanto, qui nessuno si sogna di criticare la magistratura, qui stiamo parlando di un gruppo non ampio di magistrati, a cominciare da una pattuglia di procure, che sono, quelle sì per davvero, procure ad personam. E poi, è proprio il comportamento di certe toghe a minare la credibilità della magistratura.» 

Facciamo un esempio concreto?

«Gliene faccio uno fra i tanti. Pensi a quel pm che ha costruito la sua carriera politica sulle inchieste, naturalmente a vuoto, contro mio padre, che si è candidato alle elezioni senza nemmeno avvertire il pudore di dimettersi, che adesso, bocciato sonoramente dal voto, contesta la sua nuova sede di lavoro e continua a comportarsi, tra una dichiarazione infuocata e un tweet, come se non fosse a tutti gli effetti un magistrato ma un leader politico. Le pare normale tutto questo? Non meriterebbe un po’ più di attenzione da parte di chi, in Italia ma anche all’estero, è sempre pronto ad alzare il ditino scandalizzato?» 

Facciamo pure nome e cognome del pm di cui sta parlando: Antonio Ingroia.

«Certo, facciamolo. Questo signore si permette di descrivere la Fininvest come una società che ha riciclato capitali mafiosi. E lo fa ignorando, o addirittura manipolando, i risultati dei processi nati dalle sue stesse inchieste, i quali non hanno potuto che dimostrare l'assoluta inconsistenza di ipotesi simili. Firmerò personalmente l'atto di citazione dei suoi confronti che gli avvocati stanno ultimando. Il tentativo di riproporre la storia del nostro gruppo come quella di un gruppo di malfattori è degno dei peggiori regimi sempre rispettato nel modo più totale le regole. Siamo una delle realtà imprenditoriali più significative del Paese. Negli ultimi vent'anni abbiamo pagato più di 9 miliardi di euro di tasse, ne abbiamo investiti 27, diamo lavoro a quasi 20 mila persone. E' troppo chiedere un po' di rispetto, che poi non è altro che il semplice rispetto della verità?» 

D’accordo, ma resta il fatto che non tutti credono alla tesi della persecuzione giudiziaria.

«Quando è entrato in politica mio padre era, da tempo, uno dei più importanti imprenditori italiani. Era arrivato all’età di 58 anni senza ricevere nemmeno un avviso di garanzia. Poi, non si sa perché, anzi, mi correggo, si sa benissimo perché, nel giro di pochi mesi si è scatenato un attacco che dura ininterrotto da vent’anni e che peraltro non ha portato neppure a una condanna definitiva, nonostante 33 procedimenti. Qualcuno in buona fede può ancora mettere in dubbio che si tratti di persecuzione giudiziaria? Tutti dobbiamo essere uguali di fronte alla legge, e ci mancherebbe, ma anche la legge deve essere uguale per tutti.» 

E infatti per questo si celebrano i processi. Come quello sulla vicenda Ruby, per il quale il pm Ilda Boccassini ha appena chiesto una condanna a 6 anni di reclusione oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.

«Il processo Ruby? Quello non è un processo, è una farsa che non doveva neppure cominciare. Le presunte vittime negano, o addirittura accusano l’accusa. I testimoni dei presunti misfatti non ne sanno nulla. Di prove neppure l’ombra. Hanno lavorato per anni, hanno accumulato lo sproposito di 150 mila intercettazioni, hanno raccolto quintali di verbali, hanno vivisezionato in modo morboso e vergognoso la vita di mio padre e tutto per realizzare non un processo, ma una fiction agghiacciante a uso e consumo di media molto compiacenti. Certi interrogatori, nella loro sconcertante insistenza, facevano pensare ben più al voyeurismo che alla ricerca della verità. Finirà tutto in una bolla di sapone, come sempre, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?» 

Intanto ci sono anche le condanne già pronunciate, come quella in primo grado per la vicenda dell’intercettazione su Unipol-Bnl…

«Sì, l’uomo più intercettato d’Italia, il presidente del Consiglio che ha visto pubblicati sui giornali migliaia di suoi privati e ininfluenti colloqui, condannato senza la minima prova per una intercettazione di cui neppure conosceva l’esistenza. La prima e unica condanna del genere in Italia.» 

E' arrivata anche la condanna in appello per la frode fiscale sui diritti Mediaset tra il 2002 e il 2003.

«Accusano mio padre per l’evasione di 3 milioni di euro, a fronte dei 567 milioni di imposte che il nostro gruppo ha pagato in quello stesso biennio. E ignorano due sentenze definitive sugli stessi fatti contestati, che lo scagionano completamente, chiarendo che non si occupa più, da tempo, delle aziende. Guardi comunque che all’elenco che lei sta facendo deve aggiungere una voce, pesantissima: gli attacchi al patrimonio. Quell’esproprio da 564 milioni per la vicenda del Lodo Mondadori, ma non solo.» 

Che altro?

«Per chi avesse ancora dei dubbi sull’aria che tira nel palazzo di giustizia di Milano, c’è anche la sentenza sul divorzio di mio padre. La cifra fissata mi pare dimostri come ogni senso della realtà e della misura sia stato ampiamente superato.» 

Che cosa si attende dai processi in corso e dalle sentenze che arriveranno?

«Posso dirle quel che dovrei attendermi. Una cosa soltanto. Giustizia.» 

Dopo la condanna per i diritti Mediaset, però, anche a sinistra si è sottolineato che non si può essere considerati colpevoli prima del giudizio di Cassazione. 

«Troppo facile pensare di salvarsi la coscienza recitando l’inciso rituale: «Premesso che nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva…», e poi però avanti, dagli addosso al Caimano. Di questo garantismo ipocrita non si sa che farsene.»

Insomma, a suo giudizio questo Paese resta prigioniero dell’antiberlusconismo, della caccia al nemico che ha sostituito il confronto politico?

«Uno dei più gravi errori della sinistra, che mi pare stia pagando a carissimo prezzo, è stato proprio quello di aver rinunciato a fare politica, ad affrontare l’avversario sul terreno della politica. Ha preferito illudersi che altri provvedessero, in altri modi. Si è consegnata così alle procure e a determinati gruppi editoriali, ma ha fatto anche di più: ha perfino inseguito un ex comico che straparla di golpe, sperando che fosse lui a toglierle finalmente le castagne dal fuoco. Sia chiaro, una sinistra così non è un bene per nessuno: prima torna la politica, la buona politica, e meglio è. Almeno questo, per quel che vale, è il mio auspicio.» 

…lasciando in questo modo ai grillini la bandiera dell’antiberlusconismo?

«Facciamo chiarezza: per Grillo e i suoi guardiani della rivoluzione parlerei piuttosto di nullismo, con l’antiberlusconismo e con il loro essere antitutto tentano di mascherare il nulla assoluto di programmi e proposte. La politica avrà mille colpe, ma non può finire nelle mani di un gruppo di dilettanti, o replicanti, allo sbaraglio. Certo, se poi i replicanti dimostrano di avere un’anima e un portafoglio, e se l’antipolitica va subito a impantanarsi nelle questioni più «terrene» della politica, rimborsi spese e diarie, beh, chissà che non ci siano presto sorprese.» 

Ha appena accusato «determinati gruppi editoriali». Va da sé che in cima alla sua lista c’è L’Espresso-Repubblica. O no?

«Va da sé, anche se devo dire che negli ultimi tempi, sul fronte dello sciacallaggio editoriale, la Repubblica ha ceduto abbondanti quote di veleno al Fatto. Ci sono media che sono diventati vere e proprie incubatrici permanenti di faziosità, di menzogne e di odio. E ci sono giornalisti che ormai conoscono solo l’insulto. Ma io mi auguro che chi ha scelto come mestiere quello di spargere odio conservi ancora quel minimo di obiettività per capire che questo gioco perverso rischia di sfuggirgli di mano, di diventare molto pericoloso. In Italia si respira un’aria brutta, un’aria incattivita, non solo nella rete, che è ormai lo sfogatoio della peggiore intolleranza, ma anche nelle piazze, lo abbiamo visto pochi giorni fa a Brescia.» 

L’Espresso-Repubblica ha un editore, l’ingegner Carlo De Benedetti, che ha appena definito suo padre un impresario, e non un imprenditore.

«Certo che vedere De Benedetti dare lezioni di imprenditorialità… Proprio lui, con le macerie industriali che si è lasciato alle spalle… Altro che imprenditore: lui era e resta un inarrivabile prenditore, il numero uno di quel capitalismo cannibale che pensa solo ad arricchirsi senza dare nulla in cambio, anzi, costruisce le sue fortune sulle sfortune altrui. E non mi sorprende che ormai sembri un disco rotto, è innamorato della patrimoniale: la sua unica ricetta per risolvere i guai del Paese è quella di impoverire gli altri.» 

L’Ingegnere adesso sponsorizza Matteo Renzi alla leadership del Pd…

«Sono questioni che non mi riguardano. Anche se, visto com’è andata a finire per tutti quelli che finora hanno ricevuto l’investitura dell’Ingegnere, fossi in Renzi magari qualche scongiuro lo farei.» 

Fin qui abbiamo parlato molto di antiberlusconismo. Ma mi dia una definizione del berlusconismo.

«Posso parlare di quello che conosco, e benissimo: le idee, i valori, i tanti risultati che Silvio Berlusconi ha raggiunto. Ma quello che sento chiamare berlusconismo non so davvero cosa sia, semplicemente perché non esiste. Se l’è inventato l’antiberlusconismo per darsi una identità e legittimare se stesso. È la tattica vecchia come il mondo di creare, quando non hai idee migliori, un nemico che non c’è.» 

Da tutto quel che ha detto in questa intervista, si potrebbe obiettare che lei parla per amor filiale...

«L’amore filiale c’è, chi ha intenzione di negarlo? C’è ed è enorme, perché mio padre se lo merita, per il padre che è sempre stato e per il padre che è. Sono orgogliosa di essere figlia di Silvio Berlusconi, non c’è mai stato nulla che potesse anche lontanamente incrinare questo orgoglio. Ed è un orgoglio che diventa ancora più grande per il coraggio con cui mio padre si difende e si batte per quello in cui crede. A volte mi chiedo come faccia a sopportare tutto quello che gli hanno inflitto e gli stanno infliggendo.» 

E quale risposta si dà?

«È riuscito a rimanere sempre se stesso, a non cambiare mai. Di fronte ai successi ma anche agli attacchi più ignobili. Ha saputo affrontarli senza mai perdere il suo entusiasmo per la vita, il suo ottimismo, e senza mai lasciarsi andare alla rabbia, al rancore, al desiderio di vendetta. Reazioni che, con quel che gli hanno fatto, personalmente ritengo sarebbero state più che legittime.» 

Che cosa l’ha ferita di più in questi anni?

«Tutto quel che mio padre ha dovuto subire e sta subendo mi fa star male. Ma c’è una cosa, una in particolare. Ed è la distanza siderale fra quello che lui è e il modo in cui in tanti cercano di dipingerlo. Sui giornali, in tv, in certe aule di tribunale. Quando vedo personaggi che di Silvio Berlusconi hanno fatto la loro spesso redditizia ossessione descrivere mio padre in un modo che non c’entra nulla, ma proprio nulla con quello che lui è veramente, sento tutto il peso di un’ingiustizia inaccettabile, ma provo anche una gran rabbia, la rabbia dell’impotenza, perché da questa ingiustizia è molto difficile difendersi. Ecco, questa è la cosa più insopportabile.» 

E questo, mi scusi, non è parlare per amor filiale?

«No. Io parlo per amore di verità.» 

Battaglie legali e sentenze: lo scontro tra Berlusconi e De Benedetti per il controllo della Mondadori/L'Espresso scrive “Il Corriere della Sera”. Con il rapimento del ragioniere di Berlusconi, Giuseppe Spinelli, torna alla ribalta, dopo oltre venti anni di battaglie legali e svariati processi con sentenze civili e penali, la «Guerra di Segrate». Così è passato alla storia lo scontro, avvenuto tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90, tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per assicurarsi il controllo di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani, soprattutto dopo che nel 1989 la Mondadori aveva conquistato l'Editoriale L'Espresso e ottenuto il controllo di Repubblica, di una catena di quotidiani locali (Finegil) e di importanti settimanali come Panorama, L'Espresso, Epoca.  Una vicenda che alla fine, salvo un ricorso pendente in Cassazione da parte di Fininvest, ha visto la holding di Silvio Berlusconi condannata in appello a pagare 560 milioni di euro a titolo di risarcimento alla Cir di De Benedetti. Il lodo arbitrale sul contratto Cir-Formenton è del 20 giugno 1990. La decisione fu presa dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis (Presidente), Natalino Irti (per Cir) e Pietro Rescigno (per la famiglia Formenton), incaricati di dirimere la controversia tra De Benedetti e Formenton per la vendita alla Cir della quota di controllo della Mondadori, promessa a De Benedetti e poi venduta all'asse Silvio Berlusconi/Leonardo Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza, da poco conquistata, che va al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal tribunale, gestore delle azioni contestate. Nel luglio del '90 la famiglia Formenton fa ricorso.  Il 24 gennaio 1991, la Corte d'Appello di Roma, presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini, dichiara che, dato che una parte dei patti dell' accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir era in contrasto con la disciplina delle società per azioni, era da considerarsi nullo l'intero accordo e, pertanto, anche il lodo arbitrale. La Mondadori sembra così tornare nelle mani di Berlusconi. Dopo alterne vicende di carattere legale e dopo l'approvazione della legge Mammì, nell'aprile 1991, con la mediazione di Giuseppe Ciarrapico, Fininvest e Cir-De Benedetti raggiungono un accordo: la transazione in sostanza attribuisce la casa editrice Mondadori, Panorama ed Epoca alla Fininivest di Berlusconi, che riceve anche 365 miliardi di conguaglio, mentre il quotidiano La Repubblica, il settimanale l'Espresso e alcune testate locali a Cir-De Benedetti. Questa transazione è al centro del risarcimento chiesto in sede civile (complessivamente un miliardo) da parte della holding della famiglia De Benedetti alla luce della sentenza penale arrivata nel 2007 con la condanna definitiva per corruzione in atti giudiziari del giudice Vittorio Metta, dell'avvocato di Fininvest Cesare Previti e degli altri due legali Giovanni Acampora e Attilio Pacifico. La Cassazione ha confermato l'ipotesi delle indagini avviate dalla Procura di Milano: la sentenza del 1991 della Corte d'Appello di Roma sfavorevole a De Benedetti fu in realtà comprata corrompendo il giudice estensore Metta con 400 milioni provenienti da Fininvest. Tesi quest'ultima contestata dalla holding della famiglia Berlusconi secondo la quale dei tre giudici che annullarono il Lodo Mondadori nel 1991 due «avevano condiviso» la sentenza di annullamento «in piena autonomia». In primo grado il giudice civile Raimondo Mesiano, il 3 ottobre 2009, ha condannato Fininvest a versare alla controparte quasi 750 milioni di euro per danni patrimoniali «da perdita di chance» per un «giudizio imparziale». Il 9 luglio del 2011 è arrivata la conferma della condanna da parte della Corte d'Appello di Milano che ha però ridotto l'entità del risarcimento a circa 564 milioni. Verdetto che, essendo stato immediatamente esecutivo, ha già portato Fininvest a versare a Cir la cifra.  La sentenza ha fatto dire a Silvio Berlusconi: «I 564 milioni che ho dovuto dare» a De Benedetti «non sono la rapina del secolo, ma del millennio». E all'Ingegnere: «La sua allora è stata la corruzione del millennio». La Fininvest non si è ancora arresa e ha prima presentato, il 4 ottobre 2011, un esposto al ministro della Giustizia e al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione sulla sentenza d'appello per «sconcertanti omissioni». Quindi, a novembre ha presentato ricorso in Cassazione articolato in 15 motivi i quali, secondo Fininvest, mettono in luce «le forzature, le sviste, i travisamenti, le illogicità che hanno reso possibile» la pronuncia dei giudici di secondo grado.

La cosiddetta guerra di Segrate per il controllo della Mondadori ha inizio alla fine degli anni Ottanta, quando Fininvest, Cir e un terzo gruppo guidato dalla famiglia di imprenditori Formenton controllavano ciascuno circa un terzo delle azioni della casa editrice milanese.

Nel 1988 i Formenton avevano deciso di cedere la propria parte delle azioni, e De Benedetti li convinse a firmare un pre-contratto secondo il quale entro la fine del 1991 le loro azioni sarebbero passate al gruppo Cir. Nel 1989 i Formenton cambiarono idea e vendettero le proprie azioni a Fininvest; il 25 settembre 1990 Silvio Berlusconi diventò così presidente del gruppo Mondadori. Ma l'improvviso voltafaccia provocò la reazione di De Benedetti e la lunga contesa giudiziaria.

L'ingegnere a capo della Cir, in accordo con i Formenton, decise di ricorrere all'arbitrato di tre giudici (tra i quali uno a testa scelto da De Benedetti e dai Formenton, e uno scelto dalla Corte di Cassazione), per stabilire se la cessione delle azioni a Berlusconi fosse stata legale e che non avesse violato il pre-contratto firmato dalla famiglia Formenton. L'arbitrato diede ragione a De Benedetti, ma i Formenton impugnarono a loro volta il verdetto dell'arbitrato (il cosiddetto lodo, in termini giuridici) davanti alla Corte d'Appello di Roma, che stabilì che a decidere dovesse essere la prima sezione civile del Tribunale (quella che si occupa del diritto cosiddetto della persona, cioè di separazioni, interdizioni, tutele e risarcimenti vari). La prima Sezione civile era presieduta dai giudici Valente, Paolini e Metta, e il 24 gennaio 1991 diede ragione ai Formenton - e quindi indirettamente a Berlusconi, che rimase a capo della Mondadori.

Nel 1995 la procura di Milano scoprì però che ai tempi della sentenza della prima Sezione Civile uno dei giudici che la presiedeva, Vittorio Metta, aveva ricevuto più di un miliardo di lire da Cesare Previti, uno degli avvocati del gruppo Fininvest e amico intimo di Berlusconi, tramite un conto corrente riconducibile alla società offshore All Iberian, controllata da Berlusconi. Metta avrebbe poi usato quei soldi per acquistare un appartamento, e in seguito aveva anche iniziato a collaborare con lo studio di Previti; i giudici di Milano gli chiesero conto della provenienza di quei soldi, e Metta dichiarò che erano parte di un'eredità recentemente acquisita.

Nel 2007 la Corte di Cassazione decise di condannare Previti e altri due avvocati Fininvest a un anno e mezzo di reclusione per corruzione giudiziaria, e Vittorio Metta a due anni e otto mesi; Berlusconi venne prescritto già nel 2001 perché il suo coinvolgimento nella vicenda era stato accertato fino al 1991, a differenza degli altri imputati, per i quali era continuato fino al 1992.

Nel 2004, su richiesta di CIR, si aprì a Milano un contenzioso civile per quantificare il danno economico subìto da CIR per la mancata acquisizione di Mondadori. Il 3 ottobre 2009 il Tribunale stabilì che la Fininvest doveva versare a CIR circa 750 milioni di euro, sulla base della condanna definitiva ricevuta da Previti, Metta e le altre persone coinvolte. Nei processi civili le sentenze sono immediatamente esecutive, non bisogna aspettare l'ultimo grado di giudizio: eventualmente si torna indietro. Nel 2010 però la Corte di Appello di Milano rilevò che Mesiano aveva emesso la sentenza senza aver interpellato nessun consulente tecnico; venne quindi formata una commissione di tre esperti, che ricalcolò al ribasso il risarcimento, sostenendo che ci fu un errore di calcolo. La Corte di Milano approvò la modifica richiesta dalla commissione, e Fininvest fu quindi condannata a pagare 540 milioni di euro, che salirono però a 560 con gli interessi; in tutto 190 milioni in meno rispetto alla sentenza del 2009.

Nel 2011 Fininvest presentò un esposto al Ministero della Giustizia provando a spiegare che il risarcimento non aveva senso, perchè un principio della Corte di Cassazione pena citato dalla Corte di Appello era stato male interpretato, e quindi il verdetto non aveva base giuridica.

Ecco le tappe principali della vicenda giudiziaria con al centro il Lodo Mondadori. Vicenda i cui risvolti civili hanno portato la Cassazione a confermare in sostanza la sentenza con cui i giudici di secondo grado, nel luglio del 2011, hanno condannato Fininvest a risarcire Cir. La Suprema Corte ha però ridotto la cifra del risarcimento del 15%.

4 ottobre 2001 - Davanti alla quarta sezione del Tribunale di Milano comincia il processo per il Lodo Mondadori. Imputati per corruzione in atti giudiziari sono Cesare Previti, Attilio Pacifico, Vittorio Metta e Giovanni Acampora. Qualche mese prima la quinta Corte d'Appello di Milano dichiara la prescrizione del reato per Silvio Berlusconi in quanto, per via della concessioni delle attenuanti generiche, gli è stata contestata la corruzione semplice.

28 gennaio 2002 - Il processo Imi-Sir, cominciato nel 2000, viene riunito con quello sul Lodo Mondadori. 29 aprile 2003 - Il Tribunale condanna a 13 anni Metta, a 11 anni Previti e Pacifico, a 8 anni e 6 mesi Squillante, a 6 anni Felice Rovelli, a 5 anni e 6 mesi Acampora, 4 anni e 6 mesi Primarosa Battistella. Assolto Filippo Verde. 7 gennaio 2005 - Comincia a Milano, davanti alla seconda Corte d'appello, presieduta da Roberto Pallini, il processo di secondo grado per i casi Imi-Sir e Lodo Mondadori.

23 maggio 2005 - I giudici della seconda sezione penale Corte d'appello confermano la condanna di Previti per la sola vicenda Imi-Sir, assolvendolo per quella sul Lodo Mondadori. Previti e Pacifico hanno avuto una riduzione della condanna da 11 a 7 anni. Riduzioni delle pene per gli altri imputati: Metta da 13 a 6 anni, Squillante da 8 anni e 6 mesi a 5 anni, Rovelli da 6 a 3 anni, Primarosa Battistella da 4 anni e 6 mesi a 2 anni. Per la vicenda Lodo Mondadori l'avvocato Giovanni Acampora, Metta, Pacifico e Previti sono stati assolti «perchè il fatto non sussiste».

4 maggio 2006 - Per il caso Imi/Sir, la Cassazione riduce a 6 anni la condanna per Previti e Pacifico, conferma la condanna a 6 anni per Metta, riduce la pena per Acampora a 3 anni e 8 mesi, annulla senza rinvio la condanna per Squillante e Battistella e considera prescritta l'accusa per Felice Rovelli. Per il Lodo Mondadori, la Suprema Corte accoglie il ricorso della Procura Generale di Milano e della parte civile Cir, contro le assoluzioni del maggio 2005.

18 dicembre 2006 - Davanti alla terza sezione della Corte d'appello di Milano, si apre il nuovo processo di secondo grado per il Lodo Mondadori. 23 febbraio 2007 - I giudici condannano Previti, Acampora e Pacifico ad un anno e 6 mesi, Metta a due anni e 9 mesi.

13 luglio 2007 - Le condanne del processo bis di secondo grado vengono confermate dalla Cassazione che ha così cristallizzato l'ipotesi delle indagini avviate nel 1996 dalla Procura di Milano: la sentenza del 1991 della Corte d' Appello di Roma sfavorevole a De Benedetti fu in realtà comprata corrompendo il giudice estensore Vittorio Metta con 400 milioni provenienti da Fininvest. La somma, questa l'accusa, faceva parte dei 3 miliardi di lire che il 14 febbraio 1991, 20 giorni dopo la sentenza di Metta, dai conti esteri Fininvest «All Iberian» e «Ferrido» vennero bonificati sul conto svizzero «Mercier» di Previti, e che poi vennero movimentati da Acampora e Pacifico per fare arrivare, appunto, i 400 milioni a Metta.

3 ottobre 2009 - Il giudice civile del Tribunale di Milano Raimondo Mesiano ha stabilito che la Cir ha diritto al risarcimento di 750 milioni da parte di Fininvest per il danno patrimoniale da «perdita di chance».

9 luglio 2011 - La seconda sezione civile della Corte d'Appello di Milano ha confermato la condanna di primo grado alla Fininvest riducendo però il risarcimento dovuto alla Cir a circa 564,2 milioni di euro compresi spese ed interessi.

Ecco perché il rimborso è una rapina. Altro che danno, la sentenza Mondadori "corrotta" non spostò nulla. E De Benedetti fece un affare da oltre 100 miliardi di lire, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. L'affare del secolo. Questo, per i difensori di Berlusconi, è stato per Carlo De Benedetti - ora che, dopo ventitrè anni, se ne possono tirare definitivamente le somme - la vicenda Mondadori.  Perché l'Ingegnere ha prima firmato un accordo che gli garantiva di conquistare ciò che gli stava a cuore: Repubblica, l'Espresso, i quotidiani locali. E ora incassa il risarcimento più ingente della storia giudiziaria italiana. Un risarcimento che equivale a un sesto del bilancio Fininvest di un anno. E che - come si segnala quasi con incredulità negli ambienti dell'azienda del Biscione - corrisponde a vent'anni degli utili al netto delle tasse della Mondadori. Mezzo miliardo di euro di risarcimento per un danno mai subìto: questa è, per Berlusconi, la sua famiglia e il suo staff, la morale del processo. Per capire le basi di questa lettura bisogna addentrarsi in un groviglio fatto di sette sentenze accavallatesi nel corso di due decenni. Ma il punto chiave è, in fondo, abbastanza semplice. Ed è il confronto tra due ipotesi di armistizio che, nei mesi convulsi della guerra di Segrate, puntavano a chiudere le ostilità e a dividere salomonicamente il colosso editoriale tra Berlusconi e De Benedetti. La prima è la proposta che nel giugno 1990 il Cavaliere rivolse all'Ingegnere. La seconda è quella che nell'aprile 1991 Berlusconi e De Benedetti sottoscrissero. Cosa era cambiato nel frattempo? Che era scesa in campo la politica, premendo per un accordo. E che la Corte d'appello di Roma aveva dato ragione alla famiglia Mondadori, che si rifiutava di cedere a De Benedetti - da cui si sentiva tradita - il controllo dell'azienda. Ma quella sentenza della Corte d'appello di Roma era viziata dalla corruzione di uno dei tre giudici, il relatore Vittorio Metta. Fu a causa di quella sentenza ingiusta, dice la Cir, che dovemmo scendere a patti. E i giudici - di primo grado, d'appello e di Cassazione - le hanno dato ragione. Così, per calcolare il danno economico subìto dall'Ingegnere, sono state messe a confronto le due proposte: la prima, quella avanzata da Berlusconi quando ancora la Corte d'appello non gli aveva fornito un'arma di pressione micidiale; e la seconda, quella su cui De Benedetti mise la firma. E poiché nella prima era la Cir a dover incassare un conguaglio, e invece nell'intesa finale il conguaglio andò a Fininvest, questo conto algebrico del dare e dell'avere è il danno, secondo i giudici, subito dalla Cir. Peccato che tra le due proposte passarono dieci mesi. Un'eternità, in quei mesi di Borsa tempestosa, durante i quali i valori dei pacchetti azionari cambiarono profondamente. «Le valutazioni riferite ad aprile 1991 avrebbero totalmente giustificato per l'intero ammontare la variazione dei prezzi delle azioni scambiate, con la conseguenza che la sentenza dovrebbe essere cassata per aver riconosciuto un danno esorbitante a favore di Cir mentre nessun danno risulterebbe esistente», scrivevano i legali di Fininvest nel ricorso che la Cassazione ieri ha respinto. E la spiegazione starebbe tutta nell'andamento delle azioni Espresso: comprandole nel 1991 anziché a giugno 1990, De Benedetti fece in realtà un affarone. Roba da 104 miliardi di lire, secondo i conti della difesa Berlusconi. Insomma, la sentenza «corrotta» non avrebbe modificato in nulla la sorte della guerra. E fu anche per questo, dicono i legali Fininvest, che De Benedetti si guardò bene dall'impugnarla davanti alla Corte di Cassazione, e firmò l'accordo che gli consegnava Repubblica. E allora, perché oggi il risarcimento?

DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.

«Il caso ILVA acquista ogni giorno di più uno straordinario significato di carattere generale che si aggiunge agli evidenti danni prodotti sull’economia e sul lavoro italiano da provvedimenti giudiziari sproporzionati e indifferenti ai terzi incolpevoli come i lavoratori, i clienti e i fornitori. Ora viene invocato il commissariamento generale del gruppo quale dichiarata premessa per la sua nazionalizzazione. Si vuole non solo sottrarre al mercato – con prevedibili effetti disastrosi sulla sua competitività – un gruppo produttivo decisivo per tutta l’industria metalmeccanica nazionale, ma costituire anche un più generale precedente per l’esproprio di società italiane sgradite facendo magari leva perfino sulla responsabilità oggettiva. Coloro che credono nell’economia di mercato e nelle più elementari libertà economiche, coloro che temono la fuga degli investitori – esteri in primo luogo – devono reagire con determinazione nelle sedi istituzionali». Maurizio Sacconi.

Il sequestro da parte del Gip di Taranto ”sottrae alla disponibilità di Riva Acciaio tutti i beni, senza disporre alcuna facoltà d’uso a beneficio dell’azienda”. Lo precisa Riva Acciaio, dopo la nota della procura di venerdì. ”Il sequestro preventivo penale – aggiunge Riva – impedisce all’azienda ogni utilizzo dei beni”. Inoltre Riva Acciaio sottolinea che le banche finanziatrici hanno congelato i fondi e che non è quindi possibile neanche pagare le utenze.

L'ultimo passaggio formale verrà espletato quando al commercialista Mario Tagarelli verrà notificato il verbale di immissione dei beni posti sotto sequestro dalla Guardia di Finanza per ordine del gip di Taranto. A quel punto non ci saranno più scuse, e il ping pong di responsabilità tra azienda e magistrati potrebbe finalmente cessare, scrive Flavio Bini. Riva acciaio, dopo aver fermato tutte le proprie attività mettendo in libertà i suoi 1402 lavoratori, ha motivato la propria decisione con un messaggio molto semplice: con i beni sotto sequestro e i conti congelati come si pagano dipendenti e fornitori? Colpa dei magistrati, insomma. Da Taranto, invece, il procuratore Sebastio con un comunicato stampa chiarificatore ha cercato di sgomberare il campo da ogni equivoco, spiegando senza mezzi termini che i beni sono posti sotto custodia "al fine di garantire la continuità produttiva dell'azienda". Insomma, si può continuare a produrre, eccome. Insomma, colpa dei Riva. Il rimpallo di responsabilità è destinato a finire. O Quasi. Perché nominato ufficialmente custode dei nuovi beni, Tagarelli avrà in carico, sì, la loro gestione ma per quanto riguarda le risorse liquide, i famosi conti correnti congelati, la questione è diversa. Ricevuto il verbale di immissione, Tagarelli non potrà disporre automaticamente dei conti correnti sequestrati. Quelle risorse liquide restano nel congelatore. A meno di un'istanza di dissequestro o di nuovo provvedimento dei magistrati che dia una sorta di semaforo verde al commercialista per potere avere a disposizione le risorse liquide. Solo a quel punto quelle somme saranno finalmente disponibili. Ma il punto è un altro. C'è un protagonista defilato nel braccio di ferro. Un passo indietro rispetto ai due contendenti, ma non per questo meno importante: le banche. L'irritazione dei magistrati tarantini non è solo per la drammatizzazione messa in atto dai proprietari. In teoria, pur con i conti congelati, e in attesa delle decisioni del custode, l'attività avrebbe potuto proseguire finanziandosi con il flusso del credito bancario, rimasto al riparo dal sequestro dei magistrati. Ma l'interruzione dei fidi da parte delle banche ha bloccato tutto. Dando all'azienda, questo trapela da fonti vicino alla procura, l'alibi perfetto per mettere davanti al Paese l'impossibilità reale di pagare i propri dipendenti. E quindi chiudere.

Michele Imperio a commento dell’articolo scrive sulla sua pagina Facebook. «Mi vergogno di essere tarantino concittadino di Sebastio: Un commercialista amico dei Magistrati tarantini che gestisce tutta la liquidità e tutte le aziende dei Riva. L'esproprio giudiziario invece che l'esproprio proletario! Siamo alla follia! Mi vergogno di essere tarantino!»

Gli risponde un suo amico su Facebook, tal Cosimo Coppola: anche noi ci vergognamo (elevata conoscenza della grammatica ndr) di quei tarantini (pochi) che come te difendono i delinquenti...

Michele Imperio, mosca bianca in quel di Taranto, scrive su “La Notte On Line”: La vera storia dell’Ilva di Taranto quella che sta facendo crollare il comparto italiano dell’acciaio. Chiusura immediata di sette stabilimenti e di due società di servizi e trasporti facenti capo a Riva Acciaio sparsi in tutta Italia, con la messa in libertà di circa 1.400 addetti: è la decisione presa dal gruppo Riva all’indomani del sequestro di beni mobili e immobili e di conti correnti per ulteriori 916 milioni di euro eseguito dalla Guardia di finanza nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Taranto sull’Ilva per disastro ambientale. Gli stabilimenti interessati sono quelli di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero e Cerveno in provincia di Brescia, Annone Brianza (Lecco) e le società sono Riva Energia e Muzzana Trasporti. Lo stop degli impianti – spiega la società in una nota – «non è una “scelta” aziendale, bensì un atto dovuto, dipendente dalla esecuzione del provvedimento del Gip di Taranto Patrizia Todisco la quale, ordinando il sequestro, ha sottratto alla proprietà la libera disponibilità degli impianti e dei saldi attivi di conto corrente». Decisione «purtroppo necessaria», è scritto nella nota. Con il provvedimento del gip di Taranto Patrizia Todisco, datato 17 luglio 2013 che estende il decreto del 22 maggio 2013 di sequestro preventivo di beni per equivalente fino alla concorrenza di 8,1 miliardi di euro, «vengono sottratti – sostiene il gruppo – a Riva Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale ciclo di pagamenti aziendali», facendo sì che «non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività». Di conseguenza, l’attività negli stabilimenti viene sospesa, gli impianti messi in sicurezza e i lavoratori posti in libertà, Il decreto del gip del 22 maggio 2013 escludeva invece la possibilità di sequestrare i beni «strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento siderurgico tarantino» E ora invece i giudici tarantini hanno deciso di sequestrare i beni «strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva degli altri stabilimenti del gruppo. Un nuovo attacco ai Riva dunque. Un nuovo capitolo arricchisce dunque questa storia dell’Ilva, una storia molto torbida per i motivi che qui spieghiamo. La Procura della Repubblica di Taranto con indagine espletatasi soprattutto negli anni 2011 e 2012 ha accertato l’esistenza di un grave disastro ambientale in tutto il territorio circondante lo stabilimento siderurgico dell’Ilva di Taranto per un raggio di circa 20 km, causato presumibilmente dalle emissioni dell’Ilva dal 1965 in poi. Già nel giugno 2012 voci provenienti dagli ambienti giudiziari preannunciavano un provvedimento di sequestro degli impianti da parte dei giudici al fine di attivare più incisive procedure di risanamento degli impianti. Fino ad allora infatti i Riva avevano attivato un sistema di abbattimento della diossina chiamato urea, avevano apposto i filtri ai camini, avevano fatto ex novo l’altoforno n. 4 ma queste opere venivano giudicate non sufficienti, stante anche un’alta incidenza di tumori registrata nel quartiere Tamburi di Taranto il quartiere posto scelleratamente a ridosso dell’impianto, realizzato nel 1965 dall’Iri e poi ceduto nel 1995 a Riva. Tutta la Magistratura tarantina e tutti gli ambienti politici della città di Taranto condividevano inizialmente il provvedimento dei magistrati allo scopo precipuo di avviare un risanamento dell’opificio ma a condizione che il sequestro giudiziario comprendesse la facoltà d’uso degli impianti onde consentire la prosecuzione della produzione e quindi il mantenimento dei livelli di occupazione. Lo stabilimento infatti da lavoro diretto o indotto a circa 40.00 unità lavorative tra le province di Taranto e Genova. Senonchè con incredibile tenacia e con la più totale insensibilità e il più totale disprezzo per ogni richiamo alla ragionevolezza i magistrati Franco Sebastio (P.M.) e Patrizia Todisco (G.I.P.) disponevano la chiusura tout court degli impianti e il licenziamento ad horas di tutti i dodicimila addetti. Ai giornalisti che gli chiedevano come pensasse lui di risolvere il problema dei 20.000 occupati (diretto e indotto) che perdevano il posto di lavoro su Taranto il Procuratore della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio così sorprendentemente rispondeva: E CHE ME NE FOTTE A ME DEI 20.000 OCCUPATI !!!!!!! SI ARRANGIASSERO CON GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI !!!!!!!!!!!!! NOI – proseguiva il dott. Franco Sebastio – FACCIAMO TUTTI I GIORNI SEQUESTRI DI AZIENDE!. In effetti la Procura della Repubblica di Taranto detiene il record dei sequestri preventivi in Italia sia per numero che per entità di valori sequestrati, avendo già eseguito prima del sequestro dell’Ilva, numerosi altri sequestri per equivalente di aziende del territorio in molti casi però del tutto infondati e in un caso (caso Criam) addirittura criminale, in quanto qualcuno aveva sollecitato i carabinieri di falsificare foto e altri documenti al fine di pervenire ugualmente al provvedimento di sequestro di un’azienda nonostante non ci fossero i presupposti. Forse bisognava allenarsi per altri sequestri più impegnativi. O forse a Taranto ci sono altri interessi oltre quelli connessi all’amministrazione della giustizia. Non sappiamo. Fortunatamente la nuova dirigenza dell’Ilva nella persona del dott. Bruno Ferrante già vicecapo della polizia già Prefetto di Milano e quindi prestigioso esponente delle Istituzioni non dava esecuzione al provvedimento dei Magistrati Sebastio e Todisco, beccandosi un’incriminazione per omessa osservanza dell’ordine legalmente dato dall’Autorità Giudiziaria sempre da parte del Procuratore della Repubblica di Taranto Franco Sebastio e l’attività dell’Ilva continuava. Con legge n. 231 del 24 dicembre 2012 , su impulso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Senato della Repubblica adottava d’urgenza un decreto-legge sull’Ilva di Taranto poi convertito in legge che prevedeva una moratoria di tre anni per l’Ilva per l’applicazione delle normative sull’ambiente onde dare tempo alla grande industria di adeguarsi alle normative medesime e alla nuova Aia emanata dal Governo in seguito alle irregolarità e alle omissioni riscontrate dall’Autorità Giudiziaria nell’inchiesta. Il provvedimento disponeva altresì la restituzione dell’acciaio prodotto nei quattro mesi in cui l’impianto era stato attivo nonostante il provvedimento di sospensione della produzione da parte dei Magistrati Sebastio e Todisco . La legge voleva rappresentare una prima risposta che Governo e Parlamento avevano messo a disposizione nei confronti di una città che stava pagando un tributo altissimo rispetto a scellerate scelte di concentrazione industriale fatte in passato, facendo al contempo fronte a una emergenza nazionale di straordinaria gravità. In più la nuova più rigida Autorizzazione Integrata Ambientale doveva dare con la collaborazione dell’azienda risposta concreta a quanto disposto dalla Magistratura e anche alla necessità di assicurare che la produzione non si fermasse, prospettiva questa che avrebbe provocato danni incalcolabili all’intero sistema industriale del Paese e all’occupazione. Dunque il Potere Politico manifestava una chiara volontà indirizzata al Potere Giudiziario che andava nel senso che l’industria si risanasse senza che per questo si fermasse la produzione. Da subito però sia il dott. Franco Sebastio (P.M.) che la dott.sa Patrizia Todisco (G.I:P) titolari dell’inchiesta Ilva e in verità solo loro, cominciarono a manifestare una strana insofferenza e una pervicace ostilità verso questa legge (la legge n. 231/2012) continuando illegalmente a mantenere sequestrato – contro il suo dettato – il materiale prodotto nei quattro mesi dopo il fermo, quasi che la nuova legge costituisse offesa e negazione del loro prestigio e delle loro prerogative istituzionali. Il GIP Patrizia Todisco predispose e inviò alla Corte Costituzionale un ricorso contro il decreto legge n. 207/2012 e sollevò altresì addirittura una questione di conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Il Procuratore della Repubblica Franco Sebastio, non appena il decreto fu convertito in legge, presentò anche lui un secondo ricorso alla Corte Costituzionale basato più o meno sugli stessi motivi di quello del g.i.p. Tutte queste iniziative furono accompagnate da atteggiamenti e da dichiarazioni dei due Magistrati improntate alla derisione, al contrasto, al ripudio e perfino allo sbeffeggiamento della legge e dei ministri o dei parlamentari che l’avevano patrocinata. Gravi le accuse del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio e del G.I.P. Patrizia Todisco contro l’Autorità governativa che segnavano una strana e insolita contrapposizione fra Potere Giudiziario e Potere Esecutivo. Secondo i predetti Magistrati infatti, riconsegnando gli impianti dell’area a caldo(sotto sigilli dal 26 luglio 2012) e permettendo all’Ilva di tornare a produrre acciaio, il governo aveva di fatto illegittimamente impedito l’esercizio di un’azione penale interferendo in un’indagine ancora in corso. Perchè sugli impianti vigeva un sequestro con giudicato cautelare, ordinato dal gip e confermato dal tribunale del riesame, che – a loro dire – il governo non poteva sbloccare con una moratoria delle norme a tutela dell’ambiente e a vantaggio dell’Ilva. Questa strenua resistenza all’applicazione di una legge dello Stato veniva rappresentata dai Magistrati all’opinione pubblica anche con dichiarazioni ufficiali come loro estremo baluardo difensivo del diritto alla salute dei cittadini di Taranto messa a rischio con la legge da politici corrotti e incompetenti. Manifestando con ciò sia il Procuratore della repubblica di Taranto Franco Sebastio che il magistrato dell’Ufficio del g.i.p. Patrizia Todisco un rifiuto apodittico di volersi a prescindere adeguare al chiaro indirizzo espresso dalla legge nonché astio e risentimento per la parte inquisita la quale aveva presentato anche una denuncia e un esposto in via disciplinare alla procura della Repubblica di Potenza e al CSM. Dopo alcuni mesi la sentenza della Corte Costituzionale dichiarava inammissibile il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato e respingeva l’eccezione di incostituzionalità presentata dalla procura e dall’Ufficio del G.I.p. di Taranto esprimendo gravi censure all’operato dei giudici tarantini Sebastio e Todisco. Infatti la sentenza della Corte Costituzionale tra l’altro diceva: Se l’amministrazione pubblica ha «male operato nel passato, non è questa una ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. E una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri dell’azienda non può fornire base valida per una affermazione di questa maggiore competenza dell’organo giudiziario rispetto a quello politico». Quando si oltrepassa «l’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di prevenzione generale spettanti all’autorità amministrativa» non si può che osservare il tentativo di inibire l’intervento del potere politico (che intende risanare n.d.r.), per raggiungere una finalità peraltro esplicitata dai giudici tarantini: chiudere l’impianto. Non c’è dubbio che quella della chiusura è un’ipotesi, ma il compito eventuale di raggiungerla non spetta ai giudici ma agli organi che detengono il potere di definire – con la discrezionalità del caso – la politica industriale del Paese e cadenzare i tempi e le modalità di un necessario risanamento ambientale. E quanto alla diatriba fra diritto alla salute e diritto al lavoro la nostra Costituzione, non contiene gerarchie di diritti: il più e il meno importante, quello che soccombe e quello che prevale. Il diritto alla salute non è il tiranno di quello al lavoro, nella stessa misura in cui quest’ultimo non è il becchino del primo. Senonchè pochi giorni dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale e chiaramente in polemica anche con questo altissimo rogano dello Stato i Magistrati Sebastio e Todisco posero in essere altri fatti gravissimi che denotavano ostilità avversione e disprezzo per gli organi politici nonché inimicizia grave nei confronti dei titolari dell’Ilva e una vera e propria strategia per inibire all’Ilva il risanamento degli impianti. Ciò avviene alla fine del mese di maggio 2013. L’agenzia Reuters riferisce che il giorno 24.5.2013 Emilio Riva stava per presentare il piano industriale per le opere di risanamento dell’Ilva in base alla nuova AIA, quando quello stesso giorno si è visto recapitare a distanza di due ore l’uno dall’altro un decreto di sequestro preventivo di beni da parte della Procura della Repubblica di Taranto (per € 8.100.000.000 per inquinamento) e un secondo decreto di sequestro preventivo da parte della Procura della Repubblica di Milano (per € 1.200.000.000 per evasione fiscale), questa volta non più dell’ azienda e degli impianti bensì di tutte le risorse dell’impresa per un ammontare pari a 8.100.000.000 di euro (Procura della Repubblica di Taranto) a fronte del costo ipotetico di tutte le opere di risanamento a farsi e di € 1.200.000.000 miliardi (Procura della Repubblica di Milano) per l’equivalente dell’ipotetica evasione fiscale che il Riva avrebbe commesso. Questi due sequestri praticamente rendevano inutile la presentazione del piano a seguito di quei provvedimenti non più finanziabile. Quindi una tempestiva iniziativa delle due Procure in simbiosi fra loro, per bloccare il piano di risanamento da parte di Riva e quindi problematizzare la situazione. Inoltre nello steso contesto Emilio Riva apprendeva dai giornali che da tempo egli era pedinato e sorvegliato a vista dai Servizi Segreti per ordine – evidentemente – di qualcuno e con gravissima deviazione delle funzioni istituzionali dei Servizi stessi, i quali non hanno certo il compito di fare indagini tributarie ma hanno invece la funzione di difendere il paese da possibili aggressioni esterne. Quali erano queste aggressioni esterne da parte dei Riva? E chi aveva dato ordine ai Servizi segreti di mobilitarsi? Ricordo a me stesso che i Magistrati non possono attivare i servizi segreti perché quelli normali dipendono dal Potere Esecutivo Italiano e quelli cosiddetti deviati dipendono da altri poteri esecutivi extranazionali. Eppure nella storia delle stragi del 1992 si nota uno strano coordinamento fra magistrati della procura della Repubblica di Milano e Servizi Segreti. Il dott. Francesco Di Maggio per esempio apparteneva ai Servizi Segreti come è stato accertato dalla Commissione Parlamentare Stragi. Questo giornale online ha già fatto le sue ipotesi delle ragioni di tutte queste stranezze in un articolo che vi riproponiamo. In sintesi – secondo la nostra ricostruzione – Emilio Riva avrebbe commesso un grave sgarro internazionale accettando una grossa commessa della Russia per la realizzazione di un gasdotto che doveva portare gas russo in Europa transitando anche per l’Iran. Questo gasdotto andava in concorrenza con altri gasdotti europei che invece dovevano trasportare gas dall’Azerbajan per evitare l ‘acquisto di gas russo da parte dell’Europa perchè questi acquisti – secondo gli Stati Uniti – avrebbero rafforzano eccessivamente la Russia. E Berlusconi è stato costretto a sloggiare da presidente del consiglio alla fine del 2011 non per contrasti interni in seno alla sua maggioranza sul federalismo bensì per la sua rinnovata manifestata amicizia con Vladimir Putin che si traduceva in accordi energetici, tanto per la costruzione del gasdotto south stream (quello che coinvolgeva anche Riva il quale lo doveva materialmente riprogettare e realizzare) quanto per vari altri business, in comparti viciniori agli idrocarburi, spartiti tra italiani, russi, libici, algerini, ecc. ecc.. “Notificato il proprio decreto di sequestro per 8 miliardi il Procuratore di Taranto Franco Sebastio con tono minaccioso e fare di sfida faceva nuove dichiarazioni alla stampa, con cui diceva: EH!!!!!!!!!! E’ ORA VEDREMO SE IL POTERE POLITICO AVRA’ ANCORA IL CORAGGIO DI FARE UNA NUOVA LEGGE!!!!!!!!!!!!! PER FERMARCI!!!!!!!!!! Dunque Potere Politico e Corte Costituzionale venivano ancora una volta sbeffeggiati da singoli rappresentanti del Potere Giudiziario e un imputato veniva attaccato con estrema violenza sempre da quegli stessi esponenti del Potere Giudiziario. Peraltro se qualche ingenuo può ancora illudersi che tutto ciò avveniva al solo scopo di tutelare la salute dei tarantini, senza alcuna implicazione politica, nessuno può coltivare l’illusione che l’operato dei Servizi Segreti o quello della Procura della Repubblica di Milano fosse finalizzato ai medesimi scopi perché a questi organismi istituzionali della salute dei tarantini non gliene frega assolutamente niente! Dunque gli interessi in gioco sono altri! Ma quali? inoltre la chiara sinergia che si nota fra l’azione della Procura della Repubblica di Taranto, il GIP Patrizia Todisco e quella della procura di Milano e dei Servizi Segreti, distolti dalle loro funzione istituzionali fa pensare al peggio. Che infatti si manifesta qualche tempo dopo. Nel luglio 2013 il G.i.p. Patrizia Todisco in una sua ordinanza dapprima scrive che vorrebbe che fossero incriminati anche tecnici, ingegneri capi e dirigenti dell’impianto per concorso in associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale e poi ottenuta l’istanza dei P.M. ottiene proprio nei giorni scorsi la richiesta di cinque mandati di cattura contro operai dell’Ilva i quali a suo dire erano il governo ombra dell’azienda. Poi con un nuovo provvedimento estende il primo provvedimento di sequestro anche alle altre aziende possedute dai Riva ai suoi conti correnti e insomma a tutto ciò che l’imprenditore possiede. Riva ha dovuto chiudere tutte le fabbriche e ora il comparto dell’acciaio dell’intero paese è in ginocchio. La cassa integrazione che finanziamo tutti noi continua a espandersi. Il governo è – almeno apparentemente – di nuovo in grave difficoltà e in grave imbarazzo. Si pensa a nuovi commissariamenti. Il ministro Zanonato (P.D.) però dice: l’imprenditore potrebbe continuare a farlo il custode nominato dal giudice. Mi chiedo: ma Zanonato c’è o ci fa? Questi uomini devono salvare l’Italia? Non sarebbe meglio smetter e di fare i maggiordomi eunuchi del Partito Democratico Americano e fare una bella proclamazione di indipendenza dai poteri stranieri forti e occulti e il taglio delle unghie dei Magistrati che vi si asserviscono?

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.

Ma non se ne deve parlare. Ed infatti nessuno ne parla. Anzi…….quasi nessuno. L’imprenditore Fabrizio Pilotto e il giornalista Dimitri Buffa, ospiti alla trasmissione di Radio Radicale Hyde park corner, affrontano i temi della diffamazione a mezzo stampa e della giustizia italiana. Buffa sostiene che è in molti casi di fronte a “concorrenza sleale” quando i pm perdonano ai giornalisti l’utilizzo di un linguaggio scorretto ma che procura lettori alla testata e guadagni all’editore. “Basta essere amici di tutti i principali magistrati della pubblica accusa in Italia per ottenere un occhio di riguardo quando si viene querelati da politici e potenti – dice Buffa - mentre chi non milita nel partito delle procure deve stare bene attento a ciò che scrive”. Sul tema della giustizia, Fabrizio Pilotto racconta la sua storia personale come testimonianza. Nel marzo scorso l’imprenditore del settore telemarketing è stato diffamato dal Mattino di Padova, che ha cavalcato una montatura giudiziaria che lo ha visto ahilui protagonista.

IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.

- Scrive Giorgio De Neri – Una fabbrica seriale di mostruosi errori giudiziari. Che stanno diventando la regola, non l’eccezione, almeno in certi casi. Questa l’Italia che viene fuori leggendo l’inchiesta de “Il tempo”, oggi arricchitasi del contributo di Marco Pannella che in un editoriale di prima pagina invita tutti a firmare e poi a votare i dodici referendum radicali, la maggior parte dei quali dedicata proprio alla giustizia. Le statistiche, i numeri, pongono un problema di quantità ancora prima che di qualità di questi inescusabili errori per i quali l’ultra casta in toga pretende di non dovere in nessun caso pagare pegno. E questi numeri tenuti accuratamente nascosti dalla burocrazia passiva del ministero oggi sotto la responsabilità della bravissima e intellettualmente onestissima Anna Maria Cancellieri (che più volte si è pronunziata a favore dell’amnistia sia per sfoltire i posti in carcere sia per abbattere l’arretrato) parlano di 50 mila casi di “errore grave” dal 1989 a oggi. Cioè dalla entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale teoricamente accusatorio al 2013. Beh, dividendo 50 mila casi umani per 24 lunghi anni di ingiustizie come regola, si ottiene il numero di 2500 tragedie umane l’anno. Posto che i giudici sono 9 mila, di cui, mille distaccati in incarichi ministeriali e para tali, 4 mila al civile e 4 mila al penale, e dato che questi errori riguardano il settore penale, se la matematica non è un ‘opinione ogni due magistrati di diritto penale c’è un caso di errore grave l’anno. Che, anche a volere fare la tara di Totò alla statistica (la storiella del pollo intero del mezzo pollo e del “non pollo”), è un numero pazzesco. In proporzione più alto di quello degli errori per mala sanità. Che invece ricadono sulle spalle di chi li commette. Con l’aggravante che mentre un medico spesso è costretto a intervenire di urgenza con il rischio che la probabilità di errore si moltiplichi, il magistrato ha tutto il tempo di pensarci due volte prima di mettere in carcere un innocente. E la obbligatorietà dell’azione penale in questo contesto non è altro che un alibi. Anzi una foglia di fico. Periodicamente si registra non a caso l’astensione dalle udienze di tutti gli avvocati penalisti che si riconoscono nella “visione delle cose” dell’Unione delle camere penali italiane. Tale “visione delle cose” contempla tra l’altro un minore e meno disinvolto uso della custodia cautelare, soprattutto a fini coercitivi di formazione della prova, ma anche la separazione delle carriere e la responsabilità civile del magistrato che sbaglia. Spiace vedere che anche le nuove, o quasi, speranze della politica, come Matteo Renzi, si appiattiscano oggi sulla difesa di un ruolo sacrale della magistratura al di là di ogni ragionevolezza e sulla difesa dello status quo, con la formuletta “le riforme le deve fare il Parlamento non i cittadini con i referendum”. Purtroppo tutto ciò non è vero oggi come non lo era neanche nella prima Repubblica. E se i cittadini non coglieranno questa occasione fra venti anni staremo ancora qui a parlare degli stessi irrisolti, e ovviamente aggravati, problemi.

IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.

- Scrive Dimitri Buffa – Non era mai successo che un’intera ex classe di liceo scrivesse, firmasse e spedisse a un quotidiano, “La Stampa”, una lettera di piena solidarietà a un professore accusato di “pedofilia”. Le virgolette sono d’obbligo perché parlare di pedofilia per un rapporto consenziente tra un adulto e una ragazza di diciassette anni è una delle follie del nostro sistema giuridico penale italiano. O meglio italiota. Che raccoglie l’emotività furbetta dei politici in cerca di visibilità sotto campagna elettorale, quindi quasi sempre perché il paese purtroppo è in perenne campagna elettorale, per inasprire senza alcuna logica le norme che già punivano i rapporti con i minorenni purché non avessero raggiunto i quattordici anni di età. In quel caso infatti si giudicava impossibile un consenso consapevole. Anche se la storia e la letteratura ci consegnano migliaia di casi che ci fanno capire che le cose non stanno in bianco e nero come le vuole la legge. Comunque un limite ci deve stare e quello dei 14 anni era accettabile. Purtroppo arrivò l’era del puritanesimo alle vongole al governo, che coincise con il secondo e il terzo governo Berlusconi e con la breve parentesi del Prodi due, in cui, in mancanza di riforme, si ubriacò la pubblica opinione, mercè un giornalismo radio televisivo pubblico e privato e dei grossi quotidiani, che definire servile, volgare e vigliacco ( e persino un po’ “stronzetto”) è semplicemente un eufemismo, di nuovi allarmi securitari. Tra cui il satanismo, la pedofilia e quant’altri. Nacquero così leggi assurde di cui hanno finito per fare le spese anche i leader dei partiti che le avevano promosse, vedi il caso del processo Ruby Berlusconi. Ora nel caso del prof di Saluzzo non c’è neanche di mezzo un rapporto a pagamento, come nel caso delle “olgettine”, almeno secondo le ipotesi accusatorie abbastanza difficili da dimostrare, se non con deduzioni logiche, ma una vera e propria storia d’amore con una o due allieve. Secondo la pm locale e gli inquirenti, la prova del mercimonio sessuale risiederebbe nel fatto che una delle ragazze nel primo trimestre del 2008 aveva solo “sei” in italiano, mentre poi nel secondo passò a “sette” e a fine anno fu promossa con “otto”. Tutto ciò meriterebbe di passare alla storia degli errori giudiziari e dei problemi psicologici di non pochissimi rappresentanti della pubblica accusa in Italia se non ci fosse di mezzo un povero Cristo che da oltre una settimana è in cella per aver avuto quattro anni fa un rapporto sessuale consenziente con un’allieva allora diciassettenne che ovviamente non ha alcuna intenzione di denunciarlo e di diventare parte civile in un processo. A parte la rabbia che simili accadimenti generano nell’opinione pubblica più avveduta, e meno manettara “a prescindere”, questa storia di per sé non è un’ottima prova della bontà di tutti i referendum radicali sulla giustizia e, nella fattispecie, di quello sulla responsabilità civile del magistrato? Speriamo solo che il prof di Saluzzo abbia la forza di resistere a questa assurda carcerazione preventiva e non accada, Dio non voglia, qualche disgrazia tipica delle nostre galere da terzo mondo. Visto che le prigioni italiane sono diventate vere e proprie anticamere degli obitori. Cosa che l’Europa ormai fra pochi mesi sanzionerà con un vero e proprio commissariamento della giustizia italiana.

L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.

Tutti i presunti innocenti con i film di Sordi e Ford. Il cinema ha indagato a lungo su storie oscure del recente passato che vedono al centro errori giudiziari clamorosi. A cominciare da «L’istruttoria è chiusa» di Damiani sulla storia dell’architetto..., scrive Dina D’Isa su “Il Tempo”. Il cinema ha indagato a lungo su storie oscure del recente passato che vedono al centro errori giudiziari clamorosi. A cominciare da «L’istruttoria è chiusa» di Damiani sulla storia dell’architetto Vanzi che finisce in prigione con l’accusa di omicidio colposo e omissione di soccorso, in seguito a un incidente stradale. Una volta dentro, vive sulla propria pelle l’esperienza del carcere, tra metodi repressivi delle guardie, violenza dei compagni di cella e prevaricazioni. Analogo, per vicenda e richiesta di una riforma carceraria, a «Detenuto in attesa di giudizio» (1971) di Loy, con Alberto Sordi nei panni del geometra romano Di Noi, da anni in Svezia, sposato con una svedese e stimato professionista, che va in vacanza in Italia con la sua famiglia. Alla frontiera italiana l’uomo viene fermato e arrestato senza che gli venga fornita alcuna spiegazione. Poi scoprirà di essere accusato di «omicidio colposo preterintenzionale» di un cittadino tedesco. Da allora, il suo sarà un autentico calvario giudiziario, costellato di trattamenti umilianti e spersonalizzanti, che anche da uomo libero lo segneranno per sempre. «Il fuggiasco» di Manni, con Liotti, si rifà invece all’autobiografia di Carlotto, scritto alla fine della sua odissea giudiziaria, dopo 11 processi, 6 anni di prigione e 5 da fuggiasco, fino alla grazia del presidente Scalfaro: il giovane militante di Lotta Continua venne accusato di un omicidio di cui era solo testimone. Anche la vita di Lelio Luttazzi venne stravolta: in seguito all’intercettazione di una telefonata fu arrestato, con Walter Chiari, con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti. L’artista rimase in carcere 27 giorni: un’esperienza devastante dalla quale non si riprese più. L’ispirazione per «Detenuto in attesa di giudizio» venne a Sordi quando lesse il libro «Operazione Montecristo» scritto in carcere da Luttazzi. Anche il cinema internazionale ricorda casi eclatanti come ne «Le ali della libertà» di Darabont, con Morgan Freeman e Tim Robbins, nel ruolo di un dirigente bancario condannato a due ergastoli per l’uccisione della moglie e del suo amante, benché egli proclami la sua innocenza. E ancora il cult «Presunto innocente» di Pakula con Harrison Ford; ma anche il «Presunto colpevole» di Yates con Cher, Liam Neeson e Dennis Quaid; fino a «L’angolo rosso - Colpevole fino a prova contraria» di Jon Avnet con Richard Gere e a «Présumé Coupable» di Vincent Garenq, su uno dei più gravi errori giudiziari francesi. Mentre in tv il caso Tortora è stato portato da Ricky Tognazzi e la storia di Barillà, imprenditore milanese arrestato per uno scambio di persona, è stata interpretata da un intenso Giuseppe Fiorello.

LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.

- Scrive Dimitri Buffa - Uno, dieci, cento, mille e forse persino centomila  errori giudiziari  come quello che colpì  Enzo Tortora caratterizzano la giustizia italiana odierna. Parola di Gaia Tortora, intervenuta oggi con una drammatica lettera a “Il Tempo” (nuova gestione a cura dell’ex inviato del “Giornale”, Gian Marco Chiocci, ndr) che ha aperto il giornale con il titolo “Cinquantamila innocenti in prigione”. Quante volte anche da queste colonne, on line, abbiamo parlato di fabbrica seriale di errori giudiziari. Era intuitivo. Ma  “Il Tempo” oggi ha tirato fuori i dati tenuti nascosti da via Arenula sul numero esatto dei poveri Cristi finiti in galera per errori attribuibili ai vari pm d’assalto in Italia dal 1989 a oggi. Cioè dall’entrata in vigore del codice firmato dalla buonanima di Giuliano Vassalli sino ai giorni nostri: e il numero, la quantità, lasciando perdere per un attimo, la “qualità”, dell’errore, fa paura: 50 mila unità. In ventiquattro anni fa la media di duemila errori giudiziari completi ogni anno. Una persona ogni 40mila in Italia, considerando anche neonati e centenari, ogni anno si becca la galera gratis perché magari qualche investigatore deve finire in prima pagina e qualche giornalista amico suo lo pompa. Così il caso Tortora non è servito a niente, ammette desolatamente la figlia dell’ex presentatore che oggi lavora a “La7” e che per anni ha sempre diffidato, giustamente, chicchessia a paragonarsi a suo padre. Ora però, constatato il fallimento verticale, senza sé e senza ma, dell’impresa giustizia nel Bel Paese, i paragoni con enorme onestà intellettuale li fa lei. E cita il caso del povero Giuseppe Gulotta. Che in un libro sulla propria lunga Odissea nelle carceri e nella giustizia italiana sostiene che siccome “Giuseppe Gulotta  non è Enzo Tortora nessuno si occupa del suo caso..” Cosa che purtroppo rappresenta altra vergognosa realtà del sistema. Insomma oramai il paragone con Tortora viene sdoganato anche perché in fondo era proprio lui che da vivo si metteva sullo stesso piano di “chi non ha voce”. Per dargliela. E mai come in questo momento il docufilm sulla vicenda umana e giudiziaria di Enzo Tortora, curato da Ambrogio Crespi e prodotto dal Gruppo Datamedia,  appare l’iniziativa giusta al momento giusto.

Questa è la prova che mio papà è morto invano. Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono..., scrive Gaia Tortora su “Il Tempo”. Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono ritrovata davanti al computer e a tanti ricordi e parole e immagini nella testa. Questa volta però, mentre da«Il Tempo» mi spiegavano come sarebbe uscita l’inchiesta del giornale, la mia mente è tornata a poche settimane fa. Ad un libro. Alla storia di un uomo. Lui si chiama Giuseppe Gulotta. Il suo libro Alkamar - la mia vita in carcere da innocente. È la storia di un uomo che per 36 anni è stato considerato un assassino. È stato costretto a firmare una confessione con le botte e le torture. Oggi ha 55 anni. Ha passato in cella gran parte della sua vita. È un uomo innocente finito in un meccanismo che può stritolare chiunque. Ho letto d’un fiato la sua storia, che pure conoscevo. Ma non così nei dettagli. Mi sembrava in alcune pagine di rivivere l’incubo. Quel senso di impotenza che ti soffoca. Anche in quel caso tutto è cambiato in una notte. Esattamente come per mio padre. E per noi. Dalle 4 del mattino del 17 giugno 1983 l’esistenza di mio padre viene stroncata. Giorgio Bocca lo ha definito «il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana». Dall’arresto di quella notte alla morte di nostro padre passarono 5 anni. In mezzo, una condanna a 10 anni di carcere, poi la piena assoluzione e infine il cancro ai polmoni che lo ha portato via. Potrei dire molte cose in queste righe che mi è stato chiesto di scrivere. Molte e forse troppe ne ho già dette. Allora, come spesso mi capita quando mi chiedono qualcosa su mio padre, chiudo gli occhi e cerco di riascoltare le sue raccomandazioni. «Date voce a chi voce non ha». Ecco oggi i casi Tortora ci sono ancora. Sono molti e non li conosciamo. Mio padre era un uomo famoso. E nel bene e nel male questo ha avuto un peso. I riflettori si sono inevitabilmente accesi. Cosi riprendo tra le mani il libro di Giuseppe Gulotta e quelle parole a pag 127: «Gli anni 80 sono anni caldi per chi amministra la giustizia. Un referendum promosso dai radicali chiede una legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Troppi errori, dicono i promotori citando il caso Tortora. Ma Giuseppe Gulotta non è Enzo Tortora, nessuno si occupa del suo caso, non c'è una campagna innocentista né un garantista, fra i tanti che si definiscono tali, che parli di lui». È terribilmente vero. Ieri come oggi. I casi Tortora non hanno voce. Ieri come oggi siamo ancora qui a dibattere di riforma della giustizia. A firmare di nuovo referendum per i quali gli italiani si erano già espressi e che poi come spesso accade i nostri politici hanno fatto diventare carta straccia. Mentre infuria la battaglia sulla magistratura i processi vanno avanti. Lentamente. Le persone aspettano. La sete di giustizia in questo Paese è diventata arsura. In molti risvolti delle nostre vite. Il problema non è la magistratura italiana, ma alcuni uomini che ne fanno parte. E che possono sbagliare come tutti. Ma che avendo per le mani la vita di un essere umano dovrebbero avere maggior scrupolo proprio come un chirurgo con il bisturi o un giornalista con la penna. Sulle responsabilità dei magistrati è stato vinto un referendum nel 1987. Non chiedo che vada limitata la loro libertà. Ma i magistrati che sbagliano almeno non dovrebbero essere promossi. Basterebbe un po’ di buonsenso e di coerenza. Invece, nella maggior parte dei casi, non ti chiedono neanche scusa.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

- Scrive Dimitri Buffa – Sbatti il vip in carcere e poi la tua inchiesta sarà famosa, la tua carriera in ascesa e tu potrai viverci di rendita senza occuparti dell’ordinaria amministrazione. Funziona sempre. Quando un pm d’assalto vuole che la propria inchiesta vada in prima pagina e lui venga immortalato da flash e telecamere, il sistema è quello. E giustamente il quotidiano “Il tempo”, cui la nuova direzione a cura di Gian Marco Chiocci sta dando una connotazione estremamente garantista, anche oggi azzecca il cavallo su cui puntare: quei vip che, dall’epoca di Walter Chiari, Lelio Luttazzi, Mario Schifano e Franco Califano, vengono periodicamente sbattuti in carcere, alcuni di loro magari per via della loro tossicodipendenza, sono una scorciatoia sicura per fare carriera. E ha ragione Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle camere penali italiane, a indicare, sempre oggi in un editoriale in prima pagina sul giornale romano in questione, il vero guaio di questo cortocircuito: la mancata separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica. Cosa che ha determinato nei decenni una sorta di colleganza omertosa tra le toghe che molto difficilmente si smentiscono a vicenda. Specie a livello di fase della custodia cautelare che molto raramente un gip nega a un pm. Ma il problema della mancata separazione delle carriere si riverbera anche sul primo grado di giudizio, specie quando si tratta di un giudizio abbreviato davanti al gup, o di materie che per competenza richiedono il giudice unico. “Il Tempo” ieri ha rievocato, in coda al caso Tortora che fu quello più eclatante in cui un’inchiesta modesta e scalcinata veniva per così dire “sponsorizzata” grazie al nome eccellente, la storia tragica di Lelio Luttazzi, che si fece 27 giorni di carcere telefonando senza saperlo al pusher dell’epoca di Walter Chiari, che aveva in pratica “usato” l’amico da tramite senza avvertirlo. Era poi una storia modestissima di consumo di cocaina da parte di Chiari, ma i pm dell’epoca si fecero belli con questi due trofei vip. Più recentemente tutti ricorderanno l’inchiesta sballata su Vallettopoli, in cui vennero arrestati prima e poi assolti, Gigi Sabani e Valerio Merola, esposti al pubblico ludibrio con epiteti come “il merolone”, come presunti organizzatori di un giro di squillo per vip. La vicenda in quel caso sprofondò nel grottesco quando sui rotocalchi venne fuori che il pm Chionna si stava per sposare con una delle testi coinvolte nella storia di prostituzione di alto bordo. E’ appena il caso di ricordare che tra i dodici referendum proposti in questi giorni dai radicali e da Marco Pannella, quello sulla separazione delle carriere e quello per ripristinare la responsabilità civile personale del magistrato che sbaglia per colpa grave, sono tra i più gettonati.

Da Luttazzi a Sabani Come rovinare vita e carriera a un vip.

È il padre di tutti gli errori giudiziari. Non è il primo in ordine di tempo che ha coinvolto un personaggio famoso, un volto noto del piccolo schermo, un vip insomma. Ma è emblematico, come si dice,...scrive “Il Tempo”. È il padre di tutti gli errori giudiziari. Non è il primo in ordine di tempo che ha coinvolto un personaggio famoso, un volto noto del piccolo schermo, un vip insomma. Ma è emblematico, come si dice, per l’immensa gravità dello «svarione» e la totale lontananza della vittima dai reati contestati. È il «caso Tortora». Il «re di Portobello» fu condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. Giorgio Bocca lo definì «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese». Enzo, un elegante signore borghese di opinioni liberali, viene arrestato il 17 giugno 1983 all’hotel Plaza di via del Corso. Lo immortalano in manette, il volto stanco per la notte in bianco, all’uscita della caserma dei carabinieri. Ad accusarlo è il fior fiore della camorra: il pluriomicida Giovanni Pandico, Pasquale Barra, detto «’O ’animale», 67 assassinii sulle spalle, e Gianni Melluso, «il bello». Quest’ultimo è l’unico che, nel 2010, si scusa con la famiglia: «Mi inginocchio davanti alle figlie», dichiara all’Espresso. «Resti pure in piedi», replica Gaia, la terzogenita. Tortora è condannato a 10 anni. Sconta sette mesi in cella e un anno e mezzo circa ai domiciliari. Prima del verdetto diventa eurodeputato. Ma si dimette, rinuncia all’immunità e torna in Italia per farsi arrestare, pur continuando a proclamarsi innocente. Il 15 settembre 1986 è assolto in appello. La Cassazione conferma. Ma la sua richiesta di risarcimento danni (100 milioni) viene rigettata. Il 18 maggio 1988 Tortora muore per un cancro. Nessuno dei camorristi che aveva puntato l’indice contro di lui è indagato per calunnia e Pandico, dal 2012, è un libero cittadino. Prima era stata la volta di Lelio Luttazzi. Nel giugno del ’70 il conduttore, 46 anni e all’apice del successo, viene arrestato con Walter Chiari per spaccio di droga. Tutto a causa dell’intercettazione di una telefonata in cui si era limitato a girare a uno sconosciuto, che si rivelò poi uno spacciatore, un messaggio di Chiari. Dopo 27 giorni in cella viene rilasciato, la sua posizione processuale stralciata. Tornò in radio nel ’71 con «Hit parade», ma la sua vita fu devastata da quest’esperienza. Vi ricordate i mondiali dell’82? Come dimenticarli. Il medico della Nazionale era Leonardo Vecchiet, triestino, «classe 1933». L’8 aprile 1994, dodici anni dopo il trionfo degli azzurri, è arrestato a Napoli. Duilio Poggiolini (il re Mida al contrario della Sanità) lo accusa di aver intascato una tangente di 50 milioni (di lire) dal presidente della Sigma-Tau per favorire un prodotto farmaceutico, la carnetina. Ci vuole un decennio perché la decima sezione penale del tribunale di Roma, su richiesta del pm, lo riconosca innocente: il fatto non sussiste. «Questa vicenda mi ha distrutto. Sono stati dieci anni terribili», dirà nel 2004 Vecchiet, scomparso nel febbraio 2007. Il drammatico elenco continua. Che dire dell’avventura giudiziaria di Serena Grandi? Nel 2003 l’attrice, all’anagrafe Serena Faggioli, protagonista nel fim erotico «Miranda» di Tinto Brass e che nel ’90 recitò anche al fianco di Alberto Sordi, finisce ai domiciliari per quasi sei mesi. È coinvolta in un’inchiesta su un giro di droga e prostituzione. «Mi hanno rovinato la vita e annientato la carriera - dirà la rubiconda attrice - Questa storia mi ha messo una depressione terribile, ho passato mesi a letto». La sua posizione è archiviata nel marzo 2009. Il suo legale, Valerio Spigarelli, chiede 500 mila euro di risarcimento. Nel giugno 2011 la Grandi ne ottiene 60 mila. E ancora: Gioia Scola negli anni ’90 è un’attrice bellissima che cerca di farsi strada nel cinema e nella tv. In «Yuppies 2» interpreta la parte della bruna fatale. Ma non ha fatto i conti con i verbali di un «pentito», Mario Fienga, che racconta ai pm di Napoli storie di camorra e di cocaina. «Mi arrestarono il 7 giugno del ’95 – ricorda – Mi contestavano di essere la mente di un traffico internazionale di stupefacenti fra Brasile e Italia». Di vero c’è solo che Gioia è stata a Rio de Janeiro, nel ’92, per un intervento di chirurgia estetica nella clinica di Ivo Pitanguy, e lì ha un flirt con Vincenzo Buondonno, poi arrestato perché considerato un trafficante di alto livello. Sempre negli Anni ’90 esplode la vicenda cosiddetta «merolone», che travolge diversi nomi della tv, tra cui il presentatore Gigi Sabani e Valerio Merola. Sabani è accusato di induzione alla prostituzione nei confronti di Raffaella Zardo e Patrizia De Angelis e il 18 giugno 1996 viene messo ai domiciliari per 13 giorni. «Liberato» il primo luglio, il 13 febbraio del ’97 si chiede l’archiviazione dell’inchiesta nei confronti suoi e di Merola. La Corte d’Appello «concede» 24 milioni di risarcimento. Il sostituto procuratore di Biella che lo aveva accusato, Alessandro Chionna, il 10 maggio 1997 sposa a Roma la sua ex-teste nell’inchiesta, Anita Ceccariglia, che per quattro anni era stata la compagna di Gigi, stroncato da un infarto nel settembre di dieci anni dopo.

GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....

Ecco gli innocenti finiti in cella per uno sbaglio. Mettete da parte per un attimo il «fattore B». Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di... , scrive “Il Tempo”. Mettete da parte per un attimo il «fattore B». Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di un «errore» che può trascinarci in un’aula di tribunale e poi dietro le sbarre di una cella. Prima del processo e senza aver fatto quello di cui siamo accusati. Ecco i numeri della vergogna, rimasti segreti per vent’anni e di cui siamo entrati in possesso insieme con il sito www.errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sull’ingiusta detenzione. Dal 1989, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, a oggi, circa 25 mila italiani (e non) sono stati incarcerati ingiustamente. Per rimborsarli lo Stato ha pagato 550 milioni di euro. Se a questi aggiungiamo altri 30 per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni. Cento abbondanti in più di quanto stanziato giorni fa dal Governo con il «decreto del Fare» per rendere più sicuri i 43mila plessi scolastici italiani e costruirne di nuovi. Non solo. Bisogna aggiungere le persone alle quali la richiesta di riparazione è stata negata, a volte per un cavillo. Eurispes e Unione Camere Penali parlano di una media di 2500 domande all’anno di risarcimento per ingiusta detenzione e sottolineano che appena un terzo (800) sono state accolte. Quindi possiamo stimare che da 25.000 casi si arrivi a circa 50.000. Immaginate lo stadio Olimpico: gli innocenti finiti dietro le sbarre ne riempirebbero oltre la metà. Ma non è un fenomeno degli ultimi 22 anni. Accadeva anche prima e non c’era la legge sulla riparazione di ingiuste carcerazioni (galera preventiva) ed errori giudiziari (sentenza sbagliata). Per il Censis durante la storia repubblicana quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. E i giudici raramente hanno pagato. Dall’entrata in vigore della legge Vassalli (1988), che regolamenta la loro responsabilità civile, le cause contro le toghe sono state 406. Solo 4 concluse con una condanna, meno di una su 100. Le vittime sono sconosciuti e vip, uomini politici e tutori dell’ordine, medici e impiegati, liberi professionisti e, naturalmente, anche magistrati. Vi racconteremo le loro storie, le sofferenze patite, dalla perdita del lavoro a quella dell’immagine, nel caso di personaggi pubblici. Dopo, a poco servono le smentite e le rettifiche. E perfino i risarcimenti. Perché non è solo una questione di denaro. Quello che resta delle loro esistenze, famiglie, rapporti di amicizia e professionali sono macerie, rovine sulle quali è difficile, a volte impossibile, ricostruire. Vite bruciate. Per uno sbaglio.

50.000 VITTIME.

Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento. Arben Kola, 1996, viene arrestato con..., scrive “Il Tempo”. Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento . Arben Kola , 1996, viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona; resta 210 giorni di carcere: riceverà dallo Stato 120 milioni di lire di risarcimento. Dritain Peculi , 1996, sempre per sequestro di persona e sempre con una detenzione che arriva a 210 giorni di carcere, ottiene un assegno di 120 milioni di lire. Ardian Buzzani , 1999, lo fermano per prostituzione; trascorre 21 giorni in un penitenziario: il risarcimento per ingiusta detenzione ammonta a 12 milioni di lire. Anna Iacono , 1992, è indagata per associazione camorristica; in galera ci rimane 270 giorni, l'indennizzo è di appena 12 milioni. Roberto Salmoiraghi , 2006, viene accusato di corruzione dai pm; assolto, ottiene 11mila euro di risarcimento. Gino Protto , 1994, indagato per falso e truffa, sconta 14 giorni di carcere preventivo a fronte dei quali ottiene 11mila euro di risarcimento. Enzo Sindoni , 2012, deve rispondere di truffa: per 22 giorni di carcere, gli riconoscono appena 11mila euro. Gianluigi Centofanti , 2002, finisce dentro per omicidio preterintenzionale; ci resta 120 giorni e alla fine lo Stato lo rimborsa con 112mila euro. Norberto Molini , 1999, è accusato di spaccio di droga; sconta 180 giorni di carcere e viene rimborsato, dalla Corte d'appello, con un assegno da 110mila euro. Klaus Rainer , 1999, viene anche lui sottoposto a fermo per droga; il gip lo lascia 180 giornicarc di ere: alla fine, otterrà 110mila euro. Salvatore Pangallo , 1999, per i pm è un picciotto, un uomo d'onore: per 479 giorni di carcere, viene liquidato con 110mila euro. Karl Schweigkofler , 1999, lo mettono sott'inchiesta per droga; passa 160 giorni in stato di detenzione, alla fine, l'assegno è di 110mila euro. Francesco Adesso , 2013, è accusato di violenza; la sua detenzione dura 17 giorni, a fronte dei quali ottiene 10mila euro come "scuse" da parte dello Stato italiano. Claudio Pedicone , 2002, viene indagato per sfruttamento della prostituzione; accusa che gli costa 90 giorni di carcere e che lo Stato quantifica in appena 10mila euro di indennizzo. Luca Delli , 2002, è indagato per reati da paura: omicidio e soppressione di cadavere; si fa 38 giorni di carcere e si ritrova, dopo l'assoluzione, senza scusa e con una "mancia" da 10mila euro. Salvatore Cacace , 2004, lo ritengono colpevole di tentata violenza sessuale; 27 giorni di detenzione valgono 10mila euro. Walter Di Clemente , 2012, finisce in un fascicolo giudiziario per droga con un "soggiorno" detentivo di 12 giorni che vale 10mila euro tondi tondi. Daniele Perrucci , 2012, trascorre 2 giorni di carcere per l'accusa di omicidio, per lui, l'assegno sarà di 10mila euro. Z.C., 1999, un bel giorno si scopre mafioso: trascorre 365 giorni di carcere: dopo la sentenza di assoluzione, passa all'incasso dei 107mila euro di indennizzo. Sergio Marcello Gregorat , 1996, finisce nei guai con l'accusa di violenza sessuale; tutto falso, otterrà 100mila euro di "buonauscita". Ben Mansour , 2002, lo mettono in galera per terrorismo; dopo 540 giorni di custodia cautelare, ritirerà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro: 100mila euro. Così il suo presunto complice, Mohamed Ikbal , 2003, anche lui accusato di terrorismo e anche lui per 540 giorni ospite delle patrie galere: il risarcimento è lo stesso, 100mila euro. Ottavio Zirilli , 2003, è indagato per corruzione; la custodia cautelare si ferma a 80 giorni per 100mila euro di indennizzo per ingiusta detenzione. Pino Torielli , 1993, lo ritengono addirittura un omicida; il suo incubo dura 131 giorni di carcere: il ministero gli riconoscere 100 milioni di lire di indennizzo. Giovanni Martelli , 1993, accusato di spaccio di droga, trascorre 165 giorni di detenzione preventiva: alla fine del processo in Cassazione, chiederà e otterrà 100 milioni di lire. Clelio Darida , 1993, finito nel mirino dei pm con l'accusa di corruzione, trascorre 54 giorni in custodia cautelare: i magistrati gli riconoscono il danno subito e lo liquidano in 100 milioni di lire. Altin Leka , 1997, è sottoposto a fermo con l'accusa di rapina; viene privato della libertà per 450 giorni: il risarcimento è di 100 milioni di lire. Vincenzo Deaglio , 1992, per il reato di abuso ufficio trascorre 25 giorni in stato di detenzione: l'indennizzo? Quasi da ridere: 10 milioni di lire. Ottavio Berardo , 1993, è indagato per rapina; così, trascorre 90 giorni in regime di custodia cautelare: l'errore della giustizia vale, per lui, 10 milioni di lire. Donato Ricci , 1994, viene travolto da una storia di tangenti e passa 7 giorni in carcere: i giudici gli riconosceranno 10 milioni di lire di indennizzo. Vincenzo Campana , 1994, trascorre 75 giorni di custodia cautelare per omicidio: 10 milioni di lire. Dario Ruggiero , 1994, è considerato un armiere dai pm, che lo spediscono 4 giorni in carcere; ricostruzione errata, risarcimento tocca quota 10 milioni di lire. Maurizio Corleone , 1994, è accusato di tentata estorsione; la misura cautelare sfonda il tetto dei 100 giorni (107 in realtà) ma per i giudici sono sufficienti 10 milioni di lire per ristorarlo. Leonard Zaimi , 1999, per i pubblici ministeri sarebbe uno dei capi di un giro di prostituzione; gli fanno fare 76 giorni di carcere, ma poi davanti all'assoluzione, il ministero dell'Economia gli deve 10 milioni di lire di risarcimento. Rudi Poli , 1999, secondo i magistrati, sarebbe un camorrista: le assoluzioni a raffica non gli fanno ottenere più di 10 milioni di lire. Francesco Sossi , 1992, deve rispondere di traffico di armi e ricettazione; 4 giorni di carcere gli "fruttano" 1 milione di lire. Vito Sacconi , 1992, viene ritenuto colpevole di truffa ed estorsione, e per questo sottoposto a una misura cautelare che dura 80 giorni, il risarcimento è tra i più alti mai pagati dal ministero del Tesoro: 1 miliardo di lire. Nicola Siccardi , 2003, finisce sott'inchiesta per corruzione; scattano le manette e una detenzione lunga 180 giorni: sarà risarcito. Naim Stafa , 1998, si ritrova davanti al giudice per violenza sessuale; in totale, trascorre 720 giorni di detenzione: sarà assolto e risarcito. Ines Pagnozzi , 2000, è processata per appartenenza a un clan di camorra; 91 giorni di detenzione, ottiene il risarcimento dopo l'ennesima assoluzione. Terenzio Mué , 2002, deve rispondere di ricettazione, corruzione e truffa; la detenzione è assai lunga: 900 giorni: anche lui, otterrà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro. Turi Lombardo , 1994, lo mettono ai ceppi per corruzione e lo lasciano in custodia cautelare per 130 giorni: 210mila euro è l'entità del risarcimento che riesce ad ottenere. Adriana Iacob , 2013, passa 900 giorni di detenzione per l'accusa di omicidio: l'assegno porta questa cifra: 210mila euro. Anastasia Montanariello , 2000, finisce sott'inchiesta per corruzione di minori; sopporta la custodia cautelare, e alla fine le riconoscono 20mila euro; Calogero Giordano , 2004, è imputato per turbativa d'asta, passa 180 giorni di detenzione, e alla fine incassa 20mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Gheorghe Florin , 2007, per l'accusa di violenza sessuale "soggiorna" 90 giorni in regime di custodia cautelare: otterrà solo 20mila euro. Donato Privitell i, 2012, sarebbe secondo i pm un corriere della droga: il gip lo lascia 101 giorni in custodia cautelare, salvo poi essere assolto e risarcito con 20mila euro per ingiusta detenzione. Vincenzo Fragapane , 2012, i giudici sono convinti che faccia parte della mafia siciliana: "dona" alla malagiustizia 500 giorni della sua vita, e la magistratura gli restituisce 204mila euro. Antonio Gava , 1993, è l'unico ex ministro dell'Interno finito in un'inchiesta per associazione camorristica: 180 giorni di detenzione domiciliare: assolto, e risarcito da quello stesso Stato che aveva rappresentato per tanti anni con un assegno da 200mila euro, Vincenzo Guarneri , 2004, lo tirano in ballo per una storiaccia di mafia; 780 giorni di detenzione non sono facili da smaltire, ma per i magistrati un assegno da 200mila euro può andar più che bene. Roberto Giannoni , 1992, anche lui è indagato per mafia; la sua detenzione cautelare dura giusto la metà: 365 giorni ma ottiene 200 milioni di lire. Piero Pizzi , 1993, agli occhi dei sostituti procuratori che lo ammanettano sarebbe un tangentista: gli unici soldi che incassa, invece, sono i 200 milioni di lire di risarcimento danni, dopo le assoluzioni. Adriatik Goga , 1994, è indagato per droga e un bel po' di reati minori: la custodia cautelare arriva a 440 giorni ma il risarcimento per ingiusta detenzione si ferma a 200 milioni di lire. Salvatore Giambrone , 1993, finisce in galera in un’inchiesta assai complessa: assai facile, invece, è la procedura per ottenere il risarcimento che tocca 20 milioni di lire. Filippo Portaro , 1995, droga, 27 milioni di lire; Filippo Portaro , 1999, droga, 1020 giorni di detenzione, 52 milioni di lire;

Claudio Sanna, 1991, per i pm che gli mettono i ceppi ai polsi è un trafficante di droga; per questo, resta 130 giorni in stato di fermo: risarcimento? Appena 3 milioni di lire. Anche Fausto Giunta,...continua “Il Tempo”. Claudio Sanna , 1991, per i pm che gli mettono i ceppi ai polsi è un trafficante di droga; per questo, resta 130 giorni in stato di fermo: risarcimento? Appena 3 milioni di lire. Anche Fausto Giunta , 1993, accusato di corruzione, ottiene 3 milioni di lire di risarcimento. Daniele De Santis , 1994, per danneggiamento, passa 50 giorni di custodia cautelare, ma il suo risarcimento si ferma anche per lui a 3 milioni. Domenico Di Domenico , 2011, viene arrestato per guida in stato di ebbrezza; trascorre 10 ore in una camera di sicurezza e ottiene 2mila euro. L’ex manager di Stato Vito Gamberale , 1993, finisce in manette per concorso in tentata concussione; dopo 126 giorni di detenzione, ottiene 290 milioni di lire. Francesco Nangano , 1995, per mafia trascorre la “bellezza” (per modo di dire) di 1740 giorni di custodia cautelare: ottiene 270mila euro di risarcimento. Antonio Turia no , 1992, è accusato anche lui di mafia; 240 di detenzione e 27 milioni di lire di “buonauscita”. Salvatore Muroni , 2012, sotto processo per violenza sessuale, dopo 121 giorni di detenzione, ottiene 26mila euro. Domenico Frustagli , 1991, è sott’inchiesta per mafia; 13 giorni di detenzione, 26 milioni di lire di risarcimento. Antonio Commoda ri , 1991, è pure lui indagato per mafia, ma nel suo caso la custodia cautelare dura soltanto 13 giorni; ottiene, 26 milioni di lire. Il prefetto Ennio Blasco , 2001, viene ingiustamente arrestato per truffa e abuso d'ufficio; 16 giorni di detenzione domiciliare e appena 25mila euro per una carriera distrutta. Bortolo Mainardi , 1995, sott’inchiesta per estorsione e concussione; passa 18 giorni di custodia cautelare, ottiene in cambio 25mila euro di risarcimento. Paolo Garbano, 1998, per rapina, passa un solo (orribile) giorno di detenzione; gli riconoscono i giudici un indennizzo di 2500 euro. Nicolò Nicolosi , 1993, è accusato di voto di scambio, 63 giorni di detenzione e 250 milioni di lire. Bruno De Santis, 1991, viene ingiustamente arrestato per omicidio e, dopo 310 giorni di detenzione, rimborsato con 25 milioni di lire. Mario Mirko Barison , 1996, è colpevole di rapina secondo i giudici, che lo lasciano in arresto per 48 giorni, salvo poi rimborsarlo con 25 milioni di lire. Adrian Florian , 2007, è imputato per violenza sessuale; 90 giorni di custodia cautelare e 24mila euro di risarcimento. Edmondo Arapi , 2012, è coinvolto in un fascicolo per omicidio, e l’arresto ingiusto che ne consegue viene indennizzato con appena 24mila euro. Remo Molteni , 1993, sarebbe un traf ficante di droga secondo il capo di imputazione; dopo 164 giorni di detenzione, ottiene 24 milioni di lire. Gigi Sabani , 1995, viene arrestato per truffa e induzione alla prostituzione, passa 13 giorni di custodia cautelare: una carriera polverizzata “ripagata” con 24 milioni di lire. Duran Castillo , 2013, finisce in manette nove giorni per droga: indennizzo deciso dai giudizi? Appena 2250 euro. Valentino Tavolazzi , 1995, è per i pm il cervello di un giro di tangenti; 25 giorni di custodia cautelare e 22 milioni di lire di risarcimento. Antonio Cimino , 1994, per corruzione, passa in stato di arresto un bel po’ di tempo: l’assegno per ingiusta detenzione è di 21mila euro. Tanti quanti ne prende Emanuele Zanoncini , 2008, accusato di rapina che trascorre 120 giorni di detenzione. Angelo Ugoni ; 2007; è accusato di corruzione in atti giudiziari; passa 78 giorni in stato di detenzione; 50mila euro è il risarcimento che il suo avvocato riesce a ottenere dalla Corte d'appello. Antonio Di Nicola , 2011, viene ammanettato nell'ambito di una maxi-operazione per droga; resta quasi un anno in stato di fermo (210 giorni di detenzione) e ottiene, anche lui, 50mila euro. Gianfranco Callisti , 2013, viene anche lui indagato per reati legati al mondo della droga; i giorni di detenzione, nel suo caso, sono addirittura maggiori: 270, ma identico l'indennizzo liquidato dal ministero del Tesoro: 50mila euro. Serafino Generoso , 1992, è imputato per tentata concussione; per i 10 giorni trascorsi in stato di detenzione, ottiene 50 milioni di lire. Luigi Petrini, 1993, si ritrova al centro di un maxi-scandalo con ricatti e tangenti; trascorre 13 giorni di detenzione, e alla fine lo Stato lo "rimborsa" con 50 milioni di lire; Stefano Pala , 1993, accusato di rapina, passa 50 giorni di detenzione; la Corte d'appello lo "ripaga" con un rimborso di un milione al giorno: in totale, 50 milioni di lire. Ettore Scarfò, 1993, finisce in manette addirittura per omicidio; i giorni di detenzione sono 368 a fronte di un indennizzo di 50 milioni di lire. Giovanni Franzoso , 1994, finisce sott'inchiesta per falso in bilancio; dopo 6 giorni di detenzione, si ritrova tra le mani un assegno da 50 milioni di lire. Stessa cifra che arriva anche a Piero Bava , 1994, accusato ingiustamente di falso in bilancio e detenuto per 6 giorni. Carmelo Nista , 1994, processato e assolto per omicidio, viene liquidato con 50 milioni di lire. Anche Baldassarre Furnari , 1994, arrestato ingiustamente con l'accusa di concussione e "ospite" per 20 giorni dello Stato, ottiene la stessa cifra. Kuze Radulovic , 1992, 32 per giorni di detenzione, incassa la miseria di 5 milioni di lire. Così Giovanni Andreoni , 1993, trascinato in una storiaccia di reati contro la Pubblica amministrazione con appendice di 14 giorni di detenzione. E così anche Giuseppe Iannone , 1995, accusato di essere un usuraio; 30 giorni di detenzione, e 5 milioni di lire di risarcimento. Elsa Caroli , 2012, trascorre 14 giorni di detenzione con l'accusa (rivelatasi infondata) di associazione sovversiva; 4mila euro appena l'indennizzo. A Joy Idugbor , 2012, arrestato in un'indagine per riduzione in schiavitù, dopo 180 giorni di detenzione e assoluzioni a raffica, vanno 48mila euro. A Gianni Mastarone , 1996, accusato di omicidio, dopo 210 giorni di detenzione, vanno 47 milioni di lire. Giuseppe Pecorilli , 1999, viene arrestato per violenza sessuale; per 180 giorni di detenzione, 45mila euro. Carlo Iacovelli , 2010, messo sott'inchiesta per corruzione e abuso d'ufficio, dopo 90 giorni di detenzione, gli vengono riconosciuti 45mila euro. Adnan Peculi , 1996, accusato di sequestro di persona, dopo 60 giorni di detenzione, ottiene 45 milioni di lire. Francesco Lauria , 1996, finisce coi ceppi ai polsi per omicidio per 210 giorni: l'assegno? Appena 45 milioni di lire. Mohamed Hamzaoui, 2002, arrestato per droga, dopo 190 giorni di detenzione incassa 44mila euro. Vincenzo Federico , 1999, accusato di traffico di droga, dopo 240 giorni di detenzione, si ritrova con un assegno di appena 42mila euro. Hassan Issa , 2011, anche lui ammanettato con l'accusa di traffico di droga, per 150 giorni di detenzione, ottiene 42mila euro. Franco Moceri , 2013, arrestato sempre per droga, per 180 giorni di detenzione, ottiene un riconoscimento per ingiusta detenzione di 41mila euro. Vincenzo Daglio , 1992, sott'inchiesta per abuso d'ufficio, trascorre una custodia cautelare di 10 giorni in "cambio" di un indennizzo di 10 milioni di lire. Giuseppe Andronico , 2001, viene messo sotto processo per omicidio, dopo 1000 giorni di detenzione, ottiene un risarcimento pari a 150mila euro. Gianfranco Crenna , 1983, accusato ingiustamente di corruzione, dopo 11 giorni di detenzione, viene indennizzato con 15 milioni di lire. Ernesto Cavallero , 1983, anche lui indagato per corruzione, dopo una detenzione lunga 11 giorni, riceve la stessa cifra: 15 milioni di lire. Vita La Mari , 1993, mafia, per 480 giorni di detenzione, incassa 32 milioni di lire. Samuel Balou , 2006, accusato di violenza sessuale, passa 163 giorni in stato di fermo; la Corte d’appello non va oltre un indennizzo da 5810 euro. A Franco Covello , 1996, coinvolto in un processo per tangenti, dopo una detenzione carcere/domiciliari lunga, in totale, 285 giorni, vanno 100 milioni di lire.

HANNO CHIESTO IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE.

Leke Prebibaj, 730 giorni in cella, Salvatore Natalino, 93 giorni, Emanuele M., 368, Giuseppe Valentini, 870, Giuseppe Gulotta, 7.920, Davide Matzeu, 26, Samuel Gino Apogeo, 26, Samuel Caforio, ergastolo (in attesa revisione processo), Giovanni Pedone, 2.520, Francesco Aiello, 2.520, Cosimo Bello, 2.520, Salvatore Donadei, 12, Yili Muca, 15, Mario Stracqualursi, 58, Carmine Torella, 10, Mauro Scatolini, due giorni, Abdelhamid Chaar, 17, F. G., 13, N. T., 13, Settimio Passalaqua, Paolino Di Marco, Fabrizio Barone, 21, Renato Bertozzi, 180, Giuseppe Acciaro, 1.440, Egidio Rangone, cinque giorni, Mario La Mari, 1.825, Flavia Verardi Pignanelli, 28, Florenc Seferi, 1.260, Sergio Ferrandino, dieci giorni, Maria Carella, dieci giorni, Giovanni De Luise, 2.920 giorni in carcere.

«Sei anni in isolamento e nessun risarcimento».

Il telefono gracchia. La voce va e viene. Giulio Petrilli è a Belgrado per un lavoro. «Ogni tanto torno in Italia», spiega. Ma, dal tono, sembra che stia meglio in Serbia. Qui, nel suo Paese, gli..., continua “Il Tempo”. Il telefono gracchia. La voce va e viene. Giulio Petrilli è a Belgrado per un lavoro. «Ogni tanto torno in Italia», spiega. Ma, dal tono, sembra che stia meglio in Serbia. Qui, nel suo Paese, gli hanno rubato sei anni di vita e poi, dopo aver riconosciuto tardivamente l’errore, si sono rifiutati di risarcirlo. Il danno e la beffa. Per un cavillo, il primo comma dell’articolo 314 del codice di procedura penale, che dà ai giudici il potere di decidere se il rimborso va concesso o no. Petrilli fu arrestato il 23 dicembre 1980. L’accusa era pesante: banda armata. I pm sostenevano che era coinvolto nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Lui all’epoca era uno studente ventunenne della facoltà di Lettere all’Aquila. In primo grado fu condannato. A otto anni. Ne ha scontati sei, in regime speciale: un’ora d’aria e 23 in cella. Poi, in appello, è stato assolto. La sentenza venne confermata in Cassazione. E Giulio nel maggio dell’86 tornò libero. Anche se la sua vita era ormai devastata. «Mi accusarono di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative», ricorda. Un’accusa pesante, specialmente in quegli anni. Il pm chiese undici anni. La Corte ne «concesse» otto, trascorsi passando da un penitenziario all’altro in un regime peggiore dell’attuale 41-bis: isolamento totale e sessanta minuti soltanto all’aperto. «Il primo comma del 314 - sottolinea - prevede il rifiuto del risarcimento in caso di colpa grave o dolo. Ma, in realtà, basta una frequentazione sbagliata. Nel caso mio facevo politica e andavo all’università. È una cosa folle perché così il giudizio diventa arbitrario». In secondo grado, l’assoluzione. «Marco Donat Cattin mi scagionò e venni assolto - continua Petrilli - Allora avviai le pratiche per la riparazione da ingiusta detenzione». Il primo ostacolo fu il tempo. nel senso che i fatti risalivano a nove anni prima l’entrata in vigore del nuovo codice penale, che prevedeva i rimborsi per errori giudiziarie e ingiuste carcerazioni. «Per questo feci una battaglia che vinsi - spiega ancora Petrilli - Riuscimmo a far passare una legge nazionale che rendeva retroattivo il rimborso». Il secondo ostacolo venne rappresentato dal parere «discrezionale» dei magistrati. «La Corte d’appello di Milano e la Cassazione mi negarono il risarcimento per i sei anni che avevo passato dietro le sbarre. Non solo. Mi condannare anche a pagare le spese processuali». Il motivo? Semplice: dietro quelle definizioni di «colpa grave» e di «dolo» ci può essere di tutto. «Nel mio caso dissero che avevo tratto in inganno gli inquirenti frequentando persone di un certo tipo - precisa Petrilli - È una normativa assurda, che non esiste nel resto dell’Unione europea. E il 70 per cento delle domande vengono rigettate con questa motivazione, com’è accaduto per Calogero Mannino. Ma chi vive in quartieri particolari di Napoli o Palermo è normale che possa conoscere qualche pregiudicato. Che vuol dire?». Ora Petrilli ha presentato, tramite il suo legale Francesco Caterini, un ricorso alla Corte di Strasburgo. «Ma quel comma andrebbe abolito - conclude lui - Dà la possibilità ai giudici di decidere in base a un criterio morale, su chi frequenti. Ma se io sono stato assolto, perché non rispettano la sentenza e basta. E perché i magistrati non pagano mai?»

Galeotta fu la lettera «r». In cella 6 mesi senza colpa.

Il soprannome di Giancarlo era «Callo». Scambiato per il trafficante Carlo Elsa, barista considerata anarchica. Angelo, poliziotto arrestato per sbaglio, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Sei mesi in carcere, tre ai domiciliari e altrettanti in libertà vigilata. E tutto per colpa di una «r» che nelle intercettazioni storpia il suo soprannome «Callo» nel nome di un trafficante di droga, Carlo. Gianfranco Callisti, dieci anni dopo, ha ottenuto l'assoluzione, le scuse del Tribunale di Bari e 50mila euro. Lo ammanettarono alle 5,30 del mattino i carabinieri spacciandosi per vigili del fuoco. La sua sfortuna è stata conoscere uno degli indagati nella maxi-inchiesta «Operazione fiume». Ci ha parlato un paio di volte al telefono ed è finito nel tritacarne. A Bologna, Elsa Caroli, si ritrova in manette nel blitz contro i bombaroli anarco-insurrezionalisti senza un perché. Resta in galera due settimane. Lo Stato le riconosce un indennizzo di 4mila euro. Ma, nel frattempo, è stata licenziata. Franco Moceri si fa sei mesi per aver costruito un muro che, tempo dopo, sarà utilizzato come «protezione» per una piantagione di cannabis. Ha preso 41mila euro. Per una (inesistente) mazzetta di 50 milioni di lire un (realissimo) indennizzo della stessa cifra per Baldassarre Furnari. Il pover’uomo «soggiornò» dietro le sbarre per venti giorni dopo essere stato ingiustamente accusato di concussione da un imprenditore. E che dire dell’ex comandante della polizia provinciale di Lodi, Angelo Ugoni, oltre due mesi e mezzo in carcere per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio senza aver fatto nulla? È stato risarcito con 50mila euro. Ma la sua carriera è stata polverizzata.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

Il Csm assolve il giudice rosso che andava a caccia con i boss.

Mancuso, ex capo della Procura antimafia di Napoli ed esponente di Md, salvato dal tribunale della categoria. Ignorate le intercettazioni in cui parlava con i camorristi, scrive Stefano Zurlo  su “Il Giornale”. Era il coordinatore della procura antimafia di Napoli, ma andava a caccia in Albania con camorristi e criminali. Anzi, uno di loro, Andrea Spiezia, fornisce nel 2004 il più granitico degli alibi ai carabinieri che sono piombati a casa sua dopo l'ennesimo omicidio fra i clan di Napoli: «Non sono stato io, io ero a caccia con il procuratore in Albania». Vero, Paolo Mancuso, allora a Napoli e oggi alla guida della procura di Nola, aveva una certa dimestichezza non con uno ma con ben tre soggetti legati o sospettati di appartenere alla malavita. Ma il 20 ottobre 2006 la sezione disciplinare del Csm, scioglie questo nodo increscioso, ai limiti dell'incredibile, e assolve Mancuso, pezzo grosso di Magistratura democratica in Campania, ai vertici del Dap, le carceri italiane, fra il luglio 97 e il luglio 2001, e gli restituisce la carriera e la possibilità di conquistare nuovi traguardi. Mancuso aveva addirittura vistato il provvedimento di cattura nei confronti di uno dei tre. Irrilevante, dicono i giudici del Csm, perché Mancuso ne firmava centinaia. Figurarsi se poteva ricordarsi tutto. È una vicenda surreale quella del magistrato napoletano per cui, secondo il Csm, non valgono nemmeno le intercettazioni telefoniche raccolte in un procedimento penale. No, non si possono «traslocare» dal penale al disciplinare le telefonate ascoltate dalla polizia. Sacrosanto. Peccato che lo stesso tribunale, con gli stessi membri, il 10 marzo del 2009, affermi l'esatto opposto: come no, le intercettazioni possono essere trasferite da un'inchiesta al procedimento disciplinare. E infatti sono le intercettazioni a fregare Vincenzo Barbieri, militante centrista di Unicost, ex dirigente del ministero della Giustizia, portato ai vertici di via Arenula da Roberto Castelli e confermato da Clemente Mastella, poi procuratore ad Avezzano. Due pesi e due misure? Le sentenze fanno a pugni come nemmeno in una finale mondiale di boxe. Però si resta a disagio a leggere quelle pagine. Mancuso ama la caccia e partecipa a battute fra la Puglia e l'Albania. Fra i suoi compagni di avventura ci sono anche alcuni personaggi non proprio immacolati: Stefano Marano, condannato per omicidio colposo, violazione dei sigilli, violazioni della legge urbanistica. Ma questo è niente rispetto ai sospetti degli investigatori che nel '96 l'hanno proposto per la sorveglianza speciale, ipotizzando una sua contiguità con i Licciardi: il procedimento non ha avuto seguito ed è stato archiviato, anche con l'intervento dello stesso Mancuso; poi c'è Andrea Spiezia, ricettatore, al centro di un'infinità di procedimenti, uno dei quali, per truffa, è passato tanto per cambiare per l'ufficio di Mancuso; e poi ancora c'è Giovanni Pellecchia, indagato per associazione a delinquere, truffa e falso, con iscrizione nel registro degli indagati all'epoca in cui Mancuso era coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. Non è chiaro quando Mancuso abbia conosciuto i tre, o meglio ciascuno dei tre, pare abbia incrociato Spiezia solo una volta, ma la frequentazione complessiva va avanti per anni e anni. Quasi dieci. Fra la metà degli anni Novanta e il 2004. Mancuso va a caccia, nelle intercettazioni lo chiamano «Il bimbo», ma non si accorge di nulla. Nulla di nulla. Meglio di Sherlock Holmes. La procura lo intercetta con grande imbarazzo. Nulla. Finché si arriva al paradosso dei paradossi. Il 21 novembre 2004 si riaccende la faida di Scampia e muore Francesco Tortora. I carabinieri sono convinti che fra gli assassini ci sia Andrea Spiezia e vanno a casa sua sottoponendolo anche al prelievo stube. Ma lui ha un alibi inattaccabile. È appena arrivato dall'Albania, dove era a caccia con Mancuso e con un funzionario di polizia. Le indagini confermano e Spiezia viene scagionato. Però parte l'informativa. E si scopre che i personaggi poco raccomandabili con cui Mancuso è andati a caccia sono addirittura tre. Non ci sono risvolti penali. Mancuso non avrebbe alterato o forzato le indagini, anzi, a quanto pare, i camorristi gli davano al telefono del «voi» e non si sarebbero mai azzardati a chiedergli favori. Una bella consolazione per il Csm che liquida la pratica alla voce imprudenza. E trova il sistema per scagionare Mancuso da ogni accusa. È vero che aveva incrociato i colleghi di caccia nel loro percorso giudiziario, ma come si fa a ricordare tutto quando si vistano centinaia di provvedimenti? E poi le date non sono sincronizzate: come si fa a sapere se nel '96, quando Marano era stato proposto per la sorveglianza speciale, Mancuso l'avesse già incontrato con la doppietta in mano? Mistero. Insolubile. Mancuso per il Csm è inconsapevole. Un capo perfetto dell'ufficio che combatte la criminalità organizzata in una terra difficile come Napoli. Non c'è che dire. E le intercettazioni? Per la Disciplinare il legame era puramente venatorio, ma in ogni caso non si possono utilizzare. Devono restare confinate nel recinto del penale. Così per il procuratore aggiunto di Napoli, alto esponente di Magistratura democratica, vice di Giancarlo Caselli al Dap, oggi procuratore a Nola e in corsa, via Tar, per ottenere proprio la ben più importante procura di Napoli. Diversa la sorte di Vincenzo Barbieri, già dirigente al ministero della Giustizia e attivista di Unicost. Si mette nei guai chiedendo favori, segnalando amici e pratiche, insomma mettendo il naso dove non dovrebbe. Le intercettazioni questa volta possono essere utilizzate e travasate dal penale al disciplinare. Disco verde. Va giù pesante il tribunale disciplinare: «Le condotte addebitate all'incolpato sono proprio le numerose telefonate di raccomandazioni, sollecitazioni ed altro, effettuate a vario titolo con magistrati, cancellieri, ufficiali dei carabinieri, spesso avvalendosi delle linee telefoniche in sua dotazione e della particolare posizione di potere che gli derivava dall'essere direttore generale». L'esatto contrario di quanto affermato il 20 ottobre 2006 nel procedimento Mancuso: «Se quindi i risultati delle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di un procedimento penale non possono essere utilizzati nell'ambito di altro procedimento penale... anche e a maggior ragione deve valere in una procedura diversa da quella penale ed in particolare in quella disciplinare». Due pesi e due misure: Mancuso assolto, Barbieri condannato alla sanzione della censura. Chissà quale delle due sentenze merita maggior rispetto.

Mancuso ha già provato a tutelare la sua immagine.

Con poco più di una pagina Rosalba Liso, gip del tribunale di Roma, ha archiviato la querela presentata nel novembre 2006 da Paolo Mancuso, oggi procuratore capo a Nola, contro il giornalista Roberto Paolo e il direttore responsabile del Roma Antonio Sasso, scrive Iustitia.it. All’origine della querela un articolo, pubblicato dal Roma il 21 ottobre 2006 e firmato dal redattore capo Roberto Paolo, centrato sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di archiviare l’azione disciplinare, per frequentazioni ‘discutibili’, avviata nei confronti di Mancuso, all’epoca procuratore aggiunto a Napoli. L’occhiello del servizio è: “Giustizia e Veleni / Il procuratore aggiunto napoletano ora ha la via spianata per diventare capo del Dap, il vertice delle carceri italiane”; il titolo: “Il Csm scagiona Mancuso”; il sommarione: “Un magistrato può andare a caccia con pregiudicati, imputati di camorra o persone indagate dal proprio ufficio: nessun illecito disciplinare”. Il gip di Roma, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Carlo Luberti, ha respinto l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato di Mancuso, Giuseppe Fusco. “Appaiono ravvisabili nel caso in esame – scrive il giudice Liso – i tre presupposti dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca indicati dalla giurisprudenza per la sua esistenza, cioè il pubblico interesse o meglio l’interesse diffuso, riscontrabile nell’attenzione che può suscitare la correttezza istituzionale di un magistrato, e la veridicità della notizia, poiché i soggetti con i quali il Mancuso era entrato in contatto erano di fatto indagati e nei cui confronti, sia pure limitandosi ad apporre un visto, costui aveva esercitato una supervisione ed un controllo nel corso delle indagini”. “Anche la continenza dell’espressione, nel caso in esame, rileva la correttezza di contenuto e forma, essendo state utilizzate nel riferire i fatti espressioni di per sé non offensive, né di particolare significato evocativo ed insinuante”. Del resto, annota il gip, “non può non rilevarsi come nella querela l’opponente (Mancuso, ndr) in realtà abbia lamentato solo e unicamente l’effetto lesivo della valutazione sottesa alla descrizione dei fatti offerta nell’articolo, mentre in realtà egli non ha mai contestato la veridicità degli eventi, nella sostanza fornendo una versione dei fatti non del tutto lontana da quella riportata nell’articolo”. Un’affermazione sulla quale è in totale disaccordo la difesa del procuratore Mancuso, che ha già presentato ricorso in Cassazione. Due i punti al centro delle nove pagine del ricorso firmate dall’avvocato Fusco: “l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità”; “l’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale”. Sul primo punto “la pacifica e non contestata ammissibilità dell’opposizione (all’archiviazione) – sostiene il legale di Mancuso – avrebbe imposto la fissazione della camera di consiglio anche perché non ricorrevano le condizioni per la pronuncia di un decreto de plano”. Più articolata e complessa l’analisi del secondo punto che parte da una premessa: “la capacità e potenzialità oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate dal giornalista nell’articolo denunciato sono riconosciute come sussistenti dallo stesso pubblico ministero”. Nel servizio del Roma, osserva Fusco, “si afferma che Mancuso, non solo era frequentatore di ‘persone condannate per gravi reati’, ma che era addirittura andato a caccia "con pregiudicati imputati di camorra" e anche "con presunti fiancheggiatori del clan Di Lauro, indagati o condannati per gravi reati (fra essi Stefano Marano)" e frequentava persone indagate per camorra o condannate per droga, ricettazione e estorsione“. Ma, secondo l’avvocato del magistrato, sono affermazioni inesatte. “Dalla lettura del capo di incolpazione (al Consiglio superiore della magistratura) – puntualizza Fusco nel ricorso in Cassazione – risulta che Marano Stefano era stato più volte condannato ma ‘per plurime violazioni della legge urbanistica, per omicidio colposo, per violazioni dei sigilli’; era stato inoltre sottoposto a processo, conclusosi in primo grado con l’assoluzione per i delitti di cui agli articoli 416 bis, 640, 629 del codice penale (associazione camorristica, truffa e estorsione, ndr) e aveva subito altro procedimento per il delitto di cui all’articolo 416 bis definito con l’archiviazione”. E l’avvocato continua: “nessun riferimento vi è, invece, sempre nel capo di incolpazione a una vicenda, pur essa riferita nell’articolo, secondo la quale Mancuso in altre occasioni andò a caccia con un esponente di primo piano di un clan del foggiano, attualmente detenuto con l’accusa di omicidio”. Dal tribunale capitolino, quindi, è stato assegnato il primo round al Roma; per il secondo bisognerà attendere la decisione della Suprema corte. Poi tempi certamente lunghi per il giudizio civile promosso da Mancuso contro il Roma per una lunga serie di articoli chiusa proprio dal servizio dell’ottobre 2006 sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura.

La vicenda inizia nel novembre 2004. Dopo gli omicidi di Francesco Tortora e Domenico Riccio, vittime della mattanza di Secondigliano, viene fermato Andrea Spiezia. Prima di essere sottoposto all' esame dello stub per accertare tracce di polvere da sparo l' uomo dichiara: «L' analisi sarà certamente positiva perché il 21 novembre, giorno dei delitti, ero a caccia in Albania». A quella battuta hanno partecipato anche Paolo Mancuso e un funzionario della questura. Non è l' unica. Più volte il magistrato, grande appassionato di attività venatoria, va a caccia con Stefano Marano, imprenditore molto conosciuto a Napoli. Marano ha il telefono sotto controllo perché in passato ha affittato una casa ad uno dei figli di Paolo Di Lauro, il boss di Secondigliano. Ha rapporti con alcuni esponenti della criminalità, viene sollecitato a chiedere notizie al magistrato. Effettivamente lo contatta più volte, ma durante le conversazioni non ottiene informazioni sulle inchieste. Poi, parlando con uno dei suoi interlocutori, Marano afferma: «Allora non hai capito che al telefono non bisogna parlare?». E' questa la frase che viene adesso contestata a Mancuso. Il sospetto dei magistrati romani è che sia stato proprio lui ad avvisare l' amico che l' utenza era intercettata. Una tesi che lascia aperti alcuni interrogativi. Se Mancuso era a conoscenza dell' indagine su Marano, come mai decise di continuare a frequentarlo, sia pur per condividere la passione per la caccia? Ad informare il procuratore aggiunto che il suo nome era comparso in alcune intercettazioni sarebbe stato un funzionario della polizia. E lui ne chiese conto ai colleghi titolari del fascicolo sull' attività del clan Di Lauro che poi hanno trasmesso gli atti a Roma. Se era già informato dei contenuti dell' inchiesta, che bisogno aveva di esporsi?

Questo basta? No!

Mancuso multato per caccia illegale a Foggia attirava quaglie con un registratore vietato, scrive “La Repubblica”. Lui la prende con sportività, tra l'imbarazzato e il divertito: «Lo ammetto, ho avuto la contravvenzione. Ma la contesterò». Il nome di Paolo Mancuso, procuratore aggiunto di Napoli, uno dei magistrati più in vista d'Italia, è in un rapporto inviato alla Procura di Foggia. Nei suoi confronti, infatti, le guardie forestali hanno comminato una sanzione penale per caccia irregolare. Niente di grave: Mancuso, cacciando insieme a due amici napoletani a Carapelle, in provincia di Foggia, nelle vicinanze del parco del Gargano, avrebbe utilizzato un registratore che attira le quaglie riproducendone il verso. La legge italiana ritiene che non è leale far fuori in questo modo i gustosi volatili che abbondano sulle colline pugliesi e ha vietato «l' utilizzo di richiami elettromagnetici ai fini dell'attività venatoria». Passi per le quaglie, ma la legge, hanno ricordato le guardie a Mancuso, vale davvero per tutti.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.

Per uno scambio di persona è stato arrestato ed ha trascorso 9 anni in carcere. L’uomo, un napoletano, racconta al TG1 della Rai il suo dramma dopo il clamoroso errore giudiziario.

«Io mi son sempre comportato bene. Sono educato. Sono sistemato. Non ho mai avuto problemi con la legge e poi mi capita una cosa di questa. Sì, abito a Scampia, ma mica può essere una colpa. Uno non può avere un lavoro, anzi io avevo un lavoro. Facevo il corriere, ma adesso non ho niente più». Non ha più niente Giovanni De Luise. La sua storia è quella di un terribile errore giudiziario. 31 anni. Gli ultimi nove li ha trascorsi in carcere: da innocente. E’ l’undici dicembre del 2004, nel pieno della faida di Secondigliano. Giovanni è all’obitorio, a Napoli. Gli hanno ucciso il fratello. Lì incontra una donna. Anche a lei hanno ucciso il fratello, Massimo Marino, cugino di un boss del clan degli scissionisti di Scampia. Quando vede Giovanni non ha dubbi.

«Ha continuato a dire che ero io ad aver sparato al fratello. Si credeva che io fossi il killer, “visto da quello che ho visto adesso gli somiglia molto”». Quella donna confonde Giovanni con Gennaro Puzzella del clan Di Lauro. Una somiglianza incredibile. Un calvario durato nove anni. A nulla sono servite le parole dei pentiti di camorra che lo scagionavano. Gli amici che hanno confermato di aver trascorso con lui quel pomeriggio di dicembre, vengono processati per falsa testimonianza. ERRARE E’ UMANO. PERSEVERARE E’ DIABOLICO. L'ingiustizia nell'ingiustizia e nell'omertà dei media che di questo non parlano. Gli anni passano e per Giovanni sembra non esserci speranze, finchè un giorno il vero assassino confessa. Giovanni è libero. Ora cerca di recuperare il tempo perduto. Solo tra qualche anno partirà il processo di risarcimento che potrà arrivare alla cifra massima di 500.000,00 euro.

«L’importante è che sono uscito a testa alta. Non ci sta una cifra che mi può risarcire quello che mi hanno dato».

14 settembre 2013. Hai voglia di dire che non c’entri, quando c’è un testimone oculare che ti accusa. È la vicenda umana e giudiziaria di Giovanni De Luise (classe 1981), vittima di un clamoroso errore di persona che gli è costato otto anni e otto mesi di cella senza un motivo. In pratica, De Luise ha bruciato gli anni più belli della sua vita nei carceri bunker, in alcuni casi anche in isolamento. Condannato a 22 anni di prigione come assassino, come killer di Massimo Marino l’11 dicembre del 2004, nel pieno della faida di Secondigliano, oggi è stato scarcerato grazie a un procedimento di revisione sostenuto dal suo legale Carlo Fabbozzo, su input della stessa Procura di Napoli. Poi il miracolo: un certo Gennaro Puzzella teme di essere stato scaricato dal suo clan, teme di essere ucciso, si pente, confessa. E racconta: «Sono io il killer di Massimo Marino, ma al mio posto è stato condannato De Luise un innocente, che sta in cella a scontare una condanna per un delitto che non ha commesso». Fine dell’incubo, De Luise è libero.

Faida di Scampia, riaperto caso del 2004: fu Cosimo Di Lauro a ordinare la morte di Massimo Marino, scrive “La Nottata”. Per l'agguato era già stato condannato Giovanni De Luise, ma secondo nuove indagini a sparare fu un killer che obbediva all'ordine di sterminare scissionisti e parenti dato da Cosimino. Ordinanza in carcere per entrambi. Per lo sbaglio di una testimone oculare e per l'errore degli inquirenti ad inquadrare la vicenda in una vendetta privata è stato condannato per omicidio un uomo, Giovanni De Luise, che non ha premuto il grilletto. La verità è venuta alla luce solo oggi, grazie alle rivelazioni di un pentito. I pm della Dda hanno ricostruito come l'agguato dell'11 dicembre 2004 a Massimo Marino, parente dell'esponente di vertice degli scissionisti Gennaro Marino detto Genny McKay (il cui fratello Gaetano è stato ucciso lo scorso 23 agosto a Terracina), sia maturato nell'ambito della strategia omicidiaria del boss Cosimo Di Lauro, raggiunto oggi in carcere da una nuova misura cautelare, e così anche l'esecutore del delitto. Al centro di questa intricata vicenda Giovanni De Luise, condannato con sentenza passata in giudicato per l'omicidio di Massimo Marino che vedrà ora rivalutata la sua posizione. Durante la faida di Scampia tra Di Lauro e Amato-Pagano, De Luise si era visto uccidere il fratello Antonio mentre faceva la vedetta e sorvegliava una delle piazze controllate dai Di Lauro. All'obitorio, quello stesso giorno, due ore dopo il corpo di Antonio De Luise arrivò la salma di un'altra vittima della faida, quella appunto di Massimo Marino. La sorella Cinzia credette di individuare il killer di Massimo proprio in Giovanni De Luise, che era all'obitorio per i suoi stessi motivi. Massimo Marino invece, hanno ricostruito gli investigatori, era stato assassinato da Gennaro Puzella, uno dei killer dei Di Lauro all'epoca, raggiunto anche lui oggi da un provvedimento restrittivo, proprio perché Cosimo di Lauro, successore del padre Paolo alla guida della cosca almeno fino al suo arresto il 21 gennaio 2005, aveva ordinato di sterminare comunque gli scissionisti e qualsiasi loro parente anche se estraneo al contesto criminale, come Massimo Marino, all'indomani del duplice omicidio di Fulvio Montanino e Claudio Salierno il 28 ottobre 2004 nella roccaforte dei Di Lauro, in via vicinale Cupa dell'arco, agguato che segna l'inizio della faida e in cui agì Gennaro Marino. Secondo le nuove indagini sull'omicidio di Massimo Marino, l'autore materiale dell'agguato, Gennaro Pulzella, colpì la vittima sporgendosi da un muro e ferendola mortalmente mentre si trovava nel cortile di casa. Fu un delitto, sottolinea una nota del procuratore aggiunto dei Napoli, Alessandro Pennasilico, "di pura natura ritorsiva, senza altro scopo se non quello di colpire comunque la famiglia Marino". Per quest'omicidio Cosimo Di Lauro non era mai stato indicato come mandante. Il gip di Napoli, invece, ha ribaltato la la causale dell'omicidio, rigettando l'ipotesi della vendetta privata attuata da Giovanni De Luise per l'assassinio del fratello Antonio ucciso mentre faceva il palo per i Di Lauro, per individuare il movente nella strategia del terrore di Cosimo Di Lauro volta all'annientamento degli scissionisti e dei loro parenti, anche se estranei al contesto criminale. Prova cardine del processo a carico di Giovanni De Luise era stata la testimonianza di Cinzia Marino, la quale, in circostanze del tutto casuali, mentre si trovava all'obitorio dove era stata portata la salma del fratello Massimo aveva ritenuto di riconoscere l'assassino proprio in De Luise, che si trovava anch'egli all'obitorio per rendere omaggio alla salma del fratello Antonio ucciso nello stesso giorno. Il gip definisce una "involontaria, erronea individuazione" quella della testimone oculare, che si trovava in una difficile condizione psicologica.

I pm ammettono l'errore: "Non è lui il killer". Ma De Luise resta in cella.

Condannato a ventidue anni, da sei è detenuto Eppure la stessa procura di Napoli ha chiesto la revisione del processo, scrive Giovanni Terzi su “Il Giornale”. Questa è una storia drammatica che parla di vicende legate alla criminalità organizzata, alla camorra, al traffico di stupefacenti e alle guerre tra faide a Napoli. Una storia che ha come sfondo il profilo peggiore di questa nostra Italia incorniciato nell'incantevole paesaggio partenopeo. Questa è anche la storia di un uomo, Giovanni De Luise difeso dall'avvocato Carlo Fabbozzo, prima accusato di essere l'omicida di Massimo Marino e poi scagionato dalla stessa procura della Repubblica di Napoli con i pubblici ministeri Lepore e Castaldi ma ancora oggi dopo otto anni in carcere a Lecce. La faida vedeva coinvolti alcuni clan camorristici facenti riferimento ai gruppi dei Di Lauro di via Cupa dell'Arco a Secondigliano e degli scissionisti capeggiati dal boss Raffaele Amato. Era la faida di Scampia che da ottobre del 2004 a febbraio 2005 vide lo svolgersi di una vera e propria mattanza quotidiana a ogni ora del giorno, tra folle terrorizzate, con l'obiettivo del controllo del traffico di droga. Centinaia di vittime insanguinarono le strade di Scampia; uomini dei clan, familiari in parte vicini alle cosche ma anche vittime innocenti. Colpire gli innocenti faceva parte di una strategia ben precisa già adottata dalla «Nuova camorra organizzata » di Raffaele Cutolo tesa a costringere gli avversari ad uscire allo scoperto. La faida di Scampia ha inizio il 28 ottobre del 2004 e ha come vittime Fulvio Montanino e Claudio Salerno uccisi dagli scissionisti. Poi quotidianamente si spara e si uccide per strada, nelle piazze; cadono tre marescialli dei carabinieri che camminavano in borghese nelle vie di Scampia e che furono scambiati per membri di un gruppo rivale. Clamoroso fu il 7 dicembre del 2004, quando alle quattro del mattino circa mille uomini delle forze dell'ordine circondarono Scampia e Secondigliano catturando con cinquantun ordini di custodia cautelare decine di malavitosi. In quell'occasione le donne del rione «terzo mondo» scesero in piazza aggredendo i poliziotti. Pochi giorni dopo, l'11 dicembre alle 16.44 nella Strada Casavatore, fu ucciso Massimo Marino, innocente cugino di Gennaro Marino, ras degli scissionisti. L'omicidio di Massimo Marino per gli investigatori era la ri­sposta dei Di Lauro all'uccisione, avvenuta tre ore prima di Antonio de Luise finito nel mirino degli scissionisti. La svolta per queste indagini avviene attraverso le intercettazioni telefoniche. Infatti i carabinieri della Dda mettono cimici ovunque per combattere la drammatica faida camorristica. Ed è grazie ad una intercettazione fatta alla sorella di Massimo Marino, Cinzia, che i carabinieri arrestano Giovanni DeLuise incensurato fratello di Antonio anche lui vittima della mattanza quotidiana.

Cinzia Marino, disperata all'obitorio di fronte alla salma del fratello, rivolgendosi a un'amica vede la sagoma di Giovanni De Luise e lo riconosce come il killer del fratello. Giovanni de Luise, fino a quel momento incensurato spedizioniere di ventitré anni fu arrestato; movente e testimonianze non lasciavano spazio ad interpretazioni, era lui l'assassino di Massimo Marino. Giovanni De Luise viene condannato a 22 anni di carcere in via definitiva. Anche durante il processo le dichiarazioni testimoniali di Cinzia Marino, sorella della vittima, sono drammatiche e inconsuete. Infatti durante il dibattimento la donna, nell'aula della Corte d'Assise, guardando negli occhi Giovanni De Luise lo accusa dell'omicidio del fratello. Cinzia Marino diventa una teste protetta e, in un mondo fatto di omertà, le sue dichiarazioni a viso scoperto appaiono coraggiose e di esempio. Da quel dicembre del 2004 De Luise passa sei anni in carcere, dichiarando sempre la propria innocenza, fino a quando, all'inizio del 2010, spuntano altri due collaboratori di giustizia; Antonio Prestieri e Antonio Pica. Questi, durante un interrogatorio coperto da omissis, scagionano Giovanni De Luise dall'omicidio di Massimo Marino. Le dichiarazioni sono così attendibili che è la stessa Procura di Napoli nel nome del procuratore Giandomenico Lepore e Stefania Castoldi, a firmare l'istanza di revisione del processo. Un fatto storico, importante e di grande civiltà il mea culpa della Procura che riconoscendo un errore cerca di porne rimedio. Tutto questo avveniva nell'aprile del 2010. A due anni e mezzo da quell'ammissione di errore Giovanni De Luise è ancora detenuto nel carcere di Lecce in attesa di giudizio. Non mi sento di esprimere alcun giudizio se non quello positivo nei confronti di quei pubblici ministeri che cercano di porre rimedio a un errore giudiziario. Lasciatemi però la possibilità di rimanere perplesso su un andamento giudiziario che vede, a due anni e mezzo dalla richiesta di revisione del processo fatta dalla procura di Napoli, una persona ancora detenuta.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.

In un certo senso Berlusconi se lo merita. Si lamenta, si lamenta, per poi da leader politico più votato in assoluto e capo di una coalizione di maggioranza non fare niente per cambiare le sorti di chi incappa nelle maglie di una giustizia ingiusta. Parla di sé come un perseguitato. Le carceri piene di innocenti, le vittime delle denunce insabbiate, magistrati corrotti ed incapaci non sono per lui fenomeni come un cancro da estirpare. Pensa sempre e solo ai cazzi suoi. Bene. Allora facciamolo anche noi. Pensiamo ai cazzi suoi, se non altro, almeno, per dimostrare che effettivamente se succede a lui, figuriamoci ai poveri cristi cosa capita. Peccato che la legge del contrappasso non colpisca i manettari forcaioli con la stessa moneta. Solo allora si capirebbe l’ignominia e la malvagità di certi magistrati: torturare, spesso fino alla morte loro simili, solo per aver vinto un concorso pubblico truccato. E poi ci ritroviamo ad essere giudicati dai “Caccamo” inquadrati in dinastie, in tutte le corti, su su, fin anche alla Suprema Corte.

"La sentenza contro Silvio? Aberrante, e io sono la prova". "La firma sui bilanci di Mediaset era la mia. E sono stato assolto due volte. Lui era a Palazzo Chigi ed è stato condannato. Ma che giustizia è questa?".

Per gentile concessione di «Magna Carta» “Il Giornale” pubblica ampli stralci dell’intervista a Fedele Confalonieri realizzata per la summer school della Fondazione. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, nasce a Milano nel 1937. Voleva fare il pianista, dicono peraltro che sia molto bravo, ma alla fine diventa uno dei manager di maggiore successo in Italia.

Come si costruisce da zero una biografia come la sua?

«Tanta fortuna. Intanto cominciamo a dire questo, prima di tutto. Perché io, finita l'università, ho provato a lavorare un po' per conto mio, poi, avendo un amico molto bravo, molto più bravo di me a fare l'imprenditore, sono andato a lavorare con lui. E ho fatto tante cose, ho lavorato per 40 anni in Fininvest, prima ancora in Edilnord quando Berlusconi si occupava di edilizia, poi nelle varie attività, televisione, eccetera occupandomi soprattutto di rapporti istituzionali e così via, e tante altre cose. Quando eravamo nel '73, quindi 40 anni fa, c'erano 100 persone con Berlusconi e si facevano tante cose, sono stato capo del personale, poi le pubbliche relazioni, i consigli, e così via. Infine ci siamo specializzati, diversificati. Segreti, mi creda... è la fortuna. E poi certo l'impegno, lavorare, lavorare, darsi da fare. Io ricordo, le vacanze erano poche, quest'anno ne ho fatte tante per quelli che erano gli standard di allora. Le vacanze erano magari una settimana, dieci giorni. Il piacere di lavorare, poi essere in un settore che ti riempie. Ma formule non credo ce ne siano».

Lei ha collaborato insieme a Silvio Berlusconi alla nascita in Italia della tv commerciale, dunque per l'avvento della concorrenza in una settore prima monopolizzato dal pubblico. In una società moderna quale ritiene sia il giusto equilibrio tra l'iniziativa privata e l'intervento dello Stato?

«L'intervento dello Stato dovrebbe essere quello classico: i servizi, le strutture e poi il resto affidato ai privati. Certo un welfare ci deve essere. Ci sono dei Paesi troppo liberali e per cui se svieni per strada e non hai in tasca la carta di credito non ti ricevono all'ospedale. Questa è un'aberrazione, sotto il profilo liberale. Però non ci deve essere neanche l'aberrazione che tutto ti viene dallo Stato, o quasi tutto. Un giusto equilibrio tra le due cose».

Nel 2012 lei è stato ospite della fondazione Magna Carta in particolare alla lettura annuale con una lectio magistralis dal titolo «La tv commerciale fattore di sviluppo e di democrazia». Con l'avvento della tecnologia di internet oggi si parla tanto invece di democrazia della rete. Qual è la sua interpretazione di questo fenomeno?

«Mutatis mutandis è un po' la stessa cosa. In quel periodo c'è stata la vera rivoluzione liberale nel nostro settore. E questo è uno dei meriti di Berlusconi, un merito politico anche quando non era ancora politico, perché quella è stata veramente una ventata di libertà portata nel nostro Paese. Internet è per definizione libero. Forse va regolamentato un poco laddove si tratta di calpestare i diritti di altri, per esempio il copyright, la produzione culturale e così via. Se uno può scaricare tutto quanto... Certamente è un fattore di maggior democrazia, vediamo gli esempi qui in Italia. Poi ritorniamo ai valori fondamentali di sempre che valgono in una società arcaica, moderna o addirittura futuribile. Però quando la tecnologia aiuta la libertà ben venga».

Lei ha vissuto tante stagioni e tanti momenti difficili della storia d'Italia. Quello che stiamo vivendo sembra un tornate particolarmente critico e insuperabile per il nostro Paese. Come ne uscirà secondo lei l'Italia e il centrodestra?

«Il centrodestra... Tutto dipende da Berlusconi, da come se la cava proprio in queste ore, direi più che ancora in questi giorni. Perché mi sembra che centrodestra voglia dire soprattutto Berlusconi. Il Paese ha le risorse, tutti sappiamo quanto sono intraprendenti gli italiani, quanto sono vivaci, quanto sono anche pazienti, forse certe volte anche troppo pazienti, però non è facile uscirne. O si tagliano, li abbiamo chiamati lacci e lacciuoli in onore del primo che ha parlato di queste cose, se no è veramente difficile. Sappiamo tutti che se vai in certi Paesi i costi del lavoro diminuiscono enormemente. Ci sono dei Paesi in cui un operaio guadagna un dollaro o due dollari l'ora, non è detto che lavorino meglio però uno può delocalizzare. Ma al di là di queste cose, ci sono anche delle restrizioni, delle difficoltà, degli ostacoli che vengono dalla troppa burocrazia. Sappiamo tutti che in certi Paesi ci vogliono addirittura pochi giorni o poche settimane per aprire una fabbrica o una nuova attività. Qui ci sono delle volte che uno impazzisce prima di poter aprire un qualche cosa che non inquina, e dà solo lavoro. E quindi sono tutte bardature che andrebbero veramente rotte».

Restiamo sulla politica. Nella costruzione di una proposta politica che guardi al futuro, quali fattori pesano di più secondo lei e che peso ha la cultura nella costruzione di questa proposta?

«In politica ci sono i valori di sempre: rispetto della democrazia, delle istituzioni, un legislativo che faccia delle leggi. Soprattutto un mondo politico oggi meno astioso. Sono stati 20 anni di guerra sempre. C'è sempre stato un conflitto. Un Paese non può litigare tutti i giorni. Ci vogliono dei principi comuni e poi ci vogliono delle riforme fondamentali, una riforma come quella della giustizia è ineludibile, una riforma del sistema del lavoro, dei costi del lavoro, una riforma anche del welfare è ineludibile. Detti così sono i dieci punti di qualsiasi politico che si presenta sull'agone elettorale, però tutti sanno che cosa vuol dire. Poi il peso della cultura va da sé. Pensare alla scuola, bisogna partire dalla scuola, adesso non voglio fare il trombone all'eccesso e mettermi nei panni del politico che non sono».

Lei conosce molto bene la Seconda Repubblica che ha visto nascere a partire da Mani Pulite e poi dalla discesa in campo nel '94 di Silvio Berlusconi. Quali sono a suo avviso i punti di forza della Seconda Repubblica e quali i punti di debolezza da riformare?

«La Seconda Repubblica ha avuto tanti difetti e lo sappiamo non è riuscita a fare molte cose... Poi, ripeto, Berlusconi dice sempre che non le ha fatte perché non aveva il 51 per cento, c'è stato un momento che aveva una grande maggioranza. La vicenda Berlusconi sembra stia per chiudersi per un intervento della magistratura, cioè di un ordine dello Stato che ha sentito Berlusconi come un intruso, come un usurpatore nel mondo della politica, nella convivenza e l'ha messo nel mirino: 40 processi, procedimenti, è inutile stare a ripetere delle cifre che conoscono tutti quanti, le duemila ispezioni finché sono arrivati a una sentenza che è aberrante. La prova che questa sentenza sia aberrante è che io, che sono quello che firma i bilanci di Mediaset, sono stato assolto due volte. Quello che faceva il presidente del Consiglio nel 2003 è condannato a quattro anni per frode fiscale. Non stiamo parlando di altre cose, la frode fiscale è una cosa ben precisa. E poi questa frode fiscale per un gruppo che ha pagato miliardi: Fininvest 9 miliardi, Mediaset ha dato 6 miliardi all'erario da che c'è, 7 milioni e rotti avremmo frodato. E in un anno dove poi tra l'altro avevamo pagato 560 milioni di tasse, pagarne 567 non era... Però questa è la giustizia, e a un certo punto la giustizia diventa una player nella competizione. Quindi questa è una riforma che andrebbe fatta non soltanto, ripeto, nel penale ma anche nel civile e così via».

Che consiglio dà ai giovani studenti della summer school della fondazione Magna Carta?

«Il consiglio ai giovani è quello di impegnarsi. E poi è bene che si divertano, che facciano tutto quello che i giovani fanno, si innamorino, si disinnamorino, che si divertano, facciano sport. Però impegnarsi. Ecco la cosa che sento. Insomma, io avevo 8 anni quando è finita la guerra, in guerra si mangiava quel che si poteva. E poi c'era una disciplina normale nei confronti del tuo maestro, poi del tuo professore, poi del tuo professore dell'università, questo senso del dovere, che è un dovere nei confronti di te stesso. Adesso non scomodiamo Kant col principio kantiano: fai, agisci in modo che il tuo agire serva da paradigma per tutti quanti. Però un qualche cosa del genere, cioè non prendere le cose alla leggera: se devi studiare studia, e poi impegnati a fare anche qualcos'altro. Cioè datti da fare. Datti da fare anche su cose che possono sembrare umili per un certo periodo, ma che servono. Il vecchio «impara l'arte e mettila da parte» serve per tutte le cose. Siamo partiti dal suonare il piano. Andare a suonare il piano anche nei night club serviva, era un'esperienza che ti facevi in più, a parte che ti prendevi qualche soldino che non guastava. Poi è chiaro, c'è chi è privilegiato perché può fare la scuola migliore, può frequentare all'estero i corsi dei master o di lingue, ma al di là della preparazione che hai avuto conta tanto l'impegno. D'altra parte lo si vede anche nelle cose più futili. Vogliamo parlare di calcio? Il grande talento se non ha anche concentrazione, volontà, disciplina si perde. Vale per il calciatore, per il pianista, per il musicista, per il letterato. Per cui: impegnarsi».

Parole, parole, parole......

Nuove prove, i legali di Agrama chiedono di rifare il processo. L'avvocato del produttore americano condannato a 3 anni a Milano ma assolto in Svizzera: "La documentazione dei magistrati elvetici non era nota ai difensori di Berlusconi". Una dirigente della Rsi: "Da Agrama compravo a prezzi di mercato, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Ancora una testimonianza dalla Svizzera, ancora una conferma che il processo sui Diritti tv ha ignorato fatti e atti giudiziari importanti dell'inchiesta elvetica per riciclaggio contro quattro manager Mediaset, chiusasi con l'archiviazione come abbiamo documentato sulle pagine de Il Giornale. Fatti e atti che riguardavano la stessa questione e hanno portato a conclusioni opposte a quelle italiane. Parla Silvana Carminati, responsabile acquisti fiction dell'Rsi, la tv svizzera di cui fa parte la Srg Ssr, che ha comprato film e programmi Paramount dal produttore americano Frank Agrama, ritenuto «socio occulto» di Silvio Berlusconi nella sentenza della Cassazione che ha portato alla condanna per frode fiscale di tutti gli imputati. «I rapporti con Agrama - spiega a Ticinonline, il portale numero uno della Svizzera italiana - sono cessati, a memoria, tra fine anni Novanta e gli inizi del 2000. Lo avevamo conosciuto in un mercato televisivo e ci era stato indicato come l'intermediario ufficiale della Paramount per il mercato di lingua italiana. Era lui il proprietario dei diritti dei film che ci interessavano e ci siamo rivolti a lui finché la Paramount non ha aperto un proprio ufficio a Roma». Dopo le carte sull'interrogatorio del 18 ottobre 2010, da parte del giudice istruttore di Berna, del responsabile Finanze della Srg Ssr e il rapporto finale del magistrato elvetico Prisca Fischer che il 15 dicembre dello stesso anno ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta, perché mancavano le basi del reato di riciclaggio, ecco un altro tassello che dimostra il ruolo ufficiale e non «fittizio», come definito dalla giustizia italiana, di Agrama nella vendita dei prodotti Paramount da lui acquistati con l'esclusiva per l'Italia e le emittenti di lingua italiana. Ma forse ancora più importante è che la Carminati parla a Ticinonline anche dei prezzi dei film, che per i giudici italiani Agrama avrebbe «gonfiato» in modo fraudolento d'accordo con Berlusconi. «Compravamo da Agrama - dice - al prezzo di mercato a cui avremmo comprato direttamente dalla Paramount. Non abbiamo mai avuto motivo di sospetto». Possibile che tutto questo non sia stato ritenuto rilevante in Italia, prima nell'inchiesta e poi nei processi per i Diritti tv? Possibile che non sapessero nulla i difensori degli imputati, mentre certo la Procura di Milano era informata dell'andamento e della conclusione dell'inchiesta svizzera? La difesa del leader Pdl conferma di non conoscere queste carte, che intende valutare nel complesso per decidere il da farsi. E Roberto Pisano, legale di Agrama dice: «La documentazione ufficiale dei magistrati svizzeri non era nota alle difese del processo Mediaset, né è mai stata acquisita in tale sede. Ed è di straordinaria rilevanza, avendo valore di potenziali "nuove prove" idonee a legittimare la revisione del processo ai sensi dell'articolo 630 del codice di procedura penale». Dunque, alla vigilia del esame della Giunta per le immunità del Senato sulla decadenza di Berlusconi gli avvocati sono al lavoro per far riaprire un processo che sembrava definitivamente chiuso e che grazie alla revisione potrebbe portare anche alla sospensione della pena da parte della competente Corte d'appello di Brescia. Pisano spiega che la documentazione svizzera «conferma le conclusioni di assoluzione per Agrama, Berlusconi ed altri cui era giunto il Gup di Roma Balestrieri, con sentenza del 27 giugno 2012, espressamente basata sugli stessi elementi di prova del processo Mediaset». Una assoluzione confermata dalla Cassazione il 6 marzo 2013. Con questa motivazione: «Il Gup ha evidenziato la sussistenza di un compendio probatorio, sia dichiarato che documentale, ambivalente e contraddittorio, insuscettibile di ulteriore sviluppo in sede dibattimentale». Balestrieri dice di aver valutato le prove del parallelo processo Mediaset, «con conseguente prognosi negativa», riconosce il ruolo «effettivo» di Agrama e nega una «maggiorazione» dei prezzi dei diritti tv.

Berlusconi? C’entra sempre.

Motivazioni sentenza Dell'Utri. "Mediatore con Cosa nostra". I giudici della terza sezione penale della corte d'appello di Palermo: mantenuti sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento, scrive “La Repubblica”. Marcello Dell'Utri è stato il "mediatore contrattuale" di un patto tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, e in questo contesto tra il 1974 e il 1992 "non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti", e "ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento". Così argomentano i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui l'ex senatore del Pdl è stato condannato il 25 marzo scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte d'appello (presidente Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte) colloca la stipula di questo patto tra il 16 e il 29 maggio del 1974 quando, si legge nelle 477 pagine della motivazione, "è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e (dal mafioso palermitano Gaetano) Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi". Quella riunione, secondo la Corte, "ha costituito la genesi del rapporto sinallagmatico che ha legato l'imprenditore Berlusconi e Cosa nostra con la mediazione costante e attiva dell'imputato" Dell'Utri. "In virtù di tale patto - sostengono i magistrati palermitani - i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall'altra) e il mediatore contrattiale (Marcello Dell'Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell'imprenditore mediante l'esborso di somme di denaro che quest'ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell'Utri che, mediando i termini dell'accordo, ha consentito che l'associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l'ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro". L'incontro del 1974, secondo la Corte, "segna l'inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell'Utri e Cosa nostra fino al 1992. E' da questo incontro - si legge nelle motivazioni - che l'imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l'ombrello della protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all'obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione". Mangano divenne così lo stalliere di Arcore "non tanto per la nota passione per i cavalli" ma "per garantire un presidio mafioso nella villa dell'imprenditore milanese". Dell'Utri, ricordano i giudici, ha ammesso di aver indicato Mangano a Berlusconi come persona da assumere ma ha sostenuto di non essergli amico, anzi di averne paura. Ma la Corte non lo ritiene credibile. "La continuità della frequentazione, l'avere pranzato in diverse occasioni con lui, sono circostanze - recita la motivazione - che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura". La Corte ha ricostruito nelle motivazioni anche i pagamenti sollecitati dai mafiosi a Berlusconi "quale prezzo per la protezione", e che secondo i giudici iniziarono subito dopo l'incontro del 1974, con la richiesta di 100 milioni di lire formulata da Cinà, ed esaudita.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare:

Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro. “Non mi pento della scelta fatta, quella di denunciare i miei estorsori”. È la voce di Valeria Grasso, imprenditrice palermitana, donna coraggiosa. Oggi presidente di Legalità è Libertà, associazione antiracket, antiusura e mobbing. Si è ribellata alla mafia, al sistema mafioso, alla prepotenza di gente senza scrupoli. Ha denunciato, ha fatto arrestare i suoi estorsori. Gli appartenenti al clan mafioso dei Madonia. Cosa Nostra siciliana. “Ci sentiamo lasciati soli, il programma di protezione non funziona”. Un concetto espresso da molti testimoni di giustizia. “Più che un programma di protezione – si sfoga Valeria – sembra una punizione, una distruzione per la denuncia”. Valeria, per aver fatto il proprio dovere, continua a ricevere minacce, intimidazioni, avvertimenti. L’ultima ha coinvolto sua figlia, di 11 anni. Alle minacce degli uomini del disonore (o pezzi di merda, come li definisce il collega siciliano, il direttore di TeleJato Pino Maniaci), si aggiungono le strane e discutibili decisioni dello Stato. “Mi sento presa in giro, mi hanno sospeso il contributo di sopravvivenza, senza nessuna comunicazione. Avevano già tolto quello per mia figlia”.

Il presidente di Azione Civile, Antonio Ingroia ha affermato: “Quanto accaduto all’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, testimone di giustizia, inserita nel programma di protezione per aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori, non è degno di un Paese civile”. Cosa ti è accaduto?

«Sono nel programma di protezione e vivo in località protetta. Mia figlia, la maggiore, ha avuto gravi problemi di salute e si è dovuta staccare dalla località protetta ed è arrivata a Palermo nel mese di gennaio. Questa sua situazione di salute si è aggravata e a maggio, con regolare autorizzazione, sono dovuta tornare a Palermo, provvisoriamente, per assistere mia figlia. E’ stata ricoverata in ospedale dodici giorni, una depressione causata da tutta una serie di situazioni che abbiamo vissuto in località protetta, come la casa avuta dopo un anno e il vivere in alberghi.»

E cosa succede?

«Il 2 agosto mi accorgo che non mi è stato accreditato il contributo mensile. Il testimone di giustizia che vive in località protetta non potendo più lavorare ha un sussidio che serve alla sopravvivenza del nucleo familiare. Mi dicono, al telefono, che mi era stato sospeso.»

Una questione di soldi?

«Il problema è come viene trattata la gente. Questo programma di protezione sembra un programma di punizione. Tutto quello che deve essere garantito lo devi sudare, devi combattere. Come se la tua famiglia fosse un peso, da punire. Non esiste che al tuo nucleo familiare, improvvisamente e senza preavviso, viene sospeso il contributo di mantenimento. Ma se è previsto dalla legge, che la famiglia ha un sussidio per vivere, come fai il due agosto, senza una comunicazione… c’è malafede.»

Perché parli di malafede?

«La legge non prevede la sospensione del contributo, c’è qualcuno all’interno del Servizio che ha preso una decisione che non è legale. Come dice il dott. Ingroia, determinate decisioni vengono prese in Commissione, la revoca del contributo viene fatta se c’è un motivo gravissimo. Per esempio l’abbandono della località, la fuoriuscita dal programma. Ma non è possibile che a una madre, giù in Sicilia, per motivi gravi della famiglia venga sospeso il contributo. Ma di cosa stiamo parlando?»

Secondo te perché si comportano in questo modo con i testimoni di giustizia?

«Perché non c’è un controllo, nessuno controlla il sistema del servizio di protezione. Non c’è all’interno una volontà di incentivare la figura del testimone di giustizia, sempre costretta ad essere vista come una figura poveretta che deve stare lì ad elemosinare, piuttosto che una risorsa della società civile. In questo modo sei continuamente a gridare allo Stato tutto quello che ti spetterebbe di diritto. E’ una battaglia, mi trovo a lottare contro coloro che dovrebbero aiutarmi a ridare equilibrio a casa mia.»

Tu sei una testimone di giustizia perché hai fatto arrestare degli estorsori del clan Madonia…

«Gestivo una palestra, un bene confiscato di proprietà della famiglia Madonia. Per certi personaggi la parola ‘confisca’ non esiste. Alle prime richieste di estorsione mi ero opposta tassativamente, non volevo pagare, ero molto spaventata. Madre di tre figli e separata. Ci sono momenti molto difficili, soprattutto, sapendo chi sono i personaggi.»

Chi sono?

«Madonia è stato colui che ha ucciso Libero Grassi, ha fatto parte dei mandanti della strage di via D’Amelio. La moglie di Madonia, Maria Angela, è definita il boss in gonnella. Si può ben capire di chi stiamo parlando.»

Quindi cosa succede?

«Ho provato anche a vendere l’attività per cercare di tutelare la mia famiglia, ero riuscita a venderla a un ragazzo di vent’anni. Dei personaggi, mandati da loro e arrestati grazie alle mie denunce, pretendevano che io da vittima diventassi estorsore. Pretendevano che io andavo dalla persone che aveva comprato la mia palestra per ritirare 500euro al mese, diventando un loro esattore. A quel punto è stata inevitabile la scelta, sono andata a denunciare. Oggi ho ripreso la palestra, ho restituito i soldi a quel ragazzo che l’aveva presa e ho tentato di riattivarla. Gli atti di intimidazione sono stati talmente tanti che la Procura di Palermo ha predisposto l’inserimento urgente nel programma per un pericolo imminente di vita.»

Le minacce non sono terminate. Tua figlia di 11 anni, poco tempo fa, è stata "avvicinata".

«È stata minacciata al cellulare dalla voce di un tizio che, poi, si è  presentato come Pietro e che ha detto in siciliano: "So chi sei e so chi è tua madre". Più che un messaggio a lei è stato un messaggio a me.»

Ritorniamo al programma di protezione…

«Un business, un’invenzione. Non ha assolutamente la funzione che dovrebbe avere. Mi sento presa in giro da questo sistema. Smetterò di sentirmi presa in giro quando chi di dovere, dopo le mie continue denunce, si degni di ricevermi così come ha fatto il presidente Crocetta (Presidente della Regione Sicilia, ndr), che alla vigilia di ferragosto, appena ha letto quello che stava succedendo tramite il dott. Ingroia, che è stato il mio magistrato, ha voluto incontrarmi. Garantendo chiarezza su questa storia. Ho scritto alla presidente Boldrini, telefono continuamente alla segreteria del Ministro, ma di che cosa parlano? Come vogliono che l’Italia, la Sicilia cambi o si combatta la mafia quando quelle persone che dovrebbero essere il megafono della legalità diventano il megafono di uno Stato che non funziona.»

Una situazione difficile…

«Che mi stimola sempre di più ad andare avanti per combattere contro questo sistema. Non ci dobbiamo isolare, dobbiamo continuare a denunciare e a combattere questo sistema che non funziona. Mi aspetto che il Ministro intervenga e che qualcuno cominci a volerci vedere chiaro come funziona il sistema di protezione, chi lo gestisce, chi sono i direttori del Servizio e come mai prendono della decisioni che non vengono autorizzate, per esempio, dalla Commissione. È necessario che qualcuno faccia un immediato intervento, perché altrimenti ci si sta prendendo tutti quanti in giro.»

“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

VENDEVA PROCESSI PER UN POKER

Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all' intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l' industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l' istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.

ATTACCO AI GIUDICI DI MILANO

Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell' accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.

BRESCIA, TORNA L' INCHIESTA 'AUTOPARCO'

Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l' autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov' era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.

TRATTATIVA E 41 BIS, UN PASSATO CHE NON VUOLE PASSARE.

Scritto da Fabio Repici e Marco Bertelli. Da qualunque parte si prenda, questa storia sembra il prodotto malato della mente di uno sceneggiatore horror. Una storia così inverosimile che risulterebbe irricevibile per qualunque produttore cinematografico che si rispetti. Una storia all’apparenza del tutto inventata, se solo non fosse fondata su fatti e documenti mai smentiti, anzi puntualmente riscontrati ogni volta che sono stati sottoposti a verifica. Allora è doveroso raccontarla, avvertendo i lettori che è una storia che non ha ancora trovato la sua conclusione, se mai la troverà, e che si intreccia con la stagione che cambiò per sempre la nostra vita, il biennio stragista 1992/93. E conviene raccontarla partendo dagli spunti di cronaca.

1993, l'anno delle bombe e delle prime revoche del 41-bis.

Da un paio d’anni – più o meno da quando il braccio destro dei fratelli Graviano, Gaspare Spatuzza, ha iniziato a collaborare con la giustizia – le Direzioni distrettuali antimafia di Caltanissetta e Palermo stanno cercando di capire quali apparati dello Stato abbiano condiviso con Cosa Nostra la strategia eversiva a suon di bombe che ha spalancato le porte alla cosiddetta Seconda Repubblica e quali siano stati i tempi e gli strumenti che hanno permesso l’insana interlocuzione, più correttamente chiamata ‘Trattativa’, fra Stato e antiStato. Con imperdonabile ritardo, sulla scia delle rivelazioni di Spatuzza e del figlio minore di don Vito Ciancimino, numerosi personaggi istituzionali hanno avuto riverberi di memoria su due snodi decisivi della Trattativa. Il primo: lo sciagurato dialogo a partire dal mese di giugno 1992 fra il Ros dei Carabinieri (nelle persone degli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, con la copertura del generale Antonio Subranni) e Vito Ciancimino, che ha visto dall’estate 2009 la resurrezione della memoria di Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro. Il secondo: i provvedimenti di revoca o mancata proroga susseguitisi nel 1993, in favore di uomini di Cosa Nostra, del regime detentivo speciale previsto dall’art 41-bis dell’ordinamento penitenziario, sui quali i ricordi a scoppio ritardato sono stati soprattutto quelli dell’allora ministro di grazia e giustizia Giovanni Conso, che il 12 febbraio 1993 sostituì il dimissionario Claudio Martelli nel primo governo di Giuliano Amato e che fu confermato il 28 aprile 1993 nel successivo governo di Carlo Azeglio Ciampi. Conso ha rivelato l’undici novembre 2010 agli attoniti membri della Commissione parlamentare antimafia di avere assunto il 5 novembre 1993 in completa solitudine la decisione di venire incontro alle esigenze di detenuti mafiosi, per fornire un segnale di pace all’ala provenzaniana di Cosa Nostra, che in quel momento aveva adottato una linea strategica contraria a quella stragista sostenuta da Leoluca Bagarella: “Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi... La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze, quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Cosa era cambiato? Toto’ Riina era stato arrestato, il suo successore, Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava piu’ agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”. Come l’algido giurista sabaudo avesse avuto contezza dell’esistenza di due tendenze contrapposte all’interno di Cosa Nostra, circostanza che gli investigatori avrebbero scoperto molto tempo dopo l’intuizione di Conso, rimane tuttora un mistero. Gli inquirenti titolari dell’inchiesta palermitana sulla Trattativa tra 'pezzi' dello Stato e 'pezzi' dell'antiStato hanno accertato che in realtà Conso in quell’occasione non rinnovò altri 194 provvedimenti di regime carcerario 41-bis, per un totale di 334 detenuti ai quali non fu prorogato il carcere duro. Testimoniando il 15 febbraio davanti ai giudici della Corte d’assise di Firenze nel processo a carico del boss Francesco Tagliavia, Conso ha perfino peggiorato la sua indifendibile posizione: “A me di intese (tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia) non risulta assolutamente nulla, anche perché ero chiuso nel mio bunker. L’idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato… Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!”. Ha poi incredibilmente aggiunto con tono sibillino: “A me non risulta che ci fossero dei mediatori, ma certo non posso escludere che fra due funzionari, magari una sera a cena, si possa aver detto ‘facciamo un ponte’”. Parole dal sen fuggite, quelle sull’intesa “fra due funzionari una sera a cena” o un preciso messaggio? Se di messaggio si è trattato sembrerebbe il riferimento a uomini d’apparato piuttosto che a politici. Ma chi potevano essere i funzionari che si incontravano a cena per “fare un ponte”? Forse le parole di Conso sono più velenose di quanto possa sembrare a prima vista. Velenose come le parole di coda nella deposizione dell’ex ministro: “Al momento non siamo ancora in grado di dire nulla di sicuro, magari col tempo, piano piano, pezzo dopo pezzo arriveremo alla verità”. Come se ci fosse un informale segreto di Stato, per far cadere il quale occorre tempo. Peraltro, le affermazioni di Conso in merito alla mancata proroga dei provvedimenti di carcere duro ai primi di novembre del 1993, oltre a lasciare perplessi pressoché tutti gli osservatori, hanno trovato un’autorevole smentita nell’ex direttore del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) Nicolò Amato. Quest’ultimo era stato sostituito alla guida del Dap il 4 giugno 1993 dal magistrato Adalberto Capriotti, cui fu abbinato come vicedirettore Francesco Di Maggio, magistrato di punta alla Procura di Milano per quasi tutti gli anni Ottanta, poi passato all’Alto commissariato antimafia a coadiuvare Domenico Sica e infine, dietro segnalazione governativa, finito a Vienna a dirigere l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, incarico lasciato per insediarsi al Dap. In un’intervista rilasciata a Rainews24, Nicolò Amato ha rivelato il proprio fermo convincimento che la paternità del mancato rinnovo dei 41-bis del 5 novembre 1993 vada attribuita proprio a Francesco Di Maggio, che era il vero dominus del Dap, alle spalle del ruolo meramente formale assegnato a Capriotti. Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi. Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: in quell’occasione – scrive Amato - era stato il capo della Polizia Vincenzo Parisi, storico mentore di Bruno Contrada, a manifestare contrarietà al mantenimento del regime detentivo previsto dall’art. 41-bis. Nei verbali di quel comitato, però, che Parisi abbia manifestato questo atteggiamento non risulta; risulta invece che fu lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41-bis. È un fatto che il 15 maggio 1993, il giorno successivo al fallito attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro a Roma, il regime carcerario del 41-bis fu revocato per 140 detenuti. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori di giustizia, e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l'alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del governo. I provvedimenti di revoca del 41-bis furono firmati dal vice-direttore del Dap Edoardo Fazioli. Si diceva di Francesco Di Maggio. Si tratta del personaggio più controverso fra gli attori di quello squilibrato frangente istituzionale, nel quale il capo del governo Ciampi arrivò a temere un colpo di Stato di marca tardo-piduista. Personaggio controverso, Di Maggio, soprattutto per la statura indiscussa di molti suoi estimatori, fra i quali esponenti tra i migliori della storia giudiziaria milanese: da Piercamillo Davigo ad Armando Spataro a Ilda Boccassini. Senza dimenticare un dato di fatto da non trascurare: Francesco Di Maggio era stato uno dei magistrati antimafia più intimi con Giovanni Falcone.

Le indagini del pubblico ministero Gabriele Chelazzi sulle stragi del ‘93.

E allora quali sono le ragioni che impongono di riflettere sull’eventuale ruolo di Di Maggio nella Trattativa? La prima è insuperabile: poco prima di morire, fu proprio il compianto pubblico ministero Gabriele Chelazzi – indubbiamente il magistrato che con maggiore sagacia e con indiscussa rettitudine cercò di venire a capo dei misteri di Stato della Trattativa – a mettere nel fuoco della sua attenzione investigativa l’operato di Di Maggio quale vicecapo del DAP nel 1993. Quando Chelazzi virò le indagini su di lui, in realtà Di Maggio era già morto, stroncato il 7 ottobre 1996 a soli 48 anni per una grave forma di epatite degenerata in cirrosi epatica. Ma ad insospettire il Pm fiorentino, oltre al ruolo formale di Di Maggio al Dap, era stata un’inspiegabile annotazione trovata nell’agenda dell’allora colonnello Mario Mori, esattamente nella pagina dedicata al 27 luglio 1993. Si tratta di una data drammatica per l’Italia: nella notte successiva tre auto riempite di esplosivo (una a Milano nei pressi del padiglione di arte contemporanea, una a Roma a San Giovanni in Laterano e un’altra sempre a Roma davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro) avrebbero insanguinato il centro cittadino di Milano e provocato terrore nell’area di due famosi edifici religiosi della capitale, intestati, curiosamente, a santi omonimi dei Presidenti dei due rami del Parlamento, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano. Ecco, proprio in quella data, sull’agenda di Mario Mori risultò annotato un appuntamento dell’ufficiale del Ros con Francesco Di Maggio, con una causale davvero strana: “per prob. detenuti mafiosi”. Strana, anzi inspiegabile, perché non risulta che fra i campi d’intervento del Ros ci fosse il controllo del trattamento penitenziario dei mafiosi. Chelazzi dovette saltare sulla sedia dalla sorpresa, nel leggere quell’appunto sull’agenda di Mori. Si consideri che le bombe di Milano e Roma scoppiarono all’indomani del rinnovo, deliberato il 16 luglio, di 325 decreti che imponevano il 41-bis ad altrettanti mafiosi, quelli varati subito dopo la strage di via D’Amelio a Palermo. E un altro balzo Chelazzi dovette fare quando scoprì che il 22 ottobre 1993 Di Maggio e Mori si erano nuovamente incontrati, questa volta alla presenza anche dell’allora colonnello Giampaolo Ganzer, l’attuale comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione per gravissime imputazioni, a partire dal traffico di droga. Occhio alla data, 22 ottobre 1993: pochi giorni dopo, il 5 novembre 1993, 334 detenuti non si videro prorogato il regime restrittivo del 41-bis. Tra questi Conso decise di non rinnovare il carcere duro per 140 mafiosi rinchiusi all’Ucciardone nonostante Capriotti avesse chiesto un parere alla Procura di Palermo e quest’ultima avesse risposto che era inopportuno modificare il regime carcerario dei detenuti in questione, esprimendo parere favorevole alla proroga. Il parere della Procura di Palermo recava la firma degli allora procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Luigi Croce. Fu all’esito di queste scoperte che Gabriele Chelazzi si decise a sentire come testimone Mario Mori. L’incontro fra il magistrato fiorentino e colui che il primo ottobre 2001 era diventato, su designazione del secondo governo Berlusconi, direttore del Sisde avvenne nel pomeriggio dell’11 aprile 2003 e Chelazzi non ne rimase per nulla soddisfatto: secondo lui, Mori si era trincerato dietro troppi inescusabili “non ricordo”. E per questo, come ricorda il magistrato Alfonso Sabella, in quel momento collega di Chelazzi alla Procura di Firenze, il P.m. che indagava sulla Trattativa si era determinato a iscrivere l’ex generale del Ros sul registro degli indagati: “L’ipotesi di Gabriele in quel periodo è che ci fosse stato un tentativo da parte degli organi dello Stato di dare un segnale di ‘apertura’ a Cosa Nostra in maniera da impedire che altre stragi si portassero avanti. Questo segnale di ‘apertura’ era collegato all’alleggerimento del 41-bis o quantomeno al ridurre il numero dei detenuti al 41-bis. Perché Gabriele faceva questa ipotesi? Perché – non ricordo in quale agenda o da qualche parte – aveva saputo di un incontro tra il generale Mori e Francesco di Maggio, all’epoca vicecapo del Dap, che sembrava collegato da un appunto alla vicenda del 41-bis. Nello stesso periodo si era registrata anche la revoca di parecchi decreti 41-bis. Questa era l’ipotesi che aveva Gabriele.... Gabriele iscrisse Mori nel registro degli indagati per favoreggiamento in relazione alla vicenda della fase della trattativa che doveva portare alla revoca di alcuni 41-bis alla vigilia delle stragi in contemporanea con il fallito attentato all’Olimpico (stadio Olimpico di Roma – ottobre 1993/gennaio 1994). L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento verteva su una domanda specifica: l’avrebbe fatto per favorire la mafia o l’avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: ‘Mi venga a dire perché l’avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga un Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato’”. Sabella non si dovette sorprendere dei sospetti di Chelazzi, se sul Ros, da P.m. della D.d.a. di Palermo negli anni del Procuratore Giancarlo Caselli, si era fatta un’idea per nulla positiva proprio sulle ricerche dell’allora latitante Bernardo Provenzano, tema centrale del processo oggi pendente a Palermo a carico di Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu:A noi sembrava – così si è espresso Sabella a Palermo davanti ai giudici della quarta sezione penale del Tribunale – che il Ros agisse in un’altra direzione, per acquisire informazioni non come forza di polizia ma per altri motivi, a noi sconosciuti”. Se si legge il verbale delle dichiarazioni rese da Mori ai pubblici ministeri Chelazzi e Giuseppe Nicolosi si comprende appieno la sensazione che Sabella ebbe della delusione del collega. Se ne ricavano, fra l’altro, alcune impressioni nette: intanto, la metodicità e lo scrupolo minuzioso con cui Chelazzi – che durante quel verbale, nelle premesse alle domande poste a Mori, spiega in dettaglio l’obiettivo delle sue indagini – aveva ricostruito in punto di fatto il susseguirsi di ogni anche minuscolo evento susseguitosi nel biennio 1992-93; poi il “buon rapporto” che intercorreva fra Mario Mori e Nicolò Amato, il quale, cessata la sua permanenza al Dap e intrapresa l’attività di avvocato, secondo Massimo Ciancimino sarebbe stato nominato quale difensore da Vito Ciancimino su consiglio proprio di Mori; ancora, il sospetto che Mori in quell’incontro del 27 luglio 1993 avesse potuto riportare a Di Maggio le confidenze che il pentito Salvatore Cancemi, consegnatosi ai carabinieri il 22 luglio precedente con l’intenzione di iniziare da subito a collaborare con la giustizia, gli avesse potuto rivolgere circa il forte malumore serpeggiante in Cosa Nostra per le modalità applicative del 41-bis; i tentennamenti manifestati al riguardo da Mori, che ricordava come subito dopo la sua costituzione Cancemi fosse stato alloggiato a Verona sotto il controllo del maggiore Mauro Obinu e, del tutto inspiegabilmente, del maresciallo Giuseppe Scibilia, a quel tempo in servizio al Ros di Messina (e dalla domanda del P.m. Nicolosi, se si trattasse proprio di quel maresciallo Scibilia in servizio a Messina, emerge la sorpresa pure dei magistrati); il rapporto di grande solidarietà fra Mori e Di Maggio, che erano “veramente amici” e che, al di là delle due annotazioni risultanti sull’agenda del generale Mori, si incontravano spesso anche a cena (sic!); i buoni rapporti di frequentazione fra Mori e l’allora direttore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, che aveva ricevuto pubblico encomio niente di meno che da Totò Riina in un’esternazione dalla gabbia davanti alla Corte di assise di Roma il 29 aprile 1993: “Pepi è una persona seria che sa quello che scrive e quello che dice”; la prima visita che una giornalista, Liana Milella (allora a Panorama), riuscì a fare il 10 agosto 1993 al supercarcere di Pianosa per uno scoop che provocò le ire del Prefetto di Livorno, tenuto all’oscuro della sortita avvenuta con la copertura di Di Maggio, e avvenuta poco dopo un incontro che, il 30 luglio di quell’anno, la Milella aveva avuto con Mario Mori. Di tutti i temi e i nomi emersi da quel lungo verbale, è qui il caso di soffermarsi su quello meno conosciuto, il maresciallo Giuseppe Scibilia. Sì, perché non si riesce a capire a quale titolo a un sottufficiale del Ros di Messina fosse stata assegnata la responsabilità di gestire l’avvio della collaborazione con la giustizia di Salvatore Cancemi nel luglio 1993. Peraltro, ciò avveniva pochissimo tempo dopo un eclatante ed inescusabile passo falso che il Ros di Messina, guidato per l’appunto da Scibilia, aveva fatto con l’omessa cattura nel barcellonese del boss allora latitante Nitto Santapaola: il capomafia catanese frequentava stabilmente dei locali nei quali erano attive intercettazioni ambientali gestite dal Ros di Messina nell’ambito dell’indagine sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano; anziché andare con tutta calma ad ammanettare Santapaola, il Ros aveva fatto intervenire la squadra del capitano Ultimo, che anziché acciuffare il latitante si era data ad inseguire un diciannovenne della zona, che per un soffio non fu ucciso dalle pistolettate esplosegli dietro da Sergio De Caprio. Ne venne fuori perfino un procedimento penale a carico di Ultimo, archiviato con una motivazione abbastanza infamante per l’ufficiale. Se Scibilia aveva ricevuto quell’incarico delicato ed estraneo alle funzioni che ricopriva in quel momento, ciò era dovuto agli antichi rapporti di fiducia che legavano il sottufficiale al generale Antonio Subranni, che nella seconda metà degli anni Settanta era stato in servizio a Palermo e aveva avuto ai suoi ordini il giovane maresciallo Giuseppe Scibilia. Proprio in quegli anni Scibilia, insieme ad altri subordinati di Subranni, fu impegnato nelle indagini sull’uccisione di due carabinieri della stazione di Alcamo Marittima, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. In un processo di revisione attualmente in corso presso la Corte di appello di Reggio Calabria, è emerso il forte sospetto che Scibilia ed altri si sarebbero resi responsabili di torture per costringere alcuni giovani del trapanese a confessare di essere i responsabili dell’eccidio. Ne è scaturito un procedimento a carico di Scibilia e altri tre sottufficiali presso la Procura di Trapani, per calunnia e altro, archiviato per prescrizione dei reati. Sullo sfondo delle torture, i depistaggi nelle indagini sul duplice omicidio, dietro il quale si è sospettata la presenza di trame nere e di deviazioni istituzionali. Negli anni Novanta, però, Scibilia era in servizio a Messina. Eppure, veniva usato dai vertici del Ros come un fidato globe-trotter per casi di particolare delicatezza. Cosa che avvenne pure nelle vicende che avvolsero il suicidio del maresciallo (anch’egli del Ros) Antonino Lombardo. La sera del 23 febbraio 1995, nel corso della trasmissione “Tempo reale” condotta da Michele Santoro, Leoluca Orlando e Manlio Mele (allora sindaco di Terrasini) avevano rivolto al maresciallo Lombardo accuse di contiguità mafiosa. Lombardo in quel periodo era da tempo impegnato in trasferte per gli Stati Uniti, ove si recava con il maggiore Obinu per svolgere colloqui investigativi con il boss Gaetano Badalamenti. Si disse che Badalamenti stesse per essere convinto a tornare in Italia per rendere alla magistratura dichiarazioni con le quali avrebbe messo in crisi i processi fondati sulle rivelazioni di Tommaso Buscetta: stravagante progetto di collaborazione con la giustizia a beneficio di imputati eccellenti. La sopravvenuta esposizione mediatica di Lombardo determinò i vertici del Ros a revocargli l’incarico per una partenza già programmata per il 26 febbraio. Vistosi abbandonato e in pericolo, Lombardo si tolse la vita il 4 marzo 1995, lasciando ai suoi familiari una lettera nella quale spiegava che “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Il 16 marzo 1995 Mario Mori venne sentito dai pubblici ministeri di Palermo sul suicidio del maresciallo Lombardo e si espresse in questi termini circa la revoca dell’incarico a Lombardo per la nuova trasferta americana: “Il 24 avendo saputo che il sottufficiale avrebbe sporto querela contro le persone che lo avevano accusato, discussi della cosa con il maggiore Obinu. Questi segnalò l’inopportunità di esporre in quel momento il sottufficiale ad eventuali ulteriori polemiche, che potevano derivare dalla diffusione della notizia del suo incarico di portare Badalamenti in Italia e preso atto di tali osservazioni, parlai con il generale Nunzella (allora comandante del Ros, n.d.a.) ed insieme stabilimmo di mandare negli USA il maresciallo Scibilia, al posto di Lombardo”. Insomma, in quegli anni, ed anche in quelli a venire, il maresciallo Giuseppe Scibilia era uno dei più fidati ambasciatori degli uomini di vertice del Ros. Ufficiali del Ros, e Mario Mori per primo, come rappresentanti dello Stato che si muovevano per ragioni apparentemente estranee ai propri compiti d’ufficio: questo, quindi, fu il filone investigativo coltivato dal P.m. Chelazzi negli ultimi giorni di vita. Lo sfortunato magistrato fiorentino, però, nella mattina del 17 aprile 2003 fu colto da un improvviso malore che ne provocò la morte.

L’eredità scomoda di Gabriele Chelazzi.

A proseguire su quell’indirizzo d’indagine furono i suoi colleghi della D.d.a. di Firenze, che a poche settimane dalla morte di Chelazzi raccolsero imprevedibili riscontri sulle anomalie nei contatti fra Francesco Di Maggio e Mario Mori. Ne parlò nel giugno 2008 il battagliero mensile d’inchiesta La Voce delle Voci, in seno all’articolo a firma di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola dal titolo “L’infiltrato speciale”, dedicato a “Servizi segreti e inquinamento delle istituzioni”. I due autori riportarono stralci di un sofferto verbale di dichiarazioni rese il 13 maggio 2003 ai pubblici ministeri fiorentini Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi dall’ispettore del Dap Nicola Cristella, fedelissimo collaboratore di Di Maggio nei mesi caldi del 1993. Così aveva raccontato Cristella: “Quanto alle frequentazioni che il consigliere Di Maggio aveva in quel periodo anche in relazione al suo ruolo istituzionale, rammento che frequentava il maggiore Bonaventura del Sisde, l’attuale comandante del Ros generale Ganzer, il colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria con cui erano molto amici. La abituale frequentazione con Bonaventura era accompagnata anche dalla presenza di un’altra persona con cui si vedevano spesso a cena tutte e tre, quasi tutte le sere; questa persona veniva all’appuntamento in motorino e se non ricordo male si tratta di un civile all’epoca anch’egli nei servizi segreti … Un’altra persona con cui il consigliere aveva una qualche frequentazione era il giornalista di Famiglia Cristiana Sasinini”. Il verbale dell’ispettore Cristella si concludeva con una precisazione: “In sede di rilettura l’ispettore Cristella precisa che la persona indicata precedentemente come commensale abituale del consigliere Di Maggio e del maggiore Bonaventura era il colonnello Mori del Ros. L’ispettore precisa che a questo punto è un po’ più incerto sul fatto di chi dei due, se cioè Bonaventura o Mori, venisse all’appuntamento in motorino”. Dunque i rapporti fra Di Maggio e Mori erano ben più frequenti della singola annotazione dell’agenda del generale del Ros. Ma quel che più appare significativo è l’intero ventaglio delle relazioni personali praticate dal vicecapo del Dap: oltre agli ufficiali del Ros Mori e Ganzer, un altro ufficiale dell’Arma come Umberto Bonaventura che in quel momento era un dirigente del Sismi, il giornalista Guglielmo Sasinini oggi imputato nel processo per gli spionaggi Telecom che ha coinvolto anche Luciano Tavaroli e Marco Mancini (lo scandalo sullo spionaggio Telecom scoppiò nel settembre 2006), e infine l’ufficiale della Polizia penitenziaria e oggi dirigente del Dap Enrico Ragosa. Certo, persone molto diverse fra loro ma tutte a modo loro significative. Per Umberto Bonaventura si potrebbe ripetere quanto detto per Di Maggio: figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Bonaventura fu sicuramente, a partire dalla fine degli anni Settanta, uno dei giovani ufficiali più fedeli a Carlo Alberto Dalla Chiesa; fu il capo del Nucleo antiterrorismo e poi della Sezione anticrimine a Milano; passò dunque, al seguito di Di Maggio, all’Alto commissariato antimafia per poi, negli anni Novanta, entrare al Sismi, dove rimase fino alla sua morte improvvisa, avvenuta nel 2002. Fra i suoi subordinati a Milano ci furono due giovani sottufficiali destinati a diventare famosi: proprio Luciano Tavaroli e Marco Mancini, coinvolti nello scandalo Telecom insieme al giornalista Guglielmo Sasinini. Il quale Guglielmo Sasinini, oltre ad essere imputato a Milano nel processo per gli spionaggi Telecom, è stato un giornalista che spesso si è interessato di vicende di mafia. Ancora oggi Vincenzo Calcara, il pentito di Castelvetrano che iniziò a collaborare con Paolo Borsellino nel 1991, ricorda un po’ stranito l’intervista che Sasinini, dietro accreditamento dell’Alto commissariato antimafia, gli fece dopo la strage di via D’Amelio e che venne pubblicata da Famiglia Cristiana il 5 agosto 1992. Il pezzo giornalistico più sconvolgente su questioni di mafia, però, l’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana lo scrisse quando era più impegnato nelle traversie giudiziarie che non nel mestiere di cronista. Comparve sulle colonne di Libero il 3 aprile 2008 con il titolo “Lo Stato mortifica chi lotta sul serio contro la mafia” ed era un’accorata difesa del Ros di Mori. Ma soprattutto conteneva una rivelazione sconvolgente che non avrebbe mai trovato smentita. Sasinini, infatti, sostenne di aver condiviso con Mori e con l’allora capitano Sergio De Caprio (meglio noto con lo pseudonimo di Ultimo) i giorni che precedettero la cattura di Riina. Tutto scritto nero su bianco e occultato dalla più inspiegabile distrazione generalizzata (tranne i già citati Cinquegrani e Pennarola e lo scrittore Alfio Caruso, nel suo “Milano ordina uccidete Borsellino”, ed. Longanesi): “Dopo mesi di lavoro investigativo puro gli ‘indiani’ scovarono e catturarono il capo dei macellai corleonesi: Totò Riina. Io conoscevo bene quel gruppo di guerrieri e condivisi molte giornate con loro e soprattutto con Mario Mori, in particolare l’estenuante attesa della vigilia quando ‘il pacco’ stava per essere consegnato. Poi tutta l’Italia si emozionò per la più famosa delle catture”. Certo, la cattura di Riina raccontata come un “pacco” che viene consegnato sembra la ricopiatura della tesi, ritenuta infamante dal Ros ma ritenuta molto più che verosimile da molti osservatori e da molti investigatori, secondo cui Riina fu consegnato nelle mani del Ros, per iniziativa di Bernardo Provenzano. Solo che stavolta a sostenere questa teoria fu non un avversatore del Ros ma una persona strettamente legata agli esponenti di vertice dell’organismo d’investigazione d’eccellenza dell’Arma dei carabinieri. Senza trascurare la domanda più banale: ma che ci azzeccava il giornalista Guglielmo Sasinini con Mori e De Caprio in attesa della cattura di Riina? Dalle parole di Cristella emerge un altro nome della cerchia ristretta dei fedelissimi di Di Maggio, il “colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria”. Si tratta di Enrico Ragosa (ancora oggi dirigente del Dap), che nel 1986 era stato impegnato al carcere palermitano dell’Ucciardone, per il maxiprocesso celebratosi nell’aula bunker, e che nel 1997 per due anni sarebbe transitato al Sisde. Giusto il 6 luglio 1993 (sotto la gestione Capriotti-Di Maggio) Ragosa era stato nominato responsabile del Servizio di coordinamento operativo (dedito specificamente ai detenuti di mafia) del Dap. E certo non dovette essere un caso se il 4 dicembre 1996 su Famiglia Cristiana comparve un’intervista esclusiva del generale Ragosa al giornalista Guglielmo Sasinini. In premessa alle risposte di Ragosa, l’intervistatore segnalava, con invidiabile arguzia, che “le bombe di Roma, Firenze, Milano avevano lo scopo di indurre il potere politico a eliminare il regime 41-bis’”. Poi però tuonava convinto: “invece così non è stato”. E le 334 revoche del 5 novembre 1993? Distrazioni di un giornalista. Il quale proseguiva notando che “alle spalle della sua scrivania il generale Ragosa tiene in bella evidenza le fotografie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, di Francesco Di Maggio che diresse (sic!) il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.

Barcellona Pozzo di Gotto, uno snodo cruciale dei rapporti mafia-potere.

Si torna, dunque, a Di Maggio e a quei sospetti che Chelazzi stava cercando di verificare, di fare diventare ipotesi processuali. Non sappiamo se Chelazzi, in quei giorni, avesse letto (o riletto), una vecchia informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze, trasmessa il 3 aprile 1996 (Nr. 109/U.G. di prot.) ai pubblici ministeri di La Spezia che in quel periodo stavano indagando su traffici d’armi all’ombra di una possibile nuova P2, in un’inchiesta che avrebbe portato in carcere il 16 settembre 1996, tra gli altri, Pierfrancesco Pacini Battaglia e Lorenzo Necci. Quell’informativa del 3 aprile 1996, però, era dedicata a un altro personaggio, Rosario Pio Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 gennaio 1952. Si tratta della stessa persona che negli anni Novanta venne indagata (e poi archiviata) sia nella famosa inchiesta “Sistemi criminali” della D.d.a. di Palermo sia nell’inchiesta di Caltanissetta sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La cronaca giudiziaria messinese degli anni Settanta testimonia che Cattafi era stato compagno d’armi, all’università di Messina, niente di meno che di Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci. Cattafi successivamente era stato anche il mentore, oltre che il testimone di nozze, del boss barcellonese Giuseppe Gullotti. Quello stesso Gullotti che, secondo Giovanni Brusca, su richiesta di Rampulla, aveva personalmente recapitato agli stragisti di Capaci il telecomando utilizzato proprio da Brusca il 23 maggio 1992. Beh, se Chelazzi negli ultimi tempi lesse quell’informativa dovette strabuzzare gli occhi. Perché vi era riportata un’intercettazione in cui era proprio Cattafi a parlare dei propri rapporti con Di Maggio. A questo punto, però, è meglio fare un passo indietro. Cattafi, dopo i burrascosi anni di militanza neofascista all’università di Messina, che gli avevano fruttato due condanne definitive (una per una goliardica sventagliata con un mitra Sten all’interno della Casa dello studente; l’altra, insieme a Pietro Rampulla, per l’aggressione ad un gruppo di studenti sospetti di simpatie sinistrorse), si era trasferito dalla fine del 1973 a Milano dove aveva impiantato affari nel campo farmaceutico. Era però finito, anche all’ombra della Madonnina, in guai giudiziari. In un’occasione era stato pure arrestato, in un’indagine per il sequestro dell’industriale Giuseppe Agrati, che nel gennaio 1975 aveva fruttato ai rapitori il riscatto di addirittura due miliardi e mezzo di lire. Le prove sembravano solide, c’era perfino una testimone oculare che aveva visto Cattafi ed un complice, con le borse piene dei soldi del riscatto, partire per la Svizzera. Sennonché, su richiesta proprio del pubblico ministero Francesco Di Maggio, Cattafi era stato prosciolto in istruttoria con una sentenza emessa nel 1986 dal giudice istruttore milanese Paolo Arbasino. Cattafi, però, era rimasto coinvolto anche nelle rivelazioni che il pentito milanese (di origine catanese) Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”, aveva reso proprio al dr. Di Maggio, a partire dal novembre 1984. Epaminonda aveva accusato Cattafi di essere l’emissario del boss catanese Nitto Santapaola negli affari dei casinò e di essere uno degli uomini più importanti del sodalizio mafioso insediatosi nell’autoparco di via Salomone a Milano. Una storia da prendere con le pinze, quella dell’indagine sull’autoparco della mafia, perché era rimasta senza esito a Milano fin dal 1984 e quando era stata tirata fuori nel 1992 dalla Procura di Firenze ne era nata una violenta polemica, strumentalizzata da chi aveva tentato di brandirla, in difesa dei tangentisti di regime, come arma contro il pool Mani Pulite di Milano. Di quell’inchiesta, nel 1984 a Milano, era stato titolare per l’appunto Francesco Di Maggio, che da un lato aveva raccolto le dichiarazioni di Epaminonda sui mafiosi dell’autoparco e dall’altro aveva ricevuto le informative dei carabinieri sulla stessa vicenda. Ma nulla ne era sortito. Non solo: nel maxiprocesso derivato dalle confessioni di Epaminonda fra gli imputati non era comparso Rosario Cattafi (per lui le accuse di Epaminonda erano state stralciate e inserite nel fascicolo per il sequestro Agrati). Anzi, nel “processo Epaminonda” il P.m. Di Maggio aveva fatto svolgere a Cattafi il ruolo di testimone dell’accusa. Francesco Di Maggio – non lo avevamo ancora detto – era cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, figlio di un sottufficiale dell’Arma che prestava servizio lì. Solo dopo la licenza liceale si era trasferito in Brianza, a Desio, dove, prima di entrare in magistratura, aveva fatto in tempo a dedicarsi alla politica come consigliere comunale. Torniamo all’intercettazione di Cattafi riportata nell’informativa del Gico di Firenze. Nella notte del 16 settembre 1992 gli investigatori del Gico, con un’ambientale piazzata negli uffici dell’autoparco di via Salomone, avevano intercettato una lunghissima conversazione fra Rosario Cattafi, Ambrogio Crescente e Vincenzo Caccamo. Il discorso ad un certo punto era andato sul pentito Angelo Epaminonda, che aveva rivelato a Di Maggio un incontro che Cattafi gli aveva chiesto, per conto di Nitto Santapola, per entrare in società al casinò di Saint Vincent.

Eccone il testo: “CATTAFI: ‘Io non lo conoscevo (Angelo Epaminonda) … e maledetto il momento che l’ho conosciuto … perché io ero … sono stato arrestato in Svizzera … sono venuto in Italia, scendo per chiedere e chiarire … mandato di cattura in Italia … eh potevo uscire dopo altri tre mesi … ad un certo punto … neanche il tempo di fare accertamenti e interrogatori … si è pentito sto cazzo in brodo … eh … diciamo il dottor DI MAGGIO … il P.M. non lo sai ci sono andato a scuola…’. CRESCENTE: ‘… inc. … DI MAGGIO era un avvocato fallito a Monza … inc. … DI MAGGIO era un caruso … un … inc. … fallito…’. CATTAFI: ‘Questo era il figlio del maresciallo dei Carabinieri al mio paese (incomp.) … questo dice … ti manda come cassiere della mafia internazionale … questo … inc. … ehh … lui DI MAGGIO … inc. … dice non appartiene a … non è uno … eh dice però … DI MAGGIO si sente dire … ma c’ero pure io con – inc. – a questo punto … quello ci disse sappi che per me è uomo di SANTAPAOLA … eh … avvicinato…’”.

Chiunque può farsi un’idea: la più adesiva al tenore delle parole è che Cattafi ammettesse di aver effettivamente incontrato Epaminonda, il quale poi si era pentito con un P.m., Di Maggio, al quale Cattafi era legato da antichi rapporti risalenti ai tempi della scuola a Barcellona Pozzo di Gotto; e non sembra potersi mettere in dubbio che Cattafi riferisca la reazione di sorpresa che Di Maggio aveva avuto all’indirizzo di Epaminonda quando il pentito aveva legato il nome di Cattafi alla mafia e in particolare al boss Santapaola. Certo è che, fra le rivelazioni di Epaminonda e quell’intercettazione, Cattafi con Di Maggio per forza di cosa aveva avuto contatti, non foss’altro che per il fatto che il pubblico ministero aveva chiamato Cattafi come teste d’accusa per la posizione dell’imputato Salvatore Cuscunà nel processo nato dalla collaborazione di Epaminonda. È, quindi, abbastanza fondato il sospetto che Cattafi in quella conversazione intercettata ripetesse un discorso fattogli personalmente dal suo vecchio conoscente Francesco Di Maggio. Ecco, quindi, come in quell’incredibile gioco di specchi che sembra fare da scenario alla Trattativa si passa da Di Maggio ad un personaggio di alta valenza criminale come Cattafi, il quale nel decreto emesso dal Tribunale di Messina con il quale nel luglio 2000 gli venne irrogata la misure di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno venne sospettato di essere una sorta di trait d’union fra la mafia barcellonese, la mafia catanese e i servizi segreti. E così si entra nel gioco grande del progetto politico-eversivo che fece, almeno in parte, da propulsore alle stragi mafiose. In questo quadro, occorre ricordare, allora, che due collaboratori di giustizia siciliani (uno catanese, Maurizio Avola, e uno messinese, Luigi Sparacio) hanno reiteratamente dichiarato che Rosario Cattafi nei primi anni Novanta avrebbe partecipato ad alcuni summit, tenutisi in provincia di Messina, prodromici alle stragi del 1992, alla presenza, fra emissari della mafia e di apparati deviati, anche di Marcello Dell’Utri. Quelle dichiarazioni non trovarono seguito ma nemmeno smentita. Di quelle riunioni potrebbe tornare a parlarsi nel processo di revisione che si preannuncia per la strage di via D’Amelio. Infatti a breve la D.d.a. di Caltanissetta proporrà alla Procura generale di Caltanissetta le risultanze finali delle indagini avviate con la collaborazione di Gaspare Spatuzza, che hanno spazzato via i depistaggi di Stato che avevano accompagnato il “pentimento” di Vincenzo Scarantino ed una parte dei processi che si erano celebrati fra Caltanissetta, la Corte di cassazione e Catania. Secondo le regole sulla competenza per i processi di revisione, così, ad occuparsi della revisione sulla strage del 19 luglio 1992 sarà la Procura generale di Messina, guidata dal magistrato barcellonese Antonio Franco Cassata. Anche di lui e dei suoi legami con Cattafi si parla in quella informativa del Gico di Firenze. Al momento dell’arresto furono trovati nell’agenda di Cattafi tutti i recapiti telefonici del magistrato, compreso quello di casa. Chissà perché li teneva in agenda. Viene anche ricordata la militanza di Cattafi in un particolarissimo circolo culturale barcellonese il cui nome dice già abbastanza: Corda Fratres (cuori fratelli). Ne era socio, quando organizzava l’omicidio del giornalista Beppe Alfano o quando – secondo il racconto di Brusca – procurava il telecomando per la strage di Capaci, anche il boss Gullotti. Il dominus di quel circolo culturale era ed è proprio il magistrato, Antonio Franco Cassata, cui arriveranno gli atti per la revisione del processo su via D’Amelio. Sulle pareti della sede di Corda Fratres, che si trova nella piazza centrale di Barcellona P.G., campeggiano ancora le vecchie locandine attestanti la partecipazione di Di Maggio a conferenze indette dal circolo cui erano iscritti Rosario Cattafi e Giuseppe Gullotti.

La Trattativa e quel che ne è derivato come una persecuzione del destino: un passato oscuro che non vuole passare.

L'ASSASSINIO DI MORO (1978) - Il "mistero dei misteri", dopo le ultime dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta risvolti inquietanti. Dietro la morte del dirigente DC uno spietato gioco delle parti, scrive Giuseppe Dell’Acqua. Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9 Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in Via Caetani a Roma. Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una società; arrivino a mettere in dubbio se stessi. Il 16 marzo scorso è ricorso il 28° anniversario della strage di Via Fani (16 marzo 1978) ed è passato ancora una volta nel silenzio di tutti; quotidiani, riviste, TG, programmi TV, nessuno ha nemmeno accennato alla morte dei cinque agenti di scorta. A distanza di tempo è bene ricordare che il mistero del sequestro Moro non è ancora stato svelato e soprattutto che la dichiarazione rilasciata il 5 luglio 2005 dall'onorevole Galloni (vice segretario vicario della DC nel 1978) inerente la "certa" presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, ha alzato un grosso polverone che nel giro di pochi giorni, come per incanto, si è dissolto in un semplice ricordo. Le dichiarazioni di Galloni, Andreotti e addirittura della Santa Sede, i documenti del "Dossier e dell'Archivio Mitrokhin", devono obbligatoriamente portare la coscienza di "qualcuno" a pensare che forse sia giunto il momento di parlare per far conoscere all'Italia, la verità.

16 marzo 1978, Via Fani ore 9.05: " ...un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della DC. La sua scorta armata, composta da cinque agenti...è stata completamente annientata..."

Con questo comunicato le Brigate Rosse, il 17 marzo, rivendicano il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione del maresciallo dei carabinieri Oreste Leopardi, dell'appuntato Domenico Ricci, del brigadiere Francesco Izzi e degli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati è pronta a votare la fiducia al 4° governo Andreotti che nasce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi 8 settimane. A rendere particolare quest'evento è che, per la prima volta negli ultimi 30 anni, fanno parte del governo anche esponenti del Partito Comunista Italiano, avvicinati alla Maggioranza dal nuovo progetto politico, denominato "compromesso storico"; artefice della cosiddetta "svolta a sinistra" è proprio l'onorevole Aldo Moro. D'origini pugliesi Moro è stato capo del governo in cinque diverse occasioni dal 1963 (I governo) al 1976 (V governo) e ad oggi, è considerato come uno dei più grandi statisti italiani perché è riuscito a comprendere prima di tutti l'ondata di innovazione che stava colpendo la politica italiana. Moro dal 16 marzo al 9 maggio 1979 resterà per tutto il periodo chiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Chi erano le BR e soprattutto qual era il loro principale obiettivo? Le BR "nascono" in un convegno dei militanti del Comitato Politico Metropolitano (CPM) a Chiavari, in Liguria nell'autunno del 1970. Il CPM era una "Struttura Articolata di Lavoro in cui i militanti realizzano da una parte le condizioni per una riflessione politica.e dall'altra consentono una crescita politica omogenea della lotta."; erano gruppi di studenti ed operai che si riunivano in "assemblee" per discutere di politica e per cercare di "risolvere" i problemi della società attraverso "lotte e volantini". In questo convegno è sostenuta la necessità di intraprendere una lotta armata, della guerriglia e quindi, della clandestinità: "Non è con le armi della critica e della chiarificazione che s'intaccano la corazza del potere capitalistico e le croste della falsa coscienza delle masse. Che la lotta di classe nel suo procedere incontri la violenza del sistema, è inutile ripetercelo. Il problema della violenza non è separabile dall'illegalità. lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria nello scontro di classe.".  La parola d'ordine negli anni '70 è "lotta di classe", ed è proprio questo lo scopo principale delle "neonate" BR che, infatti, si autodefinirono "combattenti del proletariato". I loro punti di riferimento erano "il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani, non accettando gli schemi che hanno guidato i partiti comunisti europei nella fase rivoluzionaria della loro storia." Le BR avevano intenzione di realizzare quello che Lenin riuscì a fare in Russia nel 1917: una "rivoluzione comunista", ma allo stesso tempo rinnegavano il modo con il quale i partiti comunisti europei hanno affrontato la "politica rivoluzionaria" fino a quel momento. L'obiettivo principale quindi era la lotta di classe che doveva portare il "proletariato", il "solo, unico, autentico, comunismo rivoluzionario" al potere. Secondo il parere di molti storici, il vero obiettivo delle Brigate Rosse era quello di essere riconosciute politicamente ed il discorso fino a qui fatto rafforza l'idea di BR come partito politico, pronto a guidare la nazione. Un esponente di spicco del partito armato però, nega questa tesi: Mario Moretti. Capo indiscusso delle BR, ideatore del sequestro Moro e quindi punto massimo delle ideologie brigatiste, nel suo libro "Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana" alla domanda di Carla Mosca e Rossana Rossanda sulla trattativa che le BR stavano avendo con il Governo per la liberazione di Aldo Moro, risponde: ".Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. E' diventata sinonimo di "cedimento". Noi non volevamo ne trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo?" Le BR volevano solo l'"ammissione di uno stato di fatto" che valeva a dire " qualcuno dello Stato ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire". Non gli serviva essere riconosciute politicamente o istituzionalmente, a loro bastava solo essere "riconosciute" come avversario, come nemico da battere. Il linguaggio, leggermente "conflittuale", è appropriato nel descrivere "gli anni di piombo" ed in particolare il sequestro Moro che ha rappresentato, per la società italiana, una vera e propria "guerra civile" dove non ci sono due ideologie politico-sociale a lottare tra loro, ma tre istituzioni: lo "Stato" rappresentato dal Governo, l'"Anti-Stato" rappresentato dalle Brigate Rosse e la "Nazione" rappresentata dal popolo italiano. E' proprio questo terzo elemento che rende l'"Affaire Moro" un macigno, ancora oggi, che grava insopportabile sulla Repubblica Italiana; per la prima volta si è messa in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, "né con lo Stato né con le BR" è lo slogan del 1978 e questo significa che non solo, un popolo non riconosce più l'avversario nel "cattivo" ma addirittura, non riesce a capire chi è veramente il "nemico" da battere. Si colloca quindi in una posizione intermedia, al centro dei due "fuochi". Questo comporta la distruzione di un'identità che mai l'Italia Repubblicana proverà ancora.

Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano; ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi rispettivamente di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della stazione centrale di Bologna (2 agosto 1980). In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia intera fu colpita da gravi atti terroristici "neri" e "rossi". I colori purtroppo distinguono il terrorismo di stampo fascista o più semplicemente quello di "estrema Destra" (Nero) da quello di marchio comunista o di "estrema Sinistra"(Rosso). E' solo una coincidenza che i due attentati "spartiacque" si tingono di "nero" non solo per l'alone di mistero che tuttora li circonda, ma anche per le dirette responsabilità dell'azione. E' bene ricordare che dopo la strage alla stazione di Bologna, gli attentati continueranno, anche se, avranno volti nuovi e del tutto diversi quali la mafia, la camorra e la ndrangheta, per non parlare poi del terrorismo moderno; ma questo è un altro discorso. Come ogni "dopoguerra" che si rispetta, anche la "stagione di piombo" ha il suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda oggettività dei numeri.". 429 vittime, 2000 feriti, 199 morti e 782 feriti in 10 stragi, 144 vittime rivendicate dal terrorismo "rosso" 86 delle quali solo da parte delle Brigate Rosse e 36 vittime rivendicate dal terrorismo "nero", sono solo alcuni dei "numeri", tragici, che il terrorismo porta con se. È subito evidente che ben 86 delle 144 vittime rivendicate, appartengono alle BR, sintomo che sia stata la più grande "organizzazione terroristica italiana" della storia repubblicana. La domanda a cui sarà impossibile dare una risposta, è se le BR sono un "frutto" concimato, raccolto e mangiato esclusivamente da "contadini" italiani o se invece "qualcuno", di più grande, le ha "usate" per raggiungere i suoi obiettivi? E' questo il capitolo più difficile della storia del sequestro Moro e delle BR; la possibile influenza, nelle BR d'organizzazioni più grandi e più segrete, non appartenenti allo stato italiano, è da anni un punto cruciale su cui storiografi e critici s'interrogano.

Le ultime dichiarazioni dell'onorevole Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 alla rete televisiva "RAINews24", sembrano confermare l'ipotesi di una "collaborazione" tra le BR e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della DC all'epoca del sequestro Moro disse: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo". La possibile presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, apre nuovi ed inquietanti scenari sul caso Moro, chiudendo definitivamente le porte alla "pista russa" che fino ad oggi ha ipotizzato che a "decidere" la sorte dell'onorevole Aldo Moro sia stato il KGB russo. Nel raccontare la "Storia contemporanea" bisogna tener conto che esistono due "binari" che viaggiano nella stessa direzione e velocità e che però "trasportano" due "versioni dei fatti" distinte e separate. Il binario è quello del "conosciuto", della storia scritta sui libri, raccontata dai nonni o semplicemente vista in TV; il secondo invece porta con se una "storia" misteriosa, non conosciuta e che nessun libro di storia, nessun documentario TV e "forse" nessun nonno potrà mai raccontare: è la "Storia" scritta dai Servizi Segreti. I contatti tra le BR e i servizi segreti stranieri non sono molto documentati e quindi sono esclusivamente frutto d'ipotesi o d'invenzioni fantapolitiche che a volte hanno anche un fondamento. Nell'"Archivio Mitrokhin" - la raccolta di documenti segreti che Vasilij Mitrokhin, capoarchivista del KGB, consegnò agli inglesi del MI6 nel 1992 e che nel 1999 fu pubblicata con la partecipazione di Christopher Andrew, massimo esperto storico del KGB - ci sono due dichiarazioni molto importanti per la politica italiana: "nell'estate del 1967, Giorgio Amendola, a nome della Direzione del PCI, chiede formalmente l'assistenza sovietica per preparare il partito alla sopravvivenza come movimento illegale e clandestino nel caso di un colpo di Stato. Fino al 1976 i trasferimenti di fondi al Partito comunista sono stati molto più semplici a Roma che negli Stati Uniti, dal momento che i capi del PCI visitano regolarmente l'ambasciata sovietica, è possibile evitare la trafila di contatti clandestini e nascondigli segreti. Aiuti finanziari aggiuntivi arrivano da Mosca anche attraverso contratti lucrosi con società controllate dal PCI". La prima indiscrezione ci rivela che il PCI è finanziato direttamente dal KGB, mentre la seconda ci ricorda che: "Il PCI si preoccupava in particolar modo del sostegno che le Brigate Rosse ricevono dai servizi segreti cecoslovacchi, quando le BR assaltano nel centro di Roma l'automobile del presidente della DC, l'onorevole Aldo Moro, le preoccupazioni dei leader del PCI raggiungono l'apice, teme una fuoriuscita di notizie sul sostegno dato dai servizi segreti cecoslovacchi (StB) alle BR. Una delegazione del PCI a Praga è stata messa a tacere quando ha cercato di sollevare la questione dell'aiuto alle BR, alcuni esponenti delle quali sono stati invitati in Cecoslovacchia." Riassumendo, ci rendiamo conto che il PCI prelevava soldi dal KGB ed era a conoscenza che i servizi segreti cecoslovacchi "aiutavano" in qualche modo le BR, ma aveva paura che ciò si venisse a sapere. Perché? Forse perché in questo modo anche la collaborazione tra PCI e KGB sarebbe stata scoperta e soprattutto perché il PCI sarebbe stato accusato di aiutare indirettamente, attraverso gli amici cecoslovacchi (StB), le Brigate Rosse. In un momento caldo come quello dell'immediato "dopo-Moro", ciò avrebbe suscitato forti polemiche che avrebbero sancito il definitivo "crollo" del PCI proprio nel momento in cui si stava - per la prima volta nella sua storia - avvicinando al governo. Che il PCI ricevette finanziamenti dai servizi segreti Russi è accertato dall'Archivio Mitrokhin mentre la "collaborazione" tra BR e StB non è mai stata confermata. Nel "Dossier Mitrokhin" - la raccolta di documenti che gli Inglesi tra il 1995 ed il 1999 hanno inviato ai servizi segreti italiani - c'è il "Rapporto Impedian numero 143" che dice: ".Nel dicembre del '75 Yuriy Andropov notificò quanto segue al Comitato Centrale del PCUS. Il Ministro degli Affari Interni Cecoslovacco, OBZINA, aveva informato il rappresentante del KGB sovietico a Praga di un incontro avvenuto il 16 settembre 1975. L'incontro era stato tra Antonin VAVRUS, Capo del Dipartimento Internazionale del Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e Salvatore CACCIAPUOTI, vice presidente della Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Italiano (PCI). CACCIAPUOTI affermò di essere stato autorizzato dalla dirigenza del PCI a informare il Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco che le agenzie ufficiali italiane erano in possesso di alcuni documenti.che confermavano che una delle basi dell'organizzazione terroristica italiana "Brigate Rosse" era ubicata in Cecoslovacchia e che le agenzie di sicurezza cecoslovacche stavano cooperando con essa." Ancora più dirette sono le accuse che nel settembre del '74 il capitano dei carabinieri Gustavo Pignoro del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fa ad Alberto Franceschini - uno dei fondatori delle BR - affermando che al momento della sua cattura, era appena arrivato da Praga. Dopo soli 6 mesi (marzo 1975) a conferma di quanto detto, gli appunti dei servizi segreti italiani rivelano che Franceschini soggiornò in Cecoslovacchia dal giugno '73 al giugno '74 frequentando il campo di addestramento di Karlovy Vary. A distanza di 30 anni arriva l'inattesa quanto impensata smentita. Un articolo, scritto sull'"Espresso" del 27 maggio 2005, risolve tutti gli equivoci e spegne l'incendio fin qui alimentato. Nell'ottobre del '99 il SISMI - l'apparato dei servizi segreti italiani - ha chiesto ai servizi segreti dell'ex unione sovietica tutta la documentazione riguardante i possibili appoggi della StB alle BR. Da questi documenti è venuto fuori che Franceschini e Curcio - capo storico delle BR - sono veramente stati a Praga, ma non si trattava dei fondatori delle BR. Uno è l'avvocato Renato Curcio, nato a Catanzaro l'1/3/1931, presente in Cecoslovacchia il 7 ed 8 agosto 1972. L'altro è un commerciante di Foiano (Arezzo), Sergio Franceschini nato nel 1917, presente a Karlovy Vary agli inizi degli anni '70. Grazie a Nicola Biondo, consulente della Commissione Mitrokhin che per primo ha letto e studiato i documenti provenienti dall'Unione Sovietica, un primo gran mistero è stato svelato e soprattutto, ritornando alle dichiarazioni di Galloni sulla presunta collaborazione BR-USA, possiamo analizzare da un diverso punto di vista l'intero "Affaire Moro". Il rapporto USA - Moro è sempre stato in primo piano fin da quel drammatico 16 marzo del 1978. Aldo Moro era stato più volte minacciato di morte nel caso in cui non avrebbe abbandonato immediatamente la carriera politica. Di fronte alla Commissione Parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro - moglie dello statista ucciso - ricordando il viaggio negli USA che il marito fece nel 1974 come ministro degli Esteri insieme al Presidente della Repubblica Leone, dice: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere."." Secondo alcuni collaboratori dell'onorevole Moro "il presidente fu molto scosso dall'incontro avuto con il segretario di Stato, Henry Kissinger, tanto è vero che il giorno dopo nella Chiesa di S. Patrick si sentì male e disse di voler interrompere per molto tempo l'attività politica". Il segretario di Stato USA, Kissinger, era molto ostile a Moro tanto che arrivò ad affermare che non credendo nei dogmi, non potesse credere nella sua impostazione politica e per questo lo riteneva un elemento "fortemente negativo". Sulle minacce che il presidente della DC subì prima del sequestro, è importante ricordare che tanti avvenimenti fecero presagire ad un triste epilogo. In principio fu il caso della macchina blindata che doveva essere pronta per il dicembre del 1977 e che invece non arrivò mai. Andreotti che Cossiga hanno sempre smentito che Moro fece richiesta di un'auto blindata. Il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta, fece raddoppiare la dotazione abituale di proiettili della sua pistola e quella degli agenti di scorta. Altri eventi, fecero capire che nell'entourage di Moro c'era uno stato d'animo preoccupato. Solo negli ultimi anni è giunta la notizia che il 15 marzo 1978 - il giorno prima della strage - il capo della Polizia ha visitato Moro nel suo ufficio, tranquillizzandolo sull'eventualità d'attentati nei suoi confronti. A Moro fu assicurato che i servizi segreti avevano la situazione sotto controllo e che non correva nessun pericolo immediato. "Ironia della sorte", il giorno dopo Moro fu rapito. Nella prima metà degli anni '50 la CIA chiese la collaborazione del SIFAR, il Servizio Informazioni Forze Armate. A capo dei servizi segreti italiani nel 1962 era Giovanni De Lorenzo che sottoscrisse un patto con la CIA: "deve [De Lorenzo] impegnarsi a rispettare gli obiettivi di un piano permanente d'offensiva anti-comunista chiamato in codice << Demagnetize >>. Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, atte a ridurre la presenza, la forza, le risorse materiali e non ultimo l'influenza nel governo del Partito comunista in Italia.Del piano Demagnetize il governo italiano NON deve essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". Al primo arruolamento di Gladio partecipò un colonnello del SIFAR, Renzo Rocca che "per i primi sei mesi del '63, su preciso mandato del generale della CIA Walters, s'impegnò nella campagna volta a impedire la formazione del primo centro sinistro organico preseduto da Moro". Il 27 giugno 1968, Rocca fu trovato morto in un ufficio al sesto piano di un palazzo di via Barberini 86 a Roma. Rocca aveva il compito di commerciare armi con i paesi Africani e soprattutto, doveva instaurare rapporti con i servizi segreti israeliani e palestinesi. Altro "007" che ebbe il compito di allacciare rapporti con i palestinesi fu il colonnello Stefano Giovannone. Un comunicato Ansa del 10 maggio 2002 dice: "Il colonnello, nel 1984, nell'inchiesta a Venezia su un traffico d'armi BR-Olp, avrebbe parlato di un proprio interessamento presso i palestinesi, e in particolare, presso il leader Arafat, per cercare aiuti per ottenere la liberazione di Aldo Moro, dopo il suo sequestro. I contatti tra i palestinesi e le BR.sarebbero avvenuti, ma non ebbero esito positivo perché Arafat fece una dichiarazione pubblica, proprio contro le BR". Il nome di Giovandone lo fece anche Aldo Moro durante i giorni di prigionia, indicandolo come "personalità in grado di intervenire" per cercare di ottenere la sua liberazione. Lo stesso Mario Moretti, capo delle BR, prese contatti con la guerriglia palestinese che arrivò a fornirgli delle armi. Tutto ciò avvenne un anno prima del sequestro Moro. Da queste testimonianze, ci rendiamo conto che CIA, SISMI, MOSSAD, OLP e BR erano in contatto tra loro e che almeno tre di loro erano legati da un'alleanza forte e ben radicata. Probabilmente sarà proprio quest'alleanza a decidere le sorti del presidente della DC. Nella vicenda Moro sono implicate tutte le più importanti istituzioni militari, a porre l'accento ancora una volta sul fatto che il 9 Maggio 1978 - giorno del ritrovamento del cadavere di Moro - ha rappresentato la fine di una "guerra civile" e l'inizio di un costante declino di un partito che è stato alla guida del paese dal primo giorno della Repubblica. Politici, industriali, operai, studenti, casalinghe; tutto il Paese è stato, per cinquantacinque giorni, coinvolto in un drammatico evento che ha scosso l'immaginario collettivo, facendo venire meno quei punti di riferimento che la società si era data: Stato, Nazione, Chiesa. La certezza che Moro non si sarebbe salvato era molto alta, al punto di giungere ad affermare che Moro non è morto il 9 maggio 1978 ucciso dai colpi della pistola di Mario Moretti; Aldo Moro "è morto" il 22 aprile, quando il Santo Padre Paolo VI, decise di rivolgersi alle BR: "Ed in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni." La lettera che Paolo VI scrisse agli "uomini delle Brigate Rosse" fu pubblicata sull'Osservatore Romano e, stando alle testimonianze dei brigatisti, segnò fortemente l'animo del Presidente. Anna Laura Braghetti - l'unica donna del gruppo brigatista che ha vissuto nella stessa casa dove lo statista fu tenuto prigioniero - racconta che ".fu il papa a far precipitare ulteriormente la situazione. Moro gli aveva scritto tempo prima, supplicandolo di intervenire. Ma il papa non lo ascoltò.per Moro segnò il momento peggiore di quei 55 giorni, Fra tutte le cattive notizie che Mario [Moretti] gli portò, nessuna lo scosse come il documento del Papa. Capi che il cerchio si era saldato nel punto esatto in cui lui aveva confidato - e calcolato - che si spezzasse." Il messaggio era solo l'ultimo dei tanti appelli umanitari che le BR ricevettero durante i giorni di prigionia. Questa lettera però conteneva qualcosa di diverso; il Papa si era già rivolto ai sequestratori e non aveva mai chiuso la porta del dialogo. Quel giorno però, l'appello di Paolo VI, mise la parola "fine" alle trattative. Fu la presenza di due parole, "Senza Condizioni", che fece cadere nel vuoto le ultime speranze di liberazione. Su queste "quindici lettere" si potrebbero scrivere volumi interi; C'è chi in questa frase indica la presenza dei Servizi Segreti di mezzo mondo, chi invece è certo che fu aggiunta a posteriori sotto suggerimento di Giulio Andreotti, capo di quella DC, che aveva sul piatto della bilancia la legge sull'Aborto tanto cara alla Chiesa. Come giusto che sia è stupido, e poco professionale, cercare di seguire l'una o l'altra tesi. Sono i documenti che "parlano" e in questo caso sono tutti a favore della chiarezza del Pontefice. Da nessuna parte, su nessun foglio, in nessun interrogatorio, ci sono prove che confermano quanto ipotizzato; l'unica cosa certa è che Moro era un fedele credente e praticante assiduo. Ogni domenica, infatti, seguiva la Santa Messa nella chiesa di Santa Chiara tanto che i Brigatisti pensarono di sequestrarlo proprio durane la funzione religiosa, salvo poi rinunciare per le troppe difficoltà "militari". Per Moro la religione veniva subito dopo la famiglia, a cui tanto era legato e di cui tanto andava fiero.

Alla famiglia è rivolta l'ultima drammatica lettera che Moro scrisse prima di morire.

"Mia dolcissima Noretta [Eleonora Moro], dopo un momento di esilissimo ottimismo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC.Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi, bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo." Dopo aver attribuito le responsabilità della sua mancata liberazione alla DC, si rivolge alla famiglia in un tono affettuoso, ma allo stesso tempo autoritario di chi fondamentalmente è ancora "il capo di famiglia". Moro infine - e solo alla fine - si rivolge a quella Chiesa o meglio a quel Papa, che "ha fatto pochino" per salvarlo e per riportarlo tra le braccia dei propri cari. Il mistero è proprio qui. Moro sostenne che "tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta" ma perché? Era forse a conoscenza che la Chiesa ebbe qualche possibilità di salvarlo? Effettivamente la Santa Sede aveva pronto un "piano" per liberare lo statista attraverso il pagamento di un riscatto. Già durante i 55 giorni di prigionia si era a conoscenza dell'intenzione della Chiesa di aprire una trattativa con le BR; Andreotti ricorda: " Il Papa aveva fatto prendere delle iniziative, vi era stata la disponibilità a pagare anche una cifra molto forte, se fosse stato questo il mezzo per poter salvare Moro, avevano cercato in tutti i modi di avere contatti". A distanza di quasi 27 anni lo stesso Andreotti conferma quella voce, in un intervento al Senato del 9 Marzo 2005: ".E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore." A confermare ufficialmente le intenzioni della Santa Sede è mons. Fabio Fabbri, stretto collaboratore di mons. Cesare Curioni - ispettore centrale dei cappellani carcerari italiani - all'epoca del sequestro. La dichiarazione fatta a Vladimiro Satta - giornalista del periodico "Nuova Storia Contemporanea" - indica in dieci miliardi di lire la somma che il Vaticano era pronto a pagare per la liberazione d'Aldo Moro; una cifra elevatissima per il tempo e soprattutto per la causa. Liberare Moro sarebbe stato un colpo durissimo per la DC e soprattutto per la Santa Sede: "Moro vivo sarebbe molto più pericoloso di un Moro morto" è il pensiero che circolava, durante i cinquantacinque giorni di prigionia, nelle menti degli uomini politici più importanti per il paese. Moro libero poteva essere una mina vagante nella politica italiana, andando contro quei "compagni di partito" che avevano dimostrato d'essere tutto, tranne che amici. Era chi aveva rivelato alle BR le linee guida della politica democristiana e quindi, forse, aveva "detto" cose che era meglio non sapere. Proprio per questo il SISMI si era preparato un piano denominato "Victor", da mettere in atto nel caso in cui Moro fosse stato liberato. Il progetto era quello di trasferire Moro in un centro clinico, immediatamente e prima d'ogni incontro con familiari e colleghi di partito. L'azione era assegnata al reparto medico degli incursori di Marina, sede principale di Gladio. Sia per la DC sia per la Chiesa quindi, la liberazione di Moro doveva essere evitata assolutamente. Le trattative tra Chiesa e BR fallirono proprio la mattina del ritrovamento del cadavere di Moro. Molti storici indicano nel "contatto", un personaggio noto alla cronaca per un altro tragico evento di quei 55 giorni: il falso comunicato n°7, quello del Lago della Duchessa. L'autore di quel comunicato fu un falsario legato alla "Banda della Magliana" (gruppo criminale romano) ed ai Servizi Segreti Americani: un certo Tony Ciccarelli. Era lui, secondo le testimonianze, il tramite tra la Chiesa e le BR. Ancora una volta entrano in scena i Servizi Segreti e questa volta però lasciano indelebilmente le tracce del loro passaggio.

Il 16 marzo 1978 alle ore 9.00 i Servizi Segreti Italiani erano presenti in Via Fani.

Il colonnello del SISMI Camillo Gugliemi, specializzato in "addestramento a scopo di imboscata" delle unità di combattimento "stay behind" alla base Nato in Sardegna, quella mattina era in Via Stresa a soli 200 metri dall'incrocio con via Fani. Guglielmi la mattina del 16 marzo avrebbe ricevuto una telefonata dal generale Musameci (P2): "Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro". Il militare non ha mai smentito la sua presenza in Via Fani, giustificandola però in un modo un po' "particolare". Egli dichiarò che "doveva andare a pranzo da un amico". In tutte le famiglie "normali" di solito, l'ora di pranzo è intorno alle 13.00 - 13.30 e non alle nove di mattina quando invece si è appena finiti di fare colazione. Mettendo da parte l'ironia, è strano che ci si presenti così di buon'ora a casa di un amico solo per pranzare. Questo stesso amico ha confermato che quella mattina Guglielmi aveva bussato alla porta della sua casa, ma ha sempre riferito che non era mai stato programmato un pranzo insieme. Fatto più inquietante è però che a poco più di 200 metri da un colonnello del SISMI furono sparati più di 90 proiettili, ci fu un tamponamento e fu rapito un grande esponente della politica italiana. Come mai un agente dei Servizi Segreti non ha avuto nemmeno l'idea di intervenire per vedere semplicemente quello che stava accadendo? Guglielmi ha sempre nascosto la sua presenza sul luogo della strage fino al 1991, quando un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, lo confidò all'Onorevole Cipriani. Ravasio disse anche che nelle BR era infiltrato uno "007". La spia era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco". Egli avvertì con mezz'ora d'anticipo che Aldo Moro quella mattina sarebbe stato rapito. Se mezz'ora non bastò per evitare la strage, il 16 febbraio 1978 - un mese prima dell'attentato - dal carcere di Matera, Salvatore Senatore disse: "è possibile che Moro sia rapito a breve". Altro preavviso giunse quindici giorni prima del sequestro. Renzo Rossellini, animatore di radio Città Futura, informò i dirigenti del PSI che Moro sarebbe stato rapito. Bettino Craxi, però, lo convocò solo a sequestro compiuto. Lo stesso Rossellini alle otto del mattino - un'ora prima del sequestro - in una trasmissione radiofonica, aprì con la notizia dell'avvenuto sequestro d'Aldo Moro. Le notizie, secondo il generale Santovito (P2), giunsero al SISMI centrale solamente dopo il 16 marzo. Purtroppo la registrazione della trasmissione radiofonica, così come le famose foto scattate da Gherardo Nucci pochi minuti dopo l'attentato, è scomparsa nel nulla. Nessuna prova, però, è più schiacciante di quella fornita da Antonino Arconte, nome in codice G.71. Arconte faceva parte di una struttura militare riservatissima: la "Gladio delle centurie" che operava fuori la nazione Italia al fine di evitare possibili colpi di Stato. Gladio fu istituito negli anni '50 con lo scopo di controllare e neutralizzare la capacità offensiva dei comunisti in caso di guerra civile. Naturalmente da quel momento si è evoluta e specializzata diventando un organo militare fondamentale per i Servizi Segreti italiani. "Il gran segreto" intorno al quale ruotavano gli interrogatori delle BR a Moro era proprio Gladio. L'argomento principale era la struttura di guerriglia e controguerriglia usata dal corpo speciale dei servizi segreti. Questa "seconda faccia" di Gladio doveva assolutamente restare segreto perché coinvolgeva i rapporti con gli USA e in particolare perché infrangeva le leggi della legislazione italiana. La legge 801/77, all'articolo 10, sancisce: "Nessuna attività, comunque idonea per l'informazione e la sicurezza, può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge". La legge di riforma dei servizi segreti 801 del '77 impone, per quanto riguarda gli agenti dei servizi segreti, di svolgere solo operazioni di "intelligence" e non operazioni armate. Il compito degli 007 italiani era solo quello di raccogliere informazioni e non di attuare operazioni militari. Gladio invece era coinvolta in molte operazioni militari all'estero ed anche in Italia tanto che il Ministro Formica dichiarò che ".nell'Italia Repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento; uno stato democratico può certamente avere dei piani segreti.ma non può avere assolutamente una milizia clandestina.". Gladio agiva in modo clandestino e quindi andava contro la legge. Ecco perché rappresentò il "gran segreto" con il quale le BR volevano minacciare lo Stato. Ad un certo punto del sequestro, infatti, ci si rese conto che le trattative non erano volte alla liberazione di Moro bensì alla consegna dei documenti raccolti dai terroristi; ma questo è un argomento che tratteremo più avanti. Ritornando ad Arconte, "il gladiatore" attraverso un sito internet prima, ed un libro poi, parlò di una sua missione in Medio Oriente che ebbe sviluppi importanti nel sequestro Moro". Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". Il plico che contiene l'ordine di aprire un canale per la liberazione di Moro è autenticato dal notaio Pietro Ingozzi d'Oristano ed è firmato del Capitano di Vascello della Marina della X Divisione "Stay Behind". Il documento è datato 2 marzo 1978 e fu consegnato a Beirut il 13 marzo dello stesso anno. Moro sarà rapito il 16 di marzo, due settimane dopo la data d'emissione e ben diciotto giorni prima della "cartolina di mobilitazione" che giunse ad Arconte il 26 febbraio 1978. Arconte però non è l'unico testimone del viaggio. Un secondo "gladiatore" lo accompagnò in missione: Pierfrancesco Cangedda, nome in codice "Franz". Egli fu inviato tempo prima in Cecoslovacchia per raccogliere informazioni sull'addestramento delle BR; un tema di grande interesse per la Commissione Mitrokhin. "Franz" è a conoscenza dei legami tra il terrorismo tedesco dell'occidente e le BR. Cosa centra il terrorismo tedesco? Forse non tutti sanno che l'operazione di Via Fani è stata la perfetta copia dell'operazione della Baader-Meinhof - organizzazione terroristica nata nella Repubblica Federale Tedesca nel 1971 - del 5 settembre 1977, quando fu rapito l'industriale Hans Schleyer. La Procura di Roma tramite i NOS ha interrogato i due "gladiatori" nel novembre 2000, solo che, ad oggi, non si conoscono gli esiti. In tutta questa vicenda, l'unica certezza è che nei Servizi Segreti si sapeva con largo anticipo che Moro sarebbe stato sequestrato. Falco Accame, è stato presidente della Commissione difesa della Camera dal 1976; egli ha apertamente dichiarato che "nell'agguato di Via Fani Guglielmi incarnava la presenza di Gladio col compito di verificare che tutto andasse bene ". Falsa che sia questa ipotesi, Gladio era presente in Via Fani "sottoforma di proiettile"; è poco nota la vicenda che i bossoli rinvenuti sul luogo della strage - 92 sparati e ben 46 da una sola arma, una "mitraglietta Scorpion" di fabbricazione cecoslovacca - presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. Questa speciale vernice rende quasi certa la provenienza delle armi, poiché è la stessa usata da Gladio per preservare i proiettili nei depositi sotterranei. Perché pur sapendo in anticipo delle intenzioni dei brigatisti, non si è fatto niente di concreto per la liberazione di un uomo, prima che di un politico.

DIECI GIUDICI COLLUSI CON I CLAN.

"Mi risulta che mio figlio avrebbe fatto i nomi di una decina di giudici; siccome io ho in corso otto processi vorrei che voi chiedeste a mio figlio di dire i nomi di questi giudici", scrive “La Repubblica”. La bomba scoppia alle 10,30 nell' aula bunker di Rebibbia dove la Corte di Assise di Caltanissetta si è trasferita per ascoltare i pentiti nel processo per la strage di Capaci. A parlare è Raffaele Ganci, boss della Noce, prima ancora che il figlio pentito, Calogero cominci a rispondere alle domande delle accuse e della difesa. Le parole del boss spiazzano tutti. E subito si scatena la caccia ai "nomi" degli insospettabili giudici che avrebbero favorito la mafia. Il tam-tam da Roma a Palermo è intenso. Circolano nomi di sei o sette giudici, nomi in libertà che nessuno, né i magistrati di Palermo né quelli di Caltanissetta, titolari per competenza, confermano. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, che assieme al collega Luca Tescaroli rappresenta l' accusa nel processo di Capaci, viene "accerchiato" dai giornalisti che gli chiedono notizie: "E' vero, è falso? Chi sono questi magistrati chiamati in causa da Calogero Ganci?". E il procuratore aggiunto Giordano, come al solito, dice poco o niente, si limita a dichiarare che "nel momento in cui dovessero emergere nel corso delle indagini i nomi di alcuni giudici l' ufficio del pubblico ministero automaticamente trasmetterà gli atti al Consiglio superiore della magistratura che li esamina e può decidere se aprire o no un' inchiesta. E questo proprio a garanzia degli imputati". Si controlla anche al Csm e alcune fonti affermano che da Caltanissetta non è giunto alcun fascicolo relativo alle presunte accuse del pentito contro giudici palermitani. Il giallo, dunque, resta. Ma il boss Raffaele Ganci, per fare quella richiesta così specifica al figlio pentito, qualcosa deve pur aver saputo. Ma quando Calogero Ganci, in teleconferenza (si scoprirà poi che si trovava all' interno di una stanza dell' aula bunker di Rebibbia e non in una località segreta), viene interrogato da accusa e difesa, l' argomento, non viene neppure sfiorato. Qualcuno si aspettava che alcuni difensori degli imputati ribadissero la richiesta del boss, ma non è stato così. Calogero Ganci dunque ha risposto alle domande attinenti al processo nel quale è anche imputato assieme al padre, al fratello Domenico e ad altri 39 boss e uomini d' onore. E in relazione ai presunti rapporti tra Cosa nostra e uomini delle istituzioni, il pentito ha ribadito che era il fratello Domenico che "si incontrava con persone vicine alle istituzioni e questo su incarico di mio padre Raffaele". Il figlio pentito del boss parla anche di un altro boss della Cupola, adesso pentito, Salvatore Cangemi che nelle sue dichiarazioni avrebbe "dimenticato" di avere partecipato ad alcuni omicidi eccellenti. Omicidi (come quelli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la partecipazione alla strage di via D' Amelio) che Ganci nelle precedenti dichiarazioni gli ha "ricordato". "E mio padre - ha affermato Ganci - era sollevato dal fatto che Cancemi non aveva ancora parlato della strage di via D' Amelio". Il pentito rispondendo ad altre domande ha detto che il boss Totò Riina poteva essere arrestato prima: "Bastava seguire me, che ero il suo contatto con gli altri boss, per arrivare a lui". E aggiunge anche di ricordare, per averlo saputo dalla moglie, dei lamenti di Antonietta Bagarella, moglie di Totò Riina, durante uno dei suoi parti in una clinica privata di Palermo dove era ricoverata con un falso nome. Sul 41-bis, il regime carcerario duro imposto ai boss, Ganci rivela che nonostante tutto i mafiosi riuscivano a comunicare tra di loro: "Comunicavamo liberamente e ci scambiavamo informazioni attraverso il bagno o le finestre delle nostre celle". L' interrogatorio di Ganci jr si è concluso nel tardo pomeriggio. Ha fatto o non ha fatto i nomi di giudici "avvicinabili"? Il mistero resta.

Si parla di Silvio Berlusconi come un carnefice incallito, per alcuni, o come un perseguitato dalle toghe rosse, per altri.

I giornali e le tv del cavaliere che rimarcano il fenomeno: perseguitato politicamente.

No! Il fatto è che se capita a lui quello che gli è successo, figuriamoci ai poveri cristi. Intanto parliamo dei suoi processi. Per intenderci: Dici Silvio, parli degli italiani vittime di questo “cazzo” di giustizia.

TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".

Gli speciali tribunali per Silvio. Viaggio nei 34 processi che dal 1994 hanno coinvolto il Cavaliere: per scoprire come certe archiviazioni siano state peggio di una condanna. E come la sua sola, vera condanna sia stata pronunciata, in tutti e tre i gradi, da giudici che avevano in comune una caratteristica..., scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Negli ultimi vent’anni è stato fatto un uso politico della giustizia? A sinistra, soltanto all’ipotesi, si stracciano le vesti: si risponde che i magistrati hanno risposto esclusivamente all’imperativo categorico, ormai elevato a rango kantiano,dell’obbligatorietà dell’azione penale. E qualunque tentativo di analisi, anche il più sereno, viene stroncato con accuse smodate (è appena toccato a Panorama): brigatismo, liste di proscrizione, nuovi pogrom nazisti...Dall’altra parte si risponde che, da soli, i 34 procedimenti aperti dal 1994 contro Silvio Berlusconi, scomodo leader dei moderati, bastano per descrivere a tinte forti una persecuzione troppo mirata per essere casuale (Totò Riina, per fare un confronto, è stato processato «appena» 19 volte in 25 anni). Anche perché lo spettro delle accuse è così ampio da apparire inverosimile. Eccole tutte e 20, in ordine alfabetico: abuso d’ufficio, aggiotaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, concorso esterno in associazione mafiosa, concorso in strage, concussione, corruzione semplice e giudiziaria, insider trading, falso in bilancio, favoreggiamento, finanziamento illecito dei partiti, frode fiscale, peculato, prostituzione minorile, ricettazione, riciclaggio, rivelazione di segreto d’ufficio, vilipendio dell’ordine giudiziario. Mancano solo l’abigeato e la rapina per fare l’en plein. Ma anche un’accurata lettura delle singole vicende giudiziarie berlusconiane accende dubbi sull’imparzialità della magistratura. In 13 processi su 34 (il 38 per cento), la posizione dell’ex premier è stata archiviata prima del rinvio a giudizio. I giudici dell’udienza preliminare (gup) che hanno deciso in questo modo sono stati più spesso magistrati senza corrente o dichiaratamente moderati, come a Milano Luca Pistorelli, Maria Vicidomini e Fabio Paparella (in più casi), o Pierfrancesco De Angelis e Pierluigi Balestrieri a Roma. Più raramente di sinistra, come Beatrice Secchi: esponente e candidata elettorale di Magistratura democratica (Md), fu lei nel febbraio 1998 a negare alla Procura di Milano la richiesta di processare Berlusconi per frode fiscale aggravata sul cosiddetto «Progetto Botticelli». Anche i tre gup che hanno prosciolto il Cavaliere dalle accuse più «pesanti» sono esponenti della sinistra giudiziaria, ma con loro la storia è molto diversa: Gioacchino Scaduto, di Md, nel febbraio 1997 chiuse a Palermo l’inchiesta per concorso in associazione mafiosa e riciclaggio che la procura aveva aperto tre anni prima contro Berlusconi e Marcello Dell’Utri; Giuseppe Soresina nel novembre 1998 archiviò a Firenze l’inchiesta avviata due anni prima sulla strage di via de’ Georgofili del 1993, che la procura ipotizzava fosse stata ordinata da Berlusconi e da Dell’Utri; a Caltanissetta Giovanbattista Tona (poi divenuto presidente dell’Associazione nazionale magistrati in quella circoscrizione) nel maggio 2002 chiuse il fascicolo che accusava sempre Berlusconi e Dell’Utri di essere i mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Certo, tutti e tre applicarono doverosamente il Codice di procedura penale. Ma poi, nelle motivazioni, scrissero parole avvelenate contro gli indagati: parole che ancora oggi, dopo decenni, continuano a sinistra ad alimentare una ricca pubblicistica politica. Esempi? Scaduto disse di essere costretto ad archiviare «pur essendo emersi diversi elementi che sembrano sostenere l’ipotesi accusatoria». Soresina fece anche peggio: chiuse il fascicolo per scadenza dei termini, ma scrisse che «Berlusconi e Dell’Utri hanno intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato» e che «esiste un’obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche di Forza Italia». Aggiunse perfino che «l’ipotesi iniziale di un coinvolgimento dei due indagati nelle stragi ha mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità». Quanto a Tona, in 73 pagine elencò puntigliosamente tutte le accuse rivolte a Berlusconi e Dell’Utri dagli uomini di mafia e sostenne che gli atti avevano «ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli indagati». Aggiunse: «Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione (criminale) quali eventuali nuovi interlocutori». Poi però concluse: «La friabilità del quadro indiziario impone l’archiviazione». Insomma, le archiviazioni decise dai tre giudici si risolsero, paradossalmente, in un’impropria condanna aggravata: perché agli indagati prosciolti fu impedito per sempre di difendersi da quelle accuse infamanti. Forse è anche per quelle tre sentenze se Tona, Soresina e Scaduto sono tra i più celebrati eroi dell’antiberlusconismo. Ma in nessun vero stato di diritto un’assoluzione può trasformarsi in una condanna di fatto, capace di legittimare ogni possibile diffamazione. Quando poi dalle indagini preliminari altri 20 procedimenti berlusconiani sono arrivati a un giudizio vero e proprio, in un solo caso siamo giunti a una condanna definitiva. È il processo per frode fiscale intitolato «Diritti tv Mediaset», partito a Milano nel 2001, che all’inizio ipotizzava anche il falso in bilancio e l’appropriazione indebita. La condanna a 4 anni di reclusione (di cui 3 coperti da indulto), decisa in Cassazione lo scorso 1° agosto, e le cui motivazioni i cinque giudici hanno insolitamente firmato tutti insieme il 29 agosto, ha avviato la grande polemica sulla cosiddetta agibilità politica di Berlusconi. Ma ha un’altra caratteristica peculiare: è scaturita da un processo che in tutti e tre i gradi di giudizio ha avuto collegi con esponenti dichiaratamente di sinistra. In tribunale la condanna a 4 anni di reclusione fu stabilita dalla prima sezione penale guidata da Edoardo D’Avossa, di Md: il 26 ottobre 2012, con una scelta di accelerazione più unica che rara nella storia della giustizia italiana, D’Avossa lesse in aula il dispositivo e immediatamente dopo le motivazioni della sentenza. Va detto che nel novembre 2006 la corte era stata modificata: ne era uscita Fabiana Mastrominico (un giudice moderato che aveva già assolto Berlusconi nel processo Ariosto-Sme e passava al ministero della Giustizia) e le era subentrato Ilio Mannucci Pacini, componente stabile del consiglio nazionale di Md. In appello, poi, la condanna fu velocemente confermata l’8 maggio 2013 dalla seconda sezione penale presieduta da Alessandra Galli, esponente di Movimento per la giustizia (Mpg), l’altra corrente della sinistra giudiziaria. In Cassazione, il presidente Antonio Esposito ai primi d’agosto è finito nelle polemiche e nei guai al Csm per un presunto pregiudizio negativo nei confronti dell’imputato e per un’intervista al Mattino, nella quale ha parzialmente e indebitamente anticipato le motivazioni della sentenza. Accanto a lui, nella sezione feriale della Suprema corte, c’era Ercole Aprile, che nel 2007 si era candidato con Movimento per la giustizia all’Associazione nazionale magistrati. E nel settembre 2010 anche Claudio D’Isa, terzo dei cinque giudici di quel supremo collegio, aveva manifestato sentimenti non certamente berlusconiani aderendo a una campagna che propugnava il licenziamento di Augusto Minzolini dalla direzione del Tg1. È di certo un caso, ma in nessun altro procedimento berlusconiano si era mai verificata questa particolare continuità «politica» fra giudici. Per contro, soprattutto in Cassazione, hanno spesso deciso per l’assoluzione anche collegi che contenevano esponenti di sinistra: è accaduto per esempio nel processo per il falso in bilancio sul consolidato Fininvest, aperto a Milano nel 1996. Nell’aprile 2004 la quinta sezione penale della Cassazione respinse il ricorso del pm, Francesco Greco, che si opponeva all’archiviazione per prescrizione: il presidente era Giorgio Lattanzi, vicino a Mpg (oggi è giudice costituzionale), e del collegio faceva parte Luciano Panzani, vicino a Md. In altri due casi, infine, l’opposto orientamento dei collegi di primo e secondo grado, passati dalla condanna di Berlusconi all’assoluzione, trova un curioso parallelismo nell’opposto orientamento politico dei giudici. È stato così nel processo milanese per le tangenti alla Guardia di finanza, quello che nel 1994 contribuì alla caduta del primo governo Berlusconi; e nel procedimento All Iberian 1 che, aperto a Milano quattro anni più tardi, ipotizzò un finanziamento illecito del Psi. Nel primo caso Berlusconi fu rinviato a giudizio da Oscar Magi, di Md, e condannato in primo grado a 2 anni e 9 mesi dalla sesta sezione penale. Questa era stata presieduta fino al gennaio 1997 da Carlo Crivelli: in quel processo il giudice passò alle cronache per l’infelice battuta sul «bastone e la carota», rivolta al pm Gherardo Colombo, con cui era parso concordare una comune linea di comportamento nei confronti della difesa. Per quella frase Crivelli fu ricusato da Berlusconi e decise spontaneamente di astenersi (fu poi assolto dal Csm e perfino promosso). Al suo posto subentrò Francesca Manca, che nel maggio 2009 avrebbe firmato un duro appello contro il tentativo di riforma della giustizia del governo Berlusconi. Ma davanti a un collegio di giudici moderati, in Corte d’appello, la condanna nel maggio 2000 si trasformò in assoluzione: in parte per prescrizione e in parte per non avere commesso il fatto. E la Cassazione, nell’ottobre 2001, decise infine di assolvere in pieno l’imputato Berlusconi. La stessa identica trafila subì il processo All Iberian 1: in primo grado, nel luglio 1998, il Cavaliere fu condannato a 2 anni e 4 mesi dalla seconda sezione penale di Milano. Non era una sezione qualsiasi: quattro mesi prima Marco Ghezzi, il suo presidente, aveva sorprendentemente chiesto di passare in procura, alle dirette dipendenze di Francesco Saverio Borrelli, e la stessa Repubblica aveva scritto di lui definendolo «il giudice che sogna di fare il pm». Di quel collegio giudicante faceva parte anche Marilena Chessa: nel 1994 aveva fatto parte della corte che aveva condannato il finanziere Sergio Cusani per il finanziamento illecito del Pds, ma aveva inopinatamente escluso ogni responsabilità del partito, sostenendo che era stato impossibile indicare chi, nella sede di via delle Botteghe Oscure, avesse incassato il miliardo di lire portato da Cusani. Si era scritto, allora, che era il primo caso in cui un reato tipicamente «simmetrico» come il finanziamento illecito era stato spezzato in due. Anche il processo All Iberian 1 contro Berlusconi, in secondo grado, passò a una corte di «senza corrente» e finì nel nulla: prescrizione. E non servirono né il ricorso dell’accusa, che insisteva per la condanna, né quello degli imputati, che chiedevano l’assoluzione piena. La seconda sezione della Cassazione nel novembre 2000 li respinse entrambi. Del collegio, curiosamente, faceva parte Antonio Esposito. Sì, proprio il giudice delle polemiche. Perché nella giustizia, purtroppo, la politica è sempre in agguato.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.

«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico?  La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»;  e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva   comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...).  Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno  -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu,  nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois,  ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio  Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.

Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi resgistrati dal vocabolario Espositese-Italiano.

Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.

Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.

Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.

Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.

Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”

Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.

Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.

Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.

Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

LE TOGHE IGNORANTI.

Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

Processo Mediaset: depositate le motivazioni della sentenza di condanna per Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Berlusconi fu "ideatore del meccanismo del giro dei diritti che a distanza di anni continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende a lui facenti capo in vario modo". E' il passaggio cruciale delle 208 pagine di motivazioni della sentenza di condanna a 4 anni per frode fiscale per Silvio Berlusconi nel processo Mediaset confermata dalla Cassazione lo scorso 1 agosto. "Berlusconi - si legge nelle motivazioni depositate oggi -, conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizione strategiche i soggetti dal lui scelti e che continuavano a occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale".

Le motivazioni (cosa che succede raramente) sono firmate da tutti i componenti del collegio giudicante e non solo dal Presidente Antonio Esposito, finito al centro delle polemiche dopo la sua intervista rilasciata al quotidiano Il Mattino  Una telefonata in cui, secondo la difesa del Cav, Esposito "anticipava" le motivazioni della sentenza in quanto addentrandosi nell'analisi di questioni molto tecniche. Un'intervista che ha provocato l'apertura di un procedimento disciplinare da parte del Csm nei confronti della toga. Secondo i giudici della Cassazione è dunque verosimile che qualche dirigente di Fininvest Mediaset "abbia subito per vent'anni truffe per milioni di euro senza accorgersene". Inoltre per i giudici della Cassazione, "Berlusconi, pur non risultando che abbia intrattenuto rapporti diretti con i materiali esecutori della gestione finanziaria Mediaset, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti e che continuavano ad occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale". "I personaggi chiave - sottolineano i giudici - sono stati mantenuti sostanzialmente nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui, di modo che la mancanza in capo a Berlusconi di poteri gestori e di posizioni di garanzia nella società non è un dato ostativo al riconoscimento della sua responsabilità". I giudici spiegano poi il meccanismo della truffa addebitata al Cavaliere: "La definizione come sovraffatturazione appare quasi un sottodimensionamento del fenomeno descritto e anzi, inadeguata a definirlo". E' "pacifica e diretta riferibilità a Berlusconi della ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità del denaro separato da Fininvest e occulto". Un sistema che secondo la Suprema Corte "ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere presso conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate da fiduciarie di Berlusconi". "I giudici di merito - scrivono ancora i supremi giudici - e segnatamente la Corte territoriale, come si è ampiamente visto, hanno ritenuto correttamente e motivatamente provato un gioco di specchio sistematico che rifletteva una serie di passaggi privi di giustificazione commerciale e ad ogni passaggio la lievitazione dei costi era, a dir poco, imponente". Per i giudici della Cassazione è "inverosimile" l’ipotesi alternativa "che vorrebbe tratteggiare una sorta di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi (proprio in quello che è il suo campo d'azione e nel contesto di un complesso meccanismo da lui stesso strutturato e consolidato) da parte di personaggi da lui scelti e mantenuti, nel corso degli anni, in posizioni strategiche e nei cui confronti non risulta essere mai stata presentata alcuna denuncia".

Filippo Facci e le motivazioni: Cassazione a piedi uniti per punire Berlusconi. Un libero, sin troppo libero convincimento del giudice. Anzi dei giudici, visto che tutto il collegio della Cassazione figura come estensore della sentenza. Una sentenza pedissequa, quasi in sudditanza psicologica verso i giudici dei gradi precedenti, oppure ecco, mettiamola così: senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza della Cassazione contro Silvio Berlusconi per frode fiscale appalesano meramente un’opinione, una gigantesca e apparentemente motivata opinione. Dopodiché, spiace dirlo, nelle 208 pagine della sentenza i cosiddetti «teoremi» e le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» abbondano eccome. Si tratta di capire, stringi stringi, in che misura sia inevitabile oppure appaia come una stortura. La tesi confermata e non cassata, dunque, è quella che avrete letto e ascoltato a partire da ieri pomeriggio: fu lui, Berlusconi, a mettere a punto il «giro dei diritti» televisivi che aveva il fine di gonfiare i costi (suoi) attraverso vari passaggi tra diverse società fittizie; l’obiettivo era quello di esportare capitali, costituire fondi neri all’estero (specie nei paradisi fiscali) e naturalmente evadere il fisco; in pratica, gli uomini Fininvest trattavano con le major americane direttamente negli Usa ma poi, in un passaggio successivo, s’inseriva un’intermediazione che serviva solo a gonfiare le fatture (con soldi che in realtà rimanevano a Fininvest) e a inserire le cifre maggiorate nelle dichiarazioni italiane dei redditi. È stato ritenuto provato che una società d’intermediazione di Lugano, la Ims, fosse solo una società fittizia senza funzioni reali, solo la prosecuzione della vecchia «Fininvest service» svizzera. Di questo sistema, conferma la sentenza, Berlusconi fu l’ideatore e il beneficiario anche dopo la dismissione delle cariche sociali, tanto che, «conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti dal lui scelti». Ogni ipotesi alternativa, tipo che Berlusconi non sapesse e sia stato ingannato, denota «assoluta inverosimiglianza». Le domande - Ora: è attendibile che sia andata così? Fininvest adottò davvero questo sistema? Berlusconi ne era consapevole? Molto, sinceramente, porta a crederlo: perché appare estremamente logico, anzitutto, e secondariamente perché centinaia di indizi confortano questa tesi. Ma si tratta, appunto, di un’opinione: il che non significa che sia anche provabile in un tribunale, e soprattutto non significa che sia provabile  una diretta responsabilità del proprietario di Fininvest. La differenza tra un’opinione e un fatto provato non è solo rilevante in punto di diritto, ma lo diviene in modo particolare se l’imputato è a capo di una forza politica a cui fa riferimento mezzo Paese. Per capire di che ambiguità stiamo parlando, tuttavia, facciamo parlare la sentenza. Questo passaggio, per esempio: «Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo Fininvest, ma che erano vicine a Berlusconi, tanto da frequentarlo». Oppure: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in assenza di poteri gestori formali». Tutto stravero: e ciascuno, noi compresi, può farsi personali convinzioni in merito. Il che non toglie che queste, a esser pignoli, non sono prove: sono attribuzioni di una responsabilità oggettiva. Pagina 182: «Era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse di interesse della proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali». Forse era ovvio, ma compito di un tribunale non è stabilire che cosa è «ovvio» e che cosa «non è dunque verosimile» (ancora pagina 182). La Cassazione tuttavia si sofferma non poco sulla questione della «consapevolezza» di Berlusconi, benché mai provata: «La sentenza d’Appello», è scritto, «ha rilevato che rispondono del reato solo coloro che avevano consapevolmente partecipato al sistema in atto... Consapevolezza che poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema, e non in chi ne aveva una visione solo parziale, pur prendendo parte ad alcuni degli atti». Traduzione: Berlusconi e non i suoi sottoposti, pur non partecipando attivamente, aveva senz’altro «uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema», dunque sapeva. In questo, c’è da dire, la sentenza ricorda molto le motivazioni che il giudice Antonio Esposito aveva già anticipato nell’ormai nota intervista al Mattino, e sulla quale il Csm sta indagando. Ora prendiamo un altro condannato del processo, Frank Agrama, principale intermediario dei giri di denaro e ritenuto una sorta di dipendente occulto di Mediaset; secondo la Cassazione (pagina 136) si denota la «mancanza di qualsiasi logica negli ingenti importi pervenuti all’imputato», cioè Agrama. Ma, anche qui: la mancanza di logica non è una prova, meglio, è una «prova logica». Una prova che in qualche caso, peraltro, non è proprio suffragatissima: «È del tutto evidente che Agrama ha agito da intermediario di comodo e, seppure non vi sia sicura evidenza bancaria, non resta che ritenere del tutto logico che... ». È evidente. Non resta che ritenere logico che. Ma il capolavoro d’ambiguità è a pagina 184 della sentenza, e si riferisce alla «doglianza a lungo espressa dalla difesa sulla riduzione delle liste testimoniali: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l’assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Rileggere per credere. In altre parole non compaiono compiute risposte, in tutta la sentenza, alle principali opposizioni avanzate dalla difesa: che mai Berlusconi si occupò concretamente di diritti televisivi, che mai si occupò neppure degli organigrammi societari e tantomeno delle denuncie dei redditi e delle scelte finanziarie; che tutti i testimoni hanno confermato questo - ciò che conta in un’aula giudiziaria, al di là di ogni «verosimiglianza» - e soprattutto che i denari derivanti dalle plusvalenze sui diritti televisivi rimanevano in mano a questo Frank Agrama, non a Berlusconi. Erano soci occulti? Pare verosimile anche questo: ma prove (vere)  non ne sono spuntate. Una sentenza, dunque, buona per riaprire un vecchio dibattito: su che cosa sia effettivamente una «prova» e su quale sia, oggi, il ruolo di una Cassazione che appare ambiguamente divisa tra legittimità e merito. Tantopiù in questa sentenza nel complesso deludente, che non passerà certo alla storia della giurisprudenza: non solo perché è ricalcata sul giudizio d’Appello che a sua volta ricalcava quello di primo grado, ma perché lo fa anche piuttosto maldestramente. Il procuratore Antonio Esposito e i suoi colleghi, nelle loro 208 pagine, si atteggiano formalmente a controllori ma poi è come se sbracassero, come se cedessero a un tifo sfegatato per la sentenza che hanno confermato e di cui non fanno che riportare stralci. Pagina 136: «... non intacca in alcun modo la ricostruzione effettuata dai giudici di merito, e che questa Corte di legittimità condivide». Ancora: «Lo spazio e l’attenzione che i giudici di merito hanno dedicato alla figura di Frank Agrama, con argomentazioni logiche e convincenti, sono di tale ampiezza ed approfondimento da consentire a questa corte di legittimità di affermare che il complesso probatorio a lui ascritto è di particolare consistenza». Pagina 186: «Si è ritenuto di riportare integralmente le conclusioni formulate dai giudici di merito per poter affermare che sono del tutto conformi alle plurime risultanze probatorie». Insomma, la Suprema Corte dovrebbe limitarsi ad assicurare la corretta osservanza e interpretazione delle norme di diritto, tanto che le sue sentenze, poi, diventano un orientamento della giurisprudenza nazionale. Difficilmente accadrà in questo caso, visto che - con rispetto parlando - è palese un compiaciuto e mero copia & incolla della sentenza d’appello. La difesa, perlomeno, attendeva qualche risposta giuridica circa l’impossibilità, sostenuta dagli avvocati Coppi e Ghedini, di configurare in punto di diritto il reato contestato a Silvio Berlusconi. Non hanno ottenuto neanche questo. Sarà stata la fretta. È una delle sentenze di Cassazione più insignificanti che pare di ricordare.

Nell'agosto 2011, molto prima che gli venisse assegnato il verdetto della Corte dei Cassazione sul Cavaliere, il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Suprema Corte, durante una cena si è sfogato con i commensali: "Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così". A raccontare l'aneddoto è stato il Giornale raccogliendo la testimonianza di un imprenditore calabrese, Massimo Castiello, che aveva invitato nella sua villa a San Nicola Arcella, sul Tirreno, la toga. A tavola c'era anche l'attore Franco Nero che oggi conferma le parole del suo ospite. Chiamato al telefono Libero ha confermato che da parte di Esposito non c'era un atteggiamento sereno nei confronti di Berlusconi.  

"Se becco Berlusconi gli faccio un mazzo...". Spunta un'altra imbarazzante cena (con testimoni) in cui il magistrato dichiarava il suo pregiudizio scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. «Berlusconi mi sta proprio sulle palle. Se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Parlava a ruota libera il giudice Antonio Esposito davanti ai commensali stupiti. Sono passati due anni da quella cena, ma il padrone di casa, Massimo Castiello, si ricorda ancora molto bene quelle parole. «Ce l'aveva col Cavaliere, i suoi non erano giudizi affrettati, si capisce che coltivava proprio un'antipatia profonda. Non lo sopportava. E non si faceva problema nel comunicarlo a chi gli stava intorno». È l'agosto del 2011. Castiello, piccolo imprenditore sessantottenne con interessi nel mondo immobiliare, organizza una serata fra amici nella sua villa con vista Tirreno di San Nicola Arcella, in Calabria. «Io e Esposito ci conosciamo da una vita. Esposito faceva il pretore a Scalea, in provincia di Cosenza, non lontano da San Nicola Arcella, il mio paese. Insomma, sia pure a salti, con le intermittenze della vita, ci siamo frequentati. Anche se poi ci siamo persi per un certo periodo. Comunque, per l'occasione allargo gli inviti, anzi nella mia testa quel piccolo evento serve per far incontrare Esposito e un altro mio amico, anzi l'unico mio vero amico, Franco Nero». Sì, il grande attore, l'interprete di tanti film indimenticabili. «Ho scoperto - riprende Castiello - che Esposito è un fan scatenatissimo di Nero, ha visto quasi tutti i suoi film, cita a memoria scene e battute, meglio di uno sceneggiatore, e insomma l'occasione è ghiotta. Nero in quell'agosto di due anni fa è ospite a casa Castiello ed Esposito, come d'abitudine, trascorre il periodo estivo a Sapri che non è molto lontana». Il menu d'ordinanza prevede pasta, patate e provola. «Un piatto delizioso, accompagnato da un buon vino locale». Il tutto nella cornice meravigliosa di una terrazza porticata a strapiombo sulle acque del Tirreno. Una cena da cartolina. «Dunque a tavola siamo in sette: io e mia moglie Sandra, Esposito e la sua signora, altre due persone e lui, il mito. Franco Nero». Si parla e si sorride, ma è chiaro che la star della serata è Nero. Esposito s'informa e a un certo punto il discorso cade su un film che gli spettatori italiani non hanno mai visto: L'escluso, in cui Franco Nero è diretto dal figlio Carlo e recita insieme alla moglie Vanessa Redgrave. «È la storia di un avvocato italoamericano che fa di tutto per far assolvere il proprio cliente. La trama è ambientata negli Stati Uniti e la pellicola è stata girata negli Usa, alle porte di New York. In Italia però non è mai arrivata». Pare che i diritti siano stati acquistati, combinazione, da Mediaset, comunque L'escluso qui da noi è un fantasma. «Ora non ricordo bene - prosegue Castiello - ma forse, proprio a partire dal film il discorso è scivolato su Berlusconi. Sento ancora le parole del magistrato che mi hanno ferito non una ma due volte. La prima perché io ho sempre avuto simpatie berlusconiane, la seconda, molto più importante, perché chi parlava era il presidente della seconda sezione della Cassazione». Un magistrato autorevolissimo, un giudice, che in teoria, avrebbe pure potuto trovarsi un giorno faccia a faccia con l'imputato Silvio Berlusconi». Come poi puntualmente è avvenuto tre settimane fa quando la Suprema corte, presieduta da Esposito, ha condannato il Cavaliere a 4 anni di carcere per frode fiscale, al termine del processo Mediaset. Due anni fa nessuno poteva prevedere che quello sarebbe stato il finale e però Esposito - se sono veritiere le affermazioni di chi lo invitò quella sera - avrebbe dovuto frenare. E invece il giudice, davanti a una tavolata composita, con persone che in parte conosceva e in parte no, e con un personaggio famosissimo seduto vicino a lui, si lascia andare a briglia sciolta: «Berlusconi mi sta proprio sulle palle». Niente male per chi dovrebbe essere un monumento all'imparzialità, alla terzietà, alla riservatezza e via elencando. Ma questo è solo l'antipasto, poi Esposito, almeno a sentire Castiello, ingrana la quinta: «Quello, Berlusconi, si salva sempre, grazie ai suoi avvocati... la prescrizione... ma se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Testuale. Alla faccia della serenità della giustizia. Gli esperti parlerebbero di pregiudizio, insomma se quella frase così ruvida, inammissibile per un magistrato, fosse stata recapitata a Berlusconi prima del verdetto fatale, sarebbe stata probabilmente motivo più che sufficiente di ricusazione. Esposito avrebbe dovuto passare la mano, la corte avrebbe avuto un altro presidente e la sentenza, chissà, forse avrebbe avuto un altro esito. Ma quella notte la frase, anzi le frasi riverniciate di antiberlusconismo militante, restano fra le mura di quel terrazzo porticato, affacciato sul Golfo di Policastro. Esposito parla sempre con Nero, ma già che c'è tira pure un pesantissima stoccata a Wanna Marchi, immancabile come un mantra nei suoi incontri conviviali. I lettori del Giornale avranno già capito: Stefano Lorenzetto ha raccontato su queste pagine una cena, con successiva premiazione, in cui incrociò lo scintillante giudice. Siamo nel marzo 2009 e ci troviamo a Verona, all'hotel Due Torri, a centinaia di chilometri di distanza da San Nicola Arcella, ma a quanto pare le ossessioni di Esposito sono sempre quelle. Il Cavaliere e Wanna Marchi. Esposito si dilunga sul Cavaliere, fa sfoggio delle sue presunte intercettazioni a luci rosse, si diffonde sui testi in cui il Cavaliere avrebbe dato i voti alle prestazioni erotiche di due deputate del Pdl. E la Marchi? Quel giorno manca poco, pochissimo alla sentenza e Esposito anticipa a Lorenzetto il verdetto che leggerà di lì a poche ore: la condanniamo. La teletruffatrice non sta simpatica al presidente di Cassazione e lui fa di tutto per trasmettere questi sentimenti all'ex vicedirettore del Giornale. Come si vede, il copione si ripete un paio d'anni dopo. In Calabria. La sentenza Marchi è ormai in archivio, ma Esposito la condensa, sempre secondo Castiello, in modo efficace: «C'era qualcosa prescritto, ma abbiamo fatto finta di niente». Il plurale rimanda alla corte, composta da cinque membri, e dunque va preso con le pinze perché sarebbe la firma su una scorrettezza gravissima. Forse il presidente ha sintetizzato in modo brutale quel che è avvenuto nel segreto della camera di consiglio e l'ha in qualche modo volgarizzato. Non è chiaro. Per la cronaca Wanna Marchi è stata sepolta sotto una pena di 9 anni e 6 mesi di carcere e sempre per la cronaca l'ex venditrice, dopo aver letto i documentatissimi articoli di Lorenzetto, ha annunciato, attraverso l'avvocato Liborio Cataliotti, che ricorrerà alla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. E che, se dovesse vincere devolverà i soldi dell'indennizzo alle sue vittime. Ma quella è un'altra storia. Sono i toni aspri dell'antiberlusconismo in salsa Esposito a rimanere impressi nella mente di Castiello. Il banchetto si chiude lì, anzi Esposito riceve pure un piccolo omaggio che lo riempie di gioia: la videocassetta dell'introvabile film di Nero, L'escluso. Poi, ed è cronaca recente, accade l'impensabile. Esposito, come presidente della sezione feriale, si trova a tiro il Cavaliere. E conferma la sentenza d'appello. Poi s'infila da solo nei guai, concedendo una spericolata intervista al Mattino in cui, fra una battuta in italiano e una in napoletano, anticipa le motivazioni che non sono ancora state depositate. È abituato a chiacchierare, Esposito. E non si tiene nemmeno in quella circostanza. Come aveva fatto a cena, a Verona, e a san Nicola Arcella. Il banchetto del 2009 è stato ricostruito da Stefano Lorenzetto, adesso sappiamo che davanti al Tirreno e alla pasta con la provola Esposito emise la sua sentenza definitiva. Irrevocabile: «Berlusconi mi sta sulle palle».

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

Tutto il potere a Toga Rossa. Magistratura democratica e Movimento per la giustizia da tempo condizionano tribunali e procure grazie a una collaudata organizzazione del consenso. E ora puntano all’unificazione scrive Maurizio Tortorella in collaborazione con  Annalisa Chirico su “Panorama”. Non mollano. Non demordono, nemmeno dopo la condanna definitiva dell’Avversario; non si rilassano nemmeno un po’. Era la sera del 1° agosto 2013, Silvio Berlusconi era appena stato giudicato colpevole dalla Cassazione. Avrebbero potuto festeggiare il risultato raggiunto. Invece è bastato che il presidente della Repubblica, appena mezz’ora dopo, dichiarasse: «Auspico che adesso possano aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame in Parlamento dei problemi relativi all’amministrazione della giustizia». E subito Magistratura democratica è saltata su, come un tappo: «La sentenza dimostra che i giudici sanno fare il loro mestiere, nonostante tutti i tentativi di condizionarli», mentre «parlare di riforme della giustizia è un segnale negativo». Così, ancora una volta, ha parlato la massima corrente della sinistra giudiziaria, attraverso il presidente di Md Luigi Marini (ex pm torinese, oggi in Cassazione) e il segretario generale Anna Canepa (pm genovese). Durissimi, contro Giorgio Napolitano e contro tutti. La loro dichiarazione è lunga, ma merita la citazione proprio per quanto è minacciosa: «I richiami alla necessità di riforme della giustizia suonano come risposte alla prova d’indipendenza che la magistratura ha saputo dare, a dimostrazione che una parte consistente (quanto consistente vedremo) della politica considera quell’indipendenza un pericolo e intende andare alla resa dei conti». A seguire, un corollario d’accuse: contro chi cerca di «addomesticare» i magistrati; contro i politici «in malafede»; contro i continui «tentativi di condizionamento»…

È l’unione delle toghe rosse. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. Da anni Berlusconi sostiene di esserne perseguitato: a giudicarlo, in effetti, spesso sono stati giudici dichiaratamente di sinistra. Tra i cinque giudici che il 1°agosto lo hanno condannato in Cassazione nel processo Mediaset, per esempio, il presidente Antonio Esposito, finito nei guai per l’intervista in cui ha anticipato le motivazioni del verdetto, passa per simpatizzante di Movimento per la giustizia, l’altra corrente di sinistra. Mentre Ercole Aprile nel 2007 si era candidato all’Anm proprio nelle liste di Mpg (incidentalmente in lista con Caterina Interlandi, il giudice milanese che lo scorso maggio ha condannato Giorgio Mulè, direttore di Panorama, a 8 mesi di reclusione senza condizionale per omesso controllo su un articolo ritenuto diffamatorio). L’unione delle toghe rosse si articola in queste due organizzazioni: Md, forte di 800-900 iscritti, e Mpg, con altri 400. Insieme, raccolgono appena un settimo dei 9 mila magistrati italiani. Però riescono a coagulare un terzo dei consensi di categoria e contano come fossero la maggioranza. Federati nel cartello elettorale Area, alle ultime elezioni del febbraio 2012 per l’Associazione nazionale magistrati, un po’ il sindacato di categoria, Md e Mpg hanno preso 2.271 preferenze su 7.200 voti validi. Rispetto alle precedenti elezioni del novembre 2007, dove si erano presentati divisi, hanno perso 300 consensi  e un seggio nel comitato centrale, da 13 a 12 su 36. Ma grazie a un’alleanza con la corrente «mode-rata» di Unicost hanno ottenuto il segretario dell’Anm: Maurizio Carbone (Mpg). Mentre al Consiglio superiore della magistratura, che regola le carriere e giudica sui procedimenti disciplinari della categoria, dal 2010 hanno 6 consiglieri togati su 16. E anche qui fanno il bello e il cattivo tempo.

Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino (e anche lui iscritto a Md negli anni Sessanta), dal suo ritiro in pensione è il grande critico delle correnti giudiziarie: «Sono solo centri di potere» dice «che cercano di ottenere posti rilevanti per gli iscritti. Md e Mpg giurano di essere diversi: sbandierano carte dei valori, pretendono purezza e integrità morale. Ma poi fanno esattamente come gli altri». Se lo dice Tinti, che è azionista e collaboratore del Fatto quotidiano, c’è da credergli. Del resto, alcuni mesi fa è arrivata una conferma dalla vicenda-simbolo svelata da un’email sfuggita a Francesco Vigorito (Md), giudice romano e consigliere del Csm: finita su una mailing list aperta, la lettera manifestava dubbi su una nomina al Tribunale di sorveglianza di Salerno, dove Area aveva sostenuto con forza una magistrata solo perché appartenente alla corrente, e preferendola ad altri colleghi «forse più meritevoli» soltanto per «le pressioni interne».

Il caso ha acceso grandi polemiche, presto tacitate in nome della disciplina di partito. Le rivelazioni via email sono state spesso una spina nel fianco della sinistra giudiziaria, tanto che si è fatto di tutto per renderle inaccessibili. In passato, infatti, alcune incursioni giornalistiche nel circuito degli iscritti hanno scoperchiato clamorose partigianerie e faziosità. Quando per esempio nel dicembre 2009 uno squilibrato ferì al volto Silvio Berlusconi lanciandogli contro una statuetta del Duomo di Milano, in Md si accese il dibattito. E prevalse chi giustificava: «Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce “eversivi” i magistrati?».

Due anni fa, quando il centrodestra cercò d’impostare l’ennesima riforma della giustizia, le email violate di Mpg segnarono nuove impennate di avversione: «Lo zietto Berlusconi deve togliere al più presto il disturbo» scrisse un pm. Altri suggerirono la chiamata a difesa di tutta la sinistra e del sindacato: «La nostra corporazione da sola non può reggere uno scontro politico, se non gioca politicamente». Certo, Md e Mpg hanno preso posizione su ogni sospiro della politica italiana e, soprattutto, sulle leggi approvate dal Parlamento.

Livio Pepino, uno dei maggiori esponenti di Md, postulò del resto la necessità che «il magistrato si ponesse come contropotere». Più forti di un partito politico, più dure di un sindacato, più potenti di un esercito, le toghe rosse hanno così sparato a zero sul potere legislativo: censurando tante norme, da quelle anticlandestini («Si introduce un reato inutile, profondamente iniquo e discriminatorio: non si può trasformare un fenomeno sociale in fenomeno criminale») fino alla legge Biagi («La celebrata riforma del mercato del lavoro, lungi dal provocare il benefico effetto di un’emersione del “nero”, accresce la precarizzazione dei rapporti e l’arretramento della sicurezza»). La verve censoria in luglio ha riguardato anche il governo Letta, contro la legge svuota-carceri: «Sconfortante il balletto di reati ora sottratti alla carcerazione preventiva, ora inclusi, ora oggetto di ripensamenti».

La capacità di condizionare la politica è elevata. In questo agosto, sul Fatto quotidiano, due alti esponenti di Md hanno massacrato le tesi appena un po’ garantiste del nuovo responsabile giustizia del Pd, Danilo Leva: prima Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, poi Gian Carlo Caselli, procuratore di Torino, hanno affossato le sue tesi come «inquietanti», «strampalate», «stravaganti»... Una cassazione preventiva: così, tanto per frenare un compagno che sbaglia. Mentre in maggio Beppe Fioroni, deputato del Pd in quel momento candidato alla presidenza della commissione Giustizia, aveva raccontato in un’intervista delle telefonate ricevute dall’Anm per garantire proprio quel posto a Donatella Ferranti, già magistrato di Md ed ex segretario del Csm. Fioroni aveva dichiarato alla Repubblica: «Io ovviamente ho obbedito ai magistrati, mica al Pd».

Poi aveva smentito, ma alla fine il risultato è stato quello: Ferranti for president. Va detto che, là dove Md ha nel Pd la sua evidente sponda partitica, l’altra corrente ha meno legami diretti: quelli di Mpg a tratti sembrano vicini al Movimento 5 stelle, a tratti a Sinistra ecologia e libertà, a volte a nessuno dei due. Questo, malgrado siano in minoranza nel cartello elettorale di Area, non impedisce che spesso prevalgano i loro candidati nelle primarie per il voto al Csm o all’Anm. È stato così, a sorpresa, nel 2010: nella circoscrizione della Cassazione, dove Aniello Nappi (Mpg) ha prevalso su Giovanni Diotallevi (Md). Due anni dopo, Nappi è uscito dal gruppo di Area (che al Csm ha altri due consiglieri: Paolo Carfì, il giudice del processo berlusconiano Imi-Sir oggi in Corte d’appello a Milano; e Roberto Rossi, il pm barese che ha indagato sul ministro del Pdl Raffaele Fitto) rivendicando maggiore indipendenza.

Ma sono screzi da poco, l’unità della sinistra giudiziaria non è mai posta in discussione: «Di recente» dice Nappi «ho chiesto l’iscrizione anche a Md». E uno dei leader storici di Mpg, il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, dichiara a Panorama: «Francamente, io proprio non capisco perché siamo ancora separati». Anche Antonella Magaraggia, giudice veneziano e dal gennaio 2011 presidente di Mpg, dice di guardare oltre il cartello elettorale: «Area» dichiara «è un progetto politico-culturale aperto anche ai non iscritti, verso il superamento delle correnti. A unirci con Md è molto, quasi tutto. Sì, forse Md in passato è stata più ideologica, ma noi oggi siamo debitori per tutte le sue conquiste. Noi di Mpg siamo più attenti all’organizzazione, all’efficienza del lavoro. Però l’ambito ideale è lo stesso, dividerci è impossibile».

Betta Cesqui, alta esponente di Md, è d’accordo: «Qui, semmai, dobbiamo allargare la nostra base». Da giugno Area tende dichiaratamente alla fusione, con un comitato di coordinamento fatto da 7 magistrati: 2 a testa sono di Md e di Mpg, e 3 indipendenti eletti in un’assemblea a Roma. Il giudice veneziano Lorenzo Miazzi (ex Md) è uno dei 7: «Vogliamo creare un’associazione liquida» spiega a Panorama «sul modello di Libera, l’organizzazione di don Ciotti contro le mafie. Anche perché vogliamo che idee, tesi e linea escano non più dai vertici, ma dalla base». Queste istanze orizzontali un po’ ricordano la «democrazia del web», tanto cara a Beppe Grillo. Con molta trasparenza in meno, però: sia Magaraggia sia Edmondo Bruti Liberati, procuratore di Milano e uno dei massimi leader di Md, confermano a Panorama che l’elenco dei circa 1.250 iscritti alle due correnti «non è pubblico», anche se entrambi «a titolo personale» si dicono favorevoli a rendere note le liste. Il risultato, comunque, è una grave anomalia: nessun cittadino può sapere se a inquisirlo o giudicarlo sia un magistrato schierato a sinistra, di Md o di Mpg (nel 2002 ci provò per le vie legali Cesare Previti, l’ex ministro della Difesa imputato a Milano, ma ottenne un secco no). Non è un bene. Anche perché non è un mistero che i magistrati aderenti alle due correnti siano spesso importanti, esposti, attivi in ruoli chiave. Negli anni Settanta e Ottanta, Md era presente soprattutto nei «ranghi bassi»: pretori d’assalto, giudici istruttori. Oggi, con i colleghi di Mpg, la sinistra giudiziaria è presente ovunque, soprattutto nelle procure, e arriva fino in Cassazione.

Non bastasse la capacità politica espressa in Italia, la sinistra giudiziaria ha poi una sua casa europea. Da anni Md e Mpg aderiscono a Medel, Magistrats européens pour la démocratie et les libertés: da Strasburgo l’organizzazione propugna il diritto di azione collettiva dei magistrati, la «diffusione della cultura giuridica democratica» e ha tra gli obiettivi «la difesa dei diritti delle minoranze, con particolare riguardo a quelle dei migranti e dei poveri». Medel oggi riunisce 19 correnti delle toghe di sinistra ed estrema sinistra, come l’Unión progresista de fiscales in Spagna e Syndicat de la magistrature in Francia, per oltre 17 mila iscritti. Molto influente presso la Commissione europea e le Nazioni unite, Medel risponde alle parole d’ordine della sinistra più oltranzista: ha appena preso posizione contro i tagli allo Stato sociale dettati dalla crisi finanziaria; critica ogni tentativo di introdurre il minimo principio di responsabilità civile nell’attività giudiziaria; attacca ogni censura (anche istituzionale) che vada a colpire un magistrato «democratico». Insomma, se mai servisse, è una superlobby a difesa degli interessi della categoria. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. E poi ridono quando dicono che un giudice si butta a sinistra…

GIUDICI IMPUNITI.

I giudici impuniti: risarcito un innocente su 100. Quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono «in attesa di giudizio»: sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del codice del 1989 si chiamava più onestamente «ordine di carcerazione preventiva». Per l’esattezza, calcola l’associazione Antigone, i reclusi che non sono ancora stati processati sono 26.804 su un totale di 66.685. Nessun Paese europeo ha statistiche così elevate e sconvolgenti: la media generalmente non supera il 10-15 per cento.

Su 400 cause intentate dal 1988 per ingiusta detenzione l’errore è stato riconosciuto soltanto 4 volte. Solo l'1 per cento dei ricorsi contro i magistrati per ingiusta detenzione si risolve con una condanna della toga , scrivono  Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia su “Il Giornale”. Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’1% dei giudizi ha visto lo Stato «pagare» i danni del lavoro del giudice. Insomma la «montagna» della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un «topolino». A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’1% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. «Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili». Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato «emerge una eccessiva operatività» di questo «filtro». Questo «difettoso funzionamento della legge» porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per «ogni manifesta violazione del diritto». Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme». Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: «Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge». Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato.

La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.

Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”. Vediamo dal sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto, infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione degli illeciti.
Le varie sanzioni previste dalla legge sono:

a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;

b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;

c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;

d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;

e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;

f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.

Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm.

E noi adesso lo diremo. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.

Di quei 267 condannati dal Csm:

a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)

b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)

c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità (temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)

Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri.

Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa). Di queste “condanne”:

- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!)

- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%)

- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%)

- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%)

- 2 sono stati  i rimossi (l’1%)

Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:

- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;

- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;

- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.

Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.

Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema giudiziario.  Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni e milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione viene ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di “L’Espresso”  nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela particolari e retroscena inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il potere in Italia. Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al giorno. Gli esami per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta come i giudici si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla politica. Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede che dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente  dagli incarichi e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Solo sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012, sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono state giudicate negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei lavoratori “medi”. Gli inquirenti tedeschi si accontentano di un multiplo più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa la macchina giudiziaria agli italiani? Per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal Cepej), contro una media europea di 57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini ci sono. Peccato, però, che come tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti male. Da noi ci sono 2,3 Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in Francia uno. Ogni togato dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti factotum dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7. Uno in meno quindi. Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle. Cane non mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute 5.921 notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben 5.498, cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono stati sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che i giudici ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro. Lo 0,28%. Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la legge sulla responsabilità civile che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la norma 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per colpe specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%, sono in attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione. 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia perso solo 4 volte. Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per ogni giorno effettivo di impiego. Su questi dati, Livadiotti non è mai stato smentito. Né con i fatti, né con le parole. Ebbene sì, tutto questo è lo scandalo degli scandali. La macchina della giustizia dovrebbe cambiare in tutto e per tutto, essere rivoltata come un calzino. I veri privilegiati, anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati. La vera grande colpa di Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10 anni di governo, una legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei giudici. Questa, nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi, in Italia sono costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati. Prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, poteri e un’immunità che non ha pari al mondo.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

"C'è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”, alla cui dotta enucleazione si sono stracciate le smancerie antiberlusconiane. "Ci deve pur essere un giudice a Berlino" è espressione che, anche quando se ne ignora l'origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l'aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all'inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l'aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo. Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino. Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all'inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell'imparzialità della giustizia. Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un'area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Alla fine questi giudici  hanno condannato Silvio Berlusconi, che anela, ancora, un Giudice a Berlino.

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

Il Paese del garantismo immaginario. Le vanterie sull'Italia patria di Beccaria? Sono sciocchezze: la cultura manettara è egemone, scrive Alessandro Gnocchi  su “Il Giornale”. Viviamo in una società garantista? Il garantismo è pensiero corrente, se non egemone? No, è la risposta secca di Non giudicate, il saggio di Guido Vitiello edito da Liberilibri. Un giro in libreria, scrive Vitiello, a caccia di tomi che propugnino ideali garantisti, si risolverebbe in una ricerca senza frutto. Al contrario, gli scaffali sono ben riforniti di libri firmati da «magistrati-sceriffo impegnati sulla frontiera delle mille emergenze nazionali» o da «reduci gallonati di Mani pulite» o da giudici «scomodi» ma non al punto da non trovare frequente ospitalità nei vari talk show serali. La tivù è la tribuna da cui levano doglianze sui paletti alle indagini posti dai politici in nome del «garantismo» (quasi sempre «peloso», nota Vitiello). Basta dare un'occhiata alle cronache dei quotidiani per rendersi conto che gli avvisi di garanzia sono percepiti come sentenze della Cassazione; e che spesso l'odio (ma anche l'amore) per l'inquisito o il condannato di turno fa velo alla valutazione dei fatti. Il pensiero supposto egemone si rivela «solitario», e paga il conto anche ai «falsi garantisti» che si sono mescolati ai veri, «finché la moneta cattiva ha scacciato la buona e reso sospetti tutti i commerci». Insomma, la reputazione «ben poco commendevole» del garantismo in parte, ma solo in parte, è meritata: c'è stata poca chiarezza nel distinguere casi personali e questioni di principio. La tesi di Vitiello comunque è limpida: «L'imbarbarimento giudiziario italiano è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di vederlo, e non abbia interessi di bottega tali da suggerirgli una cecità deliberata. Basta gettare uno sguardo, anche distratto, sul punto di caduta o di capitolazione - le carceri di un sistema che è in disfacimento fin dalla testa, per arrossire quando sentiamo ripetere quelle insulse vanterie sul Paese di Beccaria». L'originalità del saggio consiste nel farci vedere i principi incarnati in quattro ritratti di garantisti doc: Mauro Mellini, Domenico Marafioti, Corrado Carnevale, Giuseppe Di Federico. Sono pagine nate sulle colonne del Foglio (l'introduzione è di Giuliano Ferrara) ampliate e arricchite da un carteggio fra Mellini ed Enzo Tortora. E proprio la vicenda di Tortora, insieme con Marco Pannella e le battaglie dei Radicali, lega tutti i protagonisti di Non giudicate. Tocca a Mellini, avvocato di conio liberale, leader radicale e deputato per svariate legislature, introdurre il lettore all'abbecedario garantista, cioè alle parole di cui diffidare perché sventolate al fine di giustificare l'indebito allargamento dei poteri della magistratura. Emergenza: «cela il proposito di passar sopra a certe fisime per instaurare una giustizia di guerra»; giustizia d'assalto: «ha dato la stura a innumerevoli interventi di magistrati ritenuti o autodefinitisi provvidenziali, di cosiddette supplenze e vicarianze di altri poteri»; esemplare: è una sentenza «che punisce con esagerata severità in un determinato momento, quindi una sentenza esemplarmente ingiusta». Domenico Marafioti, avvocato e letterato, è l'uomo delle profezie inascoltate: nel 1983 pubblicò La Repubblica dei procuratori. Sottolineava, scrive Vitiello, «i prodromi dell'integralismo giudiziario, dell'esondare della magistratura, specie di certe sue avanguardie, dalle dighe che legge e Costituzione le assegnano»; criticava il modello inquisitorio del processo; segnalava la nascita del giudice pedagogo, che vuole redimere il prossimo. Corrado Carnevale, presidente della Prima sezione penale della Cassazione dal 1985, è noto come l'ammazzasentenze, nomignolo affibbiatogli da una campagna stampa denigratoria iniziata dopo l'annullamento dell'ergastolo ai mandanti dell'omicidio di Rocco Chinnici. La corporazione non si levò certo in sua difesa (lo fece Pannella). Più volte finito sotto processo, sempre assolto, Carnevale illustra cos'è «l'astratto formalismo» che gli veniva imputato: osservanza scrupolosa della legge scritta. «Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss'anche per intenti nobili, mette lo Stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali». Carnevale rifiuta l'appellativo di garantista: «E nel fare giustizia il garantismo che c'entra? Non esiste per il giudice qualcosa di diverso dall'applicazione corretta, intelligente della legge». Giuseppe Di Federico ha fondato il Centro studi sull'ordinamento giudiziario dell'università di Bologna. È lui a sollevare un altro insieme di questioni: la separazione delle carriere, l'assenza di un valido sistema di valutazione dell'operato dei giudici, il tabù dell'obbligatorietà dell'azione penale. Questi sono i limiti non solo, per così dire, ideologici del sistema ma anche gli ostacoli all'efficienza della macchina. Se vi sembra che queste idee siano moneta corrente nel nostro Paese «garantista»...

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

Come è possibile che i giovani siano attratti dal pensiero giustizialista? Cronaca della presentazione del libro “Non giudicate” di Guido Vitiello su “Zenit”. L’opera, con la prefazione di Giuliano Ferrara, raccoglie le voci di alcuni “veterani del garantismo” italiano, scrive Antonio D’Angiò.  Sabato 27 ottobre 2012 è stato presentato alla Camera dei deputati, in occasione della quarta edizione delle “Giornate del libro politico a Montecitorio”, il “libretto” (così definito dallo stesso autore) di Guido Vitiello intitolato “Non giudicate” edito da liberilibri. Vitiello, nato trentasette anni fa a Napoli, è docente all’Università di Roma La Sapienza e collabora, tra gli altri, con il “Corriere della Sera” e “Il Foglio”. Per una fortuita coincidenza temporale, all’interno dell’opera è raccontato quanto avvenuto precisamente dieci anni fa, cioè il 30 ottobre 2002, quando il Presidente di Cassazione Corrado Carnevale è stato assolto, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (accusato di aver “aggiustato” alcuni processi di mafia e da alcuni pentiti di essere un referente dei boss) dopo circa un decennio di vicende processuali. Iniziamo da questa “ricorrenza temporale” per parlare del libro di Guido Vitiello, perché Corrado Carnevale, con Mauro Mellini, Domenico Marafioti e Giuseppe Di Federico è uno dei quattro veterani (tutti ultraottantenni all’epoca dell’intervista e, peraltro, tutti meridionali) che l’autore  ha incontrato per discutere del garantismo in Italia e successivamente dare vita a questa pubblicazione. Ma soprattutto perché Carnevale è l’unico dei quattro che oltre a discutere, descrivere, documentare, applicare i temi e i commi della legislazione, è stato sia giudice che imputato e come recita la terza di copertina, è stato “esemplare garante del giusto processo, per questo ha subìto una persecuzione mediatico-giudiziaria, uscendone vittorioso”. Una serata (nell’affollata sala Aldo Moro del Parlamento) dove le riflessioni di giovani come Guido Vitiello e Serena Sileoni (Direttore Editoriale di liberilibri, coordinatrice dell’evento) si sono ben integrate nei toni e nei contenuti con quelle di tre maestri del giornalismo italiano: Pierluigi Battista, Massimo Bordin e Giuliano Ferrara, quest’ultimo autore della introduzione all’opera. Scrivendo e parlando della giustizia, non poteva non essere posta in relazione la giustizia degli uomini con quella di Dio (o amministrata per conto di Dio), in particolare nelle assonanze con alcune ritualità tra inaugurazione degli anni giudiziari e i “riti basilicali”; in alcune forme sceniche dei processi che ricordano in Italia più i tribunali dell’inquisizione in confronto con quelle della legge britannica (dove l’imputato è al centro e in alto rispetto alla corte giudicante); nonché con quel “non giudicate” che fa proprio uno dei passaggi del discorso della Montagna di Gesù Cristo o, infine, nel riferimento a Ponzio Pilato o al bacio di Giuda. Così come è stata più volte ripresa, per i cultori del diritto, la conseguenza che comporta sui processi la combinazione, tipicamente italiana, tra l’obbligatorietà dell’azione penale, la carcerazione preventiva, la limitata responsabilità civile dei magistrati e l’assenza della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Oppure, per gli appassionati di vicende processuali, i racconti su alcuni processi, come quelli nei confronti di Enzo Tortora o di Scattone e Ferraro (questi ultimi accusati dell’omicidio della studentessa Marta Russo) che fanno emergere quanto, questi processi, abbiano rappresentato un’occasione mancata per una più ampia riflessione sul sistema giudiziario, prima che il termine garantismo fosse abbandonato da chi lo aveva nel suo patrimonio culturale e politico e fosse acquisito (l’autore dice “sputtanato”) da neofiti in virtù di un’interpretazione forzatamente privata, “ad personam”, di questioni comunque universali. Infine, i riferimenti letterari a Sciascia, Borges, Kafka, Pasolini, Dostoevskij, Gide, Anatole France, Gadda, Dante Trosi, rappresentano un vero e proprio elenco di consigli per la costruzione di una biblioteca del garantismo nella quale cercare le motivazioni più profonde sull’essenza del giudicare. L’avvocato e politico radicale (e anticlericale) Mellini, lo scrittore e avvocato Marafioti (di formazione repubblicana, deceduto pochi mesi dopo l’intervista), il professore di diritto Di Federico, il cattolico magistrato di Cassazione  Carnevale, aiutati dalla prefazione di Giuliano Ferrara, tendono a spiegare quello che Vitiello rende immediatamente percepibile con una domanda. Come è stato possibile che i giovani, gli studenti (che peraltro lui incontra nelle aule universitarie) siano stati attratti dal pensiero giustizialista con quell’incarognimento che li ha portati a parlare di legalità, manette, intercettazioni con sillogismi feroci? E allora, per chiudere, pensiamo che le parole finali della conversazione con Corrado Carnevale in un certo qual modo possano spiegare il senso più profondo del libro e lasciare a credenti e non credenti il cercare di comprendere se e quanto ampio, in tema di giustizia, sia oggi la distanza tra cultura radicale, liberale e cristiana, per provare a indicare una nuova direzione alle giovani generazioni. “Ecco, ho sempre cercato di giudicare il mio simile nel modo più umano possibile, senza eccessi di moralismo. Non mi sono sentito diverso e migliore anche dal peggior delinquente che talvolta mi è capitato di dover giudicare.” Suona come una variante del precetto evangelico che abbiamo scelto come titolo per questo libro, “Non giudicate”, nel quale Sciascia credeva dovesse radicarsi la missione stessa del giudice. Qualcosa di non troppo diverso intende Carnevale: “Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, e aveva ragione. Il Cristianesimo ha degli aspetti che non dovrebbero essere trascurati. Io sono credente. Ma grazie al cielo il Cristianesimo non è una corrente associativa.”

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna. Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina. Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

Manette facili e ideologia. Che processi tragicomici.

Oltre quarant'anni fa, le commedie all'italiana avevano colto le degenerazioni del sistema giudiziario. Quasi nulla è cambiato, scrive Claudio Siniscalchi su “Il Giornale”. L'editoria cinematografica italiana è stata dissanguata prima dagli ideologi di sinistra, poi dal dominio della scrittura oscura di semiologi e psicoanalisti, o presunti tali. Ormai trattasi di un corpo tenuto in vita da una macchina artificiale. Ci vorrebbe, per rianimarlo, un miracolo. O, almeno, un po' di sangue fresco. Buona linfa scorre all'interno di una linea di ricerca sul cinema italiano avviata dall'editore calabrese Rubbettino, guidata dal giovane universitario Christian Uva, all'insegna di una complementarità: cinema e storia. L'ultimo tassello è In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello. Il volume, raccolta di molti saggi, suscita alcune considerazioni. Dagli anni Trenta del secolo passato ad oggi, cioè dal fascismo alla democrazia, la commedia è stata il genere principe del cinema italiano. Nel Ventennio la macchina da presa s'è tenuta alla larga dai tribunali. Nel dopoguerra invece ci si è buttata per cogliere il tratto comico della giustizia. L'immenso Vittorio De Sica con la toga da avvocato (versione aggiornata dell'azzeccagarbugli manzoniano), folti capelli candidi, gesti da mattatore, eloquio da senatore (del Regno non della Repubblica), ridicolizzato dalla perdita della memoria. Totò e Peppino, grandissimi falsi testimoni. L'Albertone nazionale alla sbarra imputato di essersi bagnato nella marana senza vestiti. Il giudice Adolfo Celi che non ammette repliche alla sua autorità e competenza equestre. Insomma, in aula si ride. Pensate ora all'americano Codice d'onore (1992) di Rob Reiner. Il giovane Tom Cruise in doppiopetto blu con bottoni d'oro, avvocato della marina, assistito da Demi Moore, impegnato ad incastrare davanti alla corte marziale un mastino gallonato del corpo dei marine, Jack Nicholson. Non è uno scontro generazionale, di temperamenti, ma di visioni del mondo. Persino di attori. Il processo qui è anche spettacolo. Un grandioso spettacolo. Serissimo. Certo l'impianto giuridico americano rispetto a quello italiano agevola la drammatizzazione cinematografica. Per questo il cinema hollywoodiano ha un genere specifico dedicato ai tribunali, il courtroom drama o legal film. La commedia all'italiana, però, non è stata soltanto un contenitore di risate. Ha saputo anche cogliere e indicare questioni cruciali. Ad esempio la denuncia dell'arbitrarietà della carcerazione preventiva. L'odissea giudiziaria (e carceraria) che tocca ad Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy è un capolavoro dal sorriso amaro. Lo stritolamento dello sfortunato e innocente geometra mette a nudo l'arretratezza del sistema giudiziario e carcerario italiano. Siamo all'inizio degli anni Settanta, e sembra la storia di oggi. E come dimenticare l'istantanea sull'ideologizzazione progressista della magistratura scattata da Dino Risi nel suo In nome del popolo italiano (1971)? Il giudice Ugo Tognazzi non riesce a contenere l'odio di classe nei confronti dell'imprenditore di successo Vittorio Gassman. Quest'ultimo incarna il male del capitalismo italiano del boom economico: corrotto e corruttore. Quindi va eliminato, anche bruciando le prove della sua innocenza. La condanna non deve essere giudiziaria ma ideologica e morale. Infatti il procuratore, che mostra con disinvoltura una copia dell'Unità, non ce l'ha solo con i ricchi. Vorrebbe chiudere in cella anche capelloni, maoisti, anarchici, obiettori di coscienza, giovani scansafatiche. Da un figlio dei fiori redarguito si becca un insulto e l'accusa di essere fascista. Del resto nello stesso periodo la magistratura viene raffigurata come il braccio armato del potere (spesso occulto, antidemocratico, fascistoide), sia nel genere popolare «poliziottesco», sia nel filone di «ricerca impegnata», da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1976) di Elio Petri a Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi. Il cinema italiano si suicida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Nelle macerie dell'ultimo trentennio si salva poco o niente. L'inchiesta Mani pulite poteva diventare un serbatoio infinito di sceneggiature ma la poltrona della sala cinematografica è stata sostituita dal divano di casa. La magistratura saliva al cielo grazie al piccolo schermo. La grande popolarità di Antonio Di Pietro, il più teatrale dei magistrati, comincia con la televisione. E con la televisione si chiude. Non regge all'urto della cannonata sparatagli da Milena Gabanelli. Col tubo catodico era schizzato tra le stelle. Col plasma è tornato sulla terra.

Vi ricordate di Antonio Esposito, uno dei giudici della Corte di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi per il processo “Mediaset”? «Chist'è na stupotaggine». Ormai la battuta gira irrefrenabile. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha dato mandato all'ispettorato del ministero per approfondire la vicenda relativa all'intervista del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che ha emesso la sentenza Mediaset, e ha nominato come consulente Felice Caccamo, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”.  Il direttore e fondatore del giornale 'O Vicolo è l'unico in grado di interpretare lo spirito di quella famosa intervista passata alla storia come «Vabbuò, chill' nun poteva nun sapere». Quando si ascolta la registrazione della telefonata del presidente Esposito al giornalista del Mattino viene spontaneo immaginarselo nelle vesti di Felice Caccamo: giacca azzurra, cravatta con nodo esagerato, gli occhiali dalle lenti spesse e il Vesuvio sullo sfondo: «Tengo 'o mare n' fronte, 'o cielo n' ccoppa». Il tormentone su Caccamo (forse il più riuscito personaggio di Teo Teocoli) è partito da un articolo di Annalisa Chirico su Panorama.it e ha fatto in fretta a diffondersi, come succede a quelle battute che diventano subito una spia di consenso. Persino la senatrice Alessandra Mussolini si è esibita in un'imitazione della telefonata. Certo, tra un esimio presidente della Corte di Cassazione e un giornalista, un po' cialtrone, intento più alle sue singolari abitudini alimentari ('o struzzo di mare oppure 'a frittura globale), che a scovare notizie, la differenza è abissale. Ma sono bastati una telefonata in dialetto («Tiziu, Caiu e Semproniu an tit che te l'hanno riferito. E allora è nu pocu divers»), un momento di eccesso di confidenza, uno stato di rilassamento familiare per avvicinarli in maniera incredibile. Caccamo vive con la moglie Innominata (che prende puntualmente a «mazzate in faccia») e i figli Tancredi, Boranga e Ielpo. I suoi inseparabili amici sono Pesaola, Bruscolotti e l'ex presidente del Napoli Ferlaino, suo vicino di casa. Ormai è una maschera napoletana, come Pulcinella, Tartaglia (il vecchio cancelliere balbuziente, astuto e pedante, dai grossi occhiali verdi), 'O Pazzariello («Attenzione... battaglione... è asciuto pazzo 'o padrone...»).  Caccamo sa bene che i magistrati parlano attraverso le sentenze, ma sa anche che qualche volta parlano al telefono.

Certo non era una verginella riguardo ai suoi trascorsi. I guai disciplinari di Esposito: già due processi davanti al Csm.Il magistrato è stato imputato a fine anni '90 per "protagonismo", minacce a un cancelliere e per il doppio lavoro all'Ispi. Ma si è salvato, scrive Emanuela Fontana  su “Il Giornale”. Non è la prima volta che il Consiglio superiore della magistratura deve occuparsi del caso Esposito. Il giudice della Cassazione che ha presieduto il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi, e che in un'intervista bomba al Mattino ha spiegato le ragioni della sentenza prima che ne siano state depositate le motivazioni, era stato interrogato per ben due volte in qualità di «imputato» in altrettanti procedimenti disciplinari a suo carico. Vicende finite con l'assoluzione, ma che hanno visto comunque il magistrato ora nell'occhio del ciclone nella scomoda posizione di difendersi di fronte all'organo di controllo delle toghe. In uno dei due procedimenti, ricorda adesso con Il Giornale uno dei membri della sezione che si era occupata di questo caso, la posizione del giudice fu «in bilico e la sentenza molto combattuta». Le accuse si chiusero comunque, va ribadito, con un nulla di fatto. Furono rivolte tutte a Esposito alla fine degli anni 90, quando era pretore a Sala Consilina, e riguardavano una serie di questioni, da un incarico extra-lavorativo del magistrato, con un presunto utilizzo improprio degli uffici giudiziari, a una presunta minaccia nei confronti di un cancelliere, passando per accuse di «protagonismo». Le tracce di questo percorso che si è incrociato più volte con il giudizio del Csm sono ora decriptabili grazie alla raccolta di file audio e video di Radio Radicale. Il 18 settembre del '98, dunque, Antonio Esposito viene ascoltato in qualità di imputato al Csm per rispondere di tre questioni. Il segretario magistrato lo accusava di aver «gravemente mancato ai propri doveri rendendosi immeritevole della fiducia di cui il magistrato dovrebbe godere». Prima di tutto perché in qualità di consigliere pretore dirigente della pretura circondariale di Sala Consilina aveva celebrato nel '91 un procedimento penale contro Maria Pia Moro per interruzione di pubblico servizio «senza che tale procedimento fosse compreso tra quelli a lui assegnabili». I colleghi lo accusavano del desiderio di «coltivare la propria immagine» attraverso un processo celebre che avrebbe attirato «gli organi di informazione». Nella relazione si parla anche di «spirito di protagonismo» («Non protagonismo, ma assunzione di responsabilità», era stata la replica di Esposito). La seconda accusa riguardava la concessione a «un messo comunale di frequentare gli uffici della sede distaccata di Sapri», e di avere le chiavi di ingresso come «uomo di fiducia» di Esposito, per il quale effettuava «vari servizi», come il «trasporto suo e dei familiari», consegna di spese e recapito della corrispondenza. La terza accusa era la meno facile da controbattere: il Csm chiedeva conto a Esposito della sua attività e del suo ruolo «di estremo rilievo» divenendo il «gestore di fatto», dell'Istituto superiore di studi socio-pedagogici di Sapri. Il «dottor Esposito», proseguiva il segretario magistrato, era stato autorizzato a «svolgere un incarico gratuito» di docente in materie giuridico che invece «veniva retribuito». Non solo: «Utilizzava il personale della sezione distaccata di Sapri per la battitura di tesi attinenti al corso». Il capitano della compagnia dei carabinieri di Sapri, Ferdinando Fedi, testimoniò al Csm che «il dottor Esposito era quasi sempre reperibile presso la sede dell'Ispi». Altro appunto: Esposito era intervenuto varie volte sulle tv locali «per reclamizzare l'istituto di cui fino a poco tempo addietro era presidente sua moglie». Dell'altro procedimento disciplinare il Csm si è occupato nel 99. In questo caso Esposito era stato accusato dai collaboratori di Sala Consilina di aver pronunciato nel 94 «espressioni minacciose». Questa la frase oggetto del processo: «Se mi va bene una certa cosa vi devo spezzare le gambe a tutti quanti» all'indirizzo di un cancelliere. Parlando così, Esposito «violava i doveri professionali di correttezza e di rispetto». Il processo era partito dopo gli accertamenti del presidente del tribunale di Sala Consilina.

La rete di affari di Esposito: ecco perché fu trasferito. Il Csm lo spostò: "Con la sua scuola guadagna centinaia di milioni che gli  permettono di avere una Jaguar, una villa a Roma e un motoscafo". Nelle carte i favori ricevuti. E spuntano una Mercedes gratis e le cene a sbafo, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Tutta colpa di una scuola e di affari milionari. A far traslocare da Sala Consilina Antonio Esposito, dopo un quarto di secolo nel quale il magistrato era rimasto affezionatissimo a questa piccola perla del Tirreno, è stato il plenum del Csm, il 7 aprile del 1994. In poco meno di cinque ore, l'organo di autogoverno della magistratura votò a maggioranza la proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale. Le 32 pagine di verbale di quella seduta raccontano il dibattito serrato dei consiglieri che dovevano decidere del suo futuro. Forse con una certa apprensione, visto che in apertura venne ricordata l'ispezione ministeriale condotta da Vincenzo Maimone, con lo 007 portato in tribunale da Esposito e «prima condannato per calunnia e poi assolto in appello», a maggio del 1992, perché il fatto non costituiva reato. Così il consigliere togato Gianfranco Viglietta rilevò «come il dottor Esposito si rivolga in modo pesantemente critico nei confronti di tutti coloro i quali esprimano riserve sul suo operato», osservando che «ciò è certamente indice di non particolare equilibrio». Una sindrome del complotto, insomma. Che toccava anche uno dei presenti nel plenum, Alfonso Amatucci, il quale infatti mise a verbale di essere «a giudizio di Esposito (...) una sorta di quinta colonna di quel complotto presso il Csm». Ruolo che Amatucci, va da sé, negò con forza. Spiegando di aver appreso frequentando Sapri dei «molti giudizi negativi» sul giudice, ai quali non aveva dato peso. A far cambiare approccio ad Amatucci era stato un primo episodio «significativo», quando «dopo aver cenato in un ristorante», a Sapri, il consigliere «ricevette i complimenti del ristoratore per il fatto che egli, a differenza di altri magistrati del luogo, era intenzionato a pagare il conto». «Da quel momento» Amatucci «prese a considerare con maggior attenzione le voci sul conto di Esposito». Lo stesso consigliere rivelò anche un'altra «vicenda emblematica: sarebbe stata portata, per conto della ditta Palumbo (un costruttore attivo all'epoca nell'area del golfo di Policastro, ndr), una vettura Mercedes di colore beige, gli pare di ricordare a benzina, acquistata» da un direttore romano di banca «con chiavi nel cruscotto, sotto l'abitazione del dottor Esposito». Ancora Amatucci rispolverò la fresca assoluzione dell'avvocato Francesco Vallone (che aveva dato il via con un esposto al procedimento disciplinare contro Esposito) nel processo per calunnia e falsa testimonianza intentato contro di lui proprio dall'ex pretore, e Vallone aveva parlato proprio di presunti favoritismi della pretura di Sapri nei confronti del costruttore che avrebbe «recapitato» la lussuosa berlina tedesca. Il plenum sostenne che Amatucci, che aveva parlato di episodi non presenti negli atti dell'istruttoria, avrebbe dovuto «comunicare per tempo elementi così gravi e rilevanti». Alcuni consiglieri cominciarono a valutare l'ipotesi di un rinvio della pratica in commissione, altri, come Laudi, consideravano invece «paradossale rinviare la decisione in ragione del fatto che sono stati presentati elementi aggravanti». Si decise di votare per il rinvio, ma la proposta venne respinta. Il coinvolgimento di Esposito nella «scuola» di famiglia, l'Ispi, ebbe un forte peso nella decisione, e il relatore spiegò che quell'elemento, insieme alla presenza «ultraventennale», avevano «accresciuto il potere» di Esposito, dando luogo «qualcosa di diverso e incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Anche perché il contributo che il pretore dava alla scuola non era solo per passione. Ecco cosa scrivono i consiglieri del Csm quando definiscono il trasferimento. Sulla scuola di formazione si soffermano a lungo, e un po' si stupiscono davanti al tenore di vita del magistrato, «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo». Avallano così «l'ipotesi che l'Ispi abbia consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Insomma, toglierlo da Sapri è un gesto «di buon governo». Al voto, 14 consiglieri sono per il trasferimento, 11 votano contro, 4 si astengono. Non è finita. Esposito a gennaio '97 cita in giudizio davanti al Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento danni per 4 miliardi di lire, due componenti del Csm - Amatucci e il relatore, Franco Coccia - insieme all'avvocato Vallone e a Ermanno Marino, «reo» d'aver raccontato ad Amatucci di aver guidato la famosa Mercedes. Ma il tribunale di Roma respinse la sua richiesta. Far pagare i consiglieri per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni era davvero troppo.

E il giudice querela il Giornale ma non chiarisce il caso Ispi. Esposito si fa scudo dell'associazione Caponnetto e denuncia Il Giornale per lo scoop sul doppio lavoro. Il colloquio col Mattino è lungo 40 minuti: al Csm l'audio integrale, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il giudice Antonio Esposito si sente diffamato. Quello che ancora non conosciamo è invece l'umore del dottor Antonio Esposito, il tuttofare della scuola Ispi, quello che mette il suo numero di telefono tra i contatti per chi vuole fare master o esami nella sede locale dell'università telematica. Non si sa, insomma, cosa pensano l'uno dell'altro. L'unica cosa certa è che sono la stessa persona e di fatto il giudice fa un doppio lavoro. La domanda allora è: si può fare? Esposito promette querela. L'annuncio non lo fa di persona, ma si nasconde dietro l'associazione Antonino Caponnetto di cui è presidente onorario (e che sulla pagina Facebook «si stringe intorno al suo presidente e ai suoi familiari vittime di una campagna vergognosa e diffamatoria dopo la sentenza di condanna emessa a carico di Berlusconi»). In pratica tira in ballo una colonna della lotta alla mafia per ribadire quello che il Giornale in realtà non ha mai nascosto, e cioè che la sezione disciplinare del Csm lo ha sempre ritenuto estraneo a tutte le accuse. O meglio, a quasi tutte, visto che il 7 aprile del '94 il plenum del Csm approvava a maggioranza la proposta di trasferimento d'ufficio dell'allora pretore di Sala Consilina, che venne destinato alla Corte d'Appello di Napoli nonostante lui avesse fatto presente che l'adozione del provvedimento gli avrebbe causato danni incalcolabili, ledendo irreversibilmente il suo onore e il suo prestigio professionale e denunciando che la relativa procedura sarebbe stata condotta con spirito persecutorio e diffamatorio nei suoi confronti, in esecuzione di un disegno comune ai convenuti». I suoi colleghi, insomma, conoscevano l'intreccio di interessi tra il pretore e la vita sociale ed economica di Sapri. E per questo lo hanno trasferito. Nell'ultima seduta del Csm i consiglieri ne hanno parlato a lungo, anche scontrandosi sulle diverse interpretazione di certi episodi. Ma alla fine sono stati d'accordo sul fatto che «la presenza ultraventennale di Esposito nella pretura di Sala Consilina e il suo coinvolgimento nella gestione dell'Ispi hanno determinato una situazione particolare che ha accresciuto il suo potere fino a dar luogo a qualcosa di diverso e di incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Sulla scuola di formazione i consiglieri si soffermano a lungo, ipotizzando che il particolare tenore di vita del magistrato che risultava «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo avallassero l'ipotesi che l'Ispi avesse consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Alla fine è stata proprio la gestione dell'Ispi a determinare il trasferimento. «Dovrebbe essere provato - si legge nel provvedimento - che Esposito svolga attività ulteriori rispetto a quella dell'insegnamento per il quale è stato autorizzato dal Csm». E come emerge dagli accertamenti del capitano dei carabinieri Ferdinando Fedi. «Esposito - scrivono i consiglieri - poteva essere reperito sistematicamente presso i locali della scuola e i collegamenti con l'Ispi venivano tenuti anche in pretura. Pure i carabinieri a volte dovevano attendere perché nello studio del pretore erano a colloquio delle studentesse della scuola stessa». Ora, invece, Antonio Esposito deve chiarire il pasticciaccio della sua intervista al Mattino di Napoli. Qualche domanda se la sta facendo anche il ministro Cancellieri, che ha messo in campo gli ispettori di via Arenula per indagare sulla vicenda. Qualcosa non torna neppure al Csm, dove il presidente della prima commissione Annibale Marini e il vicepresidente Michele Vietti si sono affrettati ad acquisire l'audio integrale del colloquio. Il Mattino ne ha pubblicato on line solo una manciata di minuti. Il resto, quasi 40 minuti, non è irrilevante. Forse il primo a dover pretendere trasparenza è proprio il giudice Esposito. Chieda al suo amico giornalista di farci ascoltare tutto.

Il buonsenso vorrebbe che le dichiarazioni di Esposito fossero considerate gravi. Invece non è così, anche se danno a Berlusconi un ottimo alibi per fare ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, scrive Alessandro Tantussi su “Imola Oggi”. Gli “ermellini” sono basiti: ora si aprono nuovi scenari. Ubi maior minor cessat, però mi vanto di averlo detto prima. La gravità della sortita del magistrato non può e non deve sfuggire alla gente di buon senso, anche a chi non mastica tutti i giorni diritto. Esposito ha smentito di aver pronunciato quelle frasi, ma il sonoro dell’intervista registrata lo inchioda alle sue responsabilità. Il direttore del quotidiano napoletano lo ha ribadito: il magistrato voleva proprio dire quello, ha anticipato ad un organo d’informazione le motivazioni della sentenza, non ancora rese note per le vie ufficiali. Alla faccia della terzietà, della sobrietà, dello stile di vita specchiato e della limpidezza operativa che dovrebbe contraddistinguere chi fa la professione di Esposito. Si è verificato l’ennesimo cortocircuito tra settori politicizzati della magistratura e alcuni media che puntano ad esasperare il conflitto tra poteri. In Cassazione tutti sono basiti. Con le sue dichiarazioni, che di fatto anticipano i contenuti di una sentenza impostata sul principio che Berlusconi “sapeva” della frode fiscale, Esposito apre inevitabilmente (e inconsapevolmente) nuovi scenari. Quelle parole, seppure ritrattate dal diretto interessato inchiodato dal sonoro della registrazione che quindi si è beccato del bugiardo a ragione veduta, sono un assist sia per la difesa, che ora avrà ulteriori motivi per tentare la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

E anche Wanna Marchi fa ricorso a Strasburgo.

Il magistrato svelò la condanna prima della sentenza. La difesa: "Diritti violati", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. L'intervista show di Antonio Esposito invade ancora giornali e tv come un'onda anomala. E lui, il giudice del Cavaliere, si ritrova sempre più al centro dell'attenzione. Ora, e pare incredibile, anche Wanna Marchi, l'urlatrice di Castel Guelfo, ha deciso di portare Esposito, o meglio la claudicante giustizia italiana, a Strasburgo, davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Il motivo è molto semplice: anche la Marchi ha letto sul Giornale il documentatissimo articolo firmato da Stefano Lorenzetto, giornalista e scrittore con un passato nella redazione di via Negri. Ricordate? In quel pezzo Lorenzetto rievocava una cena avvenuta a Verona, in occasione della consegna del premio «Fair play», il 2 marzo 2009. Nel corso della festa Lorenzetto aveva conosciuto proprio lui, Antonio Esposito. E il magistrato, fra una portata e un brindisi, l'aveva deliziato descrivendo le presunte performance a luci rosse del Cavaliere, lo stesso Cavaliere che Esposito ha condannato la scorsa settimana con sentenza definitiva. Non solo: già che c'era, gli aveva preannunciato un altro verdetto importante: quello che di lì a un paio di giorni avrebbe travolto proprio Wanna Marchi, la regina delle teletruffatrici, e la figlia Stefania. Affondate, rispettivamente con 9 anni e 6 mesi e 9 anni e 4 mesi di carcere. Quella sera, a sentire Lorenzetto, Esposito era stato perentorio: la Marchi che gli stava, per usare un eufemismo, antipatica, era colpevole. Senza se e senza ma. E puntualmente di lì a poche ore arrivò la condanna, irrevocabile, come si dice in questi casi, per madre e figlia. Giù il sipario, dunque. Le Marchi erano scomparse dai nostri radar. Peccato che le sentenze non possano però essere anticipate, così come non si dovevano bruciare sul tempo le motivazioni del processo Mediaset che il relatore deve ancora vergare. Ma Esposito corre in avanti. Troppo. Con Silvio Berlusconi e con Wanna Marchi, senza aspettare quel momento burocratico e noioso, ravvivato da chissà quali sbadigli, chiamato camera di consiglio. Così le Marchi, dopo aver digerito la clamorosa sorpresa, hanno deciso di giocare la carta del ricorso a Strasburgo: se le rivelazioni a posteriori sono esatte, il presidente del collegio non era imparziale. «Attenzione - spiega l'avvocato Liborio Cataliotti - Wanna Marchi non intende negare le proprie responsabilità e neppure cerca una qualche scorciatoia rispetto alla pena, in gran parte già scontata, e al successivo percorso di reinserimento nella società insieme alla figlia. Wanna ha avuto prima il lavoro esterno, poi la sospensione della pena; Stefania ha lasciato la cella per motivi di salute ed è detenuta ai domiciliari. Però le Marchi chiedono come tutti che i loro diritti fondamentali siano rispettati». Dunque, a Strasburgo si cercherà di capire se la Suprema corte abbia agito in modo canonico oppure se quelle confidenze spifferate nel bel mezzo di un banchetto conviviale costituiscano una ferita che oggi deve essere sanata. Il viaggio a Strasburgo non sarà una passeggiata: ci vorrà tempo e certo un'eventuale condanna non riabiliterebbe la Marchi, a capo di una vera e propria associazione a delinquere pensata per spolpare migliaia e migliaia di creduloni sparsi su tutto il territorio nazionale, ma sarebbe uno schiaffo per l'alto magistrato e soprattutto per la credibilità della nostra giustizia sulla vetrina internazionale. Cataliotti, l'avvocato di Reggio Emilia che i lettori del Giornale conoscono bene perché a lui è affidata la maxi-causa civile, una sorta di class action, contro Antonio Ingroia, è pronto alla battaglia. E questa volta è lui a suggerire il possibile finale: «Se otterremo un risarcimento i soldi andranno dritti alle parti civili». Sì, alle vittime dei raggiri della teleimbonitrice. Senza trucco e senza inganno.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

"Ad alto rischio" di Mario Mori e Giovanni Fasanella (ed. Mondadori). "Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarantanni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'll settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."

La paradossale condizione di un servitore dello Stato, che è riuscito ad arrestare il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, che alla fine della carriera viene accusato da quello stesso Stato di essere sceso a patti con la mafia. È la storia del generale Mario Mori:

«Non mi arrendo di certo e voglio andare fino in fondo, abbiamo anche rinunciato alla prescrizione  perchè vogliamo essere giudicati e avere giustizia».

Presentando il libro “Ad alto rischio”, scritto a quattro mani con il giornalista Giovanni Fasanella, su "la vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Toto’ Riina" (così recita il sottotitolo), il generale Mario Mori affida a poche parole il capitolo non ancora scritto della sua vita, quello che riguarda la vicenda giudiziaria ancora in corso che lo vede coinvolto.

«Ho scritto questo libro perchè io e il mio ex collaboratore Mauro Bino, imputato con me nel processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, non usciremo mai da questa situazione, in quanto per una parte dell’opinione pubblica rimarremo personaggi ambigui: quindi lo dovevo a lui e a tutte le persone che hanno lavorato e rischiato con me», si limita a dire il generale presentando il volume nella sala del Refettorio di palazzo San Macuto: accanto a lui, oltre al coautore, ci sono giornalisti e politici che ne hanno seguito le gesta: Emanuele Macaluso, Giuliano Ferrara, Marco Minniti, Massimo Bordin, Stefano Folli.

Nel libro si ripercorre la storia del generale dei Carabinieri, tra i fondatori del Ros, dagli inizi al Sid fino ai vertici del Sisde, passando per i nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, la sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, le indagini con Falcone e Borsellino a metà degli anni ’80. Nel libro Mori scrive di non essere amareggiato, perchè «servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati comporta dei rischi” e “si possono pagare dei prezzi anche molto alti. Ci si deve guardare dal nemico e, a volte, a presentarti il conto per i risultati che hai ottenuto sul campo può essere lo stesso Stato al quale hai dedicato una vita».

Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano scrive Stefano Brusadelli su “Il Sole 24ore”. Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal. E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata». Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.

Mario Mori: "Mi hanno assolto ma non mi basta".

Il generale, prosciolto dall'accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano, racconta a Panorama 20 anni di persecuzione giudiziaria. Appena il tempo per una breve vacanza in montagna, ed eccolo di nuovo a Roma, a prepararsi per la «campagna d’autunno», quando a Palermo inizierà il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Cosa nostra. Ma è sereno, Mario Mori, generale dei carabinieri ed ex direttore del servizio segreto civile. Dopo aver già vinto una battaglia contro la Procura di Palermo nel 2006, alla fine del luglio scorso ha incassato una seconda assoluzione, insieme al colonnello Mauro Obinu. Se arriverà anche la terza, ovviamente nessuno può dirlo. Di sicuro, il fondatore del Ros, il Raggruppamento operativo speciale che è stato strumento d’eccellenza nella lotta alla mafia, da anni costretto a difendersi nelle aule di tribunale, è pronto a combattere. Intanto, eccolo nel suo nuovo ufficio con il cronista di Panorama, il giornale cui rilascia la sua unica intervista.

Generale, è ovvio che se lo augurasse. Ma, sinceramente, avrebbe scommesso su questa sentenza?

«Non avevo dubbi che sarebbe finita così, anche se in un processo di mafia c’è sempre un condizionamento ambientale che può indirizzare persino il giudice più corretto e asettico. Dopo più di cento udienze, è emersa tutta l’inconsistenza delle argomentazioni dell’accusa: sì, prevedevo l’assoluzione, ma non la formula».

È la migliore che lei potesse sperare?

«Attendo il deposito della motivazione per capire come i giudici sono arrivati alla sentenza».

Non è comunque privo di significato il fatto che il tribunale abbia disposto l’invio alla procura delle testimonianze dei suoi accusatori, Massimo Ciancimino e Michele Riccio.

«Certo, significa non solo che non li ha ritenuti attendibili, ma vuole che la procura valuti se ci sono anche gli estremi per un procedimento per calunnia nei loro confronti. Comunque, Mauro Obinu e io abbiamo già denunciato Michele Riccio per calunnia».

Tre lustri vissuti sotto tortura giudiziaria: ora come si sente?

«Sotto tortura, sì, è proprio il caso di dirlo. Il mio calvario giudiziario è iniziato formalmente nel 2006. Ma in realtà ero finito sotto tiro già nel 1994, un anno dopo la cattura di Totò Riina. Da allora, sono diventato mio malgrado un personaggio pubblico, criticato, meglio sarebbe dire bombardato, da una certa area ideologica. Siamo nel 2013, l’anno prossimo sarà il ventennale. Sarebbe una bugia se dicessi che non sono provato da questa esperienza. Ma, per carattere, non la do vinta a nessuno. Per assurdo direi che, se questa storia finisse, non saprei più che fare, talmente mi sono immedesimato nella parte. Una battaglia che Obinu e io abbiamo combattuto a viso aperto. Abbiamo rinunciato alla prescrizione, uno dei pochissimi casi nella storia giudiziaria italiana, probabilmente. Ma era doveroso farlo, per imputati di reati connessi all’esercizio della propria professione. Osservo a riguardo che anche questa correttezza istituzionale non ci è stata riconosciuta dai nostri detrattori».

Come ha cambiato la sua vita, questa battaglia?

«Dal punto di vista professionale non ha inciso granché: ero ormai a fine carriera. Quando cominciò il primo processo, nel 2006, avevo praticamente ultimato il mio incarico alla direzione del Sisde, l’allora servizio segreto civile. Sul piano personale mi ha aiutato invece la solidarietà che ho sentito intorno a me. Certo il limo mediatico, con il mio nome dato continuamente in pasto all’opinione pubblica senza la possibilità di poter replicare, ha pesato molto…»

E sul piano familiare?

«In famiglia ovviamente mi hanno sostenuto, mi sono stati tutti vicini».

E nel suo ambiente professionale, nell’Arma cui lei è molto legato, lei ha pagato qualche prezzo?

«Ho avuto la solidarietà ravvicinata di tanti colleghi e dipendenti che non mi hanno mai fatto mancare anche il loro contributo di idee alla mia difesa». 

Colleghi e dipendenti dell’Arma... E i vertici?

«Hanno assunto una posizione di prudente attesa. Che cosa vuole? Le istituzioni in quanto tali sono sempre un po’ «matrigne» nei confronti dei loro figli che incappano in qualche incidente di percorso».

Perché?

«Difesa dell’ufficio, della funzione. Ma lo capisco. Sono stato a capo di un'istituzione e in talune circostanze mi sono comportato in modo analogo».

Dopo la sua assoluzione, è cambiato l’atteggiamento?

«Non saprei… Sono una persona piuttosto spigolosa. Molti probabilmente hanno paura di telefonarmi perché sanno che li manderei a quel paese».

Ma c’è mai stato qualche momento in cui lei si è sentito completamente solo?

«Il rapporto tra la mia posizione e il mondo esterno è sempre stato molto lineare. C’erano i favorevoli e i contrari, come sempre avviene in Italia, il Paese delle tifoserie. Quello che però mi ha offeso profondamente è stato il pregiudizio. Gran parte dell’opinione a me contraria lo era in modo acritico: quanto fango lanciato senza conoscere i fatti!»

Ne è sorpreso?

«È stata una scoperta, sì. Mi ha profondamente offeso in particolare l’atteggiamento della stampa e della politica».

La stampa?

«La stampa, certo. Non ha seguito correttamente il processo, tranne rare eccezioni. I grandi quotidiani non inviavano quasi mai i loro cronisti. Ai dibattimenti c’erano costantemente solo i giornalisti delle agenzie. Poi, però, l’indomani leggevi resoconti molto dettagliati, soprattutto quando l’udienza sembrava più favorevole all’accusa. La gran parte dei giornali ha sposato acriticamente le tesi dell’accusa, senza quasi mai riportare quelle della difesa».

E la politica?

«Mi hanno offeso le posizioni assunte da persone che stimo e da cui non me lo sarei mai aspettato».

Qualche nome… Se la sente di farlo?

«L’onorevole Giuseppe Pisanu, per esempio. E Walter Veltroni. Da loro mi aspettavo giudizi più distaccati e sereni. Pisanu è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia».

Si riferisce alla sua relazione finale, licenziata qualche mese prima della sentenza?

«Non posso accettarla, quella relazione! Ha scaricato su un semplice colonnello dei carabinieri, qual ero io all’epoca dei fatti, tutto il peso di una vicenda che, se fosse stata come da lui descritta, aveva aspetti penalmente rilevanti e non poteva non coinvolgere personalità che stavano più in alto, molto più in alto. Sia politiche che istituzionali».

C’è stato invece qualche gesto che l’ha sorpresa positivamente?

«Le telefonate di molti magistrati dopo la sentenza di assoluzione. Ma non le farò i nomi».

Un’indicazione geografica, almeno?

«Telefonate ricevute da ogni parte, dalla Sicilia alla Lombardia».

Piemonte?

«No, Piemonte no».

Torniamo al processo. Diceva dell’inconsistenza delle ipotesi accusatorie…

«L’accusa non è riuscita a prospettare ipotesi plausibili in relazione ai fatti accertati».

Favoreggiamento per il ritardato o il mancato arresto di Bernardo Provenzano. Di questo lei era accusato.

«Mi sono difeso contestando ogni accusa con i documenti. Solo una persona innocente può portare la propria difesa sui fatti, perché i fatti parlano da soli. Durante il dibattimento ho reso una serie di dichiarazioni spontanee che hanno documentato la mia innocenza». 

Ha capito perché lei e suoi ufficiali del Ros siete da 20 anni sotto attacco giudiziario?

«Considerazioni più ponderate potranno essere fatte solo tra qualche anno, quando certe situazioni si saranno decantate, e la vicenda sarà meno calda e sensibile».

Un’interpretazione, almeno, di quello che è accaduto?

«Questi processi sono conseguenza di una funzione della magistratura che si è enormemente dilatata, perché non è più limitata al campo specifico della attenta applicazione della norma, ma si inserisce nel contesto politico-sociale, spesso condizionandolo».

Secondo lei questa azione della magistratura avviene in buona fede?

«Bisogna riconoscere la buona fede a tutti. Mi correggo: quasi a tutti. E mi fermo qui, per ora».

La sua famosa inchiesta dei primi anni Novanta su mafia e appalti, quella che le aveva affidato Giovanni Falcone, è per caso all'origine delle sue disavventure giudiziarie?

«Diciamo che è stata una discriminante, per un certo tipo di contesto. Il conflitto che si è creato tra il Ros e una parte della magistratura palermitana e il danno che ne è derivato nell’attività investigativa sono stati certamente ben visti da una parte della società siciliana. Mi riferisco a quella zona grigia al confine tra politica, economia e mafia».

Col senno di poi, avrebbe attenuato certe sue posizioni critiche sulla Procura di Palermo?

«Io ho il carattere che ho. E anche certi magistrati hanno il loro caratteraccio. Se ci fossero state meno spigolosità, certe fratture forse si sarebbero sanate. Tuttavia, su un punto insisto: il metodo investigativo che attaccava il potere mafioso attraverso l’ambito economico, cui Falcone e il Ros si ispiravano, è ancora oggi il più efficace nella lotta a Cosa nostra: non ha alternative altrettanto valide».

Le accuse contro di lei si basavano in gran parte sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. A che cosa puntava il figlio di don Vito?

«Voleva salvare il salvabile dei beni di famiglia, sfruttando documenti che gli aveva lasciato il padre adattandoli e interpretandoli a suo modo».

Eppure, Ciancimino jr era stato elevato addirittura a «icona dell’antimafia». Perché?

«Il personaggio è stato sfruttato senza valutarne il reale peso specifico, per pure ragioni strumentali o di cassetta. E lui è riuscito a cogliere gli interessi anche di tipo ideologico di settori dell’informazione, e li ha assecondati. Da un lato passava notizie finalizzate a colpire personalità istituzionali; e dall’altro forniva ai giornalisti argomenti che confermavano certi loro teoremi sul rapporto Stato-mafia. La verità è che Ciancimino jr e i suoi sostenitori si sono usati a vicenda».

L’effetto di quelle campagne, a parte le sue disavventure giudiziarie?

«Si è attenuata l’attività investigativa di uno dei reparti di eccellenza impegnati nella lotta alla mafia, il Ros. Questo è stato il risultato. E qualcuno, in Sicilia, ne è stato molto contento. Non mi riferisco alla magistratura, ovviamente. Ma alla zona grigia di cui ho parlato prima».

Lei è già stato assolto in due processi. Ma ora dovrà affrontarne un terzo, quello sulla trattativa Stato-mafia: peseranno le prime due sentenze, a lei favorevoli?

«Lo capiremo solo quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. Tuttavia, il terzo processo, almeno per il 70 per cento, è stato costruito sulla documentazione del secondo. Io sono ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia e politica nell’ambito della trattativa. E io sono stato assolto per ben due volte dalle accuse rivoltemi».

Restano tuttavia molte ombre su quello che accadde in Italia tra il 1992 e il 1993…

«È ancora troppo presto per dire cose concrete. Di sicuro, nel tempo, c’è stata una lunga correlazione tra la politica siciliana e la criminalità mafiosa, sin dal Risorgimento. Ma non necessariamente erano contatti diretti. C’era, diciamo così, una reciproca conoscenza tra le due parti: una sapeva qual era l’interesse dell’altra, e cercava in qualche modo di assecondarla».

Un rapporto storico, che andò in crisi dopo la fine della Guerra fredda. Ci fu una trattativa per rinegoziarlo?

«Non so se ci fu una trattativa: se ci fu, io non ne sono a conoscenza. Comunque, non credo che, se c’è stata, sia avvenuta intorno al famoso 41 bis (il regime penitenziario per i mafiosi, particolarmente severo): su 324 «ammorbidimenti» del carcere duro, poco più di una ventina riguardavano mafiosi e nessuno era un boss di rango. Se qualcosa è successo, è avvenuto a livelli altissimi».

Generale, mentre si prepara per il terzo processo, lei ora di che cosa si occupa?

«Con alcuni amici abbiamo avviato un’attività di tipo pubblicistico. Abbiamo aperto un portale informatico di geopolitica, economia e sicurezza, Lookout news , rivolto principalmente al campo internazionale. Facciamo analisi di situazioni, prepariamo report su aree di crisi e approfondimenti su temi specifici. Abbiamo già circa 12 mila visitatori che ci seguono costantemente da tutte le parti del mondo. E presto vorremmo realizzare il portale in una o più lingue».

Una volta lei disse: «Non finisce qui». Ha ancora qualche sassolino da togliersi dalle scarpe?

«Ci sto pensando, non è escluso che lo faccia. La vicenda Mori-Obinu è emblematica di un’Italia che non va bene. Per niente!»

ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.

Periodicamente si presentano i referendum sulla Giustizia. Riforme che, per viltà, nessun rappresentante del popolo vuol attuare. Escamotage pilatesche dei radicali appoggiati da chi ha l'interesse temporaneo a strumentalizzare un interesse comune. Ancora non si sa neanche se i Radicali riusciranno a raccogliere le 500mila firme necessarie per poter presentare i loro referendum sulla "Giustizia Giusta", ma nel 2013 già attorno a questi quesiti si sono create polemiche, tutte politiche. E come sempre, quando si parla di giustizia, in mezzo c'è Silvio Berlusconi. I referendum del partito di Marco Pannella ed Emma Bonino hanno iniziato e entrare nel dibattito politico solo dopo che il Cavaliere ha annunciato che il Pdl avrebbe aiutato i Radicali a raccogliere le firme, e dopo che Beppe Grillo ha prima fatto sapere che anche lui li avrebbe appoggiato e poi, dopo una lettera aperta di Di Pietro, ha cambiato idea: il Movimento 5 Stelle non avrebbe aiutato i Radicali.

Ma quali sono i cinque quesiti sulla giustizia?

Partiamo dal più controverso: la separazione delle carriere di pm e magistrati, norma da sempre sognata dal Cavaliere. Il punto è che in Italia esiste la possibilità per il singolo magistrato di passare dalla funzione giudicante a quella requirente. Di passare quindi dal ruolo di "magistrato che combatte il crimine" al ruolo di "giudice imparziale". Per i sostenitori della separazione delle carriere questa situazione ha due difetti: da una parte si critica la possibilità di trasformarsi di colpo da pubblico ministero in giudice, dall'altro si pensa che non ci sia un processo equo in un Tribunale in cui pm e giudici si conoscono da lungo tempo e sono in confidenza. Il problema è che, nel momento in cui ci fosse la separazione delle carriere, il pubblico ministero diventerebbe un avvocato dell'accusa. E quindi, secondo i detrattori, alle dipendenze della polizia e di conseguenza del ministero dell'Interno. Dicendo così addio all'indipendenza della magistratura. È la posizione, per esempio, di Antonio Di Pietro.

Un secondo quesito controverso è quella della responsabilità civile dei magistrati. I Radicali utilizzano come bandiera di questa parte del referendum Enzo Tortora, il presentatore tv vittima di un gravissimo caso di malagiustizia a causa del quale, innocente, passò anni in carcere e morì poco dopo la sentenza che lo assolveva definitivamente. Il quesito quindi ha lo scopo di "rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati". La responsabilità civile del magistrato non è assolutamente sanzionata dal nostro ordinamento, nonostante il referendum del 1987 (dove votò per il Si oltre l’80% degli elettori) e la legge che ne scaturì (l.13 aprile 1988 n. 117) fu semplicemente una legge truffa, che non ha affatto risolto il problema. Anche lo scandalo dei magistrati “fuori ruolo” deve cessare senza starci troppo a pensare: in un paese dove c’è un arretrato mostruoso di processi e dove una sentenza civile ci mette mediamente 8  anni per arrivare in porto, ci permettiamo il lusso di centinaia di magistrati collocati fuori ruolo, perché applicati presso i ministeri o perché eletti in Parlamento o per cento altre strane ragioni. Bisogna stabilire una volta per tutte che i magistrati possono candidarsi solo dopo essersi dimessi dalla magistratura (ed ovviamente non rientrarci dopo). Quanto a quelli applicati presso i ministeri, appare evidente quanto sia inopportuno questo intreccio fra esecutivo e giudiziario, anche sul piano della separazione dei poteri, così spesso invocata a proposito ed a sproposito. Chi è contrario a questa norma sottolinea come in questo modo i magistrati non si sentirebbero più liberi di svolgere la loro azione penale, temendo di dover pagare (in senso lato e in senso letterale) per ogni loro errore.

I restanti tre quesiti hanno meno risvolti problematici. Quello sul "rientro nelle funzioni proprie dei magistrati fuori ruolo" ha l'obiettivo di far tornare al lavoro di magistrato tutti quelli che sono invece dislocati nei vertici della Pubblica Amministrazione. In modo da aiutare a smaltire l'enorme quantità di processi che spesso finisce in prescrizione.

Il quarto riguarda invece l'abuso della custodia cautelare: "Attualmente migliaia di cittadini vengono arrestati, e restano in carcere in attesa di processo per mesi, in condizioni incivili". Si vuole quindi che il carcere preventivo, cioè prima della sentenza di condanna, si applichi solo per reati gravi.

L'ultimo quesito riguarda l'abolizione dell'ergastolo, e va a toccare punti morali e costituzionali. Nella Costituzione Italiana c'è infatti scritto che "la pena deve tendere alla rieducazione del condannato". Cosa impossibile nel momento in cui si condanna qualcuno al "fine pena mai". Di fatto, però, in Italia quasi nessuno è condannato all'ergastolo, perché la legge Gozzini del 1986 permette alla gran parte degli ergastolani di uscire dopo meno di 30 anni. Fa eccezione l'ergastolo "ostativo", che non ammette sconti e viene comminato principalmente a boss mafiosi e criminali efferati. La Corte Costituzionale ha ammesso la costituzionalità anche di questa forma di ergastolo perché la pena viene ridotta a chi collabora con la giustizia.

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, INUTILE E COSTOSA, E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi, alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore insabbiamento.

E' stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani per la violazione alle norme della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ed è stata inoltrata la denuncia presso la Commissione dell’Unione Europea e la petizione presso il Parlamento Europeo per infrazione al Trattato e attivazione presso la Corte di giustizia dell’Unione Europea di condanna dell’Italia per inadempimento.

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.

Bene, signori. La Corte non ha proceduto. D'altronde non si può procedere contro colleghi e parenti.

Silvio Berlusconi annuncia il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo contro l'applicazione della legge Monti-Severino. Ma, come scrive Franco Bechis, su Libero in edicola 28 agosto 2013, con questo ricorso i legali si troveranno di fronte ancora una volta un giudice Esposito.

Andreana Esposito, napoletana, classe 1966, professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli, componente dell’ufficio studi della Corte Costituzionale, e nipote di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Berlusconi, è nell’elenco dei giudici ad hoc italiani applicati per il 2013 proprio alla Corte europea dei diritti umani. Lo è interrottamente dal 2010, quando Gianni Letta (all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si battè come un leone per farle avere questo incarico di consolazione. Lo stesso Letta, che aveva ottimi rapporti con il padre di Andreana, l’ex procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, aveva fatto inserire la giovane giurista (che dal 2004 al 2006 aveva già collaborato con il governo Berlusconi) nella terna di candidati italiani a sostituire a Strasburgo Vladimiro Zagrebelski. La sua nomina sembrava cosa quasi fatta, quando dal Vaticano partì una lettera indirizzata a Letta, al governo e ai membri italiani dell’assemblea del consiglio di Europa, in cui si manifestava forte disappunto per la scelta della Esposito, accusata di avere espresso in alcuni scritti posizioni assai radicali su valori sensibili per la Chiesa (come la bioetica e il diritto di famiglia)". Finì che alla prova del voto dell’assemblea del Consiglio di Europa la professoressa Andreana fu terza su tre, e il giudice italiano eletto (ed attuale vicepresidente della Corte) fu Guido Raimondi. La giovane Esposito fu però subito inserita nella lista dei giudici ad hoc che di tanto in tanto venivano applicati alle cause della Corte, e l’anno successivo divenne pure membro del comitato europeo per la prevenzione della tortura presso il Consiglio di Europa (vi resterà fino al 2015). Andreana dunque a Strasburgo è ormai di casa, e non è fatto improbabile che ancora una volta la vicenda giudiziaria di Berlusconi possa incocciare in un membro della famiglia Esposito. Non cambierà poi tanto, perché anche se dall’Italia ogni anno piovono ricorsi sulla Corte di Strasburgo, la regola costante e che quasi nessuno trovi soddisfazione. E anche nei rarissimi casi in cui questa arrivi, non è che cambi radicalmente la vita dei ricorrenti: basti pensare che il povero Bettino Craxi riuscì ad avere riconosciute le sue ragioni, e la Corte bacchettò l’Italia per non avergli assicurato un giusto processo. In quel caso furono per altro respinti due dei tre motivi di ricorso, e pure la richiesta di un risarcimento danni, perché la Corte stabilì che bastava ed avanzava la soddisfazione morale per l’unica decisione favorevole. Ecco, questo è un punto chiave: la Corte europea dei diritti dell’uomo non ribalta sentenze nazionali, in rarissimi casi stabilisce condanne politiche e morali dello Stato portato in giudizio e qualche risarcimento assai contenuto al ricorrente (nella maggiore parte dei casi inferiore ai 10 mila euro). Ma non accade quasi mai: nel 2012 su 128.100 ricorsi che arrivavano da tutta Europa, hanno trovato parziale soddisfazione solo 1.093 casi. Per l’Italia non sono stati bocciati solo 63 ricorsi, e solo in 36 di questi è stata ravvisata una violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma anche in questi casi si tratta di accoglimenti parziali dei ricorsi, con risarcimenti concessi poco più che simbolici. L’unico sostanzioso (10 milioni di euro più centomila di risarcimento spese) è stato ottenuto dalla società Europa 7 e dall’imprenditore Francescantonio Di Stefano il 7 giugno 2012. Sostanzialmente si trattava di un doppio ricorso proprio contro Berlusconi, nella sua qualità di imprenditore (Europa 7 lamentava di non avere avuto la frequenza tv per colpa di Rete 4) e di presidente del Consiglio. Ma anche quei 10 milioni Di Stefano li ha ottenuti per il rotto della cuffia: la Corte ha respinto quasi tutti i motivi del suo ricorso, dichiarandoli irricevibili, e sull’unico accolto che ha dato origine al risarcimento, i giudici si sono spaccati: 8 favorevoli e 7 contrari, con tanto di pubblicazione in allegato dei motivi di dissenso. Vale la pena di addentrarsi nelle clamorose bocciature della Corte: negli ultimi due anni a parte avere riconosciuto a qualche cittadino risarcimenti di mille o duemila euro a integrazione della legge Pinto per la durata eccessiva dei loro processi, da Strasburgo sono arrivati solo schiaffi in faccia ai poveri ricorrenti italiani. L’unico ad avere messo parzialmente in crisi quei giudici è stato il boss dei boss della mafia, Totò Riina. I giudici europei hanno bocciato infatti quasi integralmente il suo ricorso contro il 41 bis. Però hanno sospeso il giudizio e si sono presi tempo per riflettere se avere messo una telecamera nel wc della cella di Riina per riprendere anche i suoi bisogni, sia compatibile o meno con i diritti umani… 

Sicuramente avrebbe preferito l’anonimato, nel quale ha tentato di rifugiarsi, continua “Libero”. Andreana Esposito, figlia di Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione e nipote di Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi, non ha gradito la rivelazione di Libero sulla sua applicazione nel 2013 come giudice ad hoc alla Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il leader Pdl vorrebbe ricorrere. Così da ieri mattina la giurista ha oscurato tutte le sue foto da lei stessa postate sul social network Google + (anche quella dove indossa una maglietta con la scritta «Beato chi crede nella giustizia, perché verrà giustiziato») e allo stesso tempo ha oscurato e protetto anche tutti i tweet visibili a chiunque fino alla sera precedente. Non che ci fosse molto da nascondere: la professoressa Andreana (è professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli) aveva cinguettato in tutto 150 volte, in gran parte per rilanciare video musicali o articoli del Fatto quotidiano. Da quelli si capisce che ama in particolare modo la cantante Malika Ayane (e le è piaciuta molto la canzone presentata all’ultimo festival di Sanremo , «E se poi»). La Esposito ha 18 seguaci e a sua volta segue 78 altri profili su Twitter. L’unico personaggio noto con cui ha vicendevole corrispondenza (si seguono a vicenda e quindi possono cinguettare in privato) è il leader di Sel, Nichi Vendola. Non risultano però loro discussioni nella bacheca pubblica, dove nelle ultime settimane ha naturalmente tenuto banco la vicenda del giudice Esposito. I commenti - tutti a difesa del magistrato - erano però quasi tutti di amici che frequentavano la bacheca. Lei si è limitata a diffondere un comunicato stampa dello zio sull’intervista al Mattino e una striscia satirica sulla famiglia Esposito pubblicata dal Fatto quotidiano.

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Qualcun altro, un po' più cattivello, una famiglia 'barzelletta'. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoldì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, da poco ex (è appena andato in pensione) procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio fede. Una famiglia, gli Esposito, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

E se fosse un magistrato a «non poter non sapere»? Si chiede ancora “Libero Quotidiano”. Sembra facile, ma il tema è insidioso. La storia del «non poteva non sapere» a volte va oltre il classico boomerang che ti colpisce in fronte. La civiltà giuridica è uscita con le ossa rotte da quando in decreti, ordinanze e sentenze ha iniziato a far capolino il contrario dei principi universali, come la personalità della responsabilità penale, la condanna assistita da prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio, l’habeas corpus, etc. In realtà, sappiamo com’è andata e ad opera di chi. Ora, se un procuratore generale della Corte di cassazione, cioè il massimo rappresentante della magistratura requirente, frequenta una struttura turistica illegale, come la mettiamo? Se questo stesso alto magistrato, per il sol fatto di esserci sul luogo «incriminato», mette i piedi nella tipica pozzanghera all’italiana, fatta di politica locale, assessori, sindaci, imprenditori amici e nemici, Tar, procure amiche e nemiche, uffici tecnici e geometri comunali, cosa si fa? Nell’Italia del sospetto come anticamera della verità, delle persone sbattute in carcere o alla gogna per molto meno, una cosa così avrebbe un peso enorme: a seconda di quale lato della scrivania si occupi, ovviamente. Nel caso nostro sarà senz’altro la «macchina del fango» a regime. Nelle foto si vede l’ex (da poco) procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. È al mare, in un lido che frequenta abitualmente ad Agropoli, porta del Cilento. Stiamo parlando di un magistrato di lungo corso, autore, tra altro, di un’interessante requisitoria nel procedimento di incolpazione al Csm di De Magistris, che aiutò a capire meglio gli epici bluff calabresi dell’ex pm. Esposito, però, non è (anche) solo il magistrato delegato dal governo Monti alla verifica del rispetto delle prescrizioni contenute nella famosa Via (Valutazione di impatto ambientale) per l’Ilva di Taranto e che, poco tempo fa, è stato fatto fuori con una manovra politica (legittima, almeno finora) che gli ha tolto di botto incarico e 220mila euro di parcella. È anche fratello di Antonio Esposito e padre di Andreana, giudice alla Corte europea di Strasburgo (e zio del pm con Porsche amico di Nicole Minetti). Se applicassimo al germano maggiore dell’ultimo - in ordine di tempo - carnefice del Cav, la stessa logica che pare abbia presieduto la sentenza Mediaset, secondo quanto letto nell’intervista al Mattino, scatterebbero analoghe censure: non è che uno non possa non sapere, può anche non sapere nonostante sia il capo. Ma se Tizio, Caio e Sempronio lo informano allora il discorso cambia: cioè sa e, dunque, partecipa o avalla. Ora, se da anni non si parla d’altro in città e provincia, oltre che su stampa, tv, rete e social network, cioè che per il «Lido Oasi» (non l’unico) ci sono ordinanze di abbattimento, tra l’altro mai eseguite, indagini e/o processi su amministratori e tecnici per irrituali delibere di sdemanializzazione dell’area (al posto del lido avrebbe dovuto esserci una piazza pubblica e l’albergo annesso non doveva nascere e men che meno lo si poteva trasformare in una scuola) pronunce del Tar in un senso e nell’altro, perizie e controperizie che obbligherebbero a buttar giù le strutture abusive, che cosa significa? Che uno degli uomini che incarnano ai massimi livelli i famosi «presidi di legalità» va a braccetto con l’illegalità? Ovviamente no. Anche se sembra.

Il pm e l'imputata: Esposito jr "graziato" per la cena con Minetti. Nessuna punizione per il figlio del giudice che ha condannato il Cav. Archiviazione annunciata quando il processo Mediaset è finito al padre, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Nessuna ombra doveva pesare sulla prevista e definitiva condanna di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti tv Mediaset. Ma c'era la storia di quel giovane e intraprendente magistrato, Ferdinando Esposito, a creare qualche problema per la cena con l'imputata Nicole Minetti. Fastidioso avercela ancora tra i piedi mentre proprio il padre, Antonio, doveva presiedere la sezione feriale della Cassazione che avrebbe sferrato il colpo finale della vicenda giudiziaria iniziata dieci anni prima. Così, molto tempestivamente, si è provveduto a chiudere la faccenda. L'8 luglio viene fissata l'udienza del Cavaliere davanti alla Suprema corte per il 30 del mese e subito dopo, l'11 luglio, si fa sapere che il rampante pm di Milano non rischia nessuna azione disciplinare per la sua solo «inopportuna» cena al ristorante «Il Bolognese» del capoluogo meneghino con l'ex consigliera regionale che, all'epoca, doveva essere ancora giudicata nel processo Ruby bis, con Lele Mora ed Emilio Fede. Il procuratore generale, Gianfranco Ciani, dirama la notizia che sono state archiviate le accuse nate dalla segnalazione fatta a maggio del 2012 dal capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati. Quell'incontro, per il titolare dell'azione disciplinare, è stato solo «occasionale» e non riguardava un caso giudiziario di competenza di Esposito. Dunque, fin dal 30 gennaio si è chiusa la preistruttoria, dopo che nove mesi prima lo stesso Csm, nella prima commissione, aveva deciso di non aprire la pratica per un'eventuale incompatibilità in attesa, appunto, della decisione sul versante disciplinare del procuratore generale della Cassazione. Il bel Ferdinando, alto, palestrato ed elegante, quello che va in giro in Porsche e si è fatto per un po' irretire dal fascino pericoloso della sexy Nicole, non può con le sue leggerezze mettere nei guai il padre Antonio, che finirà nelle pagine dei libri di storia per aver guidato il collegio che ha relegato fuori dal campo politico il leader del Pdl. Viene da una famiglia napoletana di magistrati, il giovane Esposito, che ha anche uno zio ancor più importante del genitore e cioè quel Vitaliano fino a pochi mesi fa Procuratore generale della Cassazione, proprio al posto di Ciani che l'ha tirato fuori dai guai in un battibaleno, facendo attenzione a divulgare la notizia prima della data fatidica della sentenza Mediaset. Si è parlato molto della cena di Ferdinando con la Minetti nell'elegante ristorante milanese, commentata a Palazzo de' Marescialli con frizzi e lazzi dei consiglieri, tipo: «Beato lui!». Ma non si è più saputo nulla circa l'altro esposto al Csm per un episodio nella palestra milanese «Downtown» di piazza Diaz che, sembra, frequentavano sia il pm che la bella consigliera. Raccontano che in un'occasione particolare il rampollo in toga, si sia fatto «riconoscere», per così dire. Mentre si concentrava sui bilancieri, per gonfiarsi i muscoli, qualcuno nello spogliatoio gli avrebbe sottratto il portafoglio dalla sacca sportiva. E lui, invece di andare in un posto di polizia e fare la denuncia come chiunque, con una telefonata la polizia l'avrebbe fatta accorrere in palestra per un'immediata e completa perquisizione. Il portafoglio, poi, sarebbe saltato fuori, ma questo sfoggio di autorità a qualcuno sarebbe apparso un vero e proprio abuso. Tale da giustificare un esposto al Csm. Che sicuramente sarà stato archiviato come l'altro, anche se per fatti più insignificanti ci sono magistrati che hanno passato qualche guaio. Qui, però, c'era di mezzo ben altro. Il processo del secolo, che non doveva essere «chiacchierato» neanche per la sventatezza - vogliamo chiamarla così? - di un giovane pm con un padre importante in un ruolo-chiave.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.

ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.

AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.

CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.

ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.

GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.

ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.

LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso (fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area) e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)».  Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

Parliamo di quando Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, stava per essere assassinato dai Servizi Segreti. Poi però……………, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Si fa molto parlare oggi del giudice Antonio Esposito il Magistrato che ha presieduto il collegio della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi: Se ne parla perchè subito dopo la sentenza ha rilasciato un’intervista al quotidiano “Il mattino” di evidente valenza politica perché il Magistrato ha tenuto a precisare che Silvio Berlusconi non è stato condannato perchè non poteva non sapere che all’interno della sua azienda era stata consumata una frode fiscale ma è stato condannato perchè conosceva direttamente quella circostanza. Nel che è parso intravedere una certa soddisfazione per quella condanna che, unita alla celerità della fissazione del processo perchè potesse essere lui a giudicare, crea nel pubblico non poche perplessità. Quella degli Esposito è una famiglia di Magistrati. Magistrato è Antonio, Magistrato è suo fratello Vitaliano, magistrato è il figlio di Antonio, Ferdinando. E pochi sanno che Ferdinando alcuni anni fa è stato protagonista di uno degli episodi più torbidi della storia dei nostri servizi segreti deviati. divenendo depositario di segreti inconfessabili. Per i quali a momenti ci rimetteva la pelle. Ma procediamo con ordine. Nel dicembre 2007 IL PM Ferdinando Esposito figlio di Antonio Esposito esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale di Potenza competente a occuparsi si tutti i misfatti dei Magistrati di Brindisi Tarato e Lecce mentre suo padre Antonio e suo zio Vitaliano sono due anonimi Magistrati della Suprema Corte di Cassazione. Ma nel 2007 Ferdinando a Potenza diventa assegnatario di un’indagine delicatissima. Questa indagine riguarda il rapporto fra l’ex GIP di Milano, Clementina Forleo, e due PM della Procura di Brindisi, Santacatterina e Negri, ed un tenente dei carabinieri, Ferrari. La Forleo li ha denunciati tutti e tre per aver indagato poco e male. Anzi, per non aver indagato affatto sulla morte dei suoi genitori, avvenuta nell’agosto del 2005, guarda caso, in uno stranissimo incidente stradale. Quella inchiesta è stata archiviata. Ma la Forleo non demorde. Sostiene che la morte dei suoi genitori è molto sospetta, perché preceduta da inquietanti segnali: lettere e telefonate anonime, danneggiamenti e soprattutto messaggi profetici. Per competenza la denuincia è finita a Potenza, nelle mani del PM Esposito. Esposito iscrive nel registro degli indagati uno dei PM brindisini, Alberto Santacatterina, ed il tenente dei carabinieri di Francavilla Fontana, Pasquale Ferrari e li carica di una serie di imputazioni pesantissime: frode processuale, induzione a commettere reati, calunnia, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, associazione per delinquere per tutti e tre e in particolare a Santacatterina contesta anche il reato di falsità ideologica perché, nel chiedere l’archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un’audiocassetta “esplosiva”, registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i pm e il tenente avrebbero cercato di “rimediare” il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Negro, amico dei due. Poi chiede per i due al g.i.p. due mandati di cattura.

Povero Ferdinando! ………….Voleva fare il giudice sul serio!…………. In Italia!……………….

Subito dopo aver depositato questa richiesta Ferdinando Esposito subisce il secondo di tre stranissimi incidenti stradali di questa macabra telenovela all’italiana (il primo è quello che ha provocato al morte dei genitori della Forleo due anni prima nel 2005) che ne ricomprende almeno un terzo, come vedremo. Mentre torna a casa dal lavoro in Procura una sera del dicembre 2007 Ferdinando Esposito esce rovinosamente fuori strada proprio in corrispondenza di una scarpata e precipita nel fondo alla scarpata stessa. Ma come fa una macchina a finire in una scarpata senza ragione? Speronato? Manomessa la vettura? Non si sa. il Magistrato riporta ferite gravissime per le quali sarebbe sicuramente morto se per puro caso un altro automobilista non si fosse accorto dell’incidente e della presenza della vettura nella scarpata e non avesse allertato i soccorsi. Sicuramente chi l’ha buttato lì dentro pensava che morisse. Sono così gravi le ferite che Ferdinando Esposito rimane in ospedale per mesi ed è costretto ad abbandonare l’inchiesta sul collega Alberto Santacatterina e su Pasquale Ferrari. Il mandato di cattura non viene più eseguito. L’inchiesta passa a una sua collega dell’Ufficio Cristina Correale e nel tempo tutte le accuse vengono smontate e archiviate. Anzi, Alberto Santacatterina verrà anche promosso sostituto procuratore distrettuale antimafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Intanto Ferdinando giace per mesi – come detto – in un letto d’Ospedale. Immaginiamo papà Antonio e zio Vitaliano al suo capezzale: Figlio mio! Ma che cosa hai fatto! Ti sei messo contro i Poteri Forti! Volevi arrestare un collega! Tu vuoi rovinare la famiglia! Fatto sta che Ferdinando Esposito non parla. Perchè la vettura è finita nella scarpata? Un caso! Ma quali erano i fatti che avevano dato origine a quella richiesta di mandati di cattura? Erano fatti relativi all’inchiesta Antonveneta uno dei filoni di indagine del caso che va sotto il nome di “scalate bancarie”, illeciti di varia natura di dirigenti di banche nostrane interessati ad acquisire a tutti i costi la BNL e l’Antonveneta con la privatizzazione e a superare la concorrenza – più forte – di banche straniere. L’azione della dott.sa Forleo è in quell’occasione particolarmente determinata: ravvisati gli illeciti, la dott.sa Forleo sequestra i titoli della Banca Antonveneta, arresta Fiorani, presidente della Banca di Lodi, mette sotto controllo il telefono del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ne determina l’incriminazione e l’espulsione dai vertici della Banca, recupera 300 milioni, che sequestra e poi confisca. tutte queste iniziative giudiziarie stroncano però inesorabilmente il tentativo del Banco di Lodi e (ahimè;) della Banca d’Italia di acquisire con strumenti illeciti la Banca Antonveneta già Banca Antoniana del Veneto. Ma questo rigore in difesa della legge da parte della Forleo è una cosa che deve aver dato fastidio a qualcuno perché il 25 Agosto 2005 si verifica il primo stranissimo incidente stradale di questa storia. . L’incidente si verifica la sera alle ore 20.00 sulla provinciale Francavilla-Sava nel tratto che si trova in provincia di Brindisi. Un fuoristrada Toyota, condotto dal medico tarantino Salvatore De Bellis, impatta violentemente a un incrocio contro la Rover sulla quale viaggiavano Gaspare Forleo, di 77 anni, sua moglie Stella Bungaro, di 75, padre e madre del magistrato e il dott. Franzoso, marito della dott.sa Forleo. I primi due muoiono sul colpo, il terzo finisce in coma ma fortunatamente si riprende. Potrebbe essere un incidente come tanti altri. E invece è un sinistro sospetto perché è preceduto da inquietanti segnali, da lettere, da telefonate anonime, da danneggiamenti che si sviluppano secondo questo impressionante crescendo: 5 maggio 2005: viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana; 20 giugno 2005: viene incendiato l’intero raccolto di foraggio dell’azienda agricola di famiglia; 21 luglio 2005 la Forleo riceve una lettera in cui si dice: “Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te”. Il 25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. Il 30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un’altra lettera di “felicitazioni” per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38. Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l’incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplicissimo. Basterebbe acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli – fondamentali – delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Ferrari nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Sattacaterina e Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per una matta e per una visionaria. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giannuzzi , espulso dalla magistratura perchè su Brindisi aveva costituito uno studio di parenti avvocati, e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand’è di turno il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale Ferrari e del pm Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente. Il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Ma egli lo assegna ugualmente a se stesso. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Santacaterina indagini più approfondite. Che però non vengono fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. Santacatterina va da Giannuzzi per liberarsi del fascicolo. Ma Giannuzzi gli intima di mantenerlo e – ovviamente – di non fare indagini. E’ per questo che è nervoso Santacatterina. Quando lo contatta l’avvocato della Forleo lo manda a quel paese. “la Forleo ci sta rompendo i c……..!” – dice. Ma come! Una è parte lesa e il giudice cui si rivolge le dice: “Mi sta rompendo i c……..!” Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a il dott. Ferdinando Esposito, il quale ascolta tutta la trama e rimane scandalizzato dalla vicenda. Quindi – come abbiamo detto chiede a carico di uno dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacatterina e del tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari il mandato di cattura. Insomma una bomba! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l’inchiesta di Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari, reato dal quale la Forleo sarà poi assolta. Quindi su quella strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava facendo luce – come detto – il pm di Potenza Ferdinando Esposito. Ma qui avviene il secondo strano incidente stradale che abbiamo narrato e che mette fuori gioco Fernando Esposito. Ma non c’è due senza tre. In un o dei biglietti che profetizzavano l’incidente dei genitori era scritto “ E poi toccherà anche a te!”. E infatti il 3 dicembre 2009 l’auto della Forleo vien speronata in autostrada e finisce contro un guard rail. Se l’auto della Forleo non avesse avuto l’air bag anche la Forleo sarebbe morta. Però prima e dopo quella data gli Esposito ricevono benefici a più non osso. Il 21 novembre 2008 Vitaliano, lo zio di Ferdinando, viene nominato Procuratore generale della corte suprema di cassazione carica che ricopre fino al 13 aprile 2012. Nel gennaio 2013 però viene nominato dal governo Monti, su indicazione di Gianfranco Fini, Garante del Governo per l’esecuzione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, un incarico da 200.000 euro l’anno. Ma che c’entra un magistrato che ha sempre fatto penale con il controllo prescrizioni tecniche che riguardano un’industria siderurgica? Antonio padre di Ferdinando viene nominato presidente della seconda Sezione. I fatti strani però non finiscono qui. Il nome di Ferdinando Esposito compare anche in intercettazioni scabrose che riguardano i servizi segreti. Nel motivare le esigenze cautelari dell’ex n. 2 dell’Aisi Francesco la Motta, arrestato per aver fatto sparire 10.000 milioni di euro dai fondi del Fec (fondi erp gli edifici del culto da lui amministrati dal 2003 al 2006), il gip parla di «attività persuasiva». «La Motta -  scrive - a tutt’ oggi non si fa alcuno scrupolo a tentare di utilizzare le sue aderenze». Il magistrato riporta una conversazione del 23 maggio. L’ ex vice dell’ Aisi chiama tale Ferdinando Esposito che i militari identificano in un pm di Milano e dice: «Avevo bisogno solo… pigliarmi un caffè n’ attimo co’ papà per notiziarlo su alcune cose… me lo fai tu da ponte per favore?». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il padre è Antonio Esposito, presidente di Sezione in Cassazione. Secondo altra interpretazione si tratterebbe di suo cugino Ferdinando funzionario dell’ amministrazione penitenziaria, figlio di Vitaliano, ex procuratore generale della Cassazione e garante dell’ Aia per l’ Ilva di Taranto. Comunque o l’uno o l’altro………..L’ interlocutore risponde: «Sì, come no». Chiosa il gip: «Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il contatto sia andato a buon fine, occorre evidenziare le aderenze di La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e le più che concrete possibilità di inquinare le indagini». Quanto ha reso ala famiglia Esposito quel prezioso silenzio di Ferdinando Esposito su quello stranissimo incidente stradale del 2007?

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive Sonia Gioia su “La Repubblica”. Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un' altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre 2007 la sezione locale dell' associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L' avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all'ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Poi, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l' avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all'unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Il 30 maggio davanti al gup  l'avvocato Vincenzo Minasi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, racconta degli incontri tra il magistrato di Milano e Giulio Giuseppe Lampada accusato di essere il braccio finanziario della 'ndrangheta. La replica: "Calunnie, non l'ho mai conosciuto", scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Prima erano le cene con Nicole Minetti, consigliera regionale del Pdl nonché imputata per induzione alla prostituzione nel Rubygate. Adesso sono i pranzi con il 40enne Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Per Ferdinando Esposito, sostituto procuratore di Milano e nipote dell’ex pg della Suprema Corte, i guai proseguono e anzi, se possibile, si complicano. E così, dopo che i tête-à-tête con l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi sono atterrati sul tavolo del Csm, in seguito alla segnalazione del procuratore Edmondo Bruti Liberati, l’ultimo tassello sul caso del magistrato arriva dalle parole dell’avvocato Vincenzo Minasi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale, che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stato sentito dal giudice per l’udienza preliminare. Qui, dopo sette ore di parole, Minasi fa una pausa, poi riprende. E a proposito della fuga di notizie a favore di Giulio Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario della cosca Condello, dice: “Non aveva più bisogno dell’avvocato Minasi, visto che aveva come amico Esposito qui della procura della Repubblica di Milano”. Il pm non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Sono solo calunnie – dice – , mai conosciuto Lampada”. Posizione avvalorata da un dato: per oltre un anno e mezzo Lampada è stato monitorato 24 ore su 24 dagli investigatori e mai è stato osservato un incontro tra i due e nemmeno una telefonata. Il boss e il magistrato, dunque. Proseguiamo con il luogo degli incontri, uno dei ristoranti più noti del capoluogo lombardo. “Con lui Lampada andava a mangiare al Bolognese”. Quindi ribadisce il concetto: figuriamoci se aveva bisogno di me. Il colletto bianco dei clan, stando alla ricostruzione del legale, aveva ben altre entrature per andare a vedere le carte della procura antimafia che per tre anni ha indagato sugli intrecci politico-mafiosi in Lombardia. Nel novembre scorso, l’indagine ha fatto scattare le manette per dieci persone. Tra queste Franco Morelli, consigliere regionale calabrese e il giudice Vincenzo Giglio. Insomma, il cosiddetto secondo livello che si alimenta di rapporti opachi tra mafia e istituzioni. Il tutto sulla rotta Milano-Reggio Calabria. Il verbale prosegue. Minasi parla tanto. E aggiunge particolari sui rapporti tra il magistrato e il presunto boss. Spunta anche il nome di Lele Mora già condannato per bancarotta e, come la Minetti, imputato nel processo Ruby bis per induzione alla prostituzione (accusa che condivide anche con l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede). Qual è il contesto? Minasi spiega che Esposito “venne presentato a Lampada da un tale Massimo, ex autista di Lele Mora”. Il colletto bianco dei clan e l’agente dei vip. Altri rapporti. Il punto di contatto è Paolo Martino, coinvolto nell’indagine Caposaldo e accusato di essere il referente per il nord Italia della potente cosca De Stefano. Giuseppe Lampada e Martino si conoscono da tempo. Di più: il fratello di Lampada fino al 2007 detiene il 50% della Lucky World srl assieme allo stesso Martino. Chiude il cerchio la figura di Stefano Trabucco, uomo di Mora, e per qualche tempo presente negli assetti societari della Lucky. Le parole di Minasi, poi, portano il carico da novanta: “La macchina che guida Lampada, cioè la Bentley Continental, in realtà prima era di Lele Mora”. Insomma, in questa storia, tutto sembra tenersi. A partire da Esposito che da un lato, come pm, si occupa di anti-contraffazione nel mondo dei locali e dall’altro ama la bella vita. E di quei locali, Hollywood in testa (la discoteca di corso Como per anni regno di Mora), è assiduo frequentatore. Nulla di male, naturalmente. Un po’ meno cenare con un imputato a processo nel tribunale dove lui stesso lavora come sostituto procuratore. Su questo il Csm si è già pronunciato archiviando la posizione perché risultano “già informati i titolari dell’azione disciplinare”, ovvero il pg della Corte di Cassazione e il Guardasigilli. E dunque, Palazzo dei Marescialli riprenderà in mano la questione solo se il procuratore Giuseppe Ciani e il ministro Paola Severino decideranno di portare avanti il caso. Ma a rimescolare le carte adesso arrivano le dichiarazioni dell’avvocato vicino alla ‘ndrangheta. Parole che, ad oggi, restano senza alcun risvolto giudiziario. Ferdinando Esposito non risulta indagato. Non solo, seguendo le vicende del processo Valle-Lampada si scopre che il padre di Esposito è presidente della seconda sezione della Cassazione, la stessa che ha confermato l’arresto di Lampada e del giudice Vincenzo Giglio con motivazioni pesantissime. E questo fa sorgere il dubbio che le parole dell’avvocato Minasi con Ferdinando Esposito altro non siano che una ritorsione nei confronti del padre. da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 giugno 2012.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

11.07.2003 - Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel carcere di Livorno. Il corpo di Marcello è riverso sul pavimento tra la cella numero 21, sezione sesta, padiglione "D" delle Sughere e il corridoio. La sua testa ostruisce la chiusura della porta. Tutto intorno sangue, sotto il cadavere e anche fuori dalla porta. In gocce o in strisciate circolari dai contorni netti. La procura archivia il caso un anno dopo il fatto: Lonzi è stato stroncato da un infarto, morto «per cause naturali. Aritmia cardiaca».

Morto in carcere, la madre: "Mio figlio ucciso a botte, ma lo Stato insabbia tutto da 10 anni", dice Maria Ciuffi intervistata da Cecilia Pierami su TGCOM 24.

Marcello Lonzi muore nel carcere di Livorno la sera dell'11 luglio 2003. Per la Procura si sarebbe trattato di "morte naturale", ma la madre, Maria Ciuffi, da 10 anni chiede "la verità" e ora ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per avere giustizia.

"Al cimitero ho visto dove era mio figlio, ho fatto uscire dalla stanza tutti quelli che c'erano. Ho abbracciato la bara e ho detto: "Marcellino te lo giuro, qualcuno pagherà per quello che ti hanno fatto". E io quella promessa la rispetterò, costi quel che costi". Così Maria Ciuffi racconta a Tgcom24 la battaglia che combatte dal 2003 per far luce sulla morte del figlio Marcello Lonzi, 29 anni, deceduto mentre era detenuto nel carcere di Livorno.

Marcello Lonzi si trovava nel carcere "Le Sughere" di Livorno, per un una condanna per tentato furto. Muore l'11 luglio del 2003. Per la Procura si è trattata di un infarto, "cause naturali", ma la madre non ci ha mai creduto e ora porta il caso di fronte alla Corte dei Diritti dell'uomo di Strasburgo e, per sostenere la sua azione, ha lanciato una petizione online che, in meno di quattro giorni, ha già superato le 10mila adesioni.

"Marcello stava bene, non ha mai sofferto di cuore. Questo sarebbe già bastato per insospettire chiunque. Poi ho visto il corpo di mio figlio, i lividi, i segni e ho capito: nessuna morte naturale, qualcuno quell'infarto glielo ha fatto venire a suon di calci e pugni".

La Procura di Livorno ha però archiviato due volte le indagini sulla morte di suo figlio...

"Ho passato gli ultimi dieci anni a combattere, ho letto gli atti, ho parlato con chi era in carcere con mio figlio. Troppe lacune, troppe stranezze: sì il caso è stato archiviato due volte, ma sempre dallo stesso Gip. Per avere la riesumazione del corpo di Marcello e far eseguire un'autopsia da un medico di parte ho dovuto denunciare il pm di Livorno alla Procura di Genova, che ha disposto un supplemento di indagine. Ma più che un supplemento di indagine era un inizio: è venuto fuori che non era stato mai interrogato nessuno".

Cosa ha scoperto con i nuovi esami che ha fatto eseguire?

"Mio figlio aveva le costole rotte e non quelle che si rompono quando si fa il massaggio cardiaco per la rianimazione. Altre. Aveva un'impronta di uno scarpone sulla trachea. Aveva il polso rotto. Le foto mostrano chiaramente i segni di un pestaggio".

Perché pensa che le indagini siano state insabbiate?

"Ci sono troppe cose che non tornano e testimonianze contrastanti. Innanzitutto l'orario della morte. Stando agli atti, Marcello è morto alle 20.14. A parte che non torna con l'orario delle chiamate al 118, ho parlato con il ragazzo che era volontario sull'ambulanza. Ed è stato anche interrogato: lui è intervenuto di giorno non di sera. Lo dice e lo ripete. Ma i carabinieri, presenti durante la deposizione, volevano chiaramente che rispondesse altro. "Non è che era stanco per il lungo turno in ambulanza e non ricorda bene?" gli chiedevano".

A che ora sarebbe morto suo figlio secondo lei? Non ci sono stati testimoni del malore?

"Mio figlio credo sia morto nel primo pomeriggio. Tornerebbe con quelli che sono i risultati dell'autopsia e torna con molte testimonianze che ho raccolto. Ma spesso queste dichiarazioni sono completamente cambiate di fronte ai pm. Come quella del suo compagno di cella..."

Cosa ha sostenuto il compagno di cella di Marcello?

"Agli atti c'è questa dichiarazione: "Ho sentito un colpo, mi sono svegliato e Marcello era morto". Ma a me ha detto altro, ha raccontato che non era in cella, perché stava facendo la doccia, dopo aver lavorato tutto il giorno nella falegnameria del carcere. Però davanti ai pm ha cambiato versione perché aveva paura. Questo me lo ha ripetuto più volte: lui era dentro accusato di violenza sessuale, una di quelle accuse che in carcere gli altri detenuti ti fanno "pagare". Non lo aveva detto a nessuno e raccontava di essere dentro per un furto. Per quello ha cambiato versione, perché aveva paura, o è stato minacciato, che fosse svelata la verità".

E gli altri detenuti, non hanno visto o sentito niente?

"Mi è stato raccontato da un detenuto che il giorno in cui è morto, Marcello si era preso con un secondino la mattina, ma sembrava finita lì. Poi aveva mangiato. Subito dopo pranzo lo ha visto che lo portavano via. A volte capita che qualcuno sia chiamato in qualche sezione o reparto. Ma non è più tornato in cella. Alle 15.30, cosa molto insolita, hanno chiuso tutti i detenuti nelle celle e non le hanno più riaperte. Quando le celle erano chiuse, questa persona mi ha raccontato di aver sentito correre e urlare".

Cosa sarebbe successo secondo lei?

"Mio figlio è stato portato in isolamento. E lì è stato barbaramente picchiato. Tanto da fargli venire un infarto. Poi quando si sono resi conto di aver esagerato, hanno cercato di coprire tutto. Per quello hanno chiuso tutti in cella, per poterlo riportare nella sua, probabilmente già morto, senza che gli altri lo vedessero".

Ha avuto altre conferme in questo senso, altre testimonianze?

"Una donna, una ex detenuta in carcere a Livorno quando c'era anche Marcello, mi ha raccontato di essere stata avvertita nel pomeriggio, e non la sera, che era morto. Pensavano che fosse la sua compagna... E poi un altro fatto inquietante: una guardia sarebbe arrivato di corsa da un'infermiera che lavora a "Le sughere" e le avrebbe detto: "Corri corri mi è morto fra le mani". Naturalmente di questa testimonianza non c'è traccia negli atti. L'infermiera ha deposto in Procura, poi il giorno dopo è tornata al carcere e ha tentato il suicidio. Successivamente ha cambiato la sua deposizione".

E gli amici che Marcello aveva in carcere, si sono fatti un'idea di cosa sia successo?

"C'è poco da dire, mi hanno detto: "Maria è così, va così da sempre. A turno tocca a tutti, anch'io ho preso le botte. A me è andata bene. A lui no". Non hanno dubbi insomma che sia stato picchiato a morte".

Cosa farà adesso?

"Avevo fiducia nello Stato, credevo che ci proteggesse. Dopo tutto questo non crederò più nella giustizia. E' troppo evidente che qualcuno ha voluto insabbiare tutto questo caso. Mi scrivono spesso tanti ragazzi che mi dicono che hanno paura. Paura della polizia, paura di poter entrare in un carcere e non uscirne più. Ma mi scrivono anche dei secondini e degli agenti per chiedermi scusa, perché non tutti sono come quelli che io e mio figlio abbiamo incontrato sulla nostra strada".

"Adesso spero che l'appello alla Corte di Strasburgo porti a qualcosa. Io voglio solo giustizia, voglio andare a processo. La mia vita da dopo la morte di Marcello, non è stata più la stessa. Prima era la vita, dopo è stato solo il buio. L'ho promesso a mio figlio, chi gli ha fatto questo la pagherà. Costi quel che costi. Sono disposta anche ad andare in galera, ma qualcuno la pagherà".

L'appello: riapriamo il caso Lonzi, scrive Ilaria Lonigro su “L’Espresso”. Marcello Lonzi, 29 anni, morì in prigione nel 2003. Ufficialmente per 'infarto'. Ma aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, otto costole rotte. La madre non ha mai smesso di lottare per far riesaminare il caso. E ora chiede di firmare online per farlo arrivare alla Corte dei diritti dell'uomo. Così, forse, anche da noi la giustizia si muoverà. Non convince molti la verità giudiziaria secondo cui Marcello Lonzi, 29 anni, il volto gonfio e il corpo martoriato, sarebbe morto per un infarto, l'11 luglio del 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Le foto del ragazzo nudo in una pozza di sangue hanno spinto in meno di 5 giorni 15.000 persone a firmare la petizione online con cui la madre Maria Ciuffi chiede ora alla Corte europea dei diritti dell'uomo di riesaminare il caso. La Ciuffi era già ricorsa a Strasburgo, insoddisfatta delle due archiviazioni italiane, ben sintetizzate dalle parole del Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani: "Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un forte infarto". Dopo che pure la Cassazione, il 29 marzo 2011, aveva negato la riapertura del processo, la donna si appellò alla Corte europea. Inutilmente: nel 2012 il ricorso fu dichiarato irricevibile. "Non incontrava gli articoli 34 e 35 della Convenzione europea sui diritti umani" fanno sapere all'Espresso da Strasburgo. Non si sa se il vizio fosse di procedura, merito o competenza. La decisione è comunque definitiva. Non la pensa così Erminia Donnarumma, legale di Maria Ciuffi, che vuole far riaprire il processo anche in Italia. "Con nuove prove c'è sempre la possibilità di riaprire le indagini. A marzo abbiamo denunciato il medico legale che ha fatto l'autopsia prima che la madre fosse avvertita del decesso, quindi senza che assistesse un perito nominato da lei. E abbiamo denunciato i due medici intervenuti la sera, per omissione di soccorso. Bisogna riconsiderare anche le fratture non prese in esame in sede di riesumazione. Ora dipende tutto dalla Procura di Livorno: se iscrivono il reato possono riaprire le indagini". Alle Sughere dal 1 marzo 2003, Marcello doveva scontare 9 mesi per tentato furto. Invece l'11 luglio il suo corpo resta a terra nella cella. Fuori, strisciate e gocce di sangue. Saranno tante le dichiarazioni contrastanti e i punti oscuri. Pochi giorni dopo aver parlato con la magistratura, nel 2008, tenta il suicidio in orario di lavoro l'infermiera delle Sughere in servizio quando fu ritrovato il corpo di Marcello. Si può escludere o no che c'entri con i fatti di Lonzi? C'è poi un referto medico falso e anonimo. Poco dopo l'ingresso in carcere, Marcello accusa dolori al torace: lo hanno picchiato le guardie, lamenta. Le radiografie che gli fanno mostrano una costola fratturata. Ma nel referto del 20 marzo 2003 il medico scrive il falso: "non fratture". E non si firma. Marcello non viene curato e i responsabili restano impuniti. Alle Sughere, 17 decessi tra il 2003 e il 2011, "la violenza è normale" secondo Mario, ex detenuto intervistato da Riccardo Arena nella rubrica RadioCarcere di Radio Radicale. Mario racconta di detenuti tornati dall'isolamento "spaccati in faccia". Lui stesso sarebbe stato pestato da "6 o 7 guardie". Che la morte di Lonzi abbia a che fare con i maltrattamenti lo hanno pensato anche alle Nazioni Unite. Nel 2011 l'argentino Juan Méndez, relatore speciale sulla tortura dell'Onu, segnalò all'Alto commissariato per i diritti umani il caso Lonzi. All'interno del suo "rapporto sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti", metteva in evidenza il "volto gravemente contuso" e il "corpo coperto di sangue" del ventinovenne. Non solo: la storia di Marcello Lonzi, insieme ad altre, "ritrae un'immagine disturbante della violazione dei diritti umani da parte di pubblici ufficiali che non sono soggetti a indagini rigorose". Così recita una relazione diretta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite scritta nel 2010 dall'ong Franciscans International, consulente ufficiale dell'Onu in tema di diritti. Che denuncia "un'apparente non volontà di investigare accuratamente e di consegnare alla giustizia i responsabili. Questo equivale a una violazione del diritto alla vita e del diritto a un rimedio efficace".

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano".

Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.

Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.

Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.

Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.

Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:

L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

«Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che, nelle sue tre legislature alla Regione Veneto, nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo. - Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ai microfoni de "La Zanzara" su Radio 24. - Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male. Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista». Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi. Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

Liberali? Solo a parole, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. C’è chi confonde l’idea liberale con un’ideologia: un set di regole precise e immutabili. Un dogma. Il fascino liberale è che esso, piuttosto, è un metodo. Prendiamo il caso delle sigarette e del maldestro tentativo governativo (poi annacquato) di vietarne l’uso in auto in presenza di minori. È l’apoteosi dello statalismo. Cioè l’esatto contrario del metodo liberale. La religione di Stato (in alcuni paesi basta togliere il predicato) decide cosa sia buono e giusto per il singolo, usurpando il libero arbitrio. La «violenza» dell’imposizione statuale detta un comportamento o uno stile di vita, che, se non rispettato, procura sanzioni. Molti considereranno la questione delle sigarette una bazzecola. Ma dietro questa pensata c’è un’ideologia pericolosa e che pervade le nostre istituzioni. Che banalmente si può riassumere così: c’è un gruppo di persone (politici e burocrati) da noi retribuite che pretendono di sapere cosa sia meglio per noi. Una roba da far accapponare la pelle. La libertà è pericolosa. È pericoloso aprire un’azienda, è pericoloso concepire un figlio, è pericoloso pensare diversamente, è pericoloso mangiare, bere e fumare. Ma è molto più pericoloso che qualcuno decida per noi riguardo questi affari. Un effetto collaterale di questo diffuso cancro ideologico è la deresponsabilizzazione che provoca dell’individuo. Ci conformiamo alla legge non perché ne siamo convinti, ma perché la trasgressione è punita. In un recente libro dell’istituto Bruno Leoni (Breve storia della libertà) si ricorda l’esperimento psicologico di Milgram. La facciamo breve: i cittadini possono diventare carnefici del prossimo, pur non volendolo, solo perché l’Autorità lo richiede e solo grazie alla pulizia della coscienza che ci fornisce un meccanismo di deresponsabilizzazione. In quanti casi un funzionario pubblico può devastare una vita, una storia, un’impresa solo imponendo il rispetto di una norma? Un ultimo suggerimento non richiesto alla componente governativa che si rifà al centrodestra. E che per di più si dice voglia ritornare allo spirito originale di Forza Italia. Libertà civili e libertà economiche sono strettamente connesse, come insegnava Einaudi, e fare i furbetti sulle prime, rende meno credibili le battaglie sulle seconde.

POPULISTA A CHI?!?

Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema. 

E poi c’è quello che non ti aspetti.

LA LEGA MASSONICA.

Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la  “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E  l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

Il misterioso uomo della tensione, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. Sconosciuto all'opinione pubblica grazie alla copertura dei servizi segreti, Berardino Andreola compare in tutti gli episodi misteriosi degli anni di piombo: dai delitti Calabresi e Feltrinelli fino a Piazza Fontana e alla morte di Pinelli. Un libro inchiesta rivela la sua storia. Ci sarebbe un unico uomo dietro a tanti dei misteri che hanno messo in ginocchio l'Italia negli anni Sessanta e Settanta. Dietro la strategia della tensione, i delitti Calabresi e Feltrinelli, la morte di Pinelli, il tentato sequestro dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Una abile spia dal passato troppo nero che a un certo punto, protetta dai Servizi segreti tedeschi, difesa da alcuni potenti rappresentanti delle istituzioni italiane e tutelata dal ricorso quasi schizofrenico a travestimenti e ad alias differenti, si sarebbe abilmente mescolata con il rosso al fine di depistare, insabbiare. E uccidere. Il suo nome è Berardino Andreola, nato a Roma nel 1928 e morto a Pesaro nel 1983, indagato varie volte - con le fittizie generalità, a seconda dei casi, di Giuseppe Chittaro, Umberto Rai, Günter, Giuliano De Fonseca - per le morti di Feltrinelli e di Calabresi e per la bomba alla questura di Milano; e infine condannato - con il nome autentico - per il solo tentativo di sequestro a scopo di estorsione dell'ex presidente dell'Ente minerario siciliano, il veneto Graziano Verzotto, compare d'anello del boss catanese Giuseppe Di Cristina. A collocare Andreola sotto una luce nuova e più articolata, svelandone l'incredibile storia, alcuni movimenti, collaborazioni, appartenenze e vicinanze inaspettate (l'Ufficio affari riservati,il vertice dell'Ufficio politico della questura di Milano, l'Aginter Press, il segretissimo gruppo Alpha, probabile mandante del delitto Calabresi), illustrandone i numerosi depistaggi e i raggiri e ipotizzando nuovi contatti, è lo studioso padovano Egidio Ceccato nella documentatissima inchiesta da poco pubblicata per Ponte alle Grazie, "L'infiltrato". Ceccato, tanto per cominciare: chi è Berardino Andreola. "E' un personaggio che ha più volte fatto capolino, con vari alias - penso a Giuseppe Chittaro Job, Giuliano De Fonseca, Umberto Rai, Günter, Francesco Miranda Sanchez, tanto per ricordarne qualcuno - in diverse inchieste di quegli anni, ma che alla fine è stato processato e condannato solo per aver diretto il tentato sequestro ai danni di Verzotto nel gennaio 1975. Proprio a seguito di questo fallito rapimento di natura politica - non estorsiva, come hanno invece stabilito le sentenze -, eseguito da tre soggetti probabilmente arrivati da Berlino, erano emersi per la prima volta il suo vero nome e la sua qualifica: "Agente segreto appartenente ad una organizzazione ideologica d'estrema sinistra (Gruppo Feltrinelli)". Agli sbigottiti inquirenti siciliani Andreola aveva spiegato, mentendo, di essere arrivato sull'isola per "infiltrarsi negli ambienti mafiosi" e per "studiare i sistemi operativi della mafia allo scopo di utilizzarli nell'ambito dell'organizzazione di cui faceva parte". In verità la spia era sbarcata in Sicilia un mese dopo i fatti accaduti alla questura di Milano: con ogni probabilità ci era arrivato per seguire il caso Verzotto, per impedire all'ex senatore padovano di rivelare segreti collegati all'assassinio di Mattei. A ogni modo Andreola (noto in questo caso come Chittaro, anarco-maoista friulano) viene indagato per l'attentato alla questura". Erede di una famiglia fascista con un padre maresciallo in servizio presso l'Ovra, l'ex brigata nera Berardino Andreola era stata addestrata nei campi delle Ss in Germania, dove aveva imparato un fluente tedesco. Finito per qualche tempo in carcere per reati legati alla criminalità comune, negli anni Sessanta l'uomo si era messo a professare idee "anarco-maoiste" e antiviolente, diventando il braccio destro di Feltrinelli nei Gap (con il nome fasullo di Günter); un informatore importante di Calabresi (con quello di Chittaro); avvicinandosi a Pinelli, a Valpreda e agli anarchici milanesi prima della strage di Piazza Fontana e facendo al contempo da tramite con la mafia nella fornitura e nel traffico di armi. Come si lega Andreola con le vicende milanesi, in particolare con la "madre" delle stragi: Piazza Fontana?"Alla fine di novembre 1969 Chittaro/Andreola aveva contattato dalla Francia per via epistolare il capo dell'ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra, presentandosi come un anarchico-maoista che prendeva le distanze dalle idee violente dei propri compagni. Ad Allegra aveva preannunciato nuovi fatti di violenza politica dopo la morte dell'agente Antonio Annarumma. La sera del 12 dicembre, dopo la scoppio della bomba alla Banca dell'Agricoltura, il capo dell'Ufficio politico lo contatta immediatamente e gli organizza per l'indomani un incontro con Calabresi nella vicina Svizzera. Il 13, perciò, il commissario lo incontra per tre ore a Basilea. Nessuna delle sue dichiarazioni viene tuttavia messa a verbale".

Andreola sembra essere l'anello che congiunge molti fatti terribili accaduti nel nostro Paese. E diversi documenti citati nel libro lo confermano. Eppure il suo nome è praticamente sconosciuto all'opinione pubblica. Perché?

"Per le fortissime coperture di cui ha goduto, innanzitutto. Penso alle indagini per la morte di Feltrinelli, coordinate dal giovane e inesperto magistrato Guido Viola, che non verbalizza le dichiarazioni rilasciate in proposito da Chittaro/Andreola ritenendole pure e semplici fantasie di un mitomane. Molto più probabilmente, però, la mancata verbalizzazione avviene perché dall'alto qualcuno gli consiglia di lasciarlo fuori dalle indagini. Questo non è l'unico episodio a presentare tali caratteristiche. Mi sono convinto, anche grazie a documenti che ho acquisito dopo l'uscita del libro, che Andreola fosse uno dei burattinai che muovevano i fili della strategia della tensione. Per comprendere questa torbida figura non si può infatti prescindere dal Piano Chaos della Cia e dai punti della guerra non ortodossa stabiliti nel maggio 1965 all'hotel Parco dei Principi a Roma. Di Andreola, legato a quella che io chiamo Internazionale nerazzurra - per i contatti con gli apparati americani della Nato - si è parlato in passato, senza che però fosse collocato in un contesto preciso e senza che venissero forniti alla sua figura quei collegamenti che io ritengo essenziali. Le indagini del tempo si erano concentrate sui singoli personaggi, sui suoi tanti alias. Uno separato dall'altro. Con "L'infiltrato", nato durante le mie ricerche per un saggio sulla morte di Mattei che dovrebbe uscire l'anno prossimo, ho cercato di dare un filo logico, di riunire tutto sotto la stessa persona: gli alias e gli episodi delittuosi. Gli importanti collegamenti con Milano, poi, sono potuti emergere grazie ad alcuni documenti forniti da un giornalista dell'Ansa, Paolo Cucchiarelli. Certo, non c'è la pistola fumante, che invece giace forse assieme ad Andreola, ma su chi è stato e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti".

GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.

Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza, scrive Angelo Panebianco su “La Repubblica”. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa. Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra. Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani. Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio. La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia». Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica). Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci. Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri. Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.

SILVIO BERLUSCONI: UN SIMBOLO PER TUTTE LE INGIUSTIZIE.

Un simbolo per tutte le ingiustizie. Con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Gli italiani non avevano un simbolo comune su cui convogliare la rabbia per le ingiustizie patite da ciascuno: i reati subiti e non puniti, i reati puniti e non commessi, le sfacciate disparità di trattamento, i ritardi e le disfunzioni dei processi, le persecuzioni nel nome della Legge e del Fisco, più il vittimismo. Ora la magistratura, dopo un lungo e assurdo percorso, li ha accontentati: con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune. Un paese in ginocchio, con una maggioranza cagionevole, riceve il colpo di grazia. Nessun senso dello Stato e del Bene Comune, nessuno sforzo di chiudere con equilibrio una feroce partita che ha sfasciato l'Italia. Intanto i corvi, le jene e le carogne maramaldeggiano a mezzo stampa. E invece è un dramma per tutti, a cominciare dalla sinistra, surrogata dai giudici nel liquidare con la forza l'era berlusconiana (col rischio di resuscitarla più cazzuta che pria). Ora il Pd si vede costretto a governare con un condannato in via definitiva o a sfasciare il governo e dunque il Paese con una chiamata folle alle urne. E la destra si vede obbligata a stringersi intorno al Capo. Di lui, il condannato, non dirò niente, anzi la butterò sul comico che è l'unica via d'uscita dal tragico kafkiano. Se andrà in carcere, in pochi mesi lo acclameranno direttore del carcere. Se sarà costretto ai domiciliari rifonderà la Casa delle Illibertà. Se sarà affidato ai servizi sociali dovrà aiutare le coetanee ad attraversare la strada. Che pena.

GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.

Gli italiani non hanno fiducia nella giustizia. La sentenza della Cassazione su Berlusconi non c'entra. Lo dice anche il presidente Napolitano: "Serve una riforma", scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica nella dichiarazione immediatamente seguita alla sentenza: "ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso". Napolitano rappresenta l'Italia. Come il Re fu l'incarnazione dello Stato monarchico il Presidente della repubblica lo è di quello Repubblicano. Infatti non sbaglia. Il 96% degli italiani, cioè tutti, ritengono che “bisogna che il sistema della giustizia funzioni meglio di ora". Questo non significa che non vi sia fiducia nel sistema legale italiano. Anche se il Paese su questo aspetto è dubbioso. La maggioranza dei cittadini (52%) è sfiduciato dall’operato dei giudici, mentre solo il 47% da loro credito. Valori che ci avvicinano di più a paesi europei come la Polonia e Slovacchia che non Germania, Inghilterra o Danimarca e Svezia. Ma si tratta pur sempre di quasi la metà della popolazione. Allora diventa interessante comprendere chi, pur dimostrando fiducia nella giustizia, ne richiede con forza la riforma: si tratta del 30% degli italiani. Sono tendenzialmente in maggior numero fra i maschi, in età tra i 35 ed i 55 anni e con livelli d’istruzione medio-alti. Vengono principalmente dalle “regioni rosse” ed infatti, avere fiducia nella giustizia ma richiederne con forza una riforma, sembra un tema molto più caro a chi si definisce di centrosinistra che non di centrodestra, ambito in cui il favore alla magistratura riscuote molto meno consensi. Tra i partiti, persino la maggioranza, seppur relativa, degli elettori di Sel (46%) o del Pd (45%) è di questa opinione, gli altri o semplicemente non hanno fiducia o hanno in merito opinioni contrastanti. Se più della metà della popolazione non ha fiducia nei magistrati e i due terzi degli altri ne chiedono una riforma, allora la questione sembra andare al di là delle questioni politiche legate ai problemi di Berlusconi. Si va oltre al centrodestra. Con questi numeri, il tema di una riforma dell’ordine giurisdizionale sembra molto più essere legato alla singola esperienza dei singoli cittadini.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste. Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele). Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio. Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva. Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana. E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita. L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari. Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.

Giustizia: non si può più tacere. Nell'editoriale di Panorama in edicola dall'8 agosto il direttore, Giorgio Mulè, racconta come e perché lui, ed altri giornalisti del settimanale sono stati intercettati dalla Procura di Napoli. Ora tenterò di spiegarvi perché la riforma della giustizia non è un pericoloso argomento usato dall’insurrezionalista Silvio Berlusconi per sistemare i suoi processi (è così bravo a farlo che il risultato s’è visto…), ma una necessità ineludibile per questo Paese. Dovrò raccontarvi una storia che riguarda Panorama. Nell’agosto di due anni fa, notate bene due anni fa, Panorama pubblicò uno scoop: rivelò che la Procura di Napoli aveva concluso un’inchiesta nei confronti di Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per una presunta estorsione ai danni dell’allora premier Berlusconi. Si trattava di una notizia riservata, esattamente come altre centinaia che vengono pubblicate da qualsiasi organo di informazione. La capacità di rivelare notizie riservate spesso scomode, per intenderci, è la cifra che distingue un bravo cronista da un passacarte delle procure. Si dice, non a caso, che il mestiere del giornalista è quello di penetrare (e violare) i segreti. Più ne infrangi, più sei bravo. Molto spesso accade che siano i pubblici ministeri a violare il segreto, lo sanno anche le pietre ma non si può dire. Diremo allora che ai cronisti del Fatto, per esempio, nessun pm da Palermo ad Aosta si è mai sognato né si sognerebbe di soffiare una notizia non ufficiale. E lo stesso discorso vale per i cronisti del Corriere della sera (a cominciare dalla notizia dell’invito a comparire a Berlusconi del ’94) o meno che mai della Repubblica. Torniamo a noi: in quell’agosto di due anni fa il cronista di Panorama fu così bravo da riferire nel suo articolo anche numerosi dettagli dell’inchiesta. In breve fece (e assai bene) il suo lavoro. Alcuni giorni dopo, il giudice ordinò l’arresto di Lavitola e Tarantini. Il primo, però, si rese latitante. Un latitante sui generis tanto da essere intervistato via satellite in diretta televisiva da Enrico Mentana con il contributo speciale del «procuratore aggiunto» Marco Travaglio: nessun pm napoletano osò contestare (e meno male) ad alcuno degli intervistatori il reato di favoreggiamento né (e questa circostanza invece lascia molto perplessi) disturbò Mentana o alcuno dei suoi ospiti per chiedergli da dove il latitante Lavitola fosse collegato. Il faccendiere, infatti, rimase tranquillamente uccel di bosco per altri 8 mesi, finché decise autonomamente di costituirsi. In quegli stessi giorni di agosto 2011, invece, prendeva il via un’inchiesta a carico del giornalista di Panorama autore dello scoop. Alla luce di quello che oggi sappiamo è il caso di parlare di una maxi inchiesta, un’indagine monstre condotta da ben quattro magistrati in servizio a Napoli (Francesco Greco, Henry John Woodcock, Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli) con il dispiegamento di decine di poliziotti. L’inchiesta coinvolge anche il sottoscritto, da almeno un anno. Avevo avuto modo di parlarvene nell’editoriale pubblicato il 4 luglio scorso (il titolo era «Corruzione, mi mancava solo questa») subito dopo aver ricevuto un invito a comparire dalla Procura di Napoli in cui si vaneggiava nei miei confronti il reato di concorso in corruzione: avrei in sostanza pagato qualcuno per avere lo scoop. Un’ipotesi fuori dal mondo, giunta a due anni dai fatti. E parliamo di due anni in cui eravamo già al corrente di una frenetica, dispendiosa e mai interrotta attività istruttoria costellata da varie perquisizioni (al cronista raggiunto di buon mattino a casa da quattro agenti di polizia napoletani venne risparmiata l’ispezione corporale «in quanto - recita letteralmente il verbale - lo stesso si presentava in pantaloncini pigiama»), diverse consulenze e numerosi interrogatori.

Ora arriva la ciliegina.

Quell’invito a comparire nei miei confronti che contempla un’ipotesi di reato folle somiglia a un’esca, non so come altro definirla. Che la corruzione fosse un’ipotesi campata in aria lo scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari alla procura in un provvedimento del 22 giugno di cui adesso sono venuto a conoscenza laddove in neretto afferma: «Non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione». Eppure, nonostante queste parole non lascino spazio a interpretazioni, cinque giorni dopo (il 27 giugno) la procura emette l’invito a comparire, che mi viene preannunciato l’1 luglio e notificato il giorno successivo, con l’ipotesi non «seria» di corruzione. Un atto urgente e non differibile, avevano specificato i poliziotti incaricati della notifica. E sapete il perché di tanta urgenza? Perché i miei telefoni erano sotto controllo dal 20 giugno. Così come quello del vicedirettore esecutivo, del capo della redazione di Roma, del cronista autore dello scoop, di un collaboratore di Panorama, di un impiegato di banca, di un avvocato e di un cancelliere di Napoli. Sono in tutto la bellezza di 24 utenze telefoniche. Si è trattato di una gigantesca operazione di spionaggio nei confronti del vertice di Panorama, che è stato intercettato per almeno 15 giorni. Numerosi agenti di polizia hanno trascorso il loro tempo ad ascoltare e trascrivere migliaia di conversazioni (anche sul numero di casa del vicedirettore esecutivo) fatte o ricevute da giornalisti non indagati come il mio vice e il capo della redazione di Roma. Anche loro raggiunti da un provvedimento-esca mentre già i loro telefoni erano sotto controllo: esche costituite da convocazioni della Procura di Napoli nella veste di testimoni tra il 25 e il 28 giugno. E che cosa pensavano le brillanti menti investigative partenopee con l’avallo del gip che ha autorizzato questa enorme e inaudita attività di spionaggio? Scrive il giudice: «La ragionevole probabilità che, a oltre un anno dai fatti (in realtà sono due, ndr), le utenze in oggetto possano essere impiegate per comunicazioni utili allo sviluppo delle indagini discende dalla contestuale predisposizione di attività perquirenti che possono stimolare confidenze tra i soggetti coinvolti. Da queste considerazioni discende anche l’urgenza dell’attività intercettiva». Traduco: dopo due anni dai fatti convochiamo i giornalisti per essere interrogati (è l’«attività perquirente», vocabolo sconosciuto al Devoto-Oli) e origliamo al telefono se dicono qualcosa di utile alla nostra indagine. Non fa niente che alcuni di loro non siano sospettati di alcunché, non interessa che siano persone perbene: si intercetti alla ricerca del reato. E si intercettano anche conversazioni personalissime e delicatissime (che magari finiranno nelle mani di giornalisti guardoni), come molte di quelle che transitano sui telefoni di chi dirige un giornale. Cari lettori, questo non è più uno stato di diritto: è, da tempo, uno stato di polizia, come invano ripete il prigioniero politico Silvio Berlusconi. E badate bene: di questa inchiesta partenopea ci sono ancora molte cose da raccontare ed è quello che ovviamente faremo nei prossimi numeri. A cominciare da un dubbio che non ha ancora risposta. Perché si sa, per esempio, che i quattro pm avevano già chiesto di intercettare me, la mia segretaria e il cronista già nel maggio di un anno fa. Con che esito al momento non so. E soprattutto non so per quanto tempo in questi due anni i giornalisti di Panorama siano stati ascoltati nelle loro conversazioni private. Secondo voi, questo spiegamento di forze e di spese avviene per ogni fuga di notizie sui giornali? Non prendiamoci in giro. Se c’è da colpire Berlusconi o chi lo appoggia, la giustizia lenta si fa veloce e non bada a spese. Ora mio rivolgo a Lei, signor presidente della Repubblica, al quale la Costituzione assegna anche la guida del Consiglio superiore della magistratura. Mi rivolgo a Lei perché «ora», dopo la condanna del Cavaliere, ritiene maturi i tempi per una riforma della giustizia. Mi rivolgo a Lei perché anche Lei ha patito la violenza di una indebita e arbitraria intercettazione telefonica. Faccia sentire alta la Sua voce, pronunci parole nette per ristabilire le garanzie elementari nei confronti dei cittadini scolpite nella nostra Carta. Lo faccia prima che sia troppo tardi, prima che questo Paese sprofondi definitivamente nelle tenebre dell’arbitrio giudiziario e della tirannia della magistratura. Non c’è più tempo. Perché un bel tacer non fu mai scritto.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

Scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. Si invoca la riforma della giustizia come priorità assoluta. Silvietto strepita e i giornali riprendono l’accorato appello. Sono assolutamente d’accordo, non con lui, ma con la tesi della priorità assoluta. Lo scrivo da tempo e lo ribadisco. Occorre intendersi con chiarezza, senza il consueto velo di ipocrisia che connota questo Paese. Di “larghe intese” mica per niente. Chi oggi la invoca è volutamente in mala fede poiché postula una riforma tesa a condizionare l’autonomia della magistratura, per consentire alla politica di continuare a gestire impunemente interessi massonici, economici, illeciti, di enorme valore, la cui gestione in questi decenni ha demolito pezzo dopo pezzo la democrazia ed il sistema di tutela dei diritti, relegandoci agli ultimi posti nel mondo quanto a livello di libertà di stampa, efficienza della giustizia, pressione fiscale, corruzione, modernità etc. La finta-destra che invoca tale riforma vuole una magistratura che non intacchi la libertà del “potere politico” (esecutivo, legislativo, amministrativo), libertà che si pretende nel senso più libertario del termine, come libertà della condotta accompagnata da una impunità assoluta. Un tale progetto, riproposto, è eversivo e grave, contrastante il principio della divisione dei poteri che sorregge la nostra democrazia. All’opposto, occorre riflettere attentamente sulle posizioni della finta-sinistra che oppone le barricate ad un tale disegno (riforma in generale), ritenendo intoccabile la giustizia. Come se in Italia avessimo una giustizia degna di cotale nome. Invece abbiamo una melassa mal mostosa che chiunque abbia vissuto in prima persona, può raccontare come sia essa stessa fonte di nocumento e di danni alle parti processuali, soprattutto alla parte che ha subito l’ingiustizia. Sicchè la “giustizia ingiusta” si amplifica fino a stordire ed annichilire i diritti, mostrando una sordità ed una kafkiana presenza tale da scoraggiare di suo un secondo tentativo di accesso. Intendiamoci, la “giustizia ingiusta” è quella lenta (perché il tempo ha un ruolo fondamentale nella soppressione dei diritti), quella immotivata (con motivazioni errate in diritto e in fatto, frutto di errori), quella resa in mala fede o in conflitto di interessi (c’è anche quella, soprattutto per la giustizia amministrativa), quella arrogante (con giudici che non ascoltano, non studiano, non leggono, pieni di pregiudizi, schierata). C’è un sistema giustizia, stratificato ad arte nel tempo, che ostacola l’accertamento dei diritti invece che assumersi il ruolo e la responsabilità di rispondere ad esigenze di giustizia. Dalla complicatissima notifica degli atti (dopo vari anni, ancora oggi non è chiaro se si possa notificare via Pec, come, da chi e a chi!) allo pseudo processo telematico a macchia di leopardo (a pezzi, nel processo e geograficamente); dalla impunità assoluta del personale amministrativo inetto (cancellieri, ausiliari, ufficiali giudiziari) verso il quale avvocati e magistrati neppure presentano esposti, alla impunità assoluta dei magistrati (la c.d. responsabilità indiretta è merce rarissima, contandosi pochi casi a fronte di circa 16.000 giudici tra togati e non togati), sino agli Ordini degli avvocati che invece di sanzionare i propri iscritti per gravi illeciti impediscono pure l’accesso agli atti pur di proteggere l’iscritto (avrei voglia di raccontarvi della condotta di un ordine del Nord-ovest); dalle riformicchie mediocri introdotte in questi anni nel processo civile che invece di adottare un rito snello e celere (ricalcando il rito del lavoro), hanno inserito decine di incomprensibili novità (perché ancora dibattute dagli operatori del diritto), intimidatorie e sanzionatorie (descritte come deflattive, o yes) accostate ad una raffica di aumenti delle spese vive (contributi unificati moltiplicati n volte, marche aumentate per ogni battito di ciglia) finalizzate solo a impedire che si acceda al processo, privilegiando solo i benestanti. Il suggello di tale percorso lo si è veduto nuovamente con la reintroduzione della mediazione obbligatoria (in veste ammiccante, una sorta di squillo con abito bianco), ossia un ossimoro secondo cui i litiganti sono “obbligati a mediare”. Percorso che difatti l’Europa non ha indicato, pur sollecitando le Adr, quali misure alternative alla giurisdizione. La riforma dunque è necessaria e prioritaria ma la finta-sinistra vi si oppone. Ecco perché non si sa più nulla del processo Montepaschi di Siena e di tanti altri processi vitali. Meglio che la giustizia non sia poi così efficiente. Meglio un Paese storto che un Paese “diritto”. Un Paese bipartisan, appunto.

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

Da quanto tempo stiamo aspettando giustizia? «Da tempo immemorabile», dice Massimo Bordin intervistato da  Ubaldo Casotto su “Il Foglio”. Carcerazione preventiva, uso politico delle indagini, gogna mediatica. Massimo Bordin, voce dei radicali e veterano della battaglia per la riforma del sistema, squaderna il suo archivio delle bestialità italiane. Parlare di giustizia con Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, è come consultare un archivio, ma senza la fatica della ricerca. Gli diciamo dell’iniziativa di Tempi, “Aspettando giustizia”, e delle persone che vi partecipano: il generale Mario Mori, Ottaviano Del Turco… «Certo. Del Turco, sto seguendo il suo processo». Il caso dell’ex sindacalista, poi dirigente del Pd, arrestato nel 2008 per uno scandalo della sanità abruzzese e dimessosi dalla presidenza della Regione è per i più – anche tra i giornalisti – un fatto di cronaca del passato, finito prima di sapere come è andata realmente a finire. Bordin sta seguendo il processo.

Bordin, da quanto tempo l’Italia è un paese che “aspetta giustizia”?

Da tempo immemorabile. Il problema dell’amministrazione della giustizia e della carcerazione preventiva si trascina almeno dalla famosa legge Valpreda (1972, Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, era in carcere da più di tre anni, fu poi assolto, ndr) che per la prima volta dovette affrontare il tema di una carcerazione preventiva che si andava protraendo oltre ogni logica. Da allora la legislazione sulla custodia cautelare è stata praticamente un elastico, secondo lo spirito del tempo l’hanno ridotta in alcuni momenti o allungata in altri. Ci sono stati casi, come quello del processo “7 aprile” (1979, contro le presunte “menti” delle Br), dove alcuni imputati hanno sopportato una carcerazione preventiva di quasi sei anni, a quel punto una condanna a cinque anni fa sorgere inevitabilmente il dubbio che se ci fosse stata una carcerazione preventiva più breve non si sarebbe giunti a quella condanna. Dopo che hai tenuto in galera uno quasi sei anni senza processo non è che gli puoi dire: mi sono sbagliato, arrivederci e grazie.

I pm d’assalto hanno radici profonde…

Non si è mai trovato un vero equilibrio fra i vari ruoli della magistratura. Gli anni Settanta sono stati anni di riforme in questo senso, ma se prima c’era un eccesso di rigore gerarchico che più che l’attenzione dei magistrati al diritto e al suo rispetto favoriva un ossequio all’ordine, ora quella tendenza è stata invertita dando un colpo di timone dalla parte opposta.

Perché in Italia è difficile definirsi garantisti, e si passa per i difensori dei corrotti, quando non dei mafiosi?

In questi anni è successa una cosa molto singolare, che riguarda i media. Mentre prima il processo, nel senso del dibattimento, era il momento nel quale l’opinione pubblica più direttamente entrava nel vivo e veniva informata delle questioni processuali, oggi l’attenzione al dibattimento è quasi scemata: ci sono grandi vicende giudiziarie che ci hanno appassionato e poi non ci ricordiamo più nemmeno come sono finite. Il massimo dell’attenzione si concentra sulla fase istruttoria durante la quale l’informazione viene quasi drogata. Alla fine, per il concorso di una serie di fenomeni che vanno quasi per conto loro, resta, comunque vada, uno stato di disagio, una certa insoddisfazione per come la giustizia ha funzionato. Già il fatto che si parli di garantismo e giustizialismo è la prova che qualcosa non funziona. Il vero garantista è quello che chiede il rispetto delle garanzie per l’imputato e però anche l’applicazione della legge, non la non applicazione. La distorsione è tale per cui lo scontro è tra due scuole di pensiero che chiedono entrambe l’applicazione della legge e hanno entrambe buone ragioni per mostrare che in alcuni aspetti della faccenda la legge non è applicata. C’è qualcosa che non va nel manico, e la situazione non tende minimamente a migliorare.

Va detto che molti politici quando parlano di legalità non sembrano molto credibili.

Facciamo i nomi: su alcuni punti Berlusconi ha ragione, in altri casi le sue difese sono evidentemente strumentali. D’altro canto sul lato opposto della barricata si ritrovano gli stessi difetti rovesciati. Se quando qualcuno parla di garanzie fa sorridere, quando altri parlano di applicazione della legge mettono paura.

Una tua denuncia costante è che la giustizia opera ormai prima del processo, sui media e nel dibattito pubblico, con la conseguente pena anticipata: carcerazione preventiva e gogna mediatica.

La giustizia opera addirittura fuori del processo, ormai si può, quasi in senso tecnico, parlare di amnistia occulta. La prescrizione è un modo di fatto per depenalizzare e non arrivare nemmeno al dibattimento a causa dell’elefantiasi dei tempi istruttori, per una serie di motivi che non possono sempre essere addebitati a una carenza di risorse. Chi segue queste faccende da una trentina d’anni sa che alla magistratura sistematicamente sono state date risorse in più, molto più che ad altri settori. È innegabile, non si può parlare di un settore trascurato dall’amministrazione, tutt’altro.

Come interrompere il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario per cui finiscono puntualmente sui giornali carte coperte dal segreto istruttorio? Il giudice Marcello Maddalena propone pene amministrative significative per i giornalisti che pubblicano, sei d’accordo?

Perché ci deve andare sempre di mezzo il povero giornalista, che poi alla fine una firma la deve mettere, mentre chi gli passa le carte resta anonimo? È anche poco sportivo. La prima separazione delle carriere da fare nel mondo della giustizia è quella tra certi giornalisti e certi pubblici ministeri, perché sono quelle le carriere intrecciate. Il mio eroe Antonio Ingroia è riuscito addirittura a sommare le due parti nella stessa persona, gli hanno dato pure il tesserino da pubblicista e ha fatto un discorso in cui si definiva magistrato-giornalista. Perfetto, la sintesi ideale. Balza agli occhi pure di un bambino il collegamento tra un network di pubblici ministeri, gruppi inter-procure, e un network di giornalisti giudiziari, basta vedere chi aveva le anticipazioni delle carte e chi no delle indagini sulla “cricca”, sulla P3, sulla P4… quella roba lì… Si fa presto a vedere come funzionano certe filiere, e come si possono interrompere. Ci vorrebbe una parola forte da parte della magistratura nei confronti dei pm, ma anche, se avesse un senso la sua esistenza, dell’Ordine dei giornalisti nei confronti dei giornalisti. Perché non credo che il lavoro del giornalista sia semplicemente quello di fare il passacarte delle procure.

In nome del “se ho un documento lo pubblico” si rischia di diventare una buca delle lettere.

Questo senz’altro, fermo restando che se a me viene data una carta che viola il segreto istruttorio, se è una notizia io la pubblico. Però sta alla mia deontologia – la parola è inutilmente grossa – fare in modo che io non diventi una buca delle lettere, e non lo divento se non mi lego in un sodalizio perverso con chi mi passa le carte. Perché è evidente che chi me le passa ha interesse a vedere pubblicizzato il proprio lavoro, e poi non apprezzerebbe un atteggiamento eventualmente critico, a quel punto potrebbe chiudere i rubinetti delle indiscrezioni. Così il giornalista diventa non solo una buca delle lettere ma un pierre, perché deve in qualche modo anche valorizzare le carte che il pm gli dà apposta. Il circuito è assolutamente perverso.

Dici che è tutto così evidente, eppure sembra difficile denunciarlo. Ci ha provato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, e mal gliene incolse.

Ci voleva l’ennesima uscita di Ingroia per far parlare l’Anm, che in questi anni, diciamo la verità, ha visto di tutto e di più ed è sempre stata zitta. Anche questo è un segnale che non fa ben sperare e rende evidente che ci sono dei comportamenti da cui persino l’Anm deve in qualche modo cercare di dissociarsi.

Tu auspichi un intervento della magistratura, ma chi potrebbe intervenire sembra intimidito. Ci è voluto il ricorso del capo dello Stato alla Corte costituzionale per scuotere in modo deciso le acque.

I poteri del presidente del Csm ci sono, ma sono molto relativi, se uno deve sbattere il pugno sul tavolo, deve alzare i toni. Tutti ricordiamo quando Francesco Cossiga, da presidente del Csm oltre che della Repubblica, arrivò ai ferri corti con quel consiglio, che fra l’altro era un dei più tosti e corporativi, minacciò addirittura di mandare i carabinieri a interrompere la seduta. Se il presidente deve farsi valere, inevitabilmente si arriva a una drammatizzazione dello scontro.

Giorgio Napolitano è stato coinvolto nelle intercettazioni per le indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Voi radicali storicamente non siete certo stati teneri nei confronti delle devianze degli apparati della Repubblica, perché quest’indagine non ti convince?

Perché non sta in piedi. Io non ho alcuna difficoltà a credere che possano esserci state personalità politiche non solo colluse ma addirittura in alcuni casi quasi interne al fenomeno mafioso. Io questo non ho la minima remora a crederlo. Così come penso che possano esserci stati abboccamenti, magari attraverso intermediari, fra politici e mafiosi anche nell’epoca delle stragi. È molto probabile, da cronista dico solo che l’impianto accusatorio della “trattativa” così come finora si è mostrato, nelle carte consegnate al Gip, non regge. La stessa elevazione dei capi di imputazione è discutibile, non c’è bisogno di essere docente di procedura penale per capire la debolezza della contestazione del reato di minaccia al corpo dello Stato a Totò Riina; voglio vedere come ottengono una condanna per un signore che ha concretato quella minaccia in alcune stragi per le quali è già stato mandato all’ergastolo. Poi è assolutamente evidente, secondo il loro impianto accusatorio, il ruolo fondamentale dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso; se è vero quello che dicono, il passaggio decisivo è stato quello delle sue scelte sull’attenuazione del 41 bis a molti mafiosi. Se è così, primo quei magistrati non hanno alcuna competenza, perché se non è un reato ministeriale quello non si vede quale lo sia, e quindi la competenza è del tribunale dei ministri; secondo, appare solo una furbizia quella di stralciare Conso e mantenere aperta l’indagine su di lui mentre la si chiude per gli altri. C’è poi il paradosso denunciato da Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato: ma come, avete detto che il delitto Borsellino è un passaggio fondamentale della trattativa Stato-mafia e poi nella vostra indagine del delitto Borsellino manco ne parlate? Come è possibile? Ci sono incongruenze talmente palesi che mi fanno pensare che, come al solito, questa sia la tipica inchiesta mediatica.

Il sottinteso politico è che il tutto avrebbe spianato la strada alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Riesce difficile vedere l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nelle vesti di promoter dell’uomo che ha poi strenuamente combattuto.

Non ha alcun senso, come molte cose in questa indagine. C’è un altro paradosso: si protrae il periodo delle stragi sino alla fine del 1993, e quindi arrivando in limine alla famosa discesa in campo di Berlusconi, prospettando l’ipotesi di un attentato che praticamente non ha lasciato nessuna traccia: allo Stadio Olimpico di Roma doveva esplodere una macchina uccidendo centinaia di carabinieri e non solo. La macchina non l’hanno mai trovata, ci fidiamo, tra gli altri, della parola di un signore, Gaspare Spatuzza, che dice: la macchina c’era io ho premuto il telecomando, però non ha funzionato. E allora ce ne siamo andati a casa, poi la macchina l’hanno rimossa. L’ultimo attentato che si situa in un momento cronologico fondamentale per il discorso sulla preparazione della discesa in campo di Berlusconi, è un attentato del quale non c’è traccia.

Il circuito mediatico-giudiziario ha dimostrato sin qui di saper funzionare bene. Pensi che la divulgazione della notizia dell’esistenza delle intercettazioni del capo dello Stato sia stato un passo falso?

Hanno esagerato, ma viene il dubbio che non tutto il male vien per nuocere. Non dico che l’abbiano fatto apposta, ma dall’incidente hanno saputo trarre profitto, è stata quella la principale cassa mediatica su un’inchiesta che piano piano si stava sfarinando. Hanno consegnato gli incartamenti al Gip, se non ci fosse stata la notizia delle telefonate, la polemica che ne è nata, la raccolta delle firme… oggi la posizione di chi deve giudicare le carte di Ingroia sarebbe molto più semplice, potrebbe decidere con maggiore serenità.

Che effetto ti ha fatto questa operazione extragiudiziale di raccolta firme a sostegno di un’indagine?

La consegna delle firme è una buffonata senza pari, supera quella della passeggiata in Galleria Vittorio Emanuele a Milano del pool di Mani pulite all’epoca di Tangentopoli. C’è una foto che immortala quella consacrazione popolare, qui siamo oltre. È una evidente pressione sul Gip. Ingroia da questo punto di vista ha un suo palmares, le due inchieste che lui avviò su Berlusconi e Dell’Utri come committenti delle stragi sono state per due volte bocciate dal Gip, non sarebbe clamoroso se succedesse anche questa volta. Certo con questo bailamme sulle telefonate quirinalesche il Gip ha un compito meno facile.

Il palazzo del potere deve essere di vetro per poterci guardare dentro. Come rispondi all’argomento della trasparenza?

È la classica argomentazione che ti costringe alla difensiva, a evocare la necessità di una zona grigia del potere che comunque c’è sempre stata, e fai inevitabilmente la figura di quello che in qualche modo copre l’omertà di Stato o chissà che. E questa è un’altra questione che non si riesce a dirimere. In America è un fatto normale, dopo un certo numero di anni, pubblicare libri con documenti desecretati. C’è una cultura per cui la trasparenza ha delle eccezioni, la riservatezza va difesa, ma non è mai assoluta, o per motivi di tempo o per motivi che la rendono alla fine inutile. Il problema non è trasparenza od oscurità, ma regola. In Inghilterra il sistema dei media funziona anche sulla fiducia, se circolano alcune notizie ritenute relative alla sicurezza nazionale, un funzionario convoca i direttori dei giornali e dice loro: queste notizie non devono uscire. E non escono. Forse che la stampa inglese non è libera?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

Giudici, non diventate 'casta', scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di perdere credibilità. Facendo così il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione. Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale". Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica. L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate. Questi ed altri fattori non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati). Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese. Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili. E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.

Da un paradosso ad un altro.

DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.

Le 10 condanne record nella storia degli Usa. Bradley Manning rischia di essere condannato a 140 anni di carcere. Ma quali sono state le condanne più severe in passato? Scrive Michele Zurleni su “Panorama”. Si è salvato dall'accusa più pesante, "complicità con il nemico", il reato che prevedeva l'ergastolo, ma Bradley Manning rischia di dover subire una durissima condanna. Sulla base delle imputazioni, la talpa che ha passato i documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato a Wikileaks, potrebbe non uscire mai più di prigione: la pena potrebbe arrivare fino a quasi 140 anni di carcere. Non un fatto inusuale per la giustizia americana. In passato sono state diverse le condanne record. Questo è l'elenco delle dieci più severe.

1) Charles Scott Robinson, 30.000 anni di carcere

I giurati del suo processo dissero che volevano essere sicuri che non uscisse mai più di prigione. Era il 1994, eravamo in Oklahoma e questa sentenza ha stabilito un record che non è stato ancora eguagliato. La più alta pena mai inflitta in un tribunale statunitense. Robinson era stato arrestato per aver stuprato dei bambini. Per ogni atto di violenza, 5.000 anni di carcere. Il giudice non voleva che l'allora trentenne potesse ottenere la grazia e uscire dal carcere dopo qualche anno, circa 15 anni, come accade in media. Per cui stabilì una pena che, di fatto, lo condannava a vita. Secondo i suoi calcoli, infatti, l'uomo avrebbe potuto fare domanda di perdono solo all'età di 108 anni.

2) Dudley Wayne Kyzer, 10.000 anni di carcere

Nel 1981, per aver ucciso la moglie, l'uomo ebbe questa condanna del tribunale dell'Alabama che lo giudicò. E per aver assassinato la suocera e un ragazzo, la corte decise che Kyzer doveva essere anche condannato all'ergastolo per ognuno dei due omicidi. Due vite intere in carcere più diecimila anni. Un altro record della giustizia americana. Ma il giudice disse che quello che aveva commesso Kyzer era stato troppo crudele per essere più clemente con lui..

3) Darron Bennalford Anderson, 2.200 anni di carcere

Per i reati di sodomia, stupro e rapimento di minore, venne condannato in Oklahoma nel 1994 a più di venti secoli di carcere. Fece appello e stabilì un nuovo record. La sua pena venne aumentata invece che diminuita. Di alcuni secoli. Poi, in un altro appello, venne ridotta di 500 anni. Alla fine, rimase la pena originaria. Anche in questo caso, il giudice voleva essere sicuro che l'uomo non potesse chiedere perdono dopo pochi anni. Ma solo dopo qualche secolo.

4) Peter Malloy, 1000 anni di carcere

L'ex proprietario del canale televisivo TV33 di Lagrange, in Georgia, è stato condannato nel 2013 per sfruttamento e abusi sessuale di minori. Cinquanta i casi accertati, per ognuno dei quali, Malloy ha preso 20 anni di prigione, in totale, dieci secoli di prigione. Era stato arrestato nel 2011 dopo una denuncia. Durante le perquisizioni, gli inquirenti ritrovarono migliaia e migliaia di file di materiale pedopornografico. Poi, il processo e la condanna.

5) Bobbie Joe Long, 28 ergastoli e una condanna a morte

Un serial killer della Florida, che ha avuto una sorta di record di condanne. Per i suoi reati, dieci omicidi, più rapimenti e violenza carnale, Long ha collezionato una condanna a cinque anni di carcere, quattro a novantanove anni di carcere, 25 ergastoli senza possibilità di perdono, 3 con possibilità di grazia e una condanna a morte sulla sedia elettrica, che deve essere ancora eseguita.

6) Ryan Brandt e Jeffrey Kollie, sette ergastoli a testa e 265 anni di carcere per ogni rapina

Non avevano commesso delitti, non avevano stuprato, ma erano dediti alle rapine a mano armata. La giustizia della Georgia non è stata leggera con loro. Nel 1996, dopo la loro cattura, il giudice decise di dar loro una condanna esemplare, che fosse da monito anche agli altri rapinatori. I loro legali, ma non solo, protestarono con forza per quella dura condanna. Voleva dire buttare via la chiave della prigione in cui venivano rinchiusi due persone che altrimenti, sosteneva l'avvocato, avrebbero potuto redimersi. La condanna è arrivata dopo che i due avevano rifiutato un patteggiamento che li avrebbe tenuti 40 anni in carcere.

7) Sholam Weiss, 845 anni di carcere

La sua data di rilascio, in questo momento, è il 23 novembre 2754. Processato nel 2000 per la bancarotta del National Heritage Life Insurance, accusato di frode e di riciclaggio, di aver truffato e sottratto milioni i dollari ai pensionati che avevano investito i loro fondi, Sholam Weiss ha un poco invidiabile record sulle sue spalle: è il “colletto bianco” a cui è stata inflitta la pena più severa.

8) Mark Anthony Beecham, 645 anni di carcere

Rapimento e violenza sessuale su minori Il 25enne dell'Alabama è stato condannato nel 2012 a 99 anni per ogni reato per il quale è stato ritenuto colpevole. Dopo la sentenza, ha protestato, dicendo di non avere avuto un processo equo. Quella do Beecham è stata la seconda condanna più pesante nella storia dell'Alabama dopo quella inflitta a Dudley Wayne Kyzer.

9) Norman Schimdt, 330 anni di carcere

La sua data di rilascio è il 12 settembre 2291. Norman Schimdt è al secondo posto della speciale graduatoria dei “colletti bianchi” condannati con le pene più alte. E'rinchiuso in un carcere in Texas e al processo è stata ritenuto colpevole di aver architettato una truffa milionaria.

10) Bernard Madoff, 150 anni di carcere

Un nome famoso, una truffa clamorosa, una condanna esemplare. L'uomo d'affari newyorchese, protagonista della più grande truffa finanziaria nella storia degli Usa, 65 miliardi di dollari, una vera e propria montagna di denaro, è rinchiuso nel penitenziario di stato di Butner e la sua data di rilascio è il 14 novembre 2139.

E, infine, un altro caso esemplare, quasi da record, non per la lunghezza della pena, ma per le condizioni in cui scontata

10 (ex equo) William Blake, 77 anni di carcere, 26 passati in assoluto isolamento

In una lettera spedita ad un'associazione di carcerati, occasione unica nell'ultimo quarto di secolo, quest'uomo, arrestato per l'uccisione di un poliziotto nello stato di New York, ha raccontato il suo calvario: ventisei anni passati in totale isolamento, per decisione del giudice che l'aveva condannato per l'omicidio a 77 anni di carcere. “Non vedo la televisione dagli anni'80 e non ho mai utilizzato un telefono cellulare” - ha raccontato William Blake. “Tu devi passare il resto dei tuoi giorni all'inferno” gli avrebbe detto il giudice del suo processo nel 1987. Da allora ha vissuto nella sezione d'isolamento della prigione di Elmira: 23 ore in cella, niente televisione, possibilità di telefonare o di fare attività ricreative o sportive. Sepolto vivo.

IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.

Il magistrato Vincenzo Maccarone è innocente. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula pi ampia: il fatto non sussiste. Finisce così il calvario dell’ex sostituto procuratore generale della Cassazione, un calvario iniziato l’8 maggio del 2007. Quella sera un gruppo di agenti della Guardia di Finanza avevano bussato alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattarono le manette e l’alto magistrato venne condotto nel carcere di Regina Coeli, rinchiuso in una cella di isolamento. L’arresto era nato da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore L. G.. Lo scopo: aiutare G. a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia, una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi all’obbligo di dimora nel comune di Osimo. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Maccarone dalla Procura generale di Roma alla Corte d’appello de L’Aquila. Da allora sono passati due anni e il gup Palmisano, il 16 luglio scorso, ha accertato che Maccarone e gli altri imputati sono innocenti. 16 luglio 2009. Il magistrato Vincenzo Maccarone è stato assolto, scrive Riccardo Arena su “Il Detenuto Ignoto”. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula più ampia. Il fatto non sussiste. Vincenzo Maccarone è innocente.

8 maggio del 2007. È sera. Un gruppo di agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattano le manette. Il magistrato viene condotto nel carcere di Regina Coeli. È rinchiuso in una cella di isolamento. È la notte più difficile nella vita dell’alto magistrato. Un magistrato stimato da tutti. L’arresto nasce da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore G.. Lo scopo: aiutare G. a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia. Una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi agli arresti domiciliari. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Macccarone dalla Procura generale di Roma, alla Corte d’appello de L’Aquila. Passano 2 anni e un Giudice accerta che Maccarone, e gli altri imputati, sono innocenti. Sulle agenzie stampa di questo errore giudiziario ovviamente non c’è traccia. Ma è questa una vicenda che comunque deve far riflettere. Una riflessione che deve riguardare la Giustizia di oggi. Una riflessione che deve essere però condotta con un approccio concreto, e non accademico. Riflettere sulla concreta efficacia di una regola. Riflettere sul modo in cui concretamente la regola viene applicata. Un approccio concreto che deve suggerire riforme concrete. Riforme che devono riguardare sia norme che magistrati. Inutile girarci intorno. Maccarone, come tanti altri imputati ignoti, non doveva essere arrestato. La regola di diritto è stata violata. Senza una riflessione concreta su casi come questo, non si andrà lontani. La giustizia, sarà sempre più inefficiente e, con essa, la magistratura sarà facile bersaglio di riforme insensate fatte da un legislatore incapace. Occorre fermarsi e riflettere.

TOGHE SCATENATE.

Tempi ad personam per Berlusconi: già emesso e notificato il decreto di carcerazione. Revocato il passaporto, scrive Luca Fazzo  su “Il Giornale”. Altro che procedura ordinaria. Neanche il tempo che si asciughi l'inchiostro sulla sentenza, e la Cassazione mette il turbo alla macchina destinata a eseguirla e a privare Silvio Berlusconi del seggio di senatore, della possibilità di espatriare e - alla fine, non si sa come né quando - della libertà. Le sentenze sotto i cinque anni di solito viaggiano da Roma a Milano per posta ordinaria, e anche in questo caso tutti si attendevano che la prassi venisse rispettata. Invece alle 20 e 31 di giovedì dalla cancelleria della sezione feriale della Cassazione il fax con la condanna parte per l'ufficio di Manlio Minale, procuratore generale a Milano: dove però a quell'ora non c'è nessuno, proprio perché nessuno si aspettava tanta fretta. Ieri mattina, alle 7 e 59, un cancelliere insolitamente mattiniero della Cassazione rimanda il fax: stavolta al numero dell'ufficio esecuzione della Procura generale. Gli impiegati lo trovano poco dopo, arrivando in sede. È il segnale del via. La macchina dell'esecuzione è partita. Perché tanta fretta? Cinque o sei giorni non avrebbero cambiato niente. L'unica spiegazione possibile è che a Roma o a Milano qualcuno fosse convinto che Berlusconi si preparasse a scappare, e che per questo fosse urgente ritirargli il passaporto. Per questo si è voluto tagliargli le vie di fuga verso una sua personale Hammamet. La Procura di Milano, vista la rapidità d'azione della Cassazione, si mette al passo. Il sostituto procuratore generale Antonio Lamanna legge il fax e lo trasmette al piano di sopra, nelle mani di Ferdinando Pomarici: 71 anni, uno dei grandi vecchi della Procura milanese, il pm dei processi a Prima Linea e del caso Calabresi. Duro era e duro è rimasto. Vicino alla pensione, Pomarici si occupa di un ufficio usualmente defilato, l'ufficio esecuzione. Che però in questo caso diventa un ufficio delicato. Pomarici non perde tempo. Apre un fascicolo intestato a «Berlusconi Silvio». Emette il decreto di carcerazione, e subito dopo il decreto che sospende l'esecuzione della pena per dare il tempo al condannato di chiedere misure alternative. Poi fa partire tre copie del provvedimento. Una è per i carabinieri, che devono mettersi alla ricerca di Berlusconi. Uno è per la questura di Milano, che ha rilasciato il passaporto al Cavaliere e che deve revocarlo. Il terzo, ed è quello che arriva per primo a destinazione, è per il Senato, perché provveda - in applicazione del decreto legge anticorruzione del governo Monti, che porta la firma di Angelo Alfano e che molti avevano accusato di essere troppo morbido - a dichiarare decaduto l'ex presidente del consiglio dallo scranno di Palazzo Madama. Subito dopo è la questura di Milano a dare immediata esecuzione all'ordine della Procura. Il passaporto rilasciato al cittadino Berlusconi viene revocato «su ordine dell'autorità giudiziaria». A farsi riconsegnare materialmente il documento provvederà la questura di Roma, dove - secondo quanto ha verificato in tempo reale la Procura - il Cavaliere ha trasferito da poco la sua residenza. Ma la revoca del passaporto è già stata inserita nel database delle forze di polizia. Se oggi Berlusconi cercasse di espatriare - anche per una vacanza o un impegno politico - si vedrebbe respinto alla frontiera. Anche il passaporto diplomatico di cui gode, rilasciato dal ministero degli Esteri, verrà revocato in queste ore. Sono misure a loro modo burocratiche, ovvie. Ma che segnano una svolta epocale nel percorso giudiziario, umano e politico di Berlusconi. Di visite dei carabinieri il Cavaliere ne ha già ricevute tante, a partire dal giovane ufficiale che il 22 novembre 1994 gli portò a Napoli il primo avviso di garanzia. Ma la visita di ieri del generale Maurizio Mezzavilla a Palazzo Grazioli racconta tutta un'altra storia. Nel foglio che gli consegna il generale gli viene comunicata la sua prima sconfitta. Certo, c'è la sospensione della pena, ci sono trenta giorni di tempo - che poi diventeranno più di settanta per via delle vacanze - per decidere le prossime mosse. Ma il foglio era intestato: «Ordine di esecuzione». Non deve essere stato un bel momento.

Il pm Fabio De Pasquale aggiunge un nuovo "primato" al suo lungo curriculum: fu il primo a ottenere una condanna definitiva per Bettino Craxi, oggi invece è il primo ad ottenere una condanna definitiva per Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Il Cavaliere dopo un assedio durato vent'anni perde il suo status di incensurato, e le brutta nuova arriva al termine di un'inchiesta firmata proprio dalla toga De Pasquale, che anni fa fece incriminare il leader socialista nell'affare Eni-Sai. Erano i tempi di Tangentopoli, De Pasquale agiva all'ombra di Antonio Di Pietro, era il volto semisconosciuto della Procura milanese. Anche oggi non è una delle toghe più celebri, nonostante la lunga indagine su Mediaset, iniziata nel 2001. Di sicuro, a Milano, ben più riconoscibile di lui c'è Ilda Boccassini, la grande accusatrice nel caso Ruby, la toga che ha fatto sfilare le Olgettine in aula e che, per ora, si è dovuta accontentare di una condanna soltanto in primo grado, seppur molto più pesante (sette anni e interdizione a vita per Berlusconi). Che beffa, per Ilda la rossa, bruciata sul traguardo dal collega De Pasquale (che, per altro, può fregiarsi delle migliori stellette anti-Cav: in quattro anni ha istruito tre processi contro l'ex premier).

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI

L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.

ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.

AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.

CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.

ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.

GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.

ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.

CHI E' ANTONIO ESPOSITO.

Chi è Antonio Esposito?

Antonio Esposito è il presidente della sezione feriale. La sua è una famiglia di magistrati. Il figlio Ferdinando, procuratore aggiunto di Milano, ha conosciuto in passato Nicole Minetti, condannata in primo grado nel processo Ruby bis. Una conoscenza che gli ha creato qualche problemino in Procura, visto che è proprio la Procura ad accusare la Minetti di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Un articolo di Esposito conferma l'antipatia verso Berlusconi e il suo governo: "C'è un disegno per intaccare il principio di legalità", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un «disegno volto a intaccare profondamente il principio di legalità». Un'opera «devastante: delegittimazione della magistratura e disarticolazione del sistema giudiziario». Si è tentato di «offuscare il periodo luminoso di Tangentopoli». Non esiste «una magistratura giustizialista e politicizzata» che abbia «eliminato, per via giudiziaria, interi partiti e uomini politici democraticamente eletti». È «sistematico e costante l'attacco lanciato ai magistrati» quando «le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti». La legge Cirielli è stata adottata «imprudentemente». E la riforma della giustizia ipotizzata dal centrodestra è semplicemente da incenerire. Sono frasi scritte dal giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione di Cassazione che ha definitivamente condannato Silvio Berlusconi. Risalgono all'aprile 2011: evidentemente l'antipatia verso l'ex presidente del Consiglio e le riforme giudiziarie attuate o prospettate dai suoi governi è di antica data. L'articolo è stato pubblicato sulla Voce delle voci, il mensile erede della Voce della Campania («fino al 1980 quindicinale del Pci», si legge sulla presentazione online) diretto, tra gli altri, da Michele Santoro. Esposito, che il periodico esalta per aver «recentemente condannato Totò Cuffaro», sotto il titolo «La toga è nobile» attacca Berlusconi benché si guardi bene dal nominarlo esplicitamente. Egli ritiene che «in questi ultimi anni» sia stato avviato un meccanismo per scardinare il rispetto delle leggi, tentando «di ridurre gli spazi di quel controllo di legalità che spetta alla magistratura». E ciò è avvenuto con la «delegittimazione della magistratura» e la «disarticolazione» del nostro ordinamento giudiziario, con «parole d'ordine costruite in modo interessato, attraverso continue interviste, dibattiti politici e mediatici». Annullamenti e prescrizioni non dipendono dalla lentezza della giustizia o da errori giudiziari, ma «dall'aver cambiato le regole in corso di partita, modificando le norme che regolavano i criteri dell'acquisizione e della valutazione della prova». Esposito critica la stessa Cassazione, in particolare «due mai troppo vituperate decisioni delle Sezioni Unite» che applicavano una legge del centrosinistra. E aggiunge: «Non meno sistematico e costante, in questi ultimi anni (cioè con i governi Berlusconi, ndr), l'attacco lanciato ai magistrati ogni qualvolta le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti. Fino al punto di ipotizzare che i magistrati dovevano essere antropologicamente diversi e, quindi, mentalmente disturbati, costituendo essi anche una metastasi per il Paese». Ma i colpi più pesanti riguardano il tentativo di riforma, che «suscita enorme preoccupazione». La separazione delle carriere è tesa a «creare le premesse per un futuro controllo del governo sull'operato della magistratura». La modifica della composizione del Csm «porterebbe inevitabilmente a una sottomissione dell'organo di autogoverno e, quindi, della magistratura, al potere politico e, in particolare, a quello dell'esecutivo in carica». E la famigerata «legge bavaglio» sulle intercettazioni «mette in serio pericolo i principi fondamentali della libertà di pensiero e del diritto dei cittadini all'informazione». Quanto a Berlusconi, per farlo fuori Esposito riesuma il «principio di distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale approvato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1993 con una larghissima e inedita maggioranza (Dc, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete)». Quell'accordo di larghissime intese «stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, consistenti nella stigmatizzazione dell'operato e, nei casi più gravi, nell'allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Bandire i politici senza nemmeno giudicarli: un bel sollievo per il giudice Esposito e i suoi colleghi.

Intervista esclusiva al giudice Esposito rilasciata ad Antonio Manzo su “Il Mattino”: «Berlusconi condannato perché sapeva». Il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione spiega la sentenza: l'ex premier era a conoscenza del reato. Silvio Berlusconi non è stato condannato «perché non poteva non sapere», ma «perché sapeva»: era stato informato del reato. Così il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione, spiega la sentenza di condanna per il Cavaliere in una intervista esclusiva al Mattino. «Nessuna fretta nel processo. Abbiamo solo attuato un doveroso principio della Cassazione, quello di salvare i processi che rischiano di finire in prescrizione». E quello Mediaset sarebbe andato prescritto il primo agosto scorso. «Abbiamo deciso con grande serenità» aggiunge il magistrato. Sulle polemiche che negli ultimi giorni lo hanno colpito dal fronte berlusconiano, il presidente preferisce non replicare: «La mia tutela avverrà nelle sedi competenti». Aggiunge: «Ero per la diretta tv, ma avremmo turbato il processo».

Giudice Esposito, può esistere, chiamiamolo così, un principio giuridico secondo il quale si può essere condannati in base al presupposto che l’imputato «non poteva non sapere»?

«Assolutamente no, perché la condanna o l’assoluzione di un imputato avviene strettamente sulla valutazione del fatto-reato, oltre che dall’esame della posizione che l’imputato occupa al momento della commissione del reato o al contributo che offre a determinare il reato. Non poteva non sapere? Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza».

Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?

«Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere». Tempesta sul giudice Antonio Esposito dopo l'intervista esclusiva rilasciata al Mattino. All'attacco Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, il segretario della commissione Giustizia della Camera, Luca d'Alessandro, Mara Carfagna, portavoce del gruppo Pdl alla Camera, l'ex ministro Maria Stella Gelmini, Daniela Santanchè e il deputato Elvira Savino. Sulla vicenda intervengono anche gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, scrive “Il Mattino”.

Bondi. «È normale che il giudice Esposito entri nel merito della sentenza della Cassazione con un'intervista rilasciata ad un quotidiano nazionale? È questo il nuovo stile dei giudici della Cassazione? Io credevo che i giudici parlassero attraverso le sentenze, anche se controverse, e che i magistrati fossero "la bocca della legge". Ma vuol dire che mi sbaglio». Così Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, in merito all'intervista rilasciata dal magistrato a "Il Mattino".

Gelmini. L'intervista del giudice Esposito sul Mattino di Napoli presenta «modalità incomprensibili». A dirlo è Maria Stella Gelmini (Pdl), intervenuta a "Radio Anch'io" su Radio1 Rai. «Questo processo nel quale è stato condannato in terzo grado Silvio Berlusconi - sostiene - ha veramente delle profonde anomalie dal fatto che il presidente di Mediaset Confalonieri sia stato ritenuto del tutto estraneo alla vicenda, com'è giusto che sia, ma che allo stesso tempo chi in quel periodo faceva ed era impegnato ad essere presidente del Consiglio sia stato più responsabile di chi lavorava in Mediaset e quindi debba essere condannato: è un qualcosa che non si comprende, una modalità incomprensibile perché Berlusconi non era in Mediaset e in quel momento non era impegnato tanto meno ad occuparsi di diritti televisivi; aveva un ruolo ben preciso, quello di presidente del Consiglio».

D'Alessandro. «L'ineffabile dottor Esposito ha oggi inventato la smentita che non smentisce, anzi che conferma l'intervista rilasciata al Mattino. Al di là dei commenti più espliciti sulla sentenza, che egli dichiara di non aver proferito e sui quali attendiamo curiosi la replica del Mattino, il presidente della sezione feriale della Cassazione conferma non solo di aver ricevuto il giornalista, ma anche di averci parlato e di aver rilasciato l'intervista, il cui testo (leggiamo dalla sua stessa smentita) è stato "debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato"». È quanto afferma Luca d'Alessandro (Pdl), segretario della commissione Giustizia della Camera. «Poichè tutta la conversazione attiene al processo a Silvio Berlusconi e alla sentenza emessa proprio da Esposito, è davvero paradossale e grave che egli sostenga di aver parlato solo in termini generali. Ribadiamo che non è importante ciò che il giudice dice (ancorchè grave), ma è inquietante che egli intervenga pubblicamente e lo faccia anche prima delle motivazioni. Quanto poi al testo che egli avrebbe controllato e approvato, il fatto che non sia reso conto che tutta l'intervista - da lui letta prima della pubblicazione - abbia riguardato il processo a Berlusconi ci fa sorgere più di un dubbio sulle sue capacità di discernimento. E se ha così mal compreso quanto ha scritto il giornalista, da lui sottoscritto, ci chiediamo con terrore se sia stato in grado di comprendere fino in fondo le carte di un processo così delicato per la sorte di un leader politico, che ha un seguito di dieci milioni di elettori, e di un intero Paese», conclude.

Carfagna. «Nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto principio costituzionale del "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", tuttavia esistono dei limiti morali e di opportunità che il buon senso, le circostanze e i ruoli impongono». Così la portavoce del gruppo Pdl alla Camera dei deputati Mara Carfagna, nell'ultimo post del suo blog, ha commentando l'intervista al Mattino. «Un togato - è quanto sottolineato l'esponente del Popolo della libertà - dovrebbe esprimere i propri "giudizi" con le sentenze, che si compongono di un dispositivo e di motivazioni, da depositare nei tempi e nei modi prestabiliti dalla legge. Anticipare queste ultime in forma pubblica, attraverso un'intervista ad un organo di informazione nazionale, appare più come un modo per ottenere visibilità per chissà quale scopo futuro. Gli esempi di Di Pietro e Ingroia sono assolutamente vividi nella mente di tutti, così come la loro parabola politica». «Un togato, ancora di più se della Cassazione, dovrebbe fare della discrezione e del rispetto - formale e sostanziale - nei confronti di chi ha giudicato, degli imperativi categorici. Se ciò non avviene, allora, tutti sono legittimati a "fraintendere", ponendoci delle domande sulla reale terzietà di certi giudici» aggiunge Carfagna.

Savino. «Se il presidente della sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, ha ritenuto di dover concedere una intervista (confermata dal Mattino) per spiegare le motivazioni della sentenza addirittura prima del deposito della sentenza stessa, allora è la conferma che c'è più di qualcosa che non va. Ha voluto mettere le mani avanti, ma, excusatio non petita, accusatio manifesta». Lo afferma Elvira Savino, deputata pugliese del Pdl. «E c'è che ancora qualcuno che ci vorrebbe imporre di non commentare le sentenze, se poi sono gli stessi giudici che le hanno emesse a farlo? C'è ancora qualcuno che sostiene che una riforma della giustizia non è necessaria e urgente? Noi non possiamo accettare, e mai lo faremo, che un leader politico venga estromesso dalla vita pubblica non dalle urne ma da certi tribunali. Per questo - conclude Savino - non smetteremo mai difendere Silvio Berlusconi dagli ingiusti attacchi che subisce da vent'anni».

Santanchè. «Come valuterebbe il giudice Esposito il caso di un imputato che si comportasse come ha fatto lui, ovverossia, dichiarasse palesemente il falso? Complimenti,signor giudice!» afferma Daniela Santanchè, Pdl.

Ghedini. «Solo nei processi nei confronti del presidente Berlusconi possono verificarsi fatti simili», afferma Niccolò Ghedini in una nota. «Prima del deposito della motivazione nel processo cosiddetto "Diritti" - spiega il legale dell'ex premier - il presidente del collegio della sezione feriale della Corte di Cassazione dott. Esposito avrebbe anticipato le motivazioni della sentenza ad un giornalista del Mattino di Napoli che lo ha riportato con grandissimo risalto. Il fatto in sè è ovviamente gravissimo e senza precedenti». Prosegue Ghedini: «Fra l'altro il dott. Esposito avrebbe affermato che il presidente Berlusconi sarebbe stato avvertito delle asserite illecite fatturazioni da "Tizio, Caio e Sempronio" e per ciò meritava la condanna. La tesi in punto di diritto è del tutto errata, ma come qualsiasi controllo degli atti può dimostrare, così non è. Mai nessun testimone ha dichiarato che Silvio Berlusconi conoscesse o si occupasse dell'acquisto dei diritti cinematografici nè in particolare che si occupasse degli ammortamenti o delle dichiarazioni fiscali. Dunque, il presidente Berlusconi doveva essere assolto. Ma sempre il dott. Esposito quest'oggi ha smentito l'intervista affermando di aver parlato in generale. La tesi già di per sè sarebbe assai peculiare poichè è facile cogliere l'inopportunità di tale intervento senonchè il direttore del giornale in questione ha dichiarato che l'intervista al dott. Esposito è stata trascritta letteralmente e vi è la registrazione. Se così fosse tale accadimento è, come è facile comprendere, ancor più grave e dimostrerebbe un atteggiamento a dir poco straordinario. È evidente che gli organi competenti dovranno urgentemente verificare l'accaduto che non potrà non avere dei concreti riflessi sulla valutazione della sentenza emessa».

L'avvocato Coppi. «Ormai di quello che sta accadendo non mi meraviglio più. Se Berlusconi riterrà di dover far qualcosa se la vedrà lui. Certo, normalmente le motivazioni di una sentenza si conoscono con il deposito della sentenza stessa. In genere dichiarazioni in anteprima non si rilasciano». Lo afferma ad Affaritaliani.it l'avvocato Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, a proposito dell'intervista al presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito. Riguardo al modo in cui sconterà la pena, Coppi ha detto che quando Berlusconi «avrà deciso che cosa fare, noi tecnici ci metteremo a disposizione per realizzare quello che è il programma che lui stesso ha delineato. In questo momento non voglio entrare in questo tipo di discorso». La questione della richiesta di grazia per l'ex premier è ancora una strada percorribile? «È una questione di competenza del presidente della Repubblica - risponde Coppi - e vedremo che cosa deciderà di fare. Per il momento noi come legali stiamo soltanto alla finestra. Vedremo quello che succederà». Anche su un eventuale ricorso in Europa, «non abbiamo preso una decisione: comunque bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza. Non possiamo mica fare il ricorso sulla base di quello che ha detto il presidente Esposito».

Antonio Esposito, la toga che ha trasformato Berlusconi un pregiudicato e che, in dialetto campano, anticipava a un giornalista de Il Mattino le motivazioni della sentenza. Esposito, al telefono, alzava l'asticella: "Altro che non poteva non sapere. Berlusconi sapeva". Questo il succo del suo pensiero. Basta questo a renderlo "di sinistra"? No, affatto, anche se un sospetto è legittimo: come è possibile che non abbia neanche un dubbio? Questo non è dato saperlo, attendiamo le motivazioni (quelle vere) della sentenza. A renderlo "di sinistra" - con buona pace dei "ritratti, indiscrezioni e ricostruzioni" sul collegio destrorso - è una nuova indiscrezione, rilanciata da Il Giornale, che ha spedito un inviato a Sapri, provincia di Salerno, il regno del giudice Esposito. La parola all'edicolante della toga che ha crocifisso il Cavaliere: "Compre sempre e soltanto Repubblica e Fatto Quotidiano. Non è un mistero che Berlusconi non gli vada a genio". Avete ancora qualche dubbio al riguardo? La rivelazione via telefono di particolari riguardanti, non solo le sentenze ancora da motivare, ma addirittura i contenuti delle inchieste giudiziarie in pieno svolgimento, sembra un vizio collaudato fra le toghe, scrive Cristina Lodi su “Libero Quotidiano”. Le quali, a differenza di Silvio Berlusconi, alla fine la fanno sempre franca.  Sembrano lontani i tempi in cui l’ex Presidente del consiglio veniva messo sotto inchiesta, processato e condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, per avere favorito la pubblicazione su il Giornale della famosa intercettazione («Abbiamo una banca!») tra l’ex capo dei Ds Piero Fassino e  Giovanni Consorte. Erano i tempi della scalata del gruppo assicurativo bolognese Unipol a Bnl. Silvio, con questa storia, ha collezionato una condanna che il prossimo settembre 2013 cadrà nell’oblio della prescrizione. Il giudice Antonio Esposito, che invece ha anticipato in un’intervista le motivazioni della sentenza di condanna da lui stesso pronunciata a carico del Cavaliere, rischia (forse) un procedimento disciplinare. E poco importa se nel rivelare che Silvio Berlusconi fosse (secondo la Cassazione) al corrente della frode fiscale a lui contestata, rischi inevitabilmente di condizionare il relatore Amedeo Franco che ora dovrà scrivere quelle stesse motivazioni. Ai giudici sembra tutto concesso. Basta guardare quanto accaduto a Viterbo, dove  Aldo Natalini, pm nella famosa inchiesta senese sul Monte dei Paschi di Siena, si sente in diritto di rivelare al telefono a un amico dettagli dell’indagine. Questo amico del pm inquirente si chiama Samuele De Santis, soggetto finito sotto accusa per una storia di estorsione a imprenditori invischiati in una vicenda di appalti e tangenti. Samuele De Santis viene addirittura arrestato per falso ed estorsione. Ma tra febbraio e marzo 2013 raccoglie al telefono le rivelazioni dell’amico e compagno di studi Aldo Natalini, pm dell’inchiesta sulla banca. Il magistrato di Viterbo, Massimiliano Siddi, che indaga sull’avvocato per l’estorsione, intercetta le conversazioni e iscrive nel registro degli indagati il collega togato. Rivelazione del segreto istruttorio, l’accusa. Stando al Giornale d’Italia che ha dato notizia dell’inchiesta, il pm Natalini si sarebbe consultato apertamente con l’amico avvocato sulle strategie legali che si potrebbero intraprendere nel caso nell’inchiesta su Mps venissero coinvolti «anche i vertici del Partito Democratico». Spiegando, da un punto di vista giuridico, «quali sarebbero le eventuali eccezioni cui fare ricorso laddove le indagini andassero a colpire l’alta dirigenza del Pd». Quindi Natalini (stando al Giornale d’Italia) «non solo avrebbe spiegato come si possa difendere Giuseppe Mussari e Fabrizio Viola, ma anche chi direttamente o indirettamente influenza le sorti della Banca “rossa”». David Brunelli, avvocato di Natalini, ha confermato l’iscrizione nel registro degli indagati del suo assistito, ma ha voluto sottolineare che il magistrato «ha già chiarito tutto». E che «quella per cui il pm è stato indagato è una telefonata dai contenuti irrilevanti».  Anche la Procura di Siena è scesa in campo in difesa del pm inquisito: «Aldo Natalini non è mai venuto meno ai suoi doveri di riservatezza in ordine alle indagini da lui condotte e, in particolare, alle indagini aventi per  oggetto Banca Mps», dice il procuratore capo Tito Salerno, che al magistrato riconosce «la massima serietà e professionalità». Tutto questo nonostante il pm resti indagato e sotto inchiesta per avere violato i segreti dell’inchiesta del più «rosso» degli istituti di credito.

Il giudice Esposito e Felice Caccamo. L'audio dell'intervista al Mattino riporta alla memoria il personaggio cult di "Mai dire gol" piuttosto che un giudice della Cassazione, scrive  Annalisa Chirico su “Panorama”. No, non è come pensate. Prestate attenzione: non è la voce di un Felice Caccamo qualunque. Concentratevi sulle singole parole: “Chille nun poteva non sapere”, “Tiziu, Caiu e Semproniu an tit (hanno detto) che te l’hanno riferito. E allora è nu pocu divers’”. Che cosa avranno mai riferito Tizio, Caio e Sempronio? E chi sono costoro? A spiegarcelo non può essere Teo Teocoli nei panni del giornalista ittico-sportivo consacrato alla storia televisiva da “Mai dire gol”, l’allievo prediletto del professore Catrame, esegeta celeberrimo della cultura partenopea. “Gira la palla, gira la palla”, chi se lo scorda più. L’audio della discordia non riguarda i palloni, la voce non è quella di Teocoli in una improbabile giacca azzurra, ma quella dell’ermellino più famoso d’Italia, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi. Ecco a voi Antonio Esposito con la sua inconfondibile cadenza napoletana – non sappiamo se anche sua moglie si chiami Innominata -, una cadenza che va ben oltre l’elegante e sanguigna inflessione del  fior fiore dell’intellighenzia campana. “Chille nun poteva non sapere”, scandisce il magistrato al giornalista de Il Mattino, che lo ascolta e prende nota. In quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico. Si tratta proprio di un napoletano strascicato, più spagnolo che “vomeresco”. Un linguaggio che stride con l’ermellino, stride con l’autorevolezza e il decoro di una carica suprema ingolfata in una raffazzonata dizione che se ne infischia del soutenu, della buona immagine, lasciandosi andare a confidenze scomposte in un italiano scomposto. A parlare non è Caccamo, cui tutto è concesso, ma un giudice della Suprema Corte di Cassazione, legato da quarant’anni di amicizia a quel giornalista, dal quale confessa di sentirsi tradito. “Se fa il giornalista lo deve soltanto a me”, dichiara in modo non meno oscuro stamattina su La Repubblica. Ma non chiediamoci che cosa voglia dire, teniamoci sulla forma. E la forma è imbarazzante. Il giudice, che ha pubblicato anticipatamente in edicola le motivazioni di una sentenza, si rende protagonista di una sceneggiata grottesca. Non si tratta di una commedia di Guareschi, ma di una “caccamiata” senza Teocoli, ma con una fulgida maschera napoletana che restituisce un quadro fedele della Napoli di oggi, ai tempi del sindaco ex pm, del lungomare bloccato e delle esequie dei fasti che furono. La maschera napoletana si adombra di tristezza se consideriamo che un attimo dopo la pubblicazione dell’intervista Esposito fa un’altra brutta figura: egli si affretta a smentire, salvo poi essere irrefutabilmente sbugiardato dall’audio diffuso urbi et orbi. Dopo averlo sentito esprimere in libertà nella sua popolaresca napoletanità, possiamo soltanto immaginare che cosa avrà detto al figlio Ferdinando, giovane e aitante magistrato beccato a cena in un ristorante meneghino con l’ex consigliera regionale Nicole Minetti, allora imputata nel processo Ruby-bis. Ma “ogni scarrafone è bello a mamma soia”. E a papà soia. Infatti le accuse nate dalla segnalazione del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati nel maggio del 2012 sono state archiviate, Ferdinando è salvo. C’è da giurarci che anche Antonio ce la farà. In fondo, Partenope perdona sempre. Gira la palla, gira la palla. Ma c’è un precedente. Impietoso come sa essere, il web sta costruendo un nuovo mito. Si tratta di Mariano Maffei, procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice con il quale da qualche giorno l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella ha incrociato la spada.

ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.

Chi è Maffei?, scrive Panorama. "Un servitore dello Stato che per ben 44 anni ha amministrato la giustizia con altissima professionalità, con spiccato senso del dovere, con il massimo impegno, con autonomia e indipendenza assoluta". E così si descrive lui stesso, nel corso dell'affollata conferenza stampa in cui, oltre a spiegare i motivi dell'azione giudiziaria ai danni dei Mastella (e di metà Udeur campano), il procuratore ha anche risposto all'ex Guardasigilli: "La polemica sollevata in Parlamento dal ministro è disgustosa". Se non fosse, che accerchiato dai giornalisti e probabilmente poco abituato alle telecamere, l'anziano magistrato ha dato in escandescenze e dopo che il video integrale di quella malgestita comunicazione alla stampa è andato in onda a Matrix, è arrivato YouTube a rilanciarlo come clip più cliccata del momento. Complice quel marcato accento campano e quell’aspetto un po' rigido da personaggio d'altri tempi. Mastella non si è lasciato sfuggire l'occasione di attaccare : "Essere giudicati da uno come lui è malagiustizia. Per carità, massimo rispetto per tantissimi magistrati ma essere giudicati da gente così fa paura ad un cittadini. È sconvolgente" ha aggiunto Mastella "che un giudice incompetente arresti le persone ammazzando così famiglie. Io posso difendermi pubblicamente attraverso voi giornalisti, però gente come questa comporta drammi umani nelle famiglie. Un giudice che è diventato una macchietta su Youtube...".

Ve lo ricordate Mariano Maffei, il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che ottenne l’arresto di Sandra Lonardo, con conseguenti dimissioni del marito e allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella e caduta del governo Prodi? Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Sì, quello dell’intervista alla napoletana, diventata un cult su YouTube, che l’ex Guardasigilli definì «una macchietta». Ecco, il 10 dicembre scorso il pm di Roma Giancarlo Amato ha chiesto il suo rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio e calunnia. E nell’udienza del 19 febbraio 2008, di fronte al giudice per le indagini preliminari Maurizio Silvestri, Maffei dovrà difendersi da accuse pesanti. Di aver, cioè, denunciato per falso e abuso d’ufficio il suo aggiunto Paolo Albano e il sostituto Filomena Capasso, per una storia di indagini inadeguate da parte della polizia giudiziaria legate a un'inchiesta su un medico ospedaliero. Questo Maffei l’avrebbe fatto «in totale assenza di qualsiasi elemento accusatorio» e, scrive il pm, «pur conoscendo l’innocenza dei predetti magistrati» e «cagionando intenzionalmente ingiusto danno». Un comportamento, sempre secondo il magistrato inquirente, che trova «semmai giustificazione in precedenti dissidi personali e professionali» con i suoi colleghi. Della faida interna alle toghe sammaritane si è già molto parlato sia ai tempi dell’esplosiva inchiesta che travolse i coniugi Mastella e mezza Udeur campana sia dopo, quando fioccarono gli esposti contro Maffei e tre suoi «fidati» sostituti, da parte di altri procuratori che denunciavano indagini illecite su di loro, metodi scorretti di gestione dell’ufficio, «un clima insostenibile di sospetti e di comportamenti vessatori». Insomma, una forma di accanimento verso quelle toghe che non erano per così dire in linea con la direzione Maffei. Della guerra fra toghe, con accuse di mobbing, inchieste e denunce, si sono già occupati l’ispettorato del ministero della Giustizia, la Procura generale di Napoli e il Consiglio superiore della magistratura, ma Maffei nel mezzo della bufera se n’è andato in pensione e almeno le ripercussioni disciplinari le ha evitate. Le indagini giudiziarie, però, sono andate avanti e per competenza le ha fatte la procura di Roma. Ora il pm Amato firma una richiesta di rinvio a giudizio di cinque pagine, dalle quali emerge un quadro inquietante di quanto è successo per lungo tempo nella Procura di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza, è convinto che Maffei avesse «punito» per altri motivi i due pm Albano e Capasso, evidentemente non in sintonia con lui, facendoli finire sotto indagine senza motivo e ben sapendo che le sue accuse non poggiavano su nulla di concreto. Una mossa del tutto strumentale, dunque. E un metodo del genere fa pensar male sul modo di Maffei di scegliere gli obiettivi da perseguire e i soggetti da indagare, quindi sul suo modo di gestire l’ufficio. Certi nodi vengono al pettine solo ora che Maffei ha lasciato la magistratura, sbattendo la porta con aspri battibecchi con Mastella, che lo accusava di non essere imparziale e di agire con un mandante politico, sottolineando la sua parentela con il presidente della Provincia Alessandro De Franciscis, che dall’Udeur era passato al Pd. D’altronde, anche nei giorni della tempesta giudiziaria sui Mastella, l’allora procuratore non era stato affatto cauto, facendo dichiarazioni che tradivano il dente avvelenato contro il governo, parlando di «regime dittatoriale» e lamentandosi del fatto che «grazie» alla riforma Mastella, che imponeva una rotazione con il limite massimo di 8 anni per gli incarichi di vertice, doveva lasciare il suo posto e subire un capo sopra di lui oppure andarsene. Sarà interessante seguire gli sviluppi giudiziari della vicenda Mastella, perché già si parla di un testimone secondo il quale a novembre 2007 Maffei l’avrebbe giurata all’ex-Guardasigilli.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

Parliamo di quando Ferdinando Esposito, figlio di Antonio, stava per essere assassinato dai Servizi Segreti. Poi però……………, scrive Michele Imperio su “La Notte On Line”. Si fa molto parlare oggi del giudice Antonio Esposito il Magistrato che ha presieduto il collegio della Suprema Corte di Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi: Se ne parla perchè subito dopo la sentenza ha rilasciato un’intervista al quotidiano “Il mattino” di evidente valenza politica perché il Magistrato ha tenuto a precisare che Silvio Berlusconi non è stato condannato perchè non poteva non sapere che all’interno della sua azienda era stata consumata una frode fiscale ma è stato condannato perchè conosceva direttamente quella circostanza. Nel che è parso intravedere una certa soddisfazione per quella condanna che, unita alla celerità della fissazione del processo perchè potesse essere lui a giudicare, crea nel pubblico non poche perplessità. Quella degli Esposito è una famiglia di Magistrati. Magistrato è Antonio, Magistrato è suo fratello Vitaliano, magistrato è il figlio di Antonio, Ferdinando. E pochi sanno che Ferdinando alcuni anni fa è stato protagonista di uno degli episodi più torbidi della storia dei nostri servizi segreti deviati. divenendo depositario di segreti inconfessabili. Per i quali a momenti ci rimetteva la pelle. Ma procediamo con ordine. Nel dicembre 2007 IL PM Ferdinando Esposito figlio di Antonio Esposito esercita le funzioni di Pubblico Ministero presso il Tribunale di Potenza competente a occuparsi si tutti i misfatti dei Magistrati di Brindisi Tarato e Lecce mentre suo padre Antonio e suo zio Vitaliano sono due anonimi Magistrati della Suprema Corte di Cassazione. Ma nel 2007 Ferdinando a Potenza diventa assegnatario di un’indagine delicatissima. Questa indagine riguarda il rapporto fra l’ex GIP di Milano, Clementina Forleo, e due PM della Procura di Brindisi, Santacatterina e Negri, ed un tenente dei carabinieri, Ferrari. La Forleo li ha denunciati tutti e tre per aver indagato poco e male. Anzi, per non aver indagato affatto sulla morte dei suoi genitori, avvenuta nell’agosto del 2005, guarda caso, in uno stranissimo incidente stradale. Quella inchiesta è stata archiviata. Ma la Forleo non demorde. Sostiene che la morte dei suoi genitori è molto sospetta, perché preceduta da inquietanti segnali: lettere e telefonate anonime, danneggiamenti e soprattutto messaggi profetici. Per competenza la denuincia è finita a Potenza, nelle mani del PM Esposito. Esposito iscrive nel registro degli indagati uno dei PM brindisini, Alberto Santacatterina, ed il tenente dei carabinieri di Francavilla Fontana, Pasquale Ferrari e li carica di una serie di imputazioni pesantissime: frode processuale, induzione a commettere reati, calunnia, abuso d’ufficio, omissione di atti d’ufficio, associazione per delinquere per tutti e tre e in particolare a Santacatterina contesta anche il reato di falsità ideologica perché, nel chiedere l’archiviazione, «attestava falsamente» di avere «acquisito ed esaminato i tabulati» e di non aver trovato «telefonate utili alle indagini» quando ciò non era vero. Inoltre secondo una ricostruzione dei fatti contenuta in un’audiocassetta “esplosiva”, registrata dalla Forleo attraverso captazioni di conversazioni, i pm e il tenente avrebbero cercato di “rimediare” il papocchio querelando la Forleo e si sarebbero accordati per presentare la querela quando in Procura fosse stato di turno il pm Negro, amico dei due. Poi chiede per i due al g.i.p. due mandati di cattura.

Povero Ferdinando! ………….Voleva fare il giudice sul serio!…………. In Italia!……………….

Subito dopo aver depositato questa richiesta Ferdinando Esposito subisce il secondo di tre stranissimi incidenti stradali di questa macabra telenovela all’italiana (il primo è quello che ha provocato al morte dei genitori della Forleo due anni prima nel 2005) che ne ricomprende almeno un terzo, come vedremo. Mentre torna a casa dal lavoro in Procura una sera del dicembre 2007 Ferdinando Esposito esce rovinosamente fuori strada proprio in corrispondenza di una scarpata e precipita nel fondo alla scarpata stessa. Ma come fa una macchina a finire in una scarpata senza ragione? Speronato? Manomessa la vettura? Non si sa. il Magistrato riporta ferite gravissime per le quali sarebbe sicuramente morto se per puro caso un altro automobilista non si fosse accorto dell’incidente e della presenza della vettura nella scarpata e non avesse allertato i soccorsi. Sicuramente chi l’ha buttato lì dentro pensava che morisse. Sono così gravi le ferite che Ferdinando Esposito rimane in ospedale per mesi ed è costretto ad abbandonare l’inchiesta sul collega Alberto Santacatterina e su Pasquale Ferrari. Il mandato di cattura non viene più eseguito. L’inchiesta passa a una sua collega dell’Ufficio Cristina Correale e nel tempo tutte le accuse vengono smontate e archiviate. Anzi, Alberto Santacatterina verrà anche promosso sostituto procuratore distrettuale antimafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Intanto Ferdinando giace per mesi – come detto – in un letto d’Ospedale. Immaginiamo papà Antonio e zio Vitaliano al suo capezzale: Figlio mio! Ma che cosa hai fatto! Ti sei messo contro i Poteri Forti! Volevi arrestare un collega! Tu vuoi rovinare la famiglia! Fatto sta che Ferdinando Esposito non parla. Perchè la vettura è finita nella scarpata? Un caso! Ma quali erano i fatti che avevano dato origine a quella richiesta di mandati di cattura? Erano fatti relativi all’inchiesta Antonveneta uno dei filoni di indagine del caso che va sotto il nome di “scalate bancarie”, illeciti di varia natura di dirigenti di banche nostrane interessati ad acquisire a tutti i costi la BNL e l’Antonveneta con la privatizzazione e a superare la concorrenza – più forte – di banche straniere. L’azione della dott.sa Forleo è in quell’occasione particolarmente determinata: ravvisati gli illeciti, la dott.sa Forleo sequestra i titoli della Banca Antonveneta, arresta Fiorani, presidente della Banca di Lodi, mette sotto controllo il telefono del Governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio, ne determina l’incriminazione e l’espulsione dai vertici della Banca, recupera 300 milioni, che sequestra e poi confisca. tutte queste iniziative giudiziarie stroncano però inesorabilmente il tentativo del Banco di Lodi e (ahimè;) della Banca d’Italia di acquisire con strumenti illeciti la Banca Antonveneta già Banca Antoniana del Veneto. Ma questo rigore in difesa della legge da parte della Forleo è una cosa che deve aver dato fastidio a qualcuno perché il 25 Agosto 2005 si verifica il primo stranissimo incidente stradale di questa storia. . L’incidente si verifica la sera alle ore 20.00 sulla provinciale Francavilla-Sava nel tratto che si trova in provincia di Brindisi. Un fuoristrada Toyota, condotto dal medico tarantino Salvatore De Bellis, impatta violentemente a un incrocio contro la Rover sulla quale viaggiavano Gaspare Forleo, di 77 anni, sua moglie Stella Bungaro, di 75, padre e madre del magistrato e il dott. Franzoso, marito della dott.sa Forleo. I primi due muoiono sul colpo, il terzo finisce in coma ma fortunatamente si riprende. Potrebbe essere un incidente come tanti altri. E invece è un sinistro sospetto perché è preceduto da inquietanti segnali, da lettere, da telefonate anonime, da danneggiamenti che si sviluppano secondo questo impressionante crescendo: 5 maggio 2005: viene distrutta una villa di campagna dei Forleo a Francavilla Fontana; 20 giugno 2005: viene incendiato l’intero raccolto di foraggio dell’azienda agricola di famiglia; 21 luglio 2005 la Forleo riceve una lettera in cui si dice: “Andrai dietro la bara dei tuoi genitori. E poi toccherà anche a te”. Il 25 agosto 2005, appena 34 giorni dopo, l’incidente stradale mortale, praticamente profetizzato. Il 30 agosto 2005 (quindi cinque giorni dopo il sinistro) la Forleo riceve un’altra lettera di “felicitazioni” per il grave lutto, accompagnata da un proiettile calibro 38. Il Magistrato però non si lascia intimidire. Fa una denuncia alla Procura della Repubblica di Brindisi e chiede che vengano fatte ricerche sui tabulati delle telefonate minatorie arrivate alla famiglia, prima del sinistro. Senza ipotizzare l’incidente doloso, la dott.sa Forleo chiede che si scoprano gli autori delle telefonate. Accertarlo è semplicissimo. Basterebbe acquisire i tabulati telefonici dei genitori e dei numeri chiamanti e poi intercettare questi ultimi. Le indagini vengono affidate dal Procuratore Capo Giuseppe Giannuzzi al giudice Alberto Santacatterina e da questi delegate al Tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari. Ma dopo due anni (2007) la Forleo scopre che le indagini non sono mai andate avanti. Non è stata infatti identificata alcuna utenza. Non è stato fatto alcun accertamento. Il PM titolare dell’inchiesta (Santacatterina) sostiene, contrariamente al vero, che dai tabulati non risultano telefonate indirizzate ai Forleo e quindi sta chiedendo l’archiviazione dell’esposto. Peraltro ai Carabinieri Santacatterina ha chiesto solo i tabulati. E i carabinieri hanno fatto ancora meno: si sono limitati ad acquisire i tabulati che partivano da casa Forleo, non quelli – fondamentali – delle chiamate in entrata. Cioè praticamente non hanno fatto nulla. Com’è normale che fosse fra la Forleo e il tenente Ferrari nasce un piccolo battibecco: “si vergogni di indossare la divisa” – dice la Forleo. E qui si verifica un secondo fatto inquietante. Perché a questo punto, Sattacaterina e Ferrari, colti in castagna, anziché colmare velocemente i vuoti dell’indagine, tentano di trasformare la Forleo da parte lesa a imputata. E soprattutto cercano di farla passare per una matta e per una visionaria. Il 14 agosto 2007, alla vigilia di Ferragosto, mentre il procuratore capo di Brindisi Giannuzzi , espulso dalla magistratura perchè su Brindisi aveva costituito uno studio di parenti avvocati, e tutti i giudici del Tribunale sono in ferie, il tenente Ferrari presenta una denuncia scritta contro la Forleo, per la telefonata (“si vergogni di indossare la divisa”) e guarda caso, proprio quand’è di turno il pm Antonino Negro, amico dell’ufficiale Ferrari e del pm Santacatterina. Questi assegna a se stesso il fascicolo. Non potrebbe farlo perchè non si tratta di una questione urgente. Il fascicolo dovrebbe essere assegnato successivamente ad altro magistrato secondo il sorteggio. Ma egli lo assegna ugualmente a se stesso. Ma il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Il gip di Brindisi respinge la richiesta di archiviazione della denuncia della Forleo e ordina a Santacaterina indagini più approfondite. Che però non vengono fatte. Perché il dott. Alberto Santacatterina di questo processo proprio non ne vuole sapere. Quei tabulati non li vuole acquisire. Santacatterina va da Giannuzzi per liberarsi del fascicolo. Ma Giannuzzi gli intima di mantenerlo e – ovviamente – di non fare indagini. E’ per questo che è nervoso Santacatterina. Quando lo contatta l’avvocato della Forleo lo manda a quel paese. “la Forleo ci sta rompendo i c……..!” – dice. Ma come! Una è parte lesa e il giudice cui si rivolge le dice: “Mi sta rompendo i c……..!” Intanto la dott.sa Forleo inoltra un esposto alla Procura della Repubblica di Potenza. Il fascicolo è assegnato a il dott. Ferdinando Esposito, il quale ascolta tutta la trama e rimane scandalizzato dalla vicenda. Quindi – come abbiamo detto chiede a carico di uno dei due pm di Brindisi coinvolti (Alberto Santacatterina e del tenente dei Carabinieri Pasquale Ferrari il mandato di cattura. Insomma una bomba! Al Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Lecce la Forleo chiede intanto di avocare l’inchiesta di Negro. Il quale, per tutta risposta, continua a tenere il fascicolo presso di sè, chiude le indagini a tempo di record e la rinvia a giudizio per minacce al tenente Ferrari, reato dal quale la Forleo sarà poi assolta. Quindi su quella strana triangolazione Ferrari-Negro-Santacatterina stava facendo luce – come detto – il pm di Potenza Ferdinando Esposito. Ma qui avviene il secondo strano incidente stradale che abbiamo narrato e che mette fuori gioco Fernando Esposito. Ma non c’è due senza tre. In un o dei biglietti che profetizzavano l’incidente dei genitori era scritto “ E poi toccherà anche a te!”. E infatti il 3 dicembre 2009 l’auto della Forleo vien speronata in autostrada e finisce contro un guard rail. Se l’auto della Forleo non avesse avuto l’air bag anche la Forleo sarebbe morta. Però prima e dopo quella data gli Esposito ricevono benefici a più non osso. Il 21 novembre 2008 Vitaliano, lo zio di Ferdinando, viene nominato Procuratore generale della corte suprema di cassazione carica che ricopre fino al 13 aprile 2012. Nel gennaio 2013 però viene nominato dal governo Monti, su indicazione di Gianfranco Fini, Garante del Governo per l’esecuzione delle prescrizioni dell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto, un incarico da 200.000 euro l’anno. Ma che c’entra un magistrato che ha sempre fatto penale con il controllo prescrizioni tecniche che riguardano un’industria siderurgica? Antonio padre di Ferdinando viene nominato presidente della seconda Sezione. I fatti strani però non finiscono qui. Il nome di Ferdinando Esposito compare anche in intercettazioni scabrose che riguardano i servizi segreti. Nel motivare le esigenze cautelari dell’ex n. 2 dell’Aisi Francesco la Motta, arrestato per aver fatto sparire 10.000 milioni di euro dai fondi del Fec (fondi erp gli edifici del culto da lui amministrati dal 2003 al 2006), il gip parla di «attività persuasiva». «La Motta -  scrive - a tutt’ oggi non si fa alcuno scrupolo a tentare di utilizzare le sue aderenze». Il magistrato riporta una conversazione del 23 maggio. L’ ex vice dell’ Aisi chiama tale Ferdinando Esposito che i militari identificano in un pm di Milano e dice: «Avevo bisogno solo… pigliarmi un caffè n’ attimo co’ papà per notiziarlo su alcune cose… me lo fai tu da ponte per favore?». Secondo la ricostruzione dei carabinieri, il padre è Antonio Esposito, presidente di Sezione in Cassazione. Secondo altra interpretazione si tratterebbe di suo cugino Ferdinando funzionario dell’ amministrazione penitenziaria, figlio di Vitaliano, ex procuratore generale della Cassazione e garante dell’ Aia per l’ Ilva di Taranto. Comunque o l’uno o l’altro………..L’ interlocutore risponde: «Sì, come no». Chiosa il gip: «Pur in assenza di ulteriori comunicazioni che possano indurre anche solo ad ipotizzare che il contatto sia andato a buon fine, occorre evidenziare le aderenze di La Motta con appartenenti ad apparati dello Stato e le più che concrete possibilità di inquinare le indagini». Quanto ha reso ala famiglia Esposito quel prezioso silenzio di Ferdinando Esposito su quello stranissimo incidente stradale del 2007?

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive Sonia Gioia su “La Repubblica”. Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un' altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre 2007 la sezione locale dell' associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L' avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all'ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Poi, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l' avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all'unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Il 30 maggio davanti al gup  l'avvocato Vincenzo Minasi, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, racconta degli incontri tra il magistrato di Milano e Giulio Giuseppe Lampada accusato di essere il braccio finanziario della 'ndrangheta. La replica: "Calunnie, non l'ho mai conosciuto", scrive Davide Milosa su “Il Fatto Quotidiano”. Prima erano le cene con Nicole Minetti, consigliera regionale del Pdl nonché imputata per induzione alla prostituzione nel Rubygate. Adesso sono i pranzi con il 40enne Giulio Giuseppe Lampada, presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Per Ferdinando Esposito, sostituto procuratore di Milano e nipote dell’ex pg della Suprema Corte, i guai proseguono e anzi, se possibile, si complicano. E così, dopo che i tête-à-tête con l’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi sono atterrati sul tavolo del Csm, in seguito alla segnalazione del procuratore Edmondo Bruti Liberati, l’ultimo tassello sul caso del magistrato arriva dalle parole dell’avvocato Vincenzo Minasi accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Il legale, che ha scelto il processo con rito abbreviato, è stato sentito dal giudice per l’udienza preliminare. Qui, dopo sette ore di parole, Minasi fa una pausa, poi riprende. E a proposito della fuga di notizie a favore di Giulio Giuseppe Lampada, presunto braccio finanziario della cosca Condello, dice: “Non aveva più bisogno dell’avvocato Minasi, visto che aveva come amico Esposito qui della procura della Repubblica di Milano”. Il pm non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Sono solo calunnie – dice – , mai conosciuto Lampada”. Posizione avvalorata da un dato: per oltre un anno e mezzo Lampada è stato monitorato 24 ore su 24 dagli investigatori e mai è stato osservato un incontro tra i due e nemmeno una telefonata. Il boss e il magistrato, dunque. Proseguiamo con il luogo degli incontri, uno dei ristoranti più noti del capoluogo lombardo. “Con lui Lampada andava a mangiare al Bolognese”. Quindi ribadisce il concetto: figuriamoci se aveva bisogno di me. Il colletto bianco dei clan, stando alla ricostruzione del legale, aveva ben altre entrature per andare a vedere le carte della procura antimafia che per tre anni ha indagato sugli intrecci politico-mafiosi in Lombardia. Nel novembre scorso, l’indagine ha fatto scattare le manette per dieci persone. Tra queste Franco Morelli, consigliere regionale calabrese e il giudice Vincenzo Giglio. Insomma, il cosiddetto secondo livello che si alimenta di rapporti opachi tra mafia e istituzioni. Il tutto sulla rotta Milano-Reggio Calabria. Il verbale prosegue. Minasi parla tanto. E aggiunge particolari sui rapporti tra il magistrato e il presunto boss. Spunta anche il nome di Lele Mora già condannato per bancarotta e, come la Minetti, imputato nel processo Ruby bis per induzione alla prostituzione (accusa che condivide anche con l’ex direttore del Tg4 Emilio Fede). Qual è il contesto? Minasi spiega che Esposito “venne presentato a Lampada da un tale Massimo, ex autista di Lele Mora”. Il colletto bianco dei clan e l’agente dei vip. Altri rapporti. Il punto di contatto è Paolo Martino, coinvolto nell’indagine Caposaldo e accusato di essere il referente per il nord Italia della potente cosca De Stefano. Giuseppe Lampada e Martino si conoscono da tempo. Di più: il fratello di Lampada fino al 2007 detiene il 50% della Lucky World srl assieme allo stesso Martino. Chiude il cerchio la figura di Stefano Trabucco, uomo di Mora, e per qualche tempo presente negli assetti societari della Lucky. Le parole di Minasi, poi, portano il carico da novanta: “La macchina che guida Lampada, cioè la Bentley Continental, in realtà prima era di Lele Mora”. Insomma, in questa storia, tutto sembra tenersi. A partire da Esposito che da un lato, come pm, si occupa di anti-contraffazione nel mondo dei locali e dall’altro ama la bella vita. E di quei locali, Hollywood in testa (la discoteca di corso Como per anni regno di Mora), è assiduo frequentatore. Nulla di male, naturalmente. Un po’ meno cenare con un imputato a processo nel tribunale dove lui stesso lavora come sostituto procuratore. Su questo il Csm si è già pronunciato archiviando la posizione perché risultano “già informati i titolari dell’azione disciplinare”, ovvero il pg della Corte di Cassazione e il Guardasigilli. E dunque, Palazzo dei Marescialli riprenderà in mano la questione solo se il procuratore Giuseppe Ciani e il ministro Paola Severino decideranno di portare avanti il caso. Ma a rimescolare le carte adesso arrivano le dichiarazioni dell’avvocato vicino alla ‘ndrangheta. Parole che, ad oggi, restano senza alcun risvolto giudiziario. Ferdinando Esposito non risulta indagato. Non solo, seguendo le vicende del processo Valle-Lampada si scopre che il padre di Esposito è presidente della seconda sezione della Cassazione, la stessa che ha confermato l’arresto di Lampada e del giudice Vincenzo Giglio con motivazioni pesantissime. E questo fa sorgere il dubbio che le parole dell’avvocato Minasi con Ferdinando Esposito altro non siano che una ritorsione nei confronti del padre. da Il Fatto Quotidiano dell’ 8 giugno 2012.

LA REPLICA DEL SOSTITUTO PROCURATORE ESPOSITO.

Dall’articolo pubblicato in data odierna sul “Il Fatto Quotidiano” a firma di Davide Milosa apprendo che tale avvocato Vincenzo Minasi – arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa – avrebbe affermato innanzi al G.U.P. di Milano che io sarei amico di Giulio Giuseppe Lampada “presunto riciclatore della ‘ndrangheta. Poiché la notizia è completamente falsa, Le chiedo formalmente di pubblicare la seguente smentita: Non sono amico né frequentatore del Lampada, persona a me del tutto sconosciuta e della quale non ho alcun ricordo. Non ho mai conosciuto né letta una riga degli atti investigativi della inchiesta condotta dai magistrati della Dda. So soltanto – e credo che basti – che mio padre, dr. Antonio Esposito ha presieduto il Collegio che in Cassazione ha confermato le misure cautelari (e le ordinanze del Tribunale del riesame adottate nei confronti degli associati e dei fiancheggiatori); e so soltanto che le calunniose dichiarazioni del Minasi sono – guarda caso – di pochi giorni successivi al deposito delle decisioni adottate dalla Suprema Corte. Mi riservo ogni azione a tutela dei miei diritti gravemente lesi. Ferdinando Esposito.

Nessuna punizione per il figlio del giudice che ha condannato il Cav. Archiviazione annunciata quando il processo Mediaset è finito al padre, scrive Anna Maria Greco  su “Il Giornale”. Nessuna ombra doveva pesare sulla prevista e definitiva condanna di Silvio Berlusconi nel processo per i diritti tv Mediaset. Ma c'era la storia di quel giovane e intraprendente magistrato, Ferdinando Esposito, a creare qualche problema per la cena con l'imputata Nicole Minetti. Fastidioso avercela ancora tra i piedi mentre proprio il padre, Antonio, doveva presiedere la sezione feriale della Cassazione che avrebbe sferrato il colpo finale della vicenda giudiziaria iniziata dieci anni prima. Così, molto tempestivamente, si è provveduto a chiudere la faccenda. L'8 luglio viene fissata l'udienza del Cavaliere davanti alla Suprema corte per il 30 del mese e subito dopo, l'11 luglio, si fa sapere che il rampante pm di Milano non rischia nessuna azione disciplinare per la sua solo «inopportuna» cena al ristorante «Il Bolognese» del capoluogo meneghino con l'ex consigliera regionale che, all'epoca, doveva essere ancora giudicata nel processo Ruby bis, con Lele Mora ed Emilio Fede. Il procuratore generale, Gianfranco Ciani, dirama la notizia che sono state archiviate le accuse nate dalla segnalazione fatta a maggio del 2012 dal capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati. Quell'incontro, per il titolare dell'azione disciplinare, è stato solo «occasionale» e non riguardava un caso giudiziario di competenza di Esposito. Dunque, fin dal 30 gennaio si è chiusa la preistruttoria, dopo che nove mesi prima lo stesso Csm, nella prima commissione, aveva deciso di non aprire la pratica per un'eventuale incompatibilità in attesa, appunto, della decisione sul versante disciplinare del procuratore generale della Cassazione. Il bel Ferdinando, alto, palestrato ed elegante, quello che va in giro in Porsche e si è fatto per un po' irretire dal fascino pericoloso della sexy Nicole, non può con le sue leggerezze mettere nei guai il padre Antonio, che finirà nelle pagine dei libri di storia per aver guidato il collegio che ha relegato fuori dal campo politico il leader del Pdl. Viene da una famiglia napoletana di magistrati, il giovane Esposito, che ha anche uno zio ancor più importante del genitore e cioè quel Vitaliano fino a pochi mesi fa Procuratore generale della Cassazione, proprio al posto di Ciani che l'ha tirato fuori dai guai in un battibaleno, facendo attenzione a divulgare la notizia prima della data fatidica della sentenza Mediaset. Si è parlato molto della cena di Ferdinando con la Minetti nell'elegante ristorante milanese, commentata a Palazzo de' Marescialli con frizzi e lazzi dei consiglieri, tipo: «Beato lui!». Ma non si è più saputo nulla circa l'altro esposto al Csm per un episodio nella palestra milanese «Downtown» di piazza Diaz che, sembra, frequentavano sia il pm che la bella consigliera. Raccontano che in un'occasione particolare il rampollo in toga, si sia fatto «riconoscere», per così dire. Mentre si concentrava sui bilancieri, per gonfiarsi i muscoli, qualcuno nello spogliatoio gli avrebbe sottratto il portafoglio dalla sacca sportiva. E lui, invece di andare in un posto di polizia e fare la denuncia come chiunque, con una telefonata la polizia l'avrebbe fatta accorrere in palestra per un'immediata e completa perquisizione. Il portafoglio, poi, sarebbe saltato fuori, ma questo sfoggio di autorità a qualcuno sarebbe apparso un vero e proprio abuso. Tale da giustificare un esposto al Csm. Che sicuramente sarà stato archiviato come l'altro, anche se per fatti più insignificanti ci sono magistrati che hanno passato qualche guaio. Qui, però, c'era di mezzo ben altro. Il processo del secolo, che non doveva essere «chiacchierato» neanche per la sventatezza - vogliamo chiamarla così? - di un giovane pm con un padre importante in un ruolo-chiave.

GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?

Quando la toga sparlava delle avventure piccanti del Cavaliere con le deputate Pdl, scrive “Libero Quotidiano”. Probabilmente non sapeva che il giornalista seduto tra lui e il giudice Ferdinando Imposimato fosse un cronista del Giornale. Del resto era una cena conviviale con il vincitore del premio Fair Play 2009 e lui, il giornalista, aveva appena consegnato il riconoscimento che negli anni passati aveva dato a Giulio Andreotti, Ferruccio De Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Quell'anno era toccato a Imposimato che si era portato appresso il collega Antonio Esposito, il giudice della Suprema Corte che mercoledì scorso ha emesso il verdetto di condanna contro Silvio Berlusconi. Stefano Lorenzetto, questo il nome del giornalista, rivela oggi quella chiacchierata a tavola e il racconto ha davvero dell'incredibile. "Esposito nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare con palese compiacimento circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario salvo poi smentirsi". "Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione", continua Lorenzetto, "dava segno di conoscerne a fondo il contenuto come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato nelle registrazione il Cav avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. ' E indovini chi delle due vince la gara?', mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo, nè volevo replicare di diede da solo la risposta: 'La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?". Lorenzetto quella sera del 2 marzo 2009 ancora non si era ripreso dal disgusto di quella conversazione che il giudice Esposito regalò ai commensali un altro scoop: rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente antipatica: "Colpevole". Dopo meno di 48 ore un lancio dell'Ansa confermava ciò che il magistrato aveva anticipato durante la cena all'Hotel Due Torri di Verona. Di questo episodio Lorenzetto però ne aveva già parlato nel suo libro del 2011 "Visti da lontano": allora aveva "giustificato" lo sproloquio di Esposito con il troppo alcool circolato a tavola. Alla luce della sentenza di mercoledì Lorenzetto ha cambiato idea: "Era assolutamente lucido nei suoi proprositi. Fin troppo".

Così infangava Berlusconi il giudice che l'ha condannato. Antonio Esposito parlò di presunte gare erotiche del premier con due deputate del Pdl. E anticipò la condanna di Vanna Marchi che emise due giorni dopo, scrive Stefano Lorenzetto – su “Il Giornale”. Questo è l'articolo più difficile che mi sia capitato di scrivere in 40 anni di professione. Un amico magistrato, due avvocati, mia moglie e persino il giornalista Stefano Lorenzetto mi avevano caldamente dissuaso dal cimentarmi nell'impresa. Ma il cittadino italiano che, sia pure con crescente disagio, sopravvive in me, s'è ribellato: «Devi!».

Dunque eseguo per scrupolo di coscienza. In una nota diramata dal Quirinale dopo la condanna definitiva inflitta a Silvio Berlusconi, il capo dello Stato ci ha spiegato che «la strada maestra da seguire» è «quella della fiducia e del rispetto verso la magistratura». Ebbene, signor Presidente, qui devo dichiarare pubblicamente e motivatamente che fatico a nutrire questi due sentimenti - fiducia e rispetto - per uno dei giudici che hanno emesso il verdetto di terzo grado del processo Mediaset. Non un giudice qualunque, bensì Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione della Corte suprema di Cassazione che ha letto la sentenza a beneficio delle telecamere convenute da ogni dove in quello che vorrei ostinarmi a chiamare Palazzo di Giustizia di Roma, e non, come fa la maggioranza degli italiani, Palazzaccio. Vado giù piatto: ritengo che il giudice Esposito fosse la persona meno adatta a presiedere quell'illustre consesso e a sanzionare in via definitiva l'ex premier. Ho infatti serie ragioni per sospettare che non fosse animato da equanimità e serenità nei confronti dell'imputato. Di più: che nutrisse una forte antipatia per il medesimo, come del resto ipotizzato da vari giornali. Di più ancora: che il giudice Esposito sia venuto meno in almeno due situazioni, di cui sono stato involontario spettatore, ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall'alto ufficio che ricopre. Vengo al sodo. 2 marzo 2009, consegna del premio Fair play a Verona. L'avvocato Natale Callipari, presidente del Lions club Gallieno che lo patrocina, m'invita in veste di moderatore-intervistatore. È un'incombenza che mi capita tutti gli anni. In passato hanno ricevuto il riconoscimento Giulio Andreotti, Ferruccio de Bortoli, Pietro Mennea, Gianni Letta. Nel 2009 la scelta della giuria era caduta su Ferdinando Imposimato, presidente onorario aggiunto della Cassazione. Nell'occasione l'ex giudice istruttore dei processi per l'assassinio di Aldo Moro e per l'attentato a Giovanni Paolo II giunse da Roma accompagnato da un carissimo amico: Antonio Esposito. Proprio lui, l'uomo del giorno. Col quale condivisi il compito di presentare un libro sul caso Moro, Doveva morire (Chiarelettere), che Imposimato aveva appena pubblicato. Seguì un ricevimento all'hotel Due Torri. E qui accadde il fattaccio. Al tavolo d'onore ero seduto fra Imposimato ed Esposito. Presumo che quest'ultimo ignorasse per quale testata lavorassi, giacché nel bel mezzo del banchetto cominciò a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni telefoniche riguardanti a suo dire il premier Berlusconi, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all'epoca della vicenda D'Addario, salvo poi smentirsi. Il presidente della seconda sezione penale della Cassazione dava segno di conoscerne a fondo il contenuto, come se le avesse ascoltate. Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l'allora presidente del Consiglio. A sentire l'eminente magistrato, nella registrazione il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti. «E indovini chi delle due vince la gara?», mi chiese retoricamente Esposito. Siccome non potevo né volevo replicare, si diede da solo la risposta: «La (omissis), caro mio! Chi l'avrebbe mai detto?». Io e un altro commensale, che sedeva alla sinistra del giudice della Cassazione, ci guardavamo increduli, sbigottiti. Ho rintracciato questa persona per essere certo che la memoria non mi giocasse brutti scherzi. Trattasi di uno stimato funzionario dello Stato, collocato in pensione pochi giorni fa. Non solo mi ha confermato che ricordavo bene, ma era ancora nauseato da quello sconcertante episodio. Per maggior sicurezza, ho interpellato un altro dei presenti a quella serata. Mi ha specificato che analoghe affermazioni su Berlusconi, reputato «un grande corruttore» e «il genio del male», le aveva udite dalla viva voce del giudice Esposito prima della consegna del premio. Non era ancora finita. Sempre lì, al ristorante del Due Torri, il giudice Esposito mi rivelò quale sarebbe stato il verdetto definitivo che egli avrebbe pronunciato a carico della teleimbonitrice Vanna Marchi, la quale pareva stargli particolarmente sui didimi: «Colpevole» (traduco in forma elegante, perché il commento del magistrato suonava assai più colorito). Infatti, meno di 48 ore dopo, un lancio dell'Ansa annunciava da Roma: «Gli amuleti non hanno salvato Vanna Marchi dalla condanna definitiva a 9 anni e 6 mesi di reclusione emessa dalla seconda sezione penale della Cassazione». Incredibile: la Suprema Corte, recependo in pieno quanto confidatomi due giorni prima da Esposito, aveva accolto la tesi accusatoria del sostituto procuratore generale Antonello Mura, lo stesso che l'altrieri ha chiesto e ottenuto la condanna per Berlusconi. Ma si può rivelare a degli sconosciuti, durante un allegro convivio, quale sarà l'esito di un processo e, con esso, la sorte di un cittadino che dovrebbe essere definita, teoricamente, solo nel chiuso di una camera di consiglio? Capisco che tutto ciò, pur supportato da conferme testimoniali che sono pronto a esibire in qualsiasi sede, scritto oggi sul Giornale di proprietà della famiglia Berlusconi possa lasciare perplessi. Ma, a parte che non mi pareva onesto influenzare i giudici della Suprema Corte alla vigilia dell'udienza, v'è da considerare un fatto dirimente: alcuni dettagli dell'avventura che m'è capitata a marzo del 2009 li avevo riferiti nel mio libro Visti da lontano (Marsilio), uscito nel settembre 2011, dunque in tempi non sospetti, considerato che la sentenza di primo grado a carico di Berlusconi è arrivata più di un anno dopo, il 26 ottobre 2012, ed è stata confermata dalla Corte d'appello l'8 maggio scorso. Senza contare che il collegio dei giudici di Cassazione che ha deliberato sul processo Mediaset è stato istituito con criteri casuali solo di recente. A pagina 52 di Visti da lontano, parlando di Imposimato (che non ha mai smentito le circostanze da me narrate), scrivevo: «Una sera andai a cena con lui dopo aver presentato un suo libro. Debbo riconoscere che sfoderò un'affabilità avvolgente, nonostante le critiche che gli avevo rivolto. Era accompagnato dal presidente di una sezione penale della Cassazione sommariamente abbigliato (cravatta impataccata, scarpe da jogging, camicia sbottonata sul ventre che lasciava intravedere la canottiera). Il quale, forse un po' brillo, mi anticipò lì a tavola, fra una portata e l'altra, quale sarebbe stato il verdetto del terzo grado di giudizio che poi effettivamente emise nei giorni seguenti a carico di una turlupinatrice di fama nazionale. Da rimanere trasecolati». Allora concessi al mio occasionale interlocutore togato una misericordiosa attenuante: quella d'aver ecceduto con l'Amarone. Da giovedì sera mi sono invece convinto che, mentre a cena sproloquiava su Silvio Berlusconi e Vanna Marchi, era assolutamente lucido nei suoi propositi. Fin troppo.

«Ho scritto con grande disagio interiore. Ma ho dovuto farlo. Non avevo scelta». Dice di essersi rigirato nel letto una notte intera, Stefano Lorenzetto, scrive Cristiano Lodi su “Libero Quotidiano”. Il giornalista scrittore, autore dell’articolo pubblicato ieri dal Giornale sul giudice che, prima di pronunciare il tombale verdetto di condanna, aveva infangato Silvio Berlusconi, adesso cerca di farsi coraggio. Prova a seguire il consiglio dei pochi che lo difendono dagli attacchi e dagli insulti dei molti. Soggetti che hanno gridato allo scandalo. Non perché il magistrato in ermellino che ha condannato il Cavaliere lo aveva già insultato pubblicamente al ristorante nel 2009 («venendo meno ai doveri di correttezza, imparzialità, riserbo e prudenza impostigli dall’alto ufficio che ricopre »), ma in quanto Lorenzetto ha osato scriverlo. Essendo stato testimone di un episodio che dovrebbe preoccupare chiunque. Il giornalista descrive il fatto (risalente al 2 marzo 2009) avvenuto alla presenza di testimoni autorevoli. In occasione di un pranzo a Verona, presente Antonio Esposito (presidente della sezione feriale della Cassazione che giovedì ha letto la sentenza), egli ha sentito pronunciare parole sprezzanti nei confronti di Berlusconi. «Un grande corruttore», «un genio del male », questi gli appellativi usati dall’alto magistrato; a dimostrazione della “imparzialità” e della “serenità” nei confronti dell’imputato. Stefano Lorenzetto racconta, con dettagli incontrovertibili, che durante quel ricevimento di inizio primavera 2009, alla presenza anche dell’ex giudice istruttore e presidente onorario aggiunto della Cassazione, Ferdinando Imposimato, il collega Antonio Esposito aveva cominciato «a malignare, con palese compiacimento, circa il contenuto di certe intercettazioni riguardanti l’allora premier, sulle quali vari organi di stampa avevano ricamato all’epoca della vicenda D’Adda - rio, salvo poi smentirsi». Il presidente Esposito, dice ancora lo scrittore: «Si soffermò sulle presunte e specialissime doti erotiche che due deputate del Pdl, delle quali fece nome e cognome, avrebbero dispiegato con l’allora premier». E a sentire l’eminente magistrato, nei brogliacci delle conversazioni «il Cavaliere avrebbe persino assegnato un punteggio alle amanti». Con tanto di indovinello, allo stesso Lorenzetto, su chi delle due donzelle vinse la gara. «Ma, siccome non potevo né volevo replicare », dice il giornalista, «Esposito si diede da solo la risposta: “La (omissis), caro mio! Chi l’avrebbe mai detto?». E non finisce qui, perché il giudice, in quella stessa occasione, avrebbe anche «anticipato la sentenza di condanna inflitta a Vanna Marchi solo due giorni dopo». Su richiesta di chi? Del pg Antonio Mura: lo stesso giudice che mercoledì, ha chiesto di condannare Berlusconi. Quando si dice il destino. Lorenzetto non nasconde il disagio, ma si sente sollevato e ricorda le parole che gli disse Enzo Biagi: «Quando la coscienza bussa alla tua porta, non puoi fare finta di non essere in casa». «La mia coscienza», ammette il giornalista, «ha martellato una notte intera, impedendomi il sonno. Così mi sono alzato e ho scritto quello che avevo visto e sentito dal giudice Esposito, quattro anni prima». In tempi non sospetti, tanto che lo scrittore cita l’episodio anche in Visti da lontano, edito da Marsilio nel 2011. «Alle 7 del mattino di venerdì ho cominciato a scrivere», racconta ancora Lorenzetto, «e alle 12 ho spedito tutto al direttore del Giornale, lasciandolo libero di cestinare». Alessandro Sallusti non lo ha fatto. E Lorenzetto non arretra di un millimetro: «Mi dicono che Antonio Esposito sia un giudice di grande linearità giuridica, un mostro del diritto nello stendere le sentenze. Non ne dubito. Ma io ritengo che avrebbe dovuto astenersi dal giudizio su Berlusconi». Sui network piovono attacchi feroci al giornalista che ha osato tanto. «Vengo accusato di avere difeso il padrone. In realtà sono un cassintegrato di Panorama, l'altro mio datore di lavoro, e penso di essere stato il primo e unico giornalista ad avere lasciato la vicedirezione del Giornale, rinunciando ai cinque sesti dello stipendio, per poter tornare a scrivere e a occuparmi, come faccio da 15 anni, solo di italiani qualunque ». Si definisce un «don Abbondio di campagna, che il coraggio se l'è dovuto dare, più dedito alla lettura dei Salmichenon dei giornali». Uno convinto che «i magistrati debbano fare i magistrati e i giornalisti i giornalisti: sarebbe così bello andare tutti d’amore e d’accordo, fidarsi gli uni degli altri. Invece...». Un amico magistrato, due avvocati e la moglie l’avevano sconsigliato di imbarcarsi in quest’avventura. «Mi sa che mi sono messo in un mare di guai. Ma non potevo sottrarmi. Del resto, come recita un proverbio talmudico, il male che un uomo è capace di fare a se stesso non sono capaci di farglielo dieci nemici». Ecco, dice Stefano Lorenzetto: «Questo vale per me e anche per il giudice Esposito».

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso -fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area- e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)».  Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più l a cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.

«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.

Vent'anni di persecuzione continua.

Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia Tagliaferri  su “Il Giornale”. Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».

I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 ( dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.

L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.

Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

I due condannati, senza passaporto. Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente  avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema , nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia.  Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….». Craxi-Berlusconi: ora  c’è  anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da  quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani,  a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani  su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate. Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi. Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico.  Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no. Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo. Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.

La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”.  Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone.  “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".

"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".

CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

Corruzione, in manette giudice e avvocato. Indagati due ammiragli della Marina Militare. Sette in tutto gli arresti. La richiesta è partita dalla procura di Roma. Tra le persone finite il manette il magistrato del Tar del Lazio e l'ex presidente della Banca popolare di Spoleto, scrive “La Repubblica”. Sette arresti per corruzione in atti giudiziari: 3 in carcere, 4 a domiciliari. Ad eseguirli, su richiesta della Procura di Roma, sono stati i carabinieri del Noe. In manette sono finiti il giudice del Tar del Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, l'avvocato amministrativista Matilde De Paola e l'uomo d'affari Giorgio Cerruti. Ai domiciliari invece l'ex presidente della Banca Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, Francesco Clemente, Francesco Felice Lucio De Sanctis e Marco Pinti. Nell'inchiesta risultano indagati anche due ammiragli della Marina Militare e il costruttore Claudio Salini, dell'omonima impresa edile. Ma sono oltre 17 le persone indagate per fatti avvenuti negli ultimi mesi del 2012 ad oggi. L'inchiesta, si legge nel provvedimento del gip, ''trae origine dall'attività di intercettazione disposta nell'ambito di altro e diverso procedimento pendente dinanzi alla Procura di Napoli''. De Bernardi era già finito in manette a maggio 2013 con l'accusa di riciclaggio su richiesta della procura di Palermo: secondo gli inquirenti siciliani sarebbe stato a capo di un'associazione a delinquere sgominata dai finanzieri. Ora il pm della procura capitolina gli contesta il reato di corruzione in atti giudiziari. In particolare, come scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare, De Bernardi avrebbe siglato un accordo con l'avvocato Matilde De Paola ''in base al quale quest'ultima si impegnava a corrispondere al giudice del Tar somme di denaro quale compenso per il compimento di una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio consistenti di volta in volta, nell'accordarsi con parti processuali in ordine alla nomina della stessa De Paola quale difensore in procedimenti davanti al Tar del Lazio''. Episodi di corruzione non sporadici ma che, secondo il giudice, dimostrano, come scritto in un passaggio delle 101 pagine del provvedimento di custodia cautelare, "in maniera chiara ed univoca la sussistenza di un articolato ed organizzato sistema di corruzione che fa capo al De Bernardi". "Sussistono seri elementi, ben al di là di quanto esige il parametro dei gravi indizi di colpevolezza, in ordine al fatto - si legge nel provvedimento - che, egli si sia ripetutamente accordato con diversi privati ed in relazione a diversi procedimenti per alterare, dietro la corresponsione di somme di denaro, il corretto e imparziale esercizio dell'attività giurisdizionale. In particolare risulta che egli abbia svolto tale illecita attività di interferenza avvalendosi, nella maggior parte dei casi, dell'ausilio dell'avvocato De Paola, avvocato amministrativista del foro di Roma. Al riguardo le emergenze processuali hanno dimostrato che il giudice aveva stretto con la citata professionista un accordo corruttivo 'aperto' in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano per ottenere il suo interessamento ai procedimenti che li riguardavano , ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell'attività di assistenza legale". Quanto ai due ammiragli della Marina Militare, Marcantonio Trevisani e Luciano Callini, entrambi 65enni, sono indagati per corruzione sui ricorsi pilotati al Tar del Lazio dal giudice De Bernardi. Stando al gip Maria Paola Tomaselli, De Bernardi avrebbe ''indirizzato allo studio dell'avvocato Matilde De Paola i due ammiragli, curando per loro la stesura dei ricorsi amministrativi dagli stessi proposti ed influendo in modo determinante nella stessa stesura della sentenza, ricevendo quale corrispettivo dall'avvocato De Paola, per il tramite della propria convivente Evis Mandija (che emetteva in relazione a tale pagamento fattura per operazioni inesistenti) la somma di 10mila euro''. ''Il giudice - dunque - ha svolto un'attività di interferenza nella fase di studio e di predisposizione del ricorso''. In una conversazione con l'avvocato De Paola, intercettata dagli investigatori, il magistrato amministrativo si sarebbe spinto ad affermare ''di aver fatto al Trevisani 'una sentenza ad hoc'''. Salini, invece, è tirato in ballo perché secondo l'accusa, il giudice amministrativo De Bernardi e l'avvocato De Paola, a partire dallo scorso marzo, ''accettavano, per il tramite di Francesco Clemente da ICS Grandi Lavori spa (riconducibile al gruppo facente capo proprio a Salini) la promessa del pagamento di imprecisate somme di denaro'', ''in cambio della sua attività di indebito interessamento ed illecita interferenza volti ad alterare le corrette procedure di assegnazione e decisione del ricorso proposto da ICS per l'annullamento del provvedimento di assegnazione dell'appalto per la costruzione del Ponte della Scafa''. ''Condotta illecita - scrive il gip Maria Paola Tomaselli - in effetti concretamente posta in essere da De Bernardi mediante la predisposizione di memorie difensive ed altre condotte orientate a conseguire un esito favorevole al ricorrente, come in effetti avvenuto, con corresponsione a De Bernardi di una prima parte (euro 5.000) del compenso concordato''. Nella vicenda del ricorso di ICS Grandi Lavori spa, il gip Maria Paola Tomaselli spiega che ''lo schema si ripete, con l'unica peculiarità che, in questo frangente, il privato non contatta il giudice De Bernardi, ma è, al contrario, un cliente dell'avvocato De Paola, alla quale era stato indirizzato dal di lei marito Patrizio Giuliani, amico dell'amministratore delegato della società Francesco Clemente''. Secondo il gip, la De Paola ''ricorre al sostegno del giudice De Bernardi al fine evidente di acquisire il gruppo Salini come cliente, avendo peraltro ben compreso che Clemente l'aveva incaricata della causa, affiancandola all'avvocato Musenga, proprio per giovarsi dell'intervento illecito di De Bernardi''. Per quanto riguarda l'arresto di Antonini, al centro dell'inchiesta ci sarebbe invece il ricorso al Tar del Lazio nei confronti di Bankitalia contro il commissariamento della Spoleto credito e servizi. L'ipotesi accusatoria sembra essere quella di un interessamento del giudice Maria De Bernardi al procedimento in cambio di 50mila euro ricevuti tramite Cerruti che entra in gioco, sottolinea il gip, ''sin dal 27 febbraio 2013 allorquando invita a pranzo (al ristorante "Il Caminetto" a Roma, ndr) De Bernardi, unitamente a un monsignore Manlio Sodi (di cui non sono ancora chiari il ruolo nella vicenda e il concreto interesse nutrito anche se il prelato risulta inserito in una Onlus, ndr), e ad Antonini, anticipandogli che si dovrà parlare di un ricorso amministrativo proposto da quest'ultimo. Il giudice - si legge nell'ordinanza - si mostrava molto disponibile ad adoperarsi per l'amico di Cerruti, esprimendosi testualmente nei seguenti termini: e glielo facciamo fare... lo serviamo come merita...è amico tuo''. L'accordo corruttivo poi prenderà forma l'8 aprile quando nello studio dell'avvocato Matilde De Paola si incontrano, oltre allo stesso legale, De Bernardi, Cerruti, Antonini al fine di discutere del ricorso. L'interessamento di De Bernardi è tale che la sua richiesta di essere assegnato all'udienza della terza Sezione (che non è quella di sua appartenenza) viene accolta. E ne informa subito la De Paola. Il difensore di Antonini, l'avvocato Manlio Morcella, si riserva una più approfondita valutazione una volta esaminati tutti gli atti d'indagine, ma sottolinea finora che ''non ci sono intercettazioni dirette tra Antonini e il giudice''. Il legale ha anche già annunciato ricorso al tribunale del riesame contro l'arresto.  «Un cappuccino anche per il giudice». Sono state intercettazioni come questa a incastrare il gruppo che al Tar del Lazio decideva chi dovesse vincere i ricorsi a suon di tangenti, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera” . In carcere sono finiti Franco De Bernardi, magistrato della seconda sezione quater, l'avvocato Matilde De Paola e Giorgio Cerruti, considerato uno degli intermediari delle mazzette. Gli altri due, Marco Pinti e Francesco De Sanctis, sono ai domiciliari insieme all'ex presidente della Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, e all'amministratore delegato dell'impresa di costruzioni ICS Grandi Lavori, Franco Clementi. Fra gli indagati, il fondatore della ICS Claudio Salini e due ufficiali, l'ammiraglio di squadra Marcantonio Trevisani, da cinque anni presidente del Centro alti studi per la difesa (la principale scuola di formazione degli ufficiali italiani), e il suo collega Luciano Callini, ai vertici dello stato maggiore della Difesa, nei mesi scorsi consulente del caso dei due marò indagati in India per omicidio. Sarebbero decine le cause pilotate contestate dal procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi e dai pm Stefano Pesci e Alberto Pioletti. E ammonterebbero a decine di migliaia di euro le tangenti ricostruite grazie alle conversazioni intercettate per un anno dai carabinieri del Noe, al comando del capitano Pietro Rajola Pescarini. La promessa di 50 mila euro avrebbe permesso all'ex presidente della Popolare di Spoleto di vincere il ricorso contro il ministero dell'Economia, che aveva commissariato la banca per un buco di diversi milioni di euro. La vittoria sarebbe stata propiziata da una cena al ristorante «Il Caminetto», ai Parioli, dove il 27 febbraio scorso Cerruti avrebbe invitato il giudice, Antonini e un non ancora identificato monsignore. «Cerruti, soggetto pregiudicato per reati gravi di criminalità economica», scrive il gip Maria Paola Tomaselli nelle 101 pagine dell'ordinanza, aveva «un proprio personale interesse all’esito favorevole del ricorso avendo egli goduto di un trattamento assolutamente privilegiato durante la gestione della banca da parte di Antonini». Anche la ICS Grandi Lavori avrebbe vinto un ricorso truccato, sconfiggendo quindi il Campidoglio che aveva assegnato a un'altra impresa l'appalto da 25 milioni di euro per la costruzione del ponte della Scafa. Secondo chi indaga, gli intermediari (Cerruti, Pinti e De Sanctis) conducevano dal magistrato i ricorrenti pronti a ottenere una sentenza favorevole a ogni costo e questi li invitata a rivolgersi all'avvocato, che «sapeva come fare». Ma il ruolo di De Bernardi non si sarebbe limitato all'invio dei clienti allo studio legale: smessa la toga indossata al mattino al Tar, il magistrato si trasformava in avvocato e scriveva le memorie che occorrevano per sostenere le tesi dei ricorrenti. Scrive infatti il gip: «Il giudice aveva stretto con la De Paola un accordo corruttivo "aperto" in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano, ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell’attività di assistenza legale». Ancora: De Bernardi si sarebbe «adoperato per utilizzare la sua collocazione presso il tribunale del Lazio al fine di influenzare a vantaggio del cliente l'esito dei procedimenti sia cercando di indirizzare le cause in udienze nelle quali era prevista la sua presenza, sia svolgendo un'attività di sensibilizzazione nei confronti di giudici amici». Stando all'ordinanza, De Bernardi avrebbe curato i ricorsi degli ammiragli «per mezzo dello studio De Paola» e avrebbe «percepito dall'avvocato un compenso di circa 10 mila euro». Secondo la procura si tratterebbe di una tangente, però mascherata da fattura per una consulenza pagata a Mandija Evis, compagna albanese del magistrato del Tar. Su Callini, poi, c'è un'intercettazione che lascia pochi dubbi, visto che proprio De Bernardi confida all’avvocato De Paola: «Gli ho fatto una sentenza ad hoc». L'inchiesta, durata un anno, è partita dagli atti trasmessi dalla procura di Napoli, che ha raccolto i primi indizi indagando su una storia di camorra. Il giudice e l'avvocato sono stati arrestati per corruzione in atti giudiziari, gli altri per corruzione. De Bernardi era già finito in carcere a maggio scorso a Palermo nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di lingotti d'oro (ma dopo tre giorni l'ordinanza era stata annullata), mentre Cerruti è noto alle cronache per il fallimento da cento miliardi di lire della sua Compagnia generale finanziaria nel '93. Legato alla massoneria e a Flavio Carboni, gli inquirenti dell'epoca erano arrivati a Cerruti seguendo i soldi di Licio Gelli.

Corruzione Roma: “Fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri”, scrive Donatella Stasio su “Il Sole 24Ore”. A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l’enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L’ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L’ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla “bilancia” un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant’è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l’effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C’è anche «l’utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso – e recente – dei processi previdenziali “finti”. «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all’estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell’Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un’altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch’essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l’eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un’integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie “anime morte” della giurisdizione». Va bene Gogol, ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell’impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell’impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali». L’elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».

«Il capitalismo malato non si cura in Tribunale» era il titolo dell'analisi firmata sul nostro quotidiano dall'avvocato Guido Rossi lo scorso 21 luglio, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 Ore”. «Nella totale e prolungata inettitudine degli altri poteri dello Stato, cioè di inconcludenti poteri esecutivi e nella avvilente condotta di quelli legislativi, i magistrati, giudici o procuratori, vanno sempre più assumendo un ruolo ingiustamente centrale, come sostituti effettivi di una politica assente». Ma il diritto penale, ragionava Guido Rossi, finisce per mostrare solo il volto severo dello Stato, accompagnato da una totale «inefficienza nel contenere la devianza economica». In più, «la cultura della vergogna non si è radicata in Italia, a causa di costumi storicamente rilassati, mentre una inutile e continua alluvione di norme contraddittorie aggrava la situazione del Paese conducendo spesso le imprese a uno stato di paralisi e di forzata rinuncia alla loro funzione di strumento dello sviluppo economico». Per uno strano gioco di coincidenze, solo due giorni dopo, il 23 luglio, sempre sul Sole 24 Ore, il Procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, proponeva una severa riflessione originata dall'arresto di sette persone per corruzione in atti giudiziari. «I protagonisti di queste inchieste sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia italiana: l'enorme numero dei processi, la complessità delle procedure, le difficoltà degli enti nel controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». E lanciava un invito: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». Due angolazioni complementari, che rinviano a un'unica visuale dei problemi in cui rischia di affondare il nostro Paese. In questa visuale, le complessità procedurali e i labirinti normativi creati in decenni di fuga dalla legalità - uno dei frutti più velenosi della non-politica - sono ormai terreno di coltura di una delinquenza di altissimo livello. Sotto questo aspetto, fa bene il Rossi magistrato a cercare cause e rimedi del degrado nelle file dell'apparato giudiziario-amministrativo: un'indicazione che, se applicata a ogni latitudine professionale, contribuirebbe a ripulire la società prima dell'intervento delle toghe supplenti, ovvero prima che i comportamenti e le devianze si concretizzino in fatti-reato. I filtri reputazionali vengono a monte di quelli giudiziari e solo riattivandoli si potrà ricostruire la capacità del Paese di provare "vergogna" per le cattive pratiche ritualmente esecrate in pubblico, ma diffuse, tollerate e coltivate nell'ombra. E solo per questa via è possibile togliere alle toghe la loro anomala centralità oltre che ricollocare imprese e professioni al loro posto nel rifondare l'Italia. Alternative vere, a ben guardare, non ce ne sono. Oltretutto, per attenuare e poi azzerare gli effetti depressivi del sistema relazionale sulle energie che sprigiona il merito, non servono nuove leggi: basterebbe riattivare gli strumenti di controllo indipendente e di autogoverno già minuziosamente codificati per la finanza, l'economia, le professioni, i mestieri, gli ordini, la politica.

Nello Rossi. Ma non è quel magistrato attenzionato dal CSM?

Il magistrato era stato intercettato al telefono con Mancino. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente. Il Csm ha aperto un fascicolo sul procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, per la telefonata intercettata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, con l’ex vice presidente del Csm Nicola Mancino, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente, dopo che il testo della conversazione era stato pubblicato da alcuni quotidiani. La conversazione, in cui il magistrato, esponente storico di Magistratura democratica, tranquillizza Mancino, è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia della Procura di Palermo. Nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ha più volte sottolineato le difficoltà incontrate a indagare su un tema così delicato che sfiora e in alcuni casi coinvolge pezzi importanti dello Stato se non istituzioni. Nel giugno scorso la Procura di Palermo ha chiuso le indagini per dodici persone: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri. Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ed ancora.  «Il pm che mi ha indagato in 60 giorni non fatto nulla per mio padre in tre anni».

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

L'autore del libro «Il caso Genchi» a processo con l'accusa di aver diffamato un magistrato dell'Anm: «Ma le indagini preliminari sulle valvole cardiache impiantate a mio padre che fece poi un ictus le ha tenute aperte tre anni e sei mesi. Poi la Procura ha chiesto nientemeno che l'archiviazione», scrive Felice Manti su “Il Giornale”. C'è un filo rosso che lega le grandi inchieste che coinvolgono parlamentari e magistrati e l'eterna lotta tra politici e toghe. Sullo sfondo c'è la riforma della giustizia che ad alcuni ambienti della magistratura proprio non va giù. Il libro «Il caso Genchi» sulla storia e i segreti del consulente dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris sul caso "Why Not", che ha fatto irritare molti magistrati, ne è la summa. A Milano nei prossimi mesi inizierà il processo contro l'autore del libro, Edoardo Montolli, che avrebbe diffamato il magistrato romano Nello Rossi e che oggi è alle prese con l'ultimo romanzo («L'Illusionista», Alberti editore), dove la fanno da padroni giudici e poliziotti corrotti. L'accusa contro di lui è rappresentata da Maurizio Romanelli, il pm che ha appena chiesto il rinvio a giudizio di Paolo Berlusconi, editore del «Giornale», per la famosa intercettazione Fassino-Consorte, quella dell'«abbiamo una banca». Del famoso brogliaccio si parla anche nel tuo libro, vero? Ma il pm non ti ha chiesto nulla? «Romanelli? Investigava sull'intercettazione Fassino-Consorte e non mi ha mai nemmeno convocato per farmi qualche domanda, dato che ne "Il caso Genchi" dedicavo a quella telefonata oltre cento pagine dense di dati, e non opinioni, che emergevano dall'archivio del consulente e dalla sua memoria difensiva. Ma si vede che non erano dati interessanti». Riguardavano Paolo Berlusconi? «No. Tutt'altro. Ma rimando alla lettura del libro, che comunque il pm Romanelli ha letto». Perché? «Sono stato querelato per il libro dall'ex segretario dell'Anm Nello Rossi, attuale procuratore aggiunto di Roma che, insieme all'ex magistrato Achille Toro, aprì l'indagine su Genchi. La querela è del 2 marzo. E il 3 maggio Romanelli ha chiuso le indagini. Evidentemente, nonostante le numerose indagini di cui si occupa, è riuscito a leggere molte pagine del libro e a tirare le conclusioni in due soli mesi, senza fare alcuna indagine. È stato strepitosamente veloce. Specie rispetto all'esperienza che ho vissuto con lui da privato cittadino». Cioè? «Mah, siccome ero strabiliato da una tale velocità, a luglio sono andato a controllare in tribunale a che punto fosse un esposto, che avevo fatto per quanto accaduto a mio padre nel novembre 2006, assegnato proprio a Romanelli. Per me una cosa un pochino più grave». Spiega. «Dopo un'operazione di sostituzione di valvola aortica nel 2000, mio padre ha avuto un ictus ed un'emiparesi sinistra, restando invalido al 100% a soli 55 anni. Pensavo fosse colpa del destino. Ma nel novembre 2006 la valvola, praticamente ancora nuova, risultava piena di trombi, nonostante tutte le settimane, invece che tutti i mesi, un primario ne controllasse i valori sanguigni, risultati sempre nella norma. Andava sostituita nuovamente. E siccome la valvola era stata messa da un medico, poi arrestato e condannato, ho chiesto il sequestro della vecchia valvola, avvenuto all'indomani dell'operazione e spiegato tutto in un esposto». Risultato? «L'indagine è stata presa in carico da Romanelli. Non ha mai chiamato né me né i medici che dovevano testimoniare. Ho pensato che avesse svolto indagini, che non fosse emerso nulla e che l'inchiesta fosse stata archiviata. Invece a luglio ho scoperto che, dopo 3 anni e sei mesi, l'indagine era ancora in fase preliminare». Tre anni e sei mesi? «Già. Ho chiesto l'avocazione del procedimento, ma la cosa più straordinaria è che stato respinto perché la Procura, addirittura in agosto, ha chiesto l'archiviazione. Cioè, ha tenuto aperto un fascicolo per tre anni e sei mesi per poi chiedere l'archiviazione, senza nemmeno sentire un teste. Ma ci volevano tre anni e sei mesi per accorgersi che non era accaduto nulla di penalmente rilevante? Da chi dovevano far analizzare la valvola, dalla Nasa? Ecco, il problema è proprio questo». Quale? «Che se è l'ex segretario dell'Anm a presentare una querela per diffamazione, i tempi del dottor Romanelli sono incredibilmente veloci, se invece da Romanelli va un cittadino qualsiasi, si prende un sacco di tempo. Certo, Nello Rossi si sentiva diffamato e si doveva fare in fretta, mentre mio padre ha "solo" rischiato di morire».  Non sembri avere molta fiducia nella magistratura. «È che mi fanno sorridere i magistrati che attaccano Berlusconi, dicendo che la legge deve essere uguale per tutti. Come no. Per esperienza personale e professionale, aggiungerei tutti quelli che vogliono loro. Dipende da chi querela e da chi è l'imputato. D'altra parte scrivo sempre di vicende di ingiusta detenzione, e non a caso l'Italia è il Paese più condannato dall'Ue in materia, senza che nessun magistrato sia mai stato condannato per questo. Finché la situazione è questa, se io fossi il premier, farei una legge "ad personam" al giorno per difendermi. D'altra parte nella conclusione del libro sul caso Genchi evidenziavo una volta di più il vero problema dell'Italia, che non è la destra o la sinistra, ma l'anomalia della magistratura». Cioè? «Proponevo una separazione delle carriere un po' diversa da quella richiesta dai politici: i magistrati che vanno al ministero non tornino in tribunale. Perché non è possibile che a giudicare i politici siano gli stessi magistrati che alla legislatura successiva ottengono incarichi di governo. O fai una cosa o fai l'altra». Genchi però attacca sempre di più Berlusconi...«Ognuno ha le sue idee. Di certo in "Why Not" di Berlusconi non c'era alcuna traccia. Ma basta leggersi il libro per trovare gli stessi nomi e gli intrecci emersi con il successivo scandalo Protezione Civile o alcuni sprazzi sulle stragi del '92-'93. Ma, a dirla tutta, ho scritto che nemmeno m'importava se "Why Not" fosse giusta o sbagliata. Quello che mi sembrava paradossale era che a prendere in mano le carte di De Magistris fossero magistrati sicuramente in contatto con alcuni imputati. Ecco, questo non è eticamente accettabile. Così come non è eticamente accettabile che chi ha sequestrato l'archivio Genchi avesse fatto alcune telefonate presenti all'interno del medesimo archivio, come quella tra l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi e l'ex ministro della giustizia Mastella che doveva mandare in soffitta entro la fine di luglio del 2007 la riforma Castelli sulla separazione delle carriere: il tutto mentre Prodi era stato appena indagato e a giorni lo sarebbe stato proprio Mastella. È su questo, su ciò che accadde a luglio 2007, che si discuterà nel corso del mio processo. E invito tutti a venirlo a vedere per capire in che Paese viviamo. Che non ci sono eroi, tantomeno bianchi e neri. Ma che tutto è un intreccio grigio».

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

Invito a cena con carabiniere, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Il 'vizietto' del generale dell'Arma Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 comandante della Regione Lazio. Organizzare cene di rappresentanza utilizzando mezzi e personale dell'Arma per trasportare i tavoli e servire i commensali. Come documentano le foto che siamo in grado di mostrarvi. La cena del 23 settembre 2008 cui partecipò anche Francesco Cossiga. Prima in divisa, con i gradi da brigadiere cuciti addosso. Poi, nelle foto successive, in giacca bianca e cravatta nera, intenti trasportare piatti, a stappare bottiglie, a mescere vino nei calici e a chinarsi per porgere con deferenza il vassoio dei salatini agli ospiti attovagliati al desco del loro Generale. Ospiti illustri, se è vero che tra di essi è possibile riconoscere il defunto Presidente Francesco Cossiga, il segretario generale della UIL Luigi Angeletti, Giancarlo Elia Valori, ex presidente della holding regionale Sviluppo Lazio e di Confindustria Lazio, famoso anche per essere stato l'unico iscritto alla P2 a subire l'espulsione dalla loggia massonica. Intorno a loro si muovono carabinieri tramutati in camerieri, ufficiali di polizia giudiziaria immortalati mentre servono ai tavoli di una cena organizzata nei locali della caserma "Giacomo Acqua" di Piazza del Popolo a Roma, sede del Comando Regionale del Lazio. Risalgono al 2008, ma conservano intatto l'effetto del classico pugno nello stomaco le istantanee che sgusciano fuori dal seno dell'Arma. La documentazione in fotogrammi di una pratica, quella di utilizzare militari professionali per scopi di rappresentanza e in mansioni estranee e "degradanti" rispetto alle loro reali funzioni, più volte aspramente stigmatizzata dalle rappresentanze di base delle Forze Armate e dai sindacati di polizia. Critiche e proteste che evidentemente non hanno fatto breccia nell'animo del Generale di Corpo d'Armata Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 il comandante della Regione Carabinieri Lazio. E' lui l'organizzatore della cena documentata nelle foto ottenute dal sito de "l'Espresso", risalente al 23 settembre 2008, con i due carabinieri (di stanza nella caserma di Piazza del Popolo) impegnati a servire ai tavoli negli ambienti dell'ex Circolo Ufficiali interno alla struttura, pallide comparse tra un brindisi e l'altro dei partecipanti alla cena. Tra cui si riconoscono anche i due figli dell'allora comandante regionale, il "padrone di casa". Oggi Favara, in pensione, fa il consigliere regionale del Lazio, eletto alle ultime elezioni nel listino del Presidente Nicola Zingaretti. Durante il suo comando il generale con il pallino della politica ha usufruito appieno dei locali della caserma "Giacomo Acqua", anche di quelli non destinati al suo alloggio di servizio: per esempio la terrazza panoramica con splendido affaccio su Piazza del Popolo, utilizzata la sera del 21 e quella del 25 luglio 2008 per ospitare cene con invitati di rispetto. Tavoli trasportati per l'occasione, bottiglie in ghiaccio e raffinate decorazioni floreali, sullo sfondo la magia di Roma: scampoli di una vita un po' meno spartana di quanto si è soliti immaginare in una caserma. Niente di particolarmente eclatante né di illecito. Tra le fila dell'Arma però, dove una parte dei militari semplici ha i nervi a fior di pelle per il blocco degli stipendi in vigore dal 2010 e i sacrifici quotidiani imposti dai tagli della spendig review, fa male constatare come in entrambe le occasioni, nuovamente, siano stati utilizzati due brigadieri nelle vesti di camerieri. Chi nei giorni scorsi ha ascoltato l'allarme preoccupato lanciato dal Comandante Generale dell'Arma Leonardo Gallitelli sui mezzi che rischiano di rimanere senza benzina, osserva con perplessità anche un altro particolare che emerge dalle foto fornite al sito de "l'Espresso": un Ducato militare utilizzato apposta per trasportare tavoli, poltrone e sedie in almeno tre occasioni, dalla cena con i comandanti provinciali del 7 luglio 2008 a quella del 13 settembre 2008 con autorità varie, passando per il pranzo del 26 aprile 2008 in occasione del battesimo del nipote di Favara. Tra i fondi previsti in base alla legge nel bilancio del ministero della Difesa, accanto a quelli per l'acquisto di riviste, per conferenze, cerimonie, convegni, raduni, congressi, mostre, figurano anche quelli destinati a finanziare le spese per scopi di rappresentanza, da intaccare in occasione di cerimonie ed eventi istituzionali. Nulla, peraltro, autorizza ad escludere che il generale Favara - nell'invitare a cena i suoi ospiti in caserma - abbia utilizzato soldi propri. In entrambe le ipotesi - si chiede però con amarezza una fonte dall'interno dell'Arma - non si capisce a quale titolo il servizio ai tavoli, come anche il ricevimento e l'accompagnamento degli ospiti all'ascensore e il compito di addetti al guardaroba, siano stati svolti da appuntati, marescialli e brigadieri interni alla "Giacomo Acqua", impiegati in attività non affini a quelle istituzionalmente esercitate. Da anni ormai, e certamente già all'epoca delle cene in questione, i servizi di mensa all'interno delle caserme sono svolti da ditte civili che li ricevono in appalto. Mentre tra i compiti dei carabinieri addetti al "minuto mantenimento" nelle sole strutture appartenenti al Ramo Difesa possono rientrare - in base ai regolamenti - esclusivamente piccoli lavori di ordinaria manutenzione, come quelli di falegnameria. Nel luglio del 2012 persino la domanda del consiglio di rappresentanza di base della legione Friuli Venezia Giulia per la costituzione anche a livello provinciale di un'aliquota di personale "a doppio incarico" da impiegare - dopo corsi di formazione - nella manutenzione delle caserme è stata respinta dall'ufficio personale: "l'attribuzione di un secondo incarico distrarrebbe indubbiamente il personale", è stata la motivazione. Anche se nel 2008 la spending review non aveva ancora infierito su stipendi e organici, c'è da immaginare che la stessa intransigenza sarebbe stata usata dall'Arma di fronte alla richiesta di usare degli ufficiali di polizia giudiziaria (come quelli immortalati nelle foto) per il servizio ai tavoli. Eppure non è la prima volta che il tema dell'impiego di personale per compiti non attinenti al servizio nell'ambito delle Forze Armate balza all'onore delle cronache. Nell'ottobre dello scorso anno ha suscitato scalpore - non solo tra i militari - la pubblicazione di una "comunicazione di servizio permanente" del comandante in seconda della nave da guerra "Francesco Mimbelli". Un elenco dettagliato delle disposizioni per l'accoglienza del Comandante in Capo della Squadra Navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in occasione della sua visita a bordo avvenuta l'8 settembre 2012. A colpire l'attenzione, in quell'occasione, fu soprattutto l'ordine impartito all'Ufficiale in Comando d'Ispezione: accertarsi ogni mattina della "effettiva presenza in quadrato Ufficiali di una idonea bottiglia di spumante/champagne tenuta in fresco in riposto Ufficiali, nonchè biscotti al burro e mandorle da tostare al momento a cura del cuoco di servizio". "Il Capo Reparto Logistico, avvalendosi del Capo Gamella dovrà accertarsi che sia prontamente reperibile dal personale addetto al quadrato Ufficiali il materiale di consumo sopra indicato", continuava la circolare. Suggellata da un'ultima perentoria intimazione, che ha fatto infuriare più di ogni altra cosa le rappresentanze di base. "Alla chiamata 'Il Comandante in Capo della Squadra Navale a Bordo-Alza Insegna' il personale addetto al Quadrato Ufficiali o l'addetto ai Quadrati Unificati (durante il fine settimana/giornate festive) dovrà essere in tenuta di rappresentanza pronto a servire mandorle tostate e spumante/champagne". Parole che sono la radiografia dall'interno di un mondo ancora in parte legato a privilegi e rituali scavalcati dal presente, trattato con guanti di velluto dagli ultimi governi. Nessuna norma di riduzione della spesa è intervenuta finora per eliminare - per esempio - la SIP, speciale indennità pensionabile che spetta ai Vice Comandanti Generali dei carabinieri e della guardia di finanza. Negli ultimi 15 anni ben 22 generali di corpo d'armata dei carabinieri (tra loro anche Clemente Gasparri, fratello di Maurizio) si sono avvicendati nel ruolo di Vice Comandanti, restando in carica per periodi brevissimi (anche meno di un mese) sufficienti a maturare il diritto a una pensione da 14.000 euro, somma dei 6.000 euro di stipendio (oltre a varie indennità) più un maxi incremento di 8.000 euro che non trova riscontro nei contributi versati. Ai piedi della piramide, invece, le cose sono andate diversamente. Con le retribuzioni e gli aumenti legati alle promozioni congelati dal 2010 e fino al 2014 - come in tutto il comparto pubblico - i carabinieri semplici (stipendio da 1.300 euro al mese, spesso prosciugato da un affitto da pagare nel luogo di servizio) ingoiano rabbia e frustrazione ormai da troppo tempo. E iniziano a valutare con insofferenza crescente la forbice che separa il vertice dalla base.

E che dire di un altro Generale. Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Gite in montagna e pesce fresco in baita così Speciale usava l'Atr della Finanza, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Roberto Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco. Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine. Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia. Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio. Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio. Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore. Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti. Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna. Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.

Spigole con l'aereo di Stato Conto da 200mila euro per l'ex generale Speciale. Nel 2005 l'ex ufficiale si era fatto spedire il pesce in Trentino con un Atr-42 dalla base di Pratica di mare. Oggi la Corte dei conti lo ha condannato a pagare, scrive “Libero Quotidiano”. Costerà bello caro, il banchetto a base di pesce che il generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale si fece spedire  in Trentino con un Atr-42 militare. Il caso passò alle cronache come quello delle "spigole col volo di Stato" e risale all'estate 2005. Nell'agosto di quell'anno, il generale si trovava a Predazzo in vacanza coi famigliari. E per allietare i suoi ospiti fece decollare appositamente dalla base di Pratica di Mare un aereo carico di spigole e altro pesce. Aereo adibito, normalmente alla sorveglianza delle coste per contrastare reati come il contrabbando o l'immigrazione clandestina. La vicenda venne denunciata due anni più tardi da Repubblica e sul piano penale (reati di abuso d'ufficio e peculato) si è conclusa con la prescrizione. Ma il danno patrimoniale, quello non si è prescritto e così a otto anni da quella storia la Corte dei Conti ha imposto all'ex ufficiale delle Fiamme Gialle il pagamento di un "conto" da 200mila euro  in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze: circa 30mila euro per il consumo del carburante dell’aereo, altri 7mila euro per le spese del personale impegnato nell’organizzazione di quel viaggio; ben 170mila euro a titolo di risarcimento del danno di immagine. Gabriella Bottone, 67 anni, un passato alla Gucci e moglie di un militare Ha fatto causa all'ex comandante generale della Guardia di Finanza.

"Speciale pretendeva orologi e argenteria per anni ho pagato, ora rivoglio tutto", scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Sostiene la signora Gabriella che le spigole di Passo Rolle non sono state un inciampo. Perché "Roberto Speciale è sempre stato ossessionato dalla roba. Dall'idea del potere come privilegio". Gabriella Bottone è una donna di 67 anni dai modi e il portamento eleganti. Nipote di una medaglia d'oro, moglie del generale della riserva Gualberto Peri. Per oltre dieci anni, Gabriella e Gualberto sono stati amici di Roberto Speciale e della moglie Maria Antonietta. Ne hanno frequentato la casa, le feste, le cene. Fino a quando non si sono sentiti "traditi". Gabriella, a metà anni '90, era stata testimone chiave di importanti inchieste condotte dalla Procura militare di Roma su episodi di malversazione nell'Esercito. Una scelta - racconta - che avrebbe pagato con "minacce", "aggressioni" e quasi due anni di vita sotto scorta. Con "l'umiliazione" inflitta al marito di un congedo "senza avanzamento di grado, come pure avrebbe avuto diritto". Roberto Speciale, allora, era sottocapo di Stato Maggiore. "Dopo averci usato per una vita, ci abbandonò. Ora, non mi voglio vendicare, ma far sapere a chi è stato affidato per anni prima il grado di sotto capo di stato maggiore e poi di comandante generale della Guardia di Finanza".

Come ha conosciuto Speciale?

"A metà anni '80 lavoravo alle pubbliche relazioni della 'Gucci'. Avevo rapporti istituzionali con lo Stato Maggiore dell'Esercito cui facevo applicare sconti del 50 per cento sulla merce acquistata per occasioni di rappresentanza. Speciale era tenente colonnello. Mi avvicinò e mi disse che aveva bisogno di foulard. Cominciammo a frequentarci. E dai foulard si è passato ad altro".

Cosa vuole dire?

La signora Gabriella estrae da una ventiquattro ore una lista dattiloscritta con tanto di protocollo e bolli di deposito giudiziari. Si legge: "Bicchieri da acqua e da vino in argento marca "Brandimarte"; bicchieri da liquore in argento (6) "Brandimarte"; vassoio grande in argento martellato con frutta ai lati "Brandimarte"; vassoio rotondo in argento con bordo di rose e nomi incisi "Brandimarte"; cornice in argento con specchio "Brandimarte"; oliera in argento e cristallo "Brandimarte"; caraffa da un litro in argento "Brandimarte"; cestino da pane tipo paglia in argento "Brandimarte"; litro in argento "Brandimarte"; orologi di varie marche, di cui due in oro, uno per Roberto Speciale, uno per il figlio; collana in oro con croce; collana di perle per la moglie; anello in oro con tre pietre per la figlia; antico porta vaso cinese; vestiti, scarpe, slips; piatti da parete 'Versace'".

E questa lista cosa sarebbe?

"E' l'inventario di merce che, nel tempo, il generale Speciale ha ricevuto dalla sottoscritta e per la quale la sottoscritta ha pagato dal primo all'ultimo soldo. Lui chiedeva e noi, per evitare ripercussioni negative, lo accontentavamo. Sono arrivata al punto di acquistare un paio di mocassini che aveva chiesto e di doverli cambiare perché, dopo averli provati in ufficio, li sentiva un po' stretti. Voleva gli si comprassero persino le mutande. Non le dico poi mio marito, un ufficiale che ha servito in Albania e Somalia. All'epoca, lavorava al comando "Ftase" (Forze Alleate terrestri Sud-Europa) di Verona. Lo spaccio era duty-free. E allora giù a chiedere scatole di antichi toscani e stecche di sigarette. E bottiglie di whisky. Ordinava direttamente lui e poi si occupavano del resto la sua segretaria di allora, Concetta Giuliano, o il suo segretario, il maresciallo Romani. Entrambi, a quel che mi risulta, sistemati al Sismi una volta assunto il comando della Finanza. Si occupavano anche dei biglietti per la tribuna di onore della Juve dove spesso andava il figlio del generale, Massimo. All'epoca sottotenente a Torino e poi finito al Sismi".

Lei dice che non erano regali. Ma forse il generale li riteneva tali.

"Questo lo deciderà il tribunale civile di Roma dove pende una mia causa contro Speciale per ottenere indietro parte di questa merce. Vedremo. Ma il motivo per cui le mostro la lista è per dimostrarle che Roberto è ossessionato dalla roba. E dal cibo. Il pesce a passo Rolle mi ha fatto ripensare a cosa arrivava dalla Sicilia nella sua villa alle porte di Roma".

Cosa?

"Pesce, aragoste, frutti di mare. Spiedini di carne siciliani. Montagne di marzapane. Era cibo buonissimo. E quando andavo via, spesso, mi dava anche la "mappatella", come direbbero a Napoli, con i fruttini di marzapane, che mi piacevano moltissimo".

Magari erano regali anche quelli. Oppure merce regolarmente spedita da altrettanto regolari fornitori.

"Io non ho controllato se avessero una bolla di accompagno. Ma, per dire il tipo, so per certo, ad esempio, cosa accadde un giorno in cui mio marito fu convocato in gran fretta alla Difesa. Speciale gli mise in mano un bustone in cui c'erano due leoni d'argento alti una settantina di centimetri, simbolo della brigata "Aosta" di Messina, che lui aveva comandato per un anno. Speciale disse: "Fateci qualcosa. Se potete "scioglierli" da Brandimarte per farne dei sottopiatti...". Ero fuori di me. Presi quei due leoni e li feci depositare al monte dei Pegni. Forse sono ancora lì".

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

Punita la pm anti Vendola. E ora vuole candidarsi. La Digeronimo denunciò i rapporti tra Nichi e il gip che l'aveva assolto dall'abuso di ufficio, scrive Tiziana Paolocci su “Il Giornale”. Il processo a Nichi Vendola ha fatto strike di magistrati all'interno del Tribunale di Bari. Il pm Desirè Digeronimo, che all'indomani dell'assoluzione del governatore della Regione Puglia da parte del gup Susanna De Felice denunciò l'amicizia tra questa e la sorella del governatore, Patrizia, è stata trasferita alla Procura di Roma. Una punizione in piena regola per chiudere un procedimento aperto proprio dal Csm per «rimuovere preventivamente una situazione di presunta incompatibilità tra lei e i colleghi». Il gup che giudicò innocente il presidente di Sel dall'accusa di abuso d'ufficio, invece, verrà trasferita alla Corte d'appello di Taranto, ma solo per avallare una sua richiesta. Era stato lo stesso giudice a chiedere, infatti, il trasferimento all'interno di un concorso ordinario. Due pesi due misure, quindi, per i principali attori di un processo che sollevò un vero e proprio terremoto all'interno del Tribunale, seguito da uno strascico di polemiche. I pm Desirè Digeronimo e Francesco Bretone che avevano chiesto una condanna a 20 mesi di reclusione per Vendola (processato insieme all'ex assessore alla Salute Alberto Tedesco), infatti, subito dopo l'assoluzione del politico avevano inviato un esposto al procuratore generale di Bari, al capo del loro ufficio e a un procuratore aggiunto, segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore. Dall'iniziativa, però, avevano preso le distanze 26 pm firmando una lettera, che aveva spinto poi i consiglieri di Area ad aprire una pratica sulla Digeronimo. Le accuse del Csm su di lei erano basate non solo sulla conflittualità con alcuni colleghi e avvocati, ma anche sul rischio di non imparzialità per via dei rapporti personali con l'ex direttore generale della Asl di Bari, Lea Cosentino e con la sua amica Paola D'Aprile. E non era bastato a dar manforte alle parole della Digeronimo le foto pubblicate a febbraio da Panorama, che mostravano una pranzo organizzato nell'aprile 2006 per il compleanno di una cugina di Vendola, al quale partecipavano lo stesso governatore e il giudice De Felice. Così il pm non ha potuto far altro che indicare una nuova sede di lavoro ottenendo in cambio l'archiviazione della pratica disciplinare. Ma non ha deposto le armi e ieri in una lettera aperta è tornata ad attaccare il Csm, Vendola e i colleghi: «Incolpevolmente ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che la legge è uguale per tutti». Poi annuncia: «Se si creeranno le condizioni servirò in altro ruolo i miei concittadini». Una promessa che non esclude un futuro da candidato sindaco di Bari.

Ecco il testo della lettera aperta indirizzata "ai cittadini di Bari" e postata dal sostituto procuratore Desirée Digeronimo sul suo profilo Facebook: "Ho chiesto il trasferimento alla Procura di Roma ritenendo non più “tollerabile” la mia permanenza in servizio presso la Procura di Bari a seguito delle accuse totalmente infondate di alcuni colleghi sostituti auditi al CSM nel corso della pratica che mi ha riguardata. Preciso che tale procedura per incompatibilità non attiene in alcun modo a profili disciplinari né tantomeno a pretese irritualità riferibili all’invio di una nota, riservata personale, diretta ai miei superiori gerarchici e avente ad oggetto accadimenti inerenti il processo a carico del Presidente di Regione, Niki Vendola. La richiesta di trasferimento è stata motivata dal profondo rispetto dovuto all’istituzione della Procura della Repubblica di Bari e dalla mia personale indisponibilità a proseguire una collaborazione con alcuni colleghi in servizio in tale ufficio; infatti, dopo la pubblicazione sulla stampa del contenuto delle contestazioni formulate dal CSM, ancor prima che, in un legittimo contraddittorio, potessi dimostrarne la pretestuosità e falsità, come in ogni caso ho fatto depositando una memoria ampiamente supportata da riscontri documentali, ho ritenuto doveroso tutelare, da tali false accuse, la mia onorabilità e dignità professionale depositando un esposto alla competente Procura di Lecce. Nel corso di questi anni e soprattutto di questi ultimi mesi, attraverso un’ ossessiva sovraesposizione mediatica, ovviamente mai da me voluta o ispirata, sono state riportate notizie non corrispondenti alla verità dei fatti, che oggi ritengo opportuno precisare e smentire. La riservata da me sottoscritta unitamente al collega Bretone sulla vicenda De Felice – Vendola costituiva, nell’esercizio delle mie funzioni di Pubblico Ministero titolare di quel processo, una doverosa comunicazione di ufficio con riferimento a fatti e circostanze che necessitavano di superiore valutazione da parte dei soggetti istituzionali a ciò preposti. Tale atto, e non esposto, lungi dall’essere stato compiuto in violazione di legge e/o regole processuali era corrispondente a precisi doveri del mio ufficio. Illegittima e in violazione del dovere di riservatezza risulta la pubblicazione di tale nota riservata, circostanza in merito alla quale ho provveduto a formalizzare denuncia presso le sedi competenti. Tralasciando aspetti suscettibili di altre e ben più gravi valutazioni, una irrituale interferenza nell’esercizio delle funzioni a me assegnate dallo Stato potrebbero considerarsi i successivi documenti diramati alla stampa da parte dei rappresentanti di associazioni di categoria e/o di singoli uffici, con i quali, senza cognizione di causa e frettolosamente, veniva stigmatizzata a mio carico l’inesistente violazione di regole processuali. In merito ad una serie di false affermazioni riferite da alcuni protagonisti di tale vicenda e riportate dalla stampa , ho sporto denuncia presso la Procura di Lecce, in particolare: al contrario di quanto riferito dal Presidente Vendola nel corso di numerose trasmissioni televisive non sono mai stata amica, nel senso pieno del termine, della collega De Felice né mai ho presentato quest’ultima alla sorella del Presidente, Patrizia; del resto nella ormai nota fotografia del settimanale “Panorama” non sono certo io ad essere ritratta tra tali intimi protagonisti del pranzo di compleanno della cugina del Presidente; al contrario di quanto riferito da Patrizia Vendola non ho mai chiesto favori a lei o al fratello né mai ho avuto motivi di astio o inimicizia nei confronti di costoro; al contrario di quanto riferito dalla dott.ssa Pirrelli, moglie del ex senatore PD e magistrato Gianrico Carofiglio, non ho mai avuto rapporti conflittuali con giudici o avvocati del distretto, né con la maggior parte dei colleghi sostituti di Bari, mai ho intrattenuto rapporti di amicizia o colloqui telefonici con la dott.ssa Lea Cosentino, come risulta peraltro inconfutabilmente dimostrato dalla trascrizione di una intercettazione telefonica tra me e la dott.ssa Paola D’Aprile avvenuta ad opera del collega Scelsi nell’agosto del 2009, collega oggi imputato a Lecce per tali condotte in un processo che mi vede persona offesa. La verità di ciò che è accaduto in questi lunghi anni è tutta da un’altra parte. Prima di indagare sugli illeciti nella gestione della sanità regionale pugliese anche per chi oggi mi accusa ero magistrato competente e attento e del resto i risultati prodotti in 15 anni di lavoro appassionato e serio presso la Procura di Bari sono sotto gli occhi di tutti. La mia incompatibilità ambientale nasce dall’ “incolpevole” circostanza di essermi imbattuta in un’indagine che avevo il dovere, in ossequio al servizio che svolgevo per i cittadini di Bari, di approfondire e concludere; doveri che mi imponevano di non voltare la testa, di non tenere le carte nei cassetti. “Incolpevolemente” ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che “la legge è uguale per tutti” e pur provocata e aggredita , “incolpevolemente” ho pensato che per un giudice il primo dovere fosse proseguire il suo lavoro nel silenzio e nella riservatezza, facendo parlare esclusivamente i propri provvedimenti. Ed in effetti i provvedimenti della Corte di Cassazione che hanno confermato la bontà dell’impianto accusatorio dell’indagine sulla sanità che sino al novembre 2009 ho personalmente seguito e poi condiviso con altri colleghi non possono che parlare per me. Oggi sono fiera di essere riuscita a indossare con onore una toga, pervenendo a tali importanti risultati , mentre un “potente” , come Lui stesso si è definito in recenti interviste, Presidente di Regione, nell’agosto 2009 in una lettera aperta pubblicata su tutte le testate nazionali, pur dichiarando di agire “per amore della verità” chiedeva a gran voce la mia astensione dall’indagine, mi tacciava di incompetenza, accusandomi genericamente di intrattenere rapporti di parentela e amicizia incompatibili con il ruolo. Sono fiera di aver saputo onorare con il silenzio l’istituzione che rappresento a fronte di tale comportamento del Presidente della Regione Puglia, che omettendo di rappresentare le sue doglianze presso le sedi competenti, così privandomi di ogni legittima difesa e contraddittorio, compiva una grave interferenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali di un magistrato della Repubblica Italiana. Sono fiera di aver resistito nell’adempimento del dovere nonostante la solitudine e la mancanza di solidarietà di chi avrebbe dovuto proteggere non me ma la mia funzione. E così la sezione locale dell’ANM che liquidava la questione della lettera di Vendola come un “fatto personale” tra me e il Presidente o il CSM dell’epoca che, contrariamente a quanto fatto per identici casi che riguardavano altri colleghi e altri personaggi pubblici, mi negava tutela posso dire oggi, con assoluta convinzione, che mancavano di salvaguardare non un singolo magistrato ma il prestigio e la credibilità delle funzioni giudiziarie. Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso, forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre il centro dei miei affetti e dei miei pensieri, e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini, con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza. Tanto esprimo ai cittadini di Bari che non mi hanno fatto mancare l’affetto e la solidarietà ma anche a chi oggi gioisce per una vittoria di “Pirro”. Un grazie speciale e con il cuore alle donne e agli uomini con cui ho condiviso quotidianamente le fatiche e le gioie del mio lavoro, ho apprezzato in voi onestà e coraggio, abnegazione assoluta a uno Stato spesso avaro con i suoi uomini migliori. Infine, rivolgendo un pensiero a quei colleghi della Procura di Bari, che pur decretando il mio esilio ringrazio per avermi aperto nuove e luminose strade da percorrere, mi torna in mente con un sorriso la frase di Diogene il cinico, il quale, condannato dai “ Sinopi” all’esilio, condannava costoro a rimanere in Patria". Bari lì 26 luglio 2013 Desirée Digeronimo.

La giunta distrettuale di Bari dell’Anm esprime "il proprio rammarico per il discredito che è stato gettato sull'intera magistratura, sul suo organo di autogoverno e sulla stessa Associazione nazionale magistrati". Secondo la giunta barese dell’Anm, è doveroso "sottolineare come il magistrato non possa sottrarsi alle regole che è chiamato a far rispettare". "La scelta della dott.ssa Digeronimo – rileva l’Anm – di trasferirsi presso altra sede, che di fatto ha bloccato il procedimento apertosi per la verifica di condotte che l’abbiano resa incompatibile con la permanenza presso la Procura di Bari, non può e non deve portare a cercare il consenso popolare, per fini evidentemente extragiudiziali, attraverso dichiarazioni unilaterali che altri magistrati, in ossequio ai principi di serietà, riservatezza e rispetto del codice deontologico, hanno riservato esclusivamente alle sedi istituzionali".

Vendola risponde al magistrato che lo indagò. "Scende in politica? Ci guadagna la giustizia". Scontro aperto tra il governatore leader di Sel e il pm Digeronimo che ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco di Bari. "Contro di me spinta da motivazioni politiche".  "Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".  E' scontro aperto tra il governatore Nichi Vendola e il magistrato Desirée Digeronimo che lo ha indagato per la vicenda della nomina di un primario, cui sono seguiti strascichi giudiziari e frizioni interne al Palazzo di Giustizia di Bari che hanno portato al trasferimento del pm a Roma per incompatibilità, scrive “La Repubblica”. Trasferimento annunciato con una lettera aperta alla città in cui la Digeronimo, oltre ad attaccare Vendola e i colleghi che l'hanno segnalata al Csm, si è detta pronta  a candidarsi per diventare il prossimo sindaco di Bari. Circostanza che - attacca Vendola - porta a galla la verità sulla "lunga clandestina campagna elettorale che spingeva le azioni della dottoressa Digeronimo". "Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso" scrive la Digeronimo alla cittadinanza, sostenuta da un gruppo di associazioni politiche, pronte a lanciare le primarie della società civile. "Forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre al centro dei miei affetti e dei miei pensieri e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza". "Sebbene sia abituato a cercare sempre le parole più appropriate per raccontare le mie emozioni - questa la replica del governatore - confesso che questa volta, dinanzi alle parole della dottoressa Digeronimo, ho provato la tentazione di restare in silenzio. Per marcare una distanza. Tuttavia, siamo dinanzi a una lettera pubblica e non davanti ad un atto giudiziario: ed è doveroso parlare. Una lettera ai 'cittadini baresi' proveniente da un magistrato tuttora in servizio a Bari, che non disdegna di esibire la propria 'folgorazione' per la politica. Lo fa con esibita ostilità nei confronti della mia persona. Lo fa, ed è la cosa che appare più paradossale e imbarazzante, con ostilità nei confronti della funzione giudiziaria, che tutti i cittadini vorrebbero esercitata da uomini e donne equilibrati e sereni. Che la dottoressa Digeronimo non sia stata terza e serena nei miei confronti, io lo so bene e la sua lettera una volta di più lo conferma. "Oggi capisco che non è serena nemmeno con il Csm, che ne ha decretato all'unanimità l'incompatibilità, imponendole di fatto il trasferimento. E non è serena neppure con i suoi colleghi, pm e giudici. Per cinque anni ho bevuto un calice amaro, ma sono stato sempre ossequioso verso le istituzioni giudiziarie e mi sono difeso nei processi uscendone sempre a testa alta. E' vero: mille volte ho sospettato che il suo accanimento nei miei confronti fosse motivato anzitutto da vanità, sebbene piuttosto crudele. Oggi finalmente appare la verità. Dunque, era solo una lunga clandestina campagna elettorale per una sorprendente autocandidatura quella che spingeva le azioni della dott. ssa Digeronimo. Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

E sulle foto di Vendola spunta Carofiglio. C'è il nome del magistrato-scrittore, secondo Panorama, nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto del governatore  a pranzo con il giudice De Felice. Spunta a sorpresa il nome del magistrato-scrittore-politico Gianrico Carofiglio nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto di Nichi Vendola a pranzo con Susanna De Felice, il giudice che lo ha assolto nell’ottobre 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio. Lo rivela Panorama, in edicola da domani, giovedì 18 luglio. Lo ha scoperto la Polizia postale di Bari che ha analizzato il computer dell’uomo che dice di avere rubato quelle immagini, Cosimo Ladogana, all’epoca compagno di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi. Tutto inizia quando Ladogana, tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, senza rivelare la sua identità, propone a Panorama alcuni scatti di quel pranzo e altri riguardanti un incontro a casa di Carofiglio tra Patrizia Vendola e De Felice alla vigilia del processo contro il governatore della Puglia. Il settimanale, subodorando una trappola, dà conto della strana offerta. L’identikit di Ladogana viene riconosciuto da amici e parenti e così, il 28 febbraio, il presunto ladro scrive all’allora senatore del Pd Carofiglio, amico della famiglia Vendola e del giudice De Felice, un’email di giustificazioni: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista di Panorama, ndr) e non certo tutti noi». Giura che il suo piano (successivamente realizzato) era quello di far incriminare per ricettazione il giornalista: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: “A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato”». Ladogana è disperato e a Carofiglio assicura: «Sono disposto a tutto (…). Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Dopo pochi minuti Carofiglio, sempre per posta elettronica, risponde e promette di concedere la sua consulenza a una condizione: Cosimo dovrà inviare - precisa il magistrato - «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Nei giorni successivi Ladogana spedisce in visione diverse bozze della sua autodenuncia al magistrato-scrittore e il 5 marzo, quando il documento è già stato lungamente corretto e limato (anche nella parte sull’incontro a casa Carofiglio), ne consegna una copia alla Digos. Dopo poche ore la procura di Bari apre un fascicolo per furto e ricettazione.

Tutta la verità sulle foto di Vendola. La vera storia del fidanzato di Patrizia Vendola e delle foto regalate a Panorama, scrive Giacomo Amador su “Panorama”. Oggi la notizia del giorno a Bari la offre ai suoi lettori «La Repubblica», sulla prima pagina del dorso locale: «Il partner di Patrizia Vendola: “Ho dato io le foto a Panorama» . Il sommario chiarisce meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore (Nichi Vendola ndr) e il gip (Susanna De Felice ndr) che lo ha assolto». Bum! Ma perché avrebbe tradito la famiglia della fidanzata «all’insaputa di tutti»? Semplice: «Voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna» sarebbe la versione offerta ai poliziotti. In realtà la storia è andata un po’ diversamente e vale la pena di essere raccontata dall’inizio. Alle 10 e 52 minuti di giovedì 21 febbraio sul computer della segreteria di Panorama arriva una email di un lettore misterioso, nascosto dietro il nickname Japigia69 (Japigia è un quartiere di Bari). Panorama è da poche ore in edicola con la storia della foto della ormai famosa festa di compleanno a cui parteciparono il Vendola e il giudice De Felice, che lo avrebbe assolto nel 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio a fronte di una richiesta di condanna a 20 mesi di reclusione. Il nostro settimanale, però, sino a quel momento, aveva pubblicato solo un disegno, una ricostruzione grafica di quell’evento conviviale. Scrive Japigia: «La foto originale, scattata da me, del 15 aprile 2007 (non 2006) di cui parlate nell’articolo di oggi è in mio possesso insieme ad altre 30 foto che ritraggono e raccontano l’evento. Se interessati, le cedo molto volentieri, altrimenti passo ad altri che sono in attesa. Grazie». Panorama, mentre il giornale va in stampa, è riuscito a entrare in possesso dell’immagine del pranzo e la pubblicherà sul suo sito Internet verso mezzogiorno di quella stessa mattina. Ma Japigia non può saperlo e ritiene di poter fare il colpo grosso. Anche se l’immagine la abbiamo, il cronista è ovviamente interessato a capire meglio la vicenda e invia una email a Japigia. La risposta è rapida e l’appuntamento viene fissato per il pomeriggio successivo, venerdì 22 febbraio. Nel frattempo ci attrezziamo per capirne di più e smascherare l’anonimo. Pochi giorni prima ci aveva telefonato, schermato da un numero privato, un altro mister x e ci aveva offerto immagini a un prezzo cospicuo. L’uomo senza volto dà del «tu» al cronista e sa che ha già visionato (senza riuscire a ottenerla) un’istantanea della festa. La storia non ci piace e pensiamo a come svelare l’identità del trafficante di immagini. Dopo un consulto con la direzione viene chiamato il procuratore di Lecce Cataldo Motta che, a quanto ci risulta, ha un fascicolo aperto sui rapporti tra De Felice e Vendola. Non sappiamo, né possiamo sapere, che Motta ha già chiesto l’archiviazione per il gip. La risposta del magistrato è secca: «E che c’entro io?». Quindi consiglia: «Avvertite le forze di polizia, se lo ritenete». Noi preferiamo a quel punto raccontare la proposta ricevuta ai nostri lettori. Torniamo a Japigia. Dopo il primo colloquio, le nostre difese non si abbassano. Ma come i giocatori di poker chiediamo di «vedere». L’uomo, grande e grosso, età apparente sui 45 anni, si presenta nella hall dell’albergo in cui alloggiamo. Si siede con noi a un tavolino e inizia subito a riempire l’aria di millanterie (lo scriverà lui stesso in una mail successiva, quando scoveremo la sua reale identità). Dice di essere tornato in Puglia da un anno, di lavorare per un misterioso gruppo di persone che lo paga profumatamente per trovare notizie «scomode» e di essere iscritto all’albo dei giornalisti. Questa informazione, come accerteremo, è vera: Ladogana dovrebbe aver fatto il praticante in un piccolo giornale di Sesto San Giovanni (Milano) ai tempi in cui faceva il «galoppino» di alcuni noti politici del luogo, ci rivela un amico dell’epoca, Filippo Penati in primis, ex caposegreteria di Pier Luigi Bersani, oggi afflitto da qualche grattacapo giudiziario. In albergo Cosimo (ma lui si presenta come Domenico, anche se a un certo punto si confonde e dichiara il vero nome) tira fuori tre quattro fogli formato A4 pieni di foto, stampe di provini o di cartelle digitali, e ce le mostra. Ci sono gli scatti del pranzo (sono davvero una trentina) e quelle di un altro evento molto più recente. Cosimo insiste su questo punto, dice che risalgono all’1 maggio del 2012 e che erano presenti sia De Felice che Patrizia Vendola. Aggiunge pure che ci sono altre foto delle due donne in occasione di una Pasquetta e di un Capodanno trascorsi insieme, sempre successivi al 2009 e quindi «pericolosamente» recenti per la famiglia Vendola. Sono questi scatti vicini nel tempo la merce che prova a vendere in questo mercatino improvvisato, visto che le immagini del pranzo del 2007 hanno perso valore alla borsa della notizia dopo la pubblicazione della prima foto su Panorama.it. L’informatore dice di avere estratto le istantanee da un vecchio telefonino della Vendola, poi si contraddice e racconta di aver pagato un tecnico per recuperare un hard-disk usato della donna, pagando 3 mila euro. Una cifra buttata lì, quasi a dare un prezzo al pacchetto. Japigia non capisce, o forse sì, che quegli scatti, con tali premesse, diventano roba buona per i ricettatori. Lui, per tranquilizzarci, si propone per una collaborazione che duri nel tempo con il giornale, ovviamente da realizzare con la sua reale identità. Nel frattempo sul tavolo srotola altre storie. Dice di avere degli audio compromettenti di un magistrato a colloquio con Patrizia Vendola e che quelle registrazioni le aveva suggerite un parlamentare del Pd. Sostiene inoltre di avere  il file di un colloquio tra due imprenditori che scagionerebbe Penati. Gli riferiamo che il nostro tempo è scaduto perché dobbiamo andare al comizio di Vendola per provare a intervistarlo. Sospendiamo la trattativa, con la promessa di rivederci. Siamo in una fase di studio: il racconto di Cosimo è confuso, le foto sono chiaramente autentiche, lui preferisce rimanere anonimo. La sera lo incrociamo in compagnia di una donna (tra poche righe scoprirete la sua identità). Ci ignoriamo volutamente. Il giorno dopo, altro appuntamento in albergo, ma la matassa non si sbroglia. Anzi. Japigia ci dà appuntamento a Roma, promette di svelare il suo nome e di consegnarci il materiale. In realtà sparisce dai radar. Salvo inviare quattro foto via email: «Sta a voi decidere se ringraziarmi» precisa. Anche senza pagare un centesimo, l’accusa per Panorama di essere una macchina del fango (un ritornello che Vendola aveva già cantilenato dopo una nostra intervista alla sorella) è dietro l’angolo. E sebbene scopriremo che quella melma Vendola ce l’ha in casa, con la direzione decidiamo di pubblicare le istantanee e di descrivere così chi ce le ha consegnate: «Ma qual è l’identità della fonte e come è entrata in possesso delle foto? Il percorso non è chiaro. Potrebbe essere tortuoso, financo illegale. “Carbonara” (nel pezzo lo chiamiamo così ndr) dice di essere un giornalista freelance e di aver videoregistrato il nostro incontro. Quindi scompare e non si fa più sentire (…). Un approccio indecifrabile. Anche perché nelle stesse ore il cronista incrocia Carbonara per le vie di Bari, e lui fa finta di niente. Passeggia con una signora, con cui sembra in confidenza. Il cronista la riconosce: è Patrizia Vendola (ecco chi è la donna ndr). Gioco o doppiogioco? In ogni caso non è divertente». Secondo noi ce n’è abbastanza per incuriosire le forze dell’ordine o un magistrato. Ma nessuno, a Bari, sembra interessato alla nostra storia. Nessuno si preoccupa di verificare chi siano gli strani personaggi che offrono foto di cronaca in città senza rivelare la propria identità. Proviamo a chiedere aiuto a Gianrico Carofiglio, magistrato, senatore Pd e grande amico dei Vendola: «So chi è la vostra fonte, ma vi rivelerò la sua identità solo se prima mi racconterete tutto». Quello che avevamo da dire sull’informatore lo abbiamo scritto, replichiamo. A Carofiglio non basta, vuole altri particolari, cerca conferme ai suoi sospetti. Eppure quanto pubblicato su Panorama sembra sia bastato a rendere identificabile Ladogana all’interno del cerchio magico di Vendola. Per lo meno questo sostiene Japigia, che il 28 febbraio ricompare con una email intestata «Ringraziamenti»: «Davvero un peccato. Tutto sommato anche previsto. Grazie. Buona giornata». Il messaggio è vagamente minaccioso. Rispondiamo spiegando che il suo comportamento, le sue parole e le sue frequentazioni ci avevano fatto sospettare di una trappola. Lui si indigna: «Io ero sincero, volevo darvi sul serio una mano, per motivi personali, non ho preteso soldi (…) non sono scomparso, aspettavo il vostro articolo. È andata così, pazienza». Lo abbiamo reso riconoscibile e questo lo ha mandato nel panico: «Beh, almeno adesso avete la certezza che non era un trappolone come lo chiamate voi, che non ero in combutta con nessuno. Cellulare bollente il mio oggi, insulti a non finire, dai miei ex conoscenti, impossibile negare e quindi reo confesso». La storia è sempre più intricata e Cosimo non intende proprio togliersi la maschera. Scopriamo il suo nome casualmente, da un conoscente vicino al cerchio magico, ma anche questo ci aiuta poco. Esistono diversi omonimi. Iniziamo la caccia. Vogliamo conoscere la verità e glielo facciamo sapere. Chiediamo, sempre per iscritto, di incontrarlo e di parlare a quattr’occhi, per capire i reali motivi del suo comportamento. Non risponde. Gli riferiamo che il materiale in suo possesso ci servirà in vista di eventuali querele già annunciate. Lui preferisce restare nell’ombra. Ma l’uomo è venale e per riagganciarlo gli proponiamo «una soluzione buona per entrambi». Abbocca. «Non vedo perché dovrei fidarmi di te» scrive riferendosi al cronista, «ti ho incontrato e tu due ore dopo mi vedi in compagnia (di Patrizia Vendola ndr) e decidi di trattarmi così? Mi hai messo tutti contro» si lamenta. Ma alla fine del messaggio apre uno spiraglio: «Quale sarebbe “una buona soluzione per entrambi”?». Restiamo sul vago. Non promettiamo niente di concreto. Lui torna alla carica: «Anche se volessi accettare come potreste tutelarmi da eventuali conseguenze penali e quale sarebbe il mio compenso?». Proponiamo di continuare a proteggere il suo anonimato ed eventualmente di pagargli foto e collaborazione, se dimostrerà di essere un giornalista, attraverso «un regolare bonifico». Probabilmente queste condizioni lo scoraggiano e si eclissa di nuovo. Nel frattempo apprendiamo molte informazioni sul suo conto. Un ex politico di Sesto San Giovanni ci racconta la sua vera storia, le imprese fallite, l’attuale vita fatta «di espedienti». Ci invia il suo numero di cellulare con questa raccomandazione: «Non fategli male, è un buon diavolo, forse un po’ c…e». Inviamo a Cosimo altre email, messaggini sul cellulare, ma lui continua a non dare segni di vita. Il 4 marzo, a causa della nostra insistenza, probabilmente si sente in trappola e spedisce al cronista poche righe, apparentemente dettate da un leguleio: «Preciso che tutto quello che ho detto nella nostra chiacchierata, erano invenzioni e millanterie. Ho frequentato Patrizia Vendola per oltre un anno, siamo stati insieme tutti i giorni e nell’arco di quest’anno c’è stato un solo casuale incontro con la dottoressa De Felice. Ogni cosa diversa tu dovessi dire o attribuire virgolettata, sul tuo giornale sarà falso e ne dovrai rispondere alle persone eventualmente diffamate, in sede civile e penale». Rispondiamo che per tutelarci a noi basta rivelare il suo nome, il fatto che ci abbia consegnato le foto e che ne abbia altre. Il 5 marzo scriviamo un articolo sull’affaire Vendola-De Felice senza citarlo. È l’ultima possibilità che gli diamo per uscire allo scoperto. Gli facciamo capire che lo proteggeremo come fonte in cambio delle prove di quello che abbiamo scritto, riscontri che abbiamo visto, ma che non ci ha consegnato. Ribadiamo che se non si farà vivo saremo costretti a svelare la sua identità per difendere il nostro lavoro con i lettori e nei tribunali. Quello stesso pomeriggio un collega ci avverte che Ladogana è andato ad autodenunciarsi alla Digos. Alle 19.25 Japigia ci annuncia personalmente la decisione: «Ho riferito tutto alla polizia giudiziaria, consegnando la documentazione. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità». La nostra risposta è lapidaria e un po’ ironica: «Bene. Finalmente trionferanno verità e giustizia. Speriamo che almeno alla Digos tu non abbia chiesto soldi, abbia dato le tue vere generalità, consegnato tutto quello di cui parli nell’audio e le foto che ci hai fatto vedere». Già. Chissà se a qualcuno, adesso, interesseranno le immagini che documentano gli incontri della famiglia Vendola e del giudice De Felice anche in anni molto recenti. Forse ora ci sarà chi proverà a vederci chiaro. Se accadrà, di questo piccolo miracolo dovremo ringraziare Japigia.

Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre scorso ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, scrive “Libero Quotidiano”. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori. Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese ora impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama.  «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali. 

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta.

Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato - per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole. Bisognerà invece aspettare ancora per avere le motivazioni della sentenza Fitto: la corte ha chiesto un'ulteriore proroga, bisognerà aspettare sino al 14 agosto. Non hanno ancora finito di scrivere le motivazioni per la sentenza che ha condannato Raffaele Fitto a quattro anni di reclusione per corruzione e abuso d’ufficio, e già questo processo è finito in un altro fascicolo giudiziario: Fitto ha accusato i suoi giudici, con un esposto alla procura di Lecce, di essere stati troppo celeri nei suoi riguardi. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta, aperto il fascicolo, ha chiesto gli atti del processo al presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, che glieli ha trasmessi e di fatto ora sono i giudici Luigi Forleo, Clara Goffredo e Marco Galesi a doversi difendere. “Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi”, aveva attaccato Fitto poche ore dopo la condanna, “gli stessi giudici, per altri processi, hanno tenute tre udienze l’anno mentre, nel mio caso, ci sono state anche tre udienze a settimana”, scrive Antonio Massari su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo l’attacco verbale, l’esposto in procura, con annesso fascicolo e indagine appena aperta. Per quanto possa apparire surreale, ora sono i giudici a doversi tutelare dall’accusa di essere stati troppo ligi, di aver evitato la prescrizione in un processo che vedeva coinvolto, con l’accusa di corruzione, uno dei più potenti politici del Pdl, ex ministro e tuttora pupillo dell’ex premier Silvio Berlusconi. E come Berlusconi con Nicolò Ghedini, anche Fitto è difeso da un avvocato che siede in Parlamento, ovvero Francesco Paolo Sisto. Condannato in primo grado – la vicenda riguarda la tangente da 500mila euro, pagata dagli Angelucci al movimento politico di Fitto, “la Puglia prima di tutto”, per ottenere in cambio, secondo l’accusa, la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa) – ora Fitto si rimetterà al giudizio della Corte d’Appello. Il Presidente della corte d’Appello di Bari è Vito Marino Caferra, da poco nominato “osservatore” del “comitato dei saggi” per le riforme costituzionali. Una nomina passata in commissione affari costituzionali, fortemente voluta proprio da Francesco Paolo Sisto, che l’ha proposto, questa volta – s’intende – nella sua veste di parlamentare Pdl. E quindi, in sintesi, da un lato Fitto denuncia – e la procura di Lecce indaga – i giudici che l’hanno condannato, perché troppo celeri nel calendarizzare le udienze del suo processo. Dall’altro il suo avvocato, in qualità di parlamentare, spinge il presidente della Corte d’appello – che dovrà calendarizzare le future udienze – nel ruolo di osservatore dei saggi. Nessun dubbio sul fatto che Caferra, nella sua veste di giudice, non si lascerà condizionare. Molti dubbi, invece, sull’opportunità di accettare questo incarico, giunto proprio su proposta di Sisto.

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

Con questa importante ed approfondita inchiesta, prende il via la nuova rubrica su la ”INGIUSTIZIA ITALIANA”, che metterà a nudo le disfunzioni, l’inefficienza e l’ingiustizia che caratterizzano lo Stato italiano, i suoi apparati, la sua burocrazia. Un sistema di ingiustizie utile solo a vessare i cittadini, scrive James Condor su “L’Indipendenza”.

LA PALUDE DEI FALLIMENTI. Un Paese dove i processi non finiscono mai. E che in compenso sono fatti malissimo. Un Paese dove la proprietà privata non conta niente, dove lo Stato sottrae illecitamente un minore alle famiglie senza farsi troppi scrupoli, dove la vita delle famiglie è presa a calci. E dove nessuno, per questi abusi, paga mai. Non si tratta di critiche feroci o di sfumature politiche, che anzi attaccano o difendono la giustizia a seconda dello schieramento, ma della fotografia scattata all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo. Strasburgo ha infatti pubblicato i numeri sulle sanzioni in materia di giustizia inflitte ai Paesi della Convenzione dal 1959 al 2010 dal tribunale per i diritti umani, mostrando al mondo cosa sia davvero quella che ancora alcuni fingono di considerare la culla del diritto pur di non cambiare una macchina che miete vittime a ripetizione: la nostra giustizia. Che miete vittime, ma che costa pure tantissimo sotto il profilo economico: in particolare, ed è paradossale, costa eccezionalmente proprio grazie all’artifizio che lo Stato aveva inventato per rimediare ai propri errori rispetto alla Convenzione, la legge Pinto, che ha fatto molto più che decuplicare i costi senza nemmeno riuscire a individuare le cause del “male”. E aggiungendone dell’altro: ulteriori cause a Strasburgo e ulteriori indennizzi. Giusto per farsi un’idea dei dati di Strasburgo, la Spagna in 41 anni ha subito al tribunale per i diritti dell’uomo 91 sentenze, la Germania 193, il Regno Unito 443, la Grecia 613. L’Italia invece ne ha nientemeno che 2121: una valanga, addirittura il doppio della Russia, superata solo dalla Turchia. Ciò che più conta è che in 1617 casi è stata riconosciuta almeno una violazione della Convenzione per i diritti umani e che solo in 51 casi non sono state riscontrate violazioni. La gran parte delle decisioni riguarda, com’è noto, la lentezza dei processi, specie in materia civile, con 1139 condanne. Sotto di noi, l’abisso, con la Turchia al secondo posto con 440 condanne, quasi un terzo, e sotto un nuovo baratro.

Meno noto il fatto che 238 nostre violazioni riguardino l’equo processo, sempre all’articolo 6 della Convenzione, ma diretto alle violazioni del diritto ad una giusta difesa. Ossia: è vero che ci mettiamo tanto a fare un processo, però, alla fine, possiamo dire che è stato pure ingiusto. Quanto al diritto alla vita privata e famigliare, in cui l’Italia vanta plurime condanne per sottrazione illecita di minori alle famiglie da parte dello Stato, non abbiamo eguali: 131 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 15 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 297 sentenze sulla protezione della proprietà privata. Tra i Paesi dell’Ue sotto di noi c’è l’abisso, dato che al secondo posto c’è la Grecia con 62 violazioni, quasi un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina. L’aspetto più importante è che 2121 sentenze per violazione dei diritti umani nei processi non significano 2121 casi, perché ogni sentenza può radunarne a gruppi, perfino di centinaia. È questo che può dare l’idea di un fenomeno mostruoso, una metastasi del sistema che continua a divorarlo.

NUOVI RECORD NEL 2011. Dal 31 dicembre 2010 al 30 novembre 2011 la situazione è infatti ulteriormente peggiorata: l’Italia ha continuato imperterrita a rosicchiare percentuali sulla torta dei ricorsi dei cittadini dei Paesi membri, passando dai 10200 ricorsi della fine del 2010, ai 13400 ricorsi di fine novembre, passando così dal 7,5% all’8,8% della torta. Da notare l’assenza dei grandi Paesi occidentali nella torta – se escludiamo un piccolissimo 2,4% del Regno Unito -, tutti sotto la voce “altri 37 Stati”. E che superiamo Romania, Ucraina, doppiamo Polonia e Serbia, quadruplichiamo o quasi la Bulgaria.

LA LEGGE FALLIMENTARE. L’INFAMIA DEL REGIO DECRETO. Ci sono processi e processi. Per comprendere come l’Italia non rispetti affatto le Convenzioni che firma, c’è un processo italiano in particolare che ha comportato negli anni, e in parte ancora comporta, una sfilza infinita, in una volta sola, di una lunga serie di violazioni agli articoli della Convenzione di Strasburgo, e ai suoi successivi protocolli, sui diritti dell’uomo: si va dalla libera circolazione al diritto alla corrispondenza, dal diritto di voto al diritto ai propri beni, dall’accesso al processo al diritto alla vita privata e famigliare. A comportare tutte queste violazioni è il nostro processo sui fallimenti, uno dei più grandi scandali italiani passati sotto silenzio per decenni. E di cui si fa ancora fatica a parlare. Eppure si tratta quasi sempre di un labirinto dal quale, chi ci finisce dentro, non esce più. Ci sono diverse ragioni per le quali si può incappare in un fallimento, specie in uno Stato che ha la pressione fiscale più alta d’Europa e pretende taluni fondamentali pagamenti, come l’iva, anche prima che uno l’abbia incassata. E che chiede tasse in anticipo sulla presunzione di un volume d’affari, come se gli imprenditori avessero la sfera di cristallo. Di certo in questa maglia finisce spesso brava gente, anche per poche migliaia di euro, gente con una faccia e una casa. E quasi mai, invece, chi fa dell’attività societaria un’arma per delinquere, troppo accorto per non sfruttare prestanome o, per usare una frase in gergo, le cosiddette teste di legno. Troppo astuto per avere intestato qualcosa. Ci vorrebbe dunque una legislazione molto accorta, in grado di stabilire con equità caso per caso. Ma in una Repubblica fondata sul lavoro e che fa dunque dell’impresa del lavoro la sua base, la legge fallimentare è regolata unicamente da una legge del Regno: il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942. Una legge rimasta sostanzialmente immutata per 60 anni.

LA SPIRALE DEL FALLIMENTO. Gianna Sammicheli vive a La Spezia. Si è occupata di cause per i diritti umani in Germania, Spagna e in Inghilterra e da qualche tempo si sta confrontando con il sistema giuridico italiano. «La legge 80/2005 e il decreto legislativo 5/2006 hanno dovuto recepire molte delle indicazioni date dalla Corte Europea, per modificare la legge, dopo diverse condanne subite dall’Italia a Strasburgo. Le nuove norme tuttavia hanno finito per applicarsi solo alle procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore della legge. Il fatto è che per tutte le procedure che erano in corso in quel momento le violazioni ci sono già state e quindi restano lamentabili nei sei mesi dalla chiusura dal fallimento, nonostante l’abrogazione delle norme». Quali sono le leggi del nostro codice che per 60 anni hanno violato la Convenzione di Strasburgo? «Sono stati abrogati in particolare gli articoli 48, 49, 50 sulla corrispondenza, la libertà di circolazione, l’iscrizione nel registro dei falliti, dalla quale partivano automaticamente le “incapacità” previste dal codice civile e dalle leggi speciali. Molte erano “incapacità” relative ai diritti civili o politici. Come la perdita del diritto di voto per cinque anni, l’impossibilità di iscrizione agli albi per esempio o di amministrare società. In realtà, già aprire un conto corrente per molti è stato un problema. La corrispondenza del fallito, tutta, andava direttamente al curatore; il fallito non poteva muoversi liberamente e doveva restare sempre a disposizione del curatore. Queste limitazioni persistevano fino alla sentenza di riabilitazione, che poteva essere chiesta dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il che, spesso, avveniva dopo vent’anni dall’inizio del fallimento». Una vita. Vent’anni senza disporre dei propri beni, senza poter verificare che vengano venduti e non svenduti, senza poter avere un fido o accendere un mutuo, spesso senza nemmeno avere un conto corrente. Vent’anni di segnalazioni alle centrali rischi, un marchio d’infamia che ha ottenuto un rimedio. Forse. «La Corte Costituzionale,- prosegue Sammicheli - con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 50 e 142 per il testo anteriore all’entrata in vigore della riforma, nella parte in cui si stabiliva  che le “incapacità personali” derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurassero oltre la chiusura della procedura concorsuale. Questo proprio per chiarire che se anche la riforma non si applica alle procedure vecchie, le “incapacità” di questi vecchi fallimenti cessano con la chiusura. Però…». Però?

IL RIMEDIO É PEGGIO DELLA CURA. «Il problema è che la riforma ha eliminato il Registro dei Falliti e le norme sulla riabilitazione, ma all’eliminazione non è seguita alcuna modifica di legge che permetta di eliminare di fatto tutte le “incapacità” in modo automatico alla chiusura del fallimento». Si spieghi. «In sostanza, abrogando l’istituto della riabilitazione, paradossalmente non si possono più eliminare tutte le conseguenze che derivavano dalla riabilitazione. Con questa si aveva anche l’estinzione degli effetti dell’eventuale condanna penale che talvolta si accompagna alla dichiarazione di fallimento. Il fallito quindi, oggi, chiuso il fallimento, non può semplicemente chiedere ad esempio l’iscrizione al registro delle imprese per l’inizio di nuova attività commerciale, perché non ha alcun documento che attesti il riacquisto delle capacità, né può ottenere direttamente il certificato del casellario che non menzioni i provvedimenti giudiziari relativi al fallimento. L’articolo 24 T.U. 313/2002 infatti lo rende formalmente possibile solo se c’è stata una sentenza di riabilitazione. Di fatto si lascia che i falliti si arrangino da soli, specie se il fallimento è già chiuso». E cioè questo significa che chi ha visto chiuso il proprio fallimento dopo vent’anni deve fare una nuova causa davanti ad un giudice perché una nuova sentenza ne cancelli il nome dal casellario penale. E sembra in effetti dire lo stesso anche la circolare del Ministero della Giustizia del 22 settembre 2008. E che cosa accade in questi casi? Accade che il giudice interpreta. E non è affatto detto che disponga la cancellazione. Una situazione kafkiana.

CHI CONTROLLA I CONTROLLORI? IL CONTRIBUENTE PAGA.

Sicchè anche chi è fallito vent’anni fa e il suo fallimento è stato chiuso da tempo immemore, rischia ancora di trovarsi tracce che gli impediscano una nuova vita, anche solo l’accesso ad una banca. Di più. Nonostante le modifiche, prosegue Sammicheli, «il fallito oggi è tuttora privato dell’amministrazione e della disponibilità dei propri beni a partire dalla dichiarazione di fallimento, beni che vengono gestiti esclusivamente dagli organi preposti. È poi il curatore a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di diritto patrimoniale. Inoltre, il fallito non ha né ha mai avuto libero accesso al proprio fascicolo, il che gli impedisce di verificare l’operato degli organi fallimentari. Se è vero che devono essere i creditori ad interessarsene, è anche vero che non se questi lo fanno e il curatore agisce ai danni del fallimento stesso, come è anche successo, difficilmente il fallito potrà saperlo, pur subendone le conseguenze». Nella zona grigia dei fallimenti emergono così storie come quella di un giudice del tribunale fallimentare di Firenze, Sebastiano Puliga, condannato in primo grado, lo scorso novembre 2012, a quindici anni, tre dei quali condonati. Accusato di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta, è stato condannato insieme ad una trentina di persone, tra avvocati, commercialisti, architetti e ingegneri, tutti con pene dai 3 anni e 2 mesi ai 9 anni e 9 mesi. Cuore della vicenda un presunto comitato d’affari per pilotare l’affidamento di perizie e curatele. Il fatto è che le indagini su di lui sono cominciate nel 2002 e la prima sentenza è giunta nove anni più tardi. E riguardava vicende ovviamente precedenti, anni ’90. Significa che, se davvero Puliga è colpevole, ci sono falliti che aspettano giustizia da una vita. «Qualsiasi sia l’esito processuale- dice ancora Sammicheli – è evidente che vicende come queste forse risentono proprio di una eccessiva fiducia accordata originariamente dalla legge agli organi fallimentari. Prima della riforma non c’era alcuna espressa incompatibilità tra i magistrati fallimentari e quelli, ad esempio, incaricati dell’esecuzione sui beni dei falliti. In pratica il giudice del fallimento poteva anche essere giudice delle cause che autorizzava ed in cui stava in giudizio il curatore. La riforma ha cercato quindi di diminuire i poteri del giudice, a favore del comitato dei creditori, aumentando anche i requisiti per essere nominati curatori».

Situazione risolta? A sentire il legale no. «Il fallito resta nella situazione precedente. Per ottenere i documenti, in modo da controllare la gestione dei beni, al fallito occorre infatti fare istanza al giudice, che può anche non accoglierla o accoglierla solo in parte. Per esempio le relazioni del curatore anche ora possono non essere date e gli altri documenti dati attraverso il curatore. Il fallito cioè può tuttora non vedere mai il proprio fascicolo e spesso non ha idea di quello che viene fatto».

SUICIDARSI PER NON FALLIRE. E se nessuno vede, e nessuno può controllare, ecco la zona grigia. Dove tutto può succedere, in silenzio. E per anni, tanti anni. Anni in cui il fallito non sa se una sua casa, ad esempio, sia stata venduta a prezzi tali da coprire il debito.

Non sa nulla. Solo che pagherà a vita. Con mezzi, beni. E infamia.

Di più. «Non solo un fallimento medio anteriore alla riforma è durato almeno dieci anni – conclude il legale -, molti dei quali passati ad aspettare che i beni immobili del fallimento venissero venduti o svenduti, con tutte le conseguenze sulle sue “incapacità”. Ma il fallito, ai sensi dell’art. 120 LF , una volta chiuso il fallimento, ritorna esattamente nella posizione di partenza, ovvero con tutti i debiti non pagati sulle spalle ed è, anche solo teoricamente, di nuovo aggredibile». Punto e a capo. E in una macchina come questa, ecco perché tanti falliti si suicidano. Ed ecco perché in tanti si tolgono la vita piuttosto che fallire.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

Ci sono processi che non cominciano, scrive “Fronte del Blog”.

Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso, quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.

LEGGE PINTO. Nel 2001 prese forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle Corti d’Appello. Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo, contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza: la “mora” della mora. Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se non una generica burocrazia. Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro”.

DI CHI È LA COLPA? Eppure i processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di 1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno, che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi. Di certo, stando ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco. Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata pari ad un punto del Pil. Forse. Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo “altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.

EQUO PROCESSO. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. Si tratta sempre dell’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro. Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia, esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto all’arrestato.

SOTTRAZIONE DI MINORI, PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO. «Moltissime – prosegue la Sammicheli – anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici.

Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata. L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.

COME STANNO LE COSE. I nostri dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta. Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il 1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia? Chi ha pagato per le ingiuste detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto un bambino illegittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare. Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su 1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?

QUARTO GRADO DI GIUDIZIO. In nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva schierato dall’altra. Facile. Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso, stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in sede disciplinare. Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero 113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”, ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio. Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo potrebbe essere rifatto. Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

Lo stato della giustizia in Italia: intervista al giudice fatta da Stefano Lorenzetto e pubblicata su "Il Giornale". Questa sconvolgente intervista è un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi, Edoardo Mori, magistrato lo è stato in modo instancabile e apprezzatissimo per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale. Una delle sue dichiarazioni..«Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Ed eccone un’altra…«La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». E ancora un’altra...."i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano".

Edoardo Mori, uno di quegli uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano appartenere a un secolo precedente, se ne è andato dalla magistratura con un senso di disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto totalmente carta straccia del diritto. E’ davvero estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello. Ecco perché crediamo che questa intervista vada letta.

Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia.

«Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti.

Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

–Perché ha fatto il magistrato?

«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

–Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.

«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

–Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?

«Ma è evidente! Perché ».

–Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.

«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo.

Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

–Sono sconcertato.

«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

–Può fare qualche caso concreto?

«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima.

Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

–Prego. Sono rassegnato a tutto.

«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

–Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.

«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

–Cioè?

«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

–Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?

«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

–Un sistema che ha fatto scuola.

«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?

«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

–Come mai la giustizia s’è ridotta così?

«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.

«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?

«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.

«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

–No, no, non mi risparmi nulla.

«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

–In che modo se ne esce?

«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

–E per le altre magagne?

«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

–Ci provi.

«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?

«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?

«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

–Gli chiese scusa?

«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia». Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?

«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?

«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.

6 maggio 2013 muore Giulio Andreotti. Le frasi celebri di Giulio Andreotti:

- "Il potere logora chi non ce l'ha";

- "Nella sua semplicità popolare, il cittadino non sofisticato, passando davanti al Parlamento o ai ministeri, è talora indotto a porre il dubbio che sia proprio lì che si governa l'Italia";

- "Se fossi nato in un campo profughi del Libano forse sarei diventato anch'io un terrorista";

- "A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto";

- "L'umiltà è una virtù stupenda, ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi";

- "Amo talmente la Germania che ne vorrei due";

- "I miei amici che facevano sport sono morti da tempo";

- "Aveva uno spiccato senso della famiglia, al punto che ne aveva due ed oltre";

- "I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato";

- "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia";

- "Essendo noi uomini medi le vie di mezzo sono per noi le più congeniali";

- "La cattiveria dei buoni è pericolosissima";

- "Non basta avere ragione, serve avere anche qualcuno che te la dia";

- "Assicuro la mia collega che tra un pranzo e l'altro non prenderò cibo" (a Franca Rame che stava facendo lo sciopero della fame);

- "Clericalismo? La confusione abituale tra quel che è di Cesare e quel di Dio";

Storia d'Italia e di Andreotti. Da De Gasperi a Caselli, racconti e fatti (divisi per decenni) del politico che ha fatto la storia del nostro paese, scrive Stefano Vespa su “Panorama”. Due persone hanno segnato più di altre la lunga vita di Giulio Andreotti: Alcide De Gasperi e Gian Carlo Caselli. L’accostamento può apparire eccessivo, eppure si stenta a trovare una sintesi diversa di 70 anni di storia italiana, anzi andreottiana, cominciata da giovanissimo sottosegretario dello statista dc nel Dopoguerra e conclusa con gli echi dei processi per mafia cui Andreotti è stato sottoposto dagli anni Novanta. Ma ogni decennio lo ha visto protagonista.

Dai Quaranta ai Sessanta. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio a 28 anni, nel 1946, e ministro per la prima volta a 36 anni, nel 1954, quando guidò il Viminale, Andreotti in quegli anni badò al suo collegio nel Frusinate e a costruire la sua corrente all’interno della Democrazia cristiana, corrente conservatrice e molto vicina al Vaticano. Gli anni Sessanta sono anche gli anni dello scandalo Sifar e del piano Solo, il tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo, scandalo che scoppiò mentre Andreotti era ministro della Difesa. E proprio dalla distruzione dei dossier del Sifar (il servizio segreto militare) nacque una delle tante polemiche che ha caratterizzato la sua vita, mentre continuavano le guerre sotterranee tra le correnti scudocrociate.

Settanta, gli anni di piombo. Un decennio terribile: gli anni di piombo, l’omicidio Moro, la morte di due Papi, il compromesso storico e il governo della “non sfiducia”, progenitore delle attuali “larghe intese”, mentre il mondo era dominato dalla Guerra fredda. Andreotti ha vissuto da protagonista quel periodo. Presidente del Consiglio per la prima volta nel 1972, ha dovuto confrontarsi (insieme con gli altri leader dc) con la costante ascesa del Partito comunista e con la contemporanea evoluzione della società, il cui simbolo è stato il referendum sul divorzio del 1974. La proposta di compromesso storico tra i due grandi partiti popolari, Dc e Pci, avanzata su Rinascita da Enrico Berlinguer subito dopo il golpe cileno del settembre 1973, e di cui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario, avrebbe attraversato la politica italiana fino al luglio 1976. Caduto il governo Moro, dopo il grande successo del Pci alle elezioni politiche fu proprio Andreotti a presiedere nel luglio di quell’anno il primo governo della “non sfiducia”, un monocolore dc con l’appoggio esterno di quello che si definiva “arco costituzionale”: tutti (anche il Pci) tranne il Msi. E un filo strettissimo legò Andreotti alla tragedia Moro. Dopo la caduta di quel governo, fu proprio Aldo Moro a tessere la tela di nuove “larghe intese” e certamente non fu un caso che venne rapito il 16 marzo, mentre stava andando a Montecitorio per la fiducia che un altro governo Andreotti avrebbe, comunque, di lì a poco ottenuto ancora una volta con l’astensione del Pci. Erano gli anni della “strategia dei due forni”, una delle “invenzioni” andreottiane: la Dc, era la tesi, doveva alternativamente scegliere di accordarsi con il Pci o con Psi a seconda delle convenienze del momento. Tesi che, ovviamente, non piacque molto a Bettino Craxi, dal 1976 segretario socialista.

Ottanta, gli anni del Caf. Quel camper è passato alla storia. Durante il congresso del Psi nel gennaio 1981 Bettino Craxi e Arnaldo Forlani stilarono appunto il “patto del camper” da cui nacque il pentapartito (che univa anche Psdi, Pli e Pri) grazie al quale i partiti laici entravano nell’alternanza di governo. Andreotti “benedì” l’accordo che sancì la nascita del Caf, acronimo dei cognomi dei tre leader. Quelli furono però anche anni difficili sul fronte internazionale, molto prima della caduta del Muro di Berlino. Andreotti era ministro degli Esteri quando ci fu la crisi di Sigonella con gli Stati Uniti nella quale il premier, Bettino Craxi, com’è noto mostrò il polso di ferro impedendo agli americani di arrestare sul territorio italiano i dirottatori dell’Achille Lauro. Se fu Craxi il personaggio centrale di quelle convulse ore, Andreotti, che ne condivise le scelte, è stato alcune volte criticato per una politica estera considerata troppo filoaraba. In un’intervista l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini disse che in realtà era nello stesso tempo filoisraeliano: la sostanza stava nella posizione geostrategica della Penisola, collocata tra “l’acqua santa e l’acqua salata” come spiegò negli anni successivi lo stesso Andreotti con la consueta ironia.

Novanta, dal sogno Quirinale ai processi. Gli anni Novanta erano cominciati bene perché nel 1991 Andreotti fu nominato senatore a vita. Ma l’anno successivo cambiò tutto: mentre cominciava Mani pulite (che non l’ha mai sfiorato), coltivò il sogno della presidenza della Repubblica sperando di succedere a Francesco Cossiga, dimessosi alla fine di aprile. La notizia della strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, lo raggiunse nel suo studio. Lo videro impallidire e capì che non sarebbe mai andato al Quirinale. Mandò i suoi collaboratori più stretti dai vertici del Pds: il sottosegretario Nino Cristofori avvertì Claudio Petruccioli, braccio destro di Achille Occhetto, e il portavoce Stefano Andreani si recò da Luciano Violante. “L’attentato è stato fatto per bloccarmi” fece dire Andreotti. Dei processi per mafia si continuerà a scrivere per anni. Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino, si insediò a Palermo il 15 gennaio 1993, proprio il giorno in cui fu arrestato Totò Riina. E nei mesi immediatamente successivi la procura di Palermo cominciò a indagare su Andreotti per i suoi presunti rapporti con Cosa nostra. Tra feroci polemiche e incredulità e dopo un’assoluzione in primo grado nell’ottobre 1999, Andreotti fu condannato in appello per associazione per delinquere fino al 1980, reato ormai prescritto, mentre fu confermata l’assoluzione per gli anni successivi. Caselli aveva lasciato la procura di Palermo nel luglio 1999, pochi mesi prima dell’assoluzione di Andreotti. Molti videro nella scelta la consapevolezza che anni di indagini e di veleni non avrebbero prodotto il risultato sperato (dalla procura), anche se ovviamente Caselli ha sempre negato. Andreotti fu poi assolto anche dall’accusa di omicidio del giornalista Mino Pecorella: la Cassazione nel 2002 annullò senza rinvio la condanna in appello, confermando l’assoluzione in primo grado. Nella ventennale guerra tra politica e giustizia, però, l’inchiesta palermitana è una pietra miliare: da un lato una procura convinta di aver trovato il “terzo livello”, i capi politici della mafia; dall’altro un imputato modello incredulo, ma rispettoso della giustizia. Certamente i riconosciuti contatti fino al 1980 confermano un modo di fare politica che dimostrava una sottovalutazione del fenomeno mafioso. Nello stesso tempo, insistere sul bacio a Riina è stata a sua volta la prova di voler credere a qualunque episodio pur di poter brandire una condanna. Molto politica, prima che giudiziaria. Gli ultimi anni. Le assoluzioni, arrivate “in vita” come da lui auspicato, lo hanno fatto tornare ai suoi studi e alla politica. Non quella attiva, ma quella parlamentare. Sempre presente in aula e nella “sua” commissione Esteri del Senato, dove ascoltava e veniva ascoltato con attenzione. La sua vita andrà ancora studiata a fondo, se si vorrà davvero capire l’Italia.

Ospite della puntata di lunedì 6 maggio 2013, di Un giorno da pecora, programma radiofonico in onda su Radio 2, è stato Vittorio Sgarbi, l'irriverente polemista che ha fatto del turpiloquio un marchio di fabbrica. Su Giulio Andreotti, scomparso proprio oggi, dice: "Sono stato il primo a difendere Andreotti dai magistrati, non lo riceveva più nessuno a parte il Vaticano", rivela. Riguardo le accuse di mafia che spesso hanno lambito Andreotti, il critico d'arte afferma: "La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Per tacitare l'irruento Sgarbi, il conduttore Claudio Sabelli Fioretti ha invitato in trasmissione anche la mamma, l'87enne Rina Cavallini, l'unica a riuscire a zittire Sgarbi, che la ascolta in religioso silenzio. Sul rapporto con la madre confida: "Mia madre pensava fossi stupido perché fino a due anni non parlavo. Poi, quando ho iniziato...". Quindi spiega il motivo dei suoi sbrocchi in televisione: "Mi incazzo quando il mio interlocutore fa ragionamenti illogici o stupidi".

L'immortale distrutto dai pm e ucciso dall'Italia dell'odio. L'inchiesta di Palermo per collusioni mafiose fu un processo politico mascherato: fu abbandonato da tutti quelli che erano certi della sua condanna. E i forcaioli non lo lasciano riposare in pace neppure nel giorno della scomparsa, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente il 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni prima, il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese. La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante. L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti. Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio. Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato. La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso.

Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero. Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata.

Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.

Il paradiso può attendere, aveva detto a metà ottobre citando il famoso “Heaven can wait” di Warren Beatty e Buck Henry, scrive Paolo Guzzanti su “Panorama”. Ma stavolta il cielo si è stancato di aspettare e non ha concesso proroghe. E così, dopo Francesco Cossiga che a confronto è morto giovane, il grande Giulio, il divo Giulio, l’uomo più sospettato e più esaltato della politica italiana, l’enigmatico, l’astuto, quello di cui Craxi diceva “tutte le volpi finiscono in pellicceria”, ha sgombrato il campo della storia viva, per andare ad abitar d’ora in più nella storia stampata, filmata, certificata, ma non più viva. Non c’è niente di peggio quando muore un personaggio importante, di un cronista che comincia con l’avvertire che “io lo conoscevo bene”. Ma il fatto è che io lo conoscevo veramente bene e lui mi conosceva altrettanto bene e non ci piacevamo moltissimo. L’ultima grande performance Andreotti l’ha infatti prodotta sul piccolo proscenio della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin di cui sono stato per quattro anni il presidente e lui, Giulio, per quattro anni un commissario assiduo, puntiglioso, provocatorio, divertente, odioso, sempre dalla parte della Russia sovietica e dunque anche in quell’occasione beniamino dei comunisti che nella commissione Mitrokhin si proponevano il compito di ostacolare in ogni modo e impedire ridicolizzando, che si arrivasse a trovare la verità sugli agenti sovietici in Italia, intendendosi per agenti non le spie, ma proprio coloro che agivano come agenti di influenza. Andreotti era lì, pronto alla rievocazione, pronto alla battuta, pronto a sabotare con armi sottilissime tutto il lavoro costruttivo che facevamo. L’ex ministro degli esteri di Gheddafi mi disse a Tripoli durante una pausa dei nostri lavori durante l’incontro con la Commissione Esteri: “Se c’è un uomo che noi in Italia abbiamo sempre adorato, veramente adorato oltre che rispettato, è il vostro Giulio Andreotti, che dio lo protegga e lo benedica”. Pensavo si riferisse soltanto al notissimo e in qualche caso sfacciato atteggiamento filo arabo del senatore a vita, ma non si trattava soltanto di questo: “Lui era qui con noi quella sera in cui a Mosca annunciarono la fine dell’Unione Sovietica e ammainarono la bandiera rossa dal Cremlino. Noi piangevamo, eravamo commossi e anche disperati. Andreotti era terreo, traumatizzato. Poi disse: da adesso il mondo sarà molto diverso e non sarà certamente migliore perché sarà un mondo americano”. Questa sua affermazione fa un po’ il paio con quella dei tempi in cui, caduto il muro di Berlino, si prospettava la riunificazione tedesca, disse: “Io amo talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei sempre almeno due”. Il suo credo politico era quello del debito pubblico senza troppi freni e navigare a vista, usando buon senso e una certa sfacciataggine unita a cinismo. Se fu riconosciuto colpevole di aver intrattenuto rapporti di reciproco rispetto e qualcosa di più con la mafia almeno per un certo periodo, ciò ha senso: Andreotti rispettava i poteri costituiti e la mafia era un antico marchio di fabbrica di potere costituito. E poi, come disse in un’altra circostanza “è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ricordo personale: la madre di mia madre e la madre di Giulio, Rosa Andreotti, erano molto amiche perché avevano entrambe avuto i loro figli al Collegio degli Orfani in via degli Orfani. La loro amicizia si estese ai figli: mia madre, mio zio e lui, Giulio, anche perché vivevano tutti nella stessa magnifica strada, via Parione nel quartiere Parione di Roma, alle spalle di piazza Navona. Mia nonna mi raccontava che Rosa Andreotti parlando del figlio bambino diceva: “Questo figlio non è normale, non somiglia agli altri bambini. Ha qualcosa dentro di sé che non capisco, che nessuno capisce. O sarà disperato o diventerà qualcuno”. Mia madre mi raccontava che il piccolo Giulio evitava tutti i giochi che impegnavano il fisico, come correre, e aveva sempre un taccuino in tasca per fare il giornalista. Così un paio di volte l’anno capitava a casa nostra per un caffè e io diffidavo moltissimo di questa presenza e speravo che se ne andasse presto perché ero un tipico adolescente di sinistra e Andreotti sembrava già allora il devoto Satana che poi è stato dipinto. Se uno scorre le foto della sua vita vede che è stato un uomo attentissimo alla vita cinematografica, amico stretto di Federico Fellini il quale lo considerava una parte essenziale del paesaggio italiano, ma anche in senso positivo. Frequentava le attrici, gli attori, i set cinematografici, aveva i capelli nerissimi imbrillantinati e pettinati all’indietro come Rodolfo Valentino e benché avesse la gobba, aveva anche un suo charme, un certo sex appeal. Era un uomo di destra all’inizio della carriera (il politico più longevo, con più incarichi di governo, una eterna carriera parlamentare) e veniva dalla nidiata di Alcide de Gasperi che lo volle giovanissimo sottosegretario nel pieno della guerra fredda, con un’Italia che sapeva di polvere e macerie e che era tutta da ricostruire, ma che già godeva, si industriava, costruiva e attraversava il boom economico, la magica crescita che proiettò il Paese dalla preistoria della guerra al XX secolo dell’industria, dell’arte, del reddito, della Seicento Fiat e delle autostrade, della commedia all’italiana, del cinema leggero e un po’ ignorante, e Andreotti era sempre ovunque. Poi lui chiuse personalmente la sua guerra fredda e diventò lentamente ma con costanza il divo dei comunisti italiani. Condivideva con Cossiga questa passione per gli ex nemici: i comunisti, compresi quelli russi, erano per lui, per loro, gente carismatica, muta, pesante, importante, spartana e allo stesso tempo ricca per le grandi risorse minerarie dell’allora Unione Sovietica. Cominciò così la marcia di avvicinamento di Andreotti al Pci di Enrico Berlinguer e i due insieme vararono la bozza di quel patto politico rischiosissimo che poi si è chiamato “compromesso storico” e sul cui altare Aldo Moro ha lasciato la pelle. La storia del Compromesso storico è la storia stessa di Andreotti. Aldo Moro accettò di aprire in piena guerra fredda ai comunisti, contando su un accordo di massima con gli americani. I termini di questo accordo sono stati pubblicati da Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli per Laterza nel settembre del 2005 e consiste in una raccolta di documenti fondamentali che mostra come gli Stati Uniti fossero estremamente e positivamente interessati al Compromesso storico, purché il Pci si sganciasse una volta per tutte dall’Urss, rompesse con il dovuto clamore accettando la prevedibile scissione, ed entrasse a pieno titolo nel novero dei partiti democratici italiani indispensabili per il ricambio della classe dirigente. E’ importante ricordarlo perché poi è stata fatta passare la vulgata secondo cui Moro voleva fare il compromesso storico con Berlinguer, ma la Cia lo fece rapire da brigatisti rossi controllati da Langley, Virginia, per far fallire l’eroico progetto. Secondo il progetto originale invece, di cui Andreotti fu un notaio e non l’unico, Moro doveva diventare presidente della Repubblica dopo Giovanni Leone e garantire dal Quirinale l’intera operazione. Andreotti sarebbe diventato il presidente del Consiglio del primo governo sostenuto in Parlamento del Patito comunista e a quel primo passo avrebbe dovuto far seguito il taglio del cordone ombelicale con Mosca e un secondo governo, benedetto anche dai Paesi della Nato, con ministri comunisti. L’attacco di via Fani, la prigionia interrogatorio e l’esecuzione di Aldo Moro, misero fine al progetto. Al Quirinale andò Sandro Pertini, ma Andreotti decise di resistere sulla vecchia linea e di dare comunque vita con i comunisti al nuovo governo con il loro appoggio determinante e ufficiale. Questo esperimento nacque nel sangue e visse poco e male. I comunisti erano molto spaventati da quel che era successo e non vollero tagliare con Mosca, dove i dirigenti del Pci seguitarono a ritirare ogni anno un gigantesco finanziamento illegale che drogava la politica italiana, anche perché costituiva un alibi per tutti coloro che in Italia erano disposti a commettere illeciti con la scusa di finanziare il proprio partito. Poi i comunisti decisero di chiudere la partita e si ritirarono definitivamente. Ma Giulio Andreotti non mollò. La mia impressione (molto più di una impressione) è che sia lui che Cossiga fecero non soltanto il possibile, ma specialmente l’impossibile per salvare la vita a Moro accettando accordi che poi saltarono perché la controparte era decisa a liquidare l’ostaggio e lo fece. Quegli eventi non sono mai stati ben chiariti e io penso che la devastazione della Commissione Mitrokhin di cui Andreotti fu parte attiva controllando strettamente ogni fase dell’inchiesta, fosse dovuta proprio al fatto che eravamo arrivato al nocciolo della questione. Andreotti lo sapeva, lo temeva e non per caso il suo amico Cossiga lo volle nominare a sorpresa senatore a vita per neutralizzarlo e promuoverlo su uno scranno dal quale non avrebbe più fatto politica. Il processo di Palermo per i pretesi rapporti con Cosa Nostra fu una sorta di corollario di quelle vicende. Andreotti si lasciò processare docilmente, scrisse molti libri sostenendo che doveva pagarsi gli avvocati, fra cui il professor Coppi, per difendersi e fu sempre lì, a Palermo, pienamente a disposizione su quei banchi, come lo era stato davanti a me per quattro anni nella Commissione Mitrokhin. Difendeva un passato, certamente ha difeso fino alla morte con Cossiga e come Cossiga il segreto su ciò che realmente accadde durante i cento giorni del rapimento Moro ed ebbe modo di sviluppare sempre la sua politica filo araba, diventando così la bestia nera degli israeliani. Lo andai a trovare più volte nel suo studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove andava ogni mattina prestissimo. Lì riceveva giornalisti, politici, industriali, gente di cultura e gente decisamente lontana dalla cultura. Io penso che sapesse qualcosa in più, qualcosa che anche io ho sospettato e di cui ho scritto molto, sulle vere ragioni che possono aver fatto scattare la decisione di uccidere Falcone quando non era più un nemico sul campo della mafia, ma un alto burocrate romano del ministero di Grazia e Giustizia. Quando il mio amico Giancarlo Lehner annunciò l’intenzione di voler scrivere della collaborazione di Falcone con i giudici russi, il procuratore generale Stepankov in particolare, per indagare sul tesoro del Kgb e del Pcus portato in Italia per essere riciclato sotto la protezione di alte figure della finanza, Andreotti lo mandò a chiamare e gli ricordò di avere lui stesso, come ministro degli esteri, inviato dei fonogrammi a Mosca per facilitare gli incontri segreti di Falcone. Gli disse che per lui avrebbe recuperato quei fonogrammi che avrebbero costituito la prova scritta di quel che stava facendo Falcone quando fu eliminato. Lo richiamò qualche giorno dopo per dirgli: “Alla Farnesina mi dicono che hanno perso quei documenti. Ora, alla Farnesina non hanno mai perso nulla e mai si perde nulla. Lo prenda come un messaggio: lasci perdere la sua inchiesta e passi ad altro, sarà più salutare per lei”.

"I miei 11 anni di imputato per mafia". Un'intervista rivelatrice al sette volte presidente del Consiglio dopo l'assoluzione del 2004 rilasciata a  Maurizio Tortorella e pubblicata su Panorama del 21 ottobre 2004. Tremilaottocentoquarantadue giorni: tanto è durata la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, accusato d'omicidio a Perugia e d'associazione mafiosa a Palermo. Il 15 ottobre la Cassazione lo ha liberato definitivamente per la seconda volta: a 84 anni, 11 dei quali trascorsi da imputato, Andreotti non è né il mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, né il sodale dei mafiosi siciliani. Anche dopo l'assoluzione, però, le polemiche non si sono placatew. Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e magistrato simbolo del processo palermitano ad Andreotti, insiste: «È stato mafioso» scrive sulla Stampa, assicurando che la Cassazione ha «confermato che fino al 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i boss dell'epoca». Franco Coppi e Giulia Bongiorno, i due penalisti del senatore, gli rispondono che «è oggettivamente impossibile prevedere che cosa scriverà la Cassazione: non ci sono le motivazioni. Ma il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di modificare proprio quel punto della sentenza d'appello». Lui, Andreotti, sul tema non parla. Il giorno dell'assoluzione si è detto felice d'essere arrivato vivo alla fine dei suoi processi. Poi non ha aggiunto molto. Panorama lo ha intervistato in esclusiva.

Vuole fare un bilancio esistenziale dei suoi due processi?

«Li ho vissuti con amara sorpresa, anche per il modo ambiguo con cui è nato il secondo, quello di Palermo. Ma, ringraziando Dio, ho resistito.»

Perché crede di essere stato sottoposto a questo calvario giudiziario?

«Forse ero da troppo tempo ballerina di prima fila e c'era chi voleva cambiare del tutto lo spettacolo.»

Lei ha parlato di un «mandante occulto»: chi è? S'è accennato ad ambienti americani: è partito tutto oltreoceano? O pensa a suoi avversari politici in Italia?

«Un mandante occulto: che vi sia ciascun lo dice... con quel che segue. Qualche venatura d'oltreoceano c'è, ma non governativa. C'è un pentito, o meglio, spero che lo sia, a doppio servizio.»

Di quale pentito parla?

«Francesco Marino Mannoia: collabora con la giustizia italiana e con quella americana e mi incuriosisce. Quanto agli Stati Uniti, però, ho avuto in processo la testimonianza molto gratificante di tre ambasciatori degli Stati Uniti: Maxwell Rabb, Peter Secchia e Vernon Walters. E questo è più che sufficiente.»

Per il suo processo palermitano lei ha attribuito qualche responsabilità a Luciano Violante. Conferma?

«Certamente fu lui a dare corso a una telefonata anonima, investendo il tribunale di Palermo che non c'entrava niente. Ma non porto rancore a nessuno. La Scrittura dice: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva».»

Dopo l'assoluzione lei ha dichiarato: «Qualcuno, da oggi, dormirà un po' meno tranquillo». A chi si riferiva? Ai pm di Palermo? Ai mafiosi pentiti che l'hanno accusata? O al «mandante occulto»?

«Lasciamo perdere. Lo strano di questa vicenda è la sua prefabbricazione: nella sentenza di rinvio a giudizio a Palermo si dice: «Dopo due udienze». Ma l'udienza fu una sola. Avevano preparato prima il modulo?»

Cosa direbbe al suo primo accusatore, Tommaso Buscetta, se fosse vivo?

«Buscetta non mi attribuì mai il delitto Pecorelli: è stata una montatura altrui. Comunque, Dio l'abbia in gloria.»

Nell'assoluzione resta la macchia della prescrizione per i suoi presunti collegamenti mafiosi fino alla primavera del 1980. Spera che le motivazioni possano portare qualche sorpresa positiva per lei?

«Certamente lo spero. Quel che mi ha colpito di più, in Cassazione, sono state le parole del procuratore generale, Mauro Iacoviello. Abituato da anni a pm che si schieravano sempre a sostegno dell'ipotesi accusatoria, sono rimasto favorevolmente impressionato da un rappresentante dell'accusa che invece l'ha demolita pezzo per pezzo, chiedendo addirittura il rigetto del ricorso dei suoi colleghi pm. Ma Iacoviello ha anche attaccato proprio la parte della sentenza d'appello relativa alla prescrizione, in cui si ritiene provato l'incontro alla tenuta di caccia.»

Lei parla del famoso, presunto incontro tra lei e il boss Stefano Bontate nella sua tenuta di caccia nel Catanese?

«Sì. Il pentito Angelo Siino aveva indicato la data dell'incontro tra fine giugno e inizio luglio 1979. Io ho dimostrato la mia impossibilità di essere in Sicilia in quel periodo: ero in Giappone e in Russia. Il tribunale m'ha dato ragione. In appello i pm hanno detto che Siino s'era sbagliato. Già questo mi sembra piuttosto anomalo come argomento: se il pentito viene smentito, che senso ha dire che ha sbagliato solo le date? Ma comunque i miei avvocati hanno chiesto di produrre tutti i documenti diretti a provare dove mi trovassi in tutte le altre possibili date diverse da quelle indicate da Siino. Ero presidente del Consiglio e quindi potevo agevolmente ricostruire i miei impegni. La documentazione non è stata accettata, ma la sentenza d'appello afferma che l'incontro potrebbe essere avvenuto in un altro momento. Cioè in una data in cui avrei potuto dimostrare che ero altrove. E per questo il procuratore generale ha parlato di violazione di diritto di difesa.»

Caselli, però, sostiene che la Cassazione ha «confermato l'accusa di un Andreotti mafioso fino al 1980».

«Non voglio rispondergli. Per me il processo è finito. Ho cose molto più serie da fare. L'assoluzione ha smentito oltre 40 pentiti.»

Questo risultato dovrebbe indurre qualche riflessione sul loro impiego?

«Sì: maggiore prudenza. E anche un po' più di risparmio di denaro pubblico. Del resto, già la Corte d'appello di Palermo, assolvendomi, ha scritto che i pentiti, contro di me, potrebbero essere stati mossi «da antipatia politica, dal particolarissimo interesse accusatorio degli inquirenti o dal cinico perseguimento di benefici personali». E nessuna delle tre ipotesi mi pare meritevole.»

Lei ha mai provato a fare un calcolo di quanto, in questi 11 anni, sia costata l'attività giudiziaria contro l'imputato Andreotti?

«Il calcolo è impossibile, e come contribuente mi preoccupa. Non lo facciano più.»

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica, numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. È falso: non è così né sotto la vigenza del vecchio codice, né sotto il nuovo codice. La magistratura italiana, pur essendo stata costretta ad operare in condizioni difficilissime e talora drammatiche in diverse fasi della storia recente del nostro paese, ha saputo rendere giustizia in piena serenità ed imparzialità, senza che fosse necessario il trasferimento del processo. Ricordiamo un caso per tutti: il processo di Torino alle Brigate rosse, in cui gli imputati adottarono tutti i mezzi per impedire la celebrazione del processo, giungendo alla uccisione del presidente dell’Ordine degli avvocati, Fulvio Croce. Ebbene giudici professionali e giudici popolari portarono a termine il processo (e nel rispetto delle garanzie della difesa, pur in quei tempi di legislazione di emergenza) proprio a Torino. In questo tutti riconobbero un segno di forza delle istituzioni democratiche e la migliore risposta alla sfida del terrorismo: rendere giustizia e rendere giustizia ove i fatti criminosi erano stati commessi, secondo le ordinarie regole del processo. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale, e cioè gli ultimi tredici anni: le istanze di rimessione accolte sono state due. Il punto più preoccupante della proposta Cirami non è la reintroduzione della formula "legittimo sospetto", ma il meccanismo di sospensione automatica del processo, che lascia la giustizia disarmata di fronte ad atteggiamenti ostruzionistici di imputati, che non vogliano arrivare alla conclusione del processo. La sospensione della fase finale del processo si determina, infatti, secondo la proposta di legge Cirami, automaticamente anche nel caso di istanze palesemente infondate, di ripresentazione a cascata di istanze da parte di coimputati nello stesso processo: e concreti sono, per questo, i rischi di prescrizione e di decorrenza dei termini di custodia cautelare.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, scrive Bruno Perini. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele
Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Giampaolo Zancan, esponente dei verdi, vice presidente della commissione giustizia si ricorda di quegli anni: «Allora vivevo a Torino. Ricordo che la procura della Repubblica aveva scoperto, grazie a denunce circostanziate, che la Fiat aveva assoldato carabinieri e questurini. A seguito della richiesta di legittima suspicione, motivata, si badi bene, dai legali della Fiat con "il pericolo di manifestazioni sindacali", il processo fu spostato e ritardato di anni fino a quando i reati di corruzione furono prescritti. Vedi - dice Zancan - io a quelli che vogliono tornare a quegli anni leggerei una sentenza con la quale la Cassazione in un processo a quattro avvocati, il cosiddetto caso Sardegna, respinse la legittima suspicione. In quella motivazione si scriveva tra l'altro che vi è un diritto della comunità a giudicare i fatti dove il presunto reato avviene. Quando Berlusconi e Previti chiedono la legittima suspicione per i loro processi offendono prima di tutto i milanesi». Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Si potrebbe continuare a lungo in questa ricostruzione dei danni provocati da un sospetto, troppo spesso illegittimo, nella storia politica e giudiziaria di questo paese. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale, che suona così: «In ogni stato e grado del processo di merito, quando la sicurezza o l'incolumità pubblica, ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, la Corte di Cassazione...rimette il processo ad altro giudice». L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello. Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico.

La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte del sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». E a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro (L' articolo Legittima suspicione Art. 45, comma 1 del Codice di procedura penale: «In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di Appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell' imputato, rimette il processo ad altro giudice») La Corte di Cassazione per l'ennesima volta a rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo

RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica.

Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona".

Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti".

Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura".

Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini".

Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?».

«La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente: “Sono in carcere da innocente, ma io quattro anni qui dentro non resisto”.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.

Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.

La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.

Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. La mazzata è arrivata poi dai rilievi dei Ris che - seppur in alcuni casi effettuati tre mesi dopo l'omicidio - non hanno dato alcun risultato: non ci sono tracce di Sarah a casa Misseri e in nessuno dei presunti luoghi del delitto. E soprattutto non ci sono tracce della ragazza sulle armi del delitto possibili sequestrate nel corso dei mesi. Le cinquanta cinture di Sabrina, la corda di Michele, il compressore del garage: è stato tutto analizzato senza alcun esito. La procura colloca l’ora del delitto tra le 13.55 quando Sarah viene vista per strada e le 14,25 quando a casa Misseri arriva Mariangela Spagnoletti. Lo stesso fa la Cassazione ritenendo genuina la testimonianza di un uomo che è sicuro di aver visto Sarah poco prima delle 14 passeggiare verso casa Misseri. "La ragazza è arrivata lì e ha trovato la morte: Sabrina ha poi aspettato per strada l'amica Mariangela per evitare che si accorgesse dei movimenti in macchina e ha mentito alla zia Concetta, quando è andata a chiedere di Sarah, sostenendo che i genitori non erano in casa", dice in sintesi la Procura. La difesa fa notare, però, che c'è stato uno scambio di squilli e sms tra Sarah e Sabrina intorono alle 14,30 quando la ragazza secondo questa ricostruzione avrebbe già dovuto essere morta. "Ha fatto tutto Sabrina - risponde l'accusa - per depistare e avere un alibi". "Ciao mi chiamo Sarah, in questo periodo sono molto legata ad un ragazzo che ha 27 anni, io ne ho solo 15 ma lui è dolcissimo con me e mi coccola sempre, si chiama Ivano, e lui piace anche a mia cugina Sabrina". Sarah appuntava queste parole sul suo diario qualche giorno prima di essere ammazzata. Mentre Sabrina tempestava Ivano di sms e scenate di gelosia. Sono le prove inoppugnabili, secondo la procura, che sta nella gelosia il movente dell'omicidio. La tesi però non convince la Cassazione che ha chiesto al Riesame di Taranto di rimotivare meglio anche questo punto.

«Lotterò sempre per farle scagionare, ma se non riuscirò a farle uscire, la farò finita perché non riesco ad andare avanti così». Intervistato dalla trasmissione Mediaset Domenica Cinque, solitamente affollata di reduci del grande Fratello, Michele Misseri si rammarica per non aver lasciato tracce evidenti della sua colpevolezza. «Mi pento di non aver lasciato nessuna traccia del delitto. La corda l'ho buttata insieme alle scarpe nel bidone della spazzatura». E ancora: «Gli abitanti di Avetrana vogliono che io dica che sono state Sabrina e Cosima ad uccidere Sarah. Soffro per la mia famiglia perché quella poveretta di Sarah non riposerà mai in pace».

Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; da l’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove.

Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato.

Se fosse per le serie televisive come i "Ris" o "La Squadra" l'Italia sarebbe la patria dei casi risolti. Ma purtroppo qui stiamo parlando solo di fiction e la realtà ci racconta ben altre storie. Partiamo proprio dal Reparto Investigazioni Scientifiche, i famigerati carabinieri dei Ris. La letteratura e la televisione (programmi, film, ecc..) li hanno reso imbattibili, mentre invece sul campo spesso e volentieri banali errori commessi da questo reparto compromettono l'arresto o la detenzione del colpevole.

L'omicidio Meredith Kercher, ma soprattutto l'assoluzione per non aver commesso il fatto di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è solo l'ultimo dei casi irrisolti.

I "delitti imperfetti", da cui prendono il nome sia i libri dell'ex comandante Luciano Garofano che la famosa serie televisiva, diventano perfetti proprio a causa di grossolani errori degli inquirenti. Tutto è iniziato quando i Ris sono diventati famosi all'opinione pubblica durante il caso del duplice omicidio di Novi Ligure nel 2001. Per tutti fu un vero e proprio successo, nato dall'ottimo lavoro del reparto dei carabinieri. Ma non va dimenticato, però, che a mettere sulla pista giusta gli investigatori fu proprio Erika, che quando era ancora solo sospettata di aver ucciso madre e fratellino venne filmata in una stanza della caserma dei carabinieri mentre mimava ad Omar, fidanzatino e complice, come avesse pugnalato la donna. Quindi la chiave di volta di questo caso furono le intercettazioni ambientali. Forse possiamo considerare proprio delitto di Novi l'ultimo delitto risolto senza che ci fossero ombra di dubbi. Tracce, arma del delitto, confessioni: insomma, tutti i tasselli del mosaico al loro posto.

Lo stesso non si può dire di Cogne. Nonostante la condanna di Anna Maria Franzoni per l'omicidio del piccolo Samuele ancora oggi l'Italia è divisa in due, innocentisti e colpevolisti. Infatti, seppure ci siano degli indizi manca l'arma del delitto e l'assassina, in questo caso la madre della vittima, tutt'altro che reo confessa. Molti sono stati gli errori degli inquirenti sul caso Cogne che hanno portato a un ritardo di anni sulla verità che ancora oggi, come detto, può avere dei punti deboli e traballa.

Vi ricordate dell'omicidio di Garlasco della giovane Chiara Poggi? Tanti sospetti sul fidanzato Alberto Stasi e i pochi indizi raccolti facilmente smontati dalle perizie di parte. Anche qui errori di chi dovrebbe essere (o si considera) infallibile. Basti pensare che dopo il delitto la "scena del crimine", come ormai siamo abituati a chiamarla dopo essere stati influenzati dai Csi vari, venne addirittura inquinata da un gatto, che la scientifica chiuse dentro la villetta per un giorno intero a scorrazzare! Anche qui nessun elemento valido per trovare l'assassino. Un esempio: la prova ferrea data da una macchia di sangue della vittima sul pedale della bici di Stasi venne facilmente smontata dai difensori del ragazzo, che riuscirono a dimostrare che si poteva trattare benissimo di macchie di flusso mestruale calpestate accidentalmente giorni prima del delitto dal giovane. Ad oggi nessuno è riuscito a respingere la tesi difensiva seppur a prima vista improbabile.

L'omicidio di Perugia è ormai noto a tutti. In molti nonostante la sentenza della corte d'appello sono convinti che Raffaele e Amanda non fossero estranei all'assassinio di Meredith. Ma anche qui i Ris e affini non sono riusciti a dimostrare nulla e per i periti è stato facile evidenziare i loro errori, smontando così la tesi accusatoria. Unico colpevole Rudy Guede (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti).

Nel caso della piccola Yara Gambirasio, invece, ci troviamo di fronte a una vera e propria sfida da parte dell'assassino, o assassini, agli inquirenti, i quali stanno facendo di tutto per perderla: ritardi nelle indagini, auto e furgone dell'unico sospettato, il marocchino Mohamed Fikri, non perquisito, etc, etc. Si è preferito schedare tutto il dna degli abitanti di Brembate e dintorni, ma non degli operai o di chi ha lavorato nel cantiere che potrebbe essere la vera scena del crimine, come viene suggerito dalla polvere di calce nei polmoni della piccola vittima e dalla presunta arma del delitto (un utensile da lavoro utilizzato nel campo dell'edilizia).

E arriviamo al caso del giorno. Fino a ieri tutti eravamo convinti che i magistrati avessero in mano dei saldi indizi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, nell'omicidio della piccola Sarah Scazzi, ad Avetrana. Invece, anche questa volta le granitiche prove appaiono argillose. Addirittura si parla di elementi inconsistenti, che potrebbero alla prossima udienza del Tribunale del Riesame portare alla scarcerazione delle uniche due accusate dell'omicidio, dopo il proscioglimento di Michele Misseri (prima reo confesso poi scagionato e ora nuovamente reo confesso, ma non creduto).

Nel caso di Melania Rea ci sono tutti gli elementi del vecchio "delitto all'italiana": lui, lei, l'altra, quattrini. Parolisi è in galera (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti), ma anche qui come in quasi tutti i casi che abbiamo elencato si rischia di andare ad un processo indiziario e quindi a tenere aperte le porte del dubbio. Negli ultimi decenni nel campo investigativo la scienza ha dato una grossa mano. Però a volte è proprio la certezza scientifica o l'ossessione di trovarla che conduce, come abbiamo visto, a degli errori in cui spesso il fiuto del vecchio investigatore non incappava. Uno su tutti negli anni Settanta l'indimenticabile commissario della squadra mobile di Torino Giuseppe Montesano, uno "sbirro" alla vecchia maniera che ispirò registri e scrittori grazie ai suoi successi. Tutti veri.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.

Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.

La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.

La Corte di Cassazione ha deciso che il tribunale di Milano non ha preconcetti nei confronti di Silvio Berlusconi e che quindi i processi in corso (Ruby e Mediaset) possono riprendere sotto la Madonnina. «Non entro nel merito dei cavilli giuridici - scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale” - mi limito a osservare che la sentenza del 6 maggio 2013 (rigetto dell’istanza di rimessione per legittimo sospetto) contraddice il buon senso e la verità storica. Per anni abbiamo scritto in solitudine che Ingroia era un pm politicizzato, che cercava di usare la giustizia per entrare in politica e già faceva politica attraverso la giustizia. La conferma l'abbiamo avuta con la sua discesa in campo alle ultime elezioni al motto di «abbattiamo Berlusconi». Anche Milano ha una forte tradizione di pm ammazza Silvio finiti in Parlamento nelle file della sinistra o da questa piazzati in posti di prestigio e ben remunerati: Di Pietro, D'Ambrosio e Colombo sono i più famosi tra i beneficiati. Che alla Procura di Milano da 18 anni ci sia in atto una vera e propria caccia all'uomo è un fatto incontestabile. Caccia che ha prodotto danni enormi al Paese fin dall'inizio, con quell'avviso di garanzia che nel '94 fece cadere il primo governo Berlusconi e che si rivelò di lì a poco completamente infondato. Non senza lati paradossali, comici se non provocassero conseguenze tragiche (lo stesso per Andreotti fu la leggenda del bacio a Totò Riina), come è l'ultima inchiesta della Boccassini su presunti festini privati ad Arcore: migliaia di intercettazioni e centinaia di interrogatori non sono riusciti a provare non dico un reato, ma neppure una molestia, tanto che ancora oggi, a distanza di due anni, non c'è ancora una vittima che chieda giustizia. È vero, e sacrosanto, che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge. Ma deve essere vero anche il contrario, cioè che la legge deve essere uguale con tutti gli uomini. Cosa che a Milano, con Berlusconi non è stato. Continue forzature di norme e procedure hanno portato a una mole di processi contro un solo uomo senza precedenti in Occidente. Fino a oggi nessun verdetto ha superato il vaglio dei tre giudizi, quindi Berlusconi appartiene ancora alla categoria degli incensurati e questo qualche cosa vorrà ben dire. Trovare una sede processuale neutra rispetto a un passato inquinato ci sembrava un segnale forte, un aiuto a quella rappacificazione politica da tanti auspicata a parole. Ma nei fatti c'è chi vuole continuare sulla strada della guerra civile fino alla vittoria sul campo. A partire dai magistrati di Milano, ben spalleggiati, pare, dai colleghi della Cassazione. Il tutto, ovviamente, non è beneaugurante per la nuova stagione politica delle larghe intese.»

CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.

Coppola, assolto dopo sei anni: "Il fatto non sussiste". L'imprenditore esce dal carcere dopo un infarto, un tentato suicidio e una fuga. "Qualcuno si deve vergognare" dice su “Libero Quotidiano”. La corte di appello di Roma il 7 maggio 2013 ha assolto Danilo Coppola, perché il fatto non sussiste, dall’accusa di bancarotta fraudolenta in relazione al crac della società Micop, vicenda costata in primo grado all’imprenditore una condanna a sei anni di reclusione e una lunga custodia cautelare preventiva. Stesso destino processuale anche per Daniela Candeloro, ex addetta alla contabilità, oggi assolta dopo essere stata condannata a 4 anni dal tribunale. Si è chiusa così una vicenda giudiziaria su cui ha certamente pesato la decisione con cui lo scorso dicembre la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso della Micop, aveva decretato la nullità della sentenza di fallimento. I giudici della corte di appello di Roma hanno disposto nei confronti di Danilo Coppola la restituzione delle partecipazioni azionarie precedentemente poste sotto sequestro, compresa la quota del 2% di azioni della Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni (BIM). "Il periodo di detenzione, subito da Coppola per le accuse per cui oggi si è avuta l’assoluzione piena, ha provocato centinaia di milioni di danni al Gruppo", si legge in una nota. E l’imprenditore, dopo l'assoluzione, ha così commentato: "Il mio arresto, come ho sempre detto, è stato creato ad arte ed in molti oggi si dovrebbero per questo vergognare". Nel corso dei sei anni passati in cella, Coppola tentò il suicidio, e nel novembre 2007 ebbe un arresto cardiaco ed entrò in coma. Nel dicembre dello stesso anno la fuga dall'ospedale, per poi riconsegnarsi alla polizia. Nel giugno del 2010 raggiunse un accordo con il Fisco per saldare il suo contenzioso: versò all'erario 160 milioni di euro.

Coppola assolto dopo due anni di cella. Il manager era stato condannato a 6 anni per un crac. La Corte d'Appello di Roma ribalta il verdetto: "Il fatto non sussiste", spiega Anna Maria Greco  su “Il Giornale”. «Il fatto non sussiste», scrive nella sentenza la Corte d'Appello di Roma. E assolve con «formula piena» l'immobiliarista Danilo Coppola. L'ex «furbetto del quartierino» (con Stefano Ricucci) delle intercettazioni telefoniche che hanno acceso i riflettori sul discusso protagonista delle scalate Antonveneta-Bnl, si prende la sua amara rivincita a 46 anni, di cui 2 vissuti in carcere, con una condanna in primo grado a 6 anni sulle spalle. «Il mio arresto - commenta Coppola - come ho sempre detto, è stato creato ad arte ed in molti oggi si dovrebbero per questo vergognare». Un fiume di accuse legate al crac della società Micop e a un buco di 130 milioni di euro, finisce nel nulla: bancarotta fraudolenta, associazione per delinquere, appropriazione indebita e falso ideologico. Romano ma di famiglia siciliana, era il ventunesimo uomo più ricco d'Italia quando fu arrestato il 10 marzo 2007, con grande clamore. Adesso arriva la sconfessione dell'impianto accusatorio costruito contro di lui dai pm Giuseppe Cascini e Rodolfo Maria Sabelli, che firmarono allora il mandato di cattura. E che si tratti di un ex segretario dell'Anm e dell'attuale presidente del «sindacato» delle toghe fa un certo effetto. Quel periodo in prigione ha provocato «centinaia di milioni di danni al gruppo Coppola», accusano i suoi. Questo, senza contare i danni umani. I due anni di custodia cautelare, in parte anche in ospedale e ai domiciliari, sono stati segnati da atti di autolesionismo, attacchi di panico, tentativi di suicidio, crisi cardiache e anche da colpi di scena tipici della sua vita spericolata, come l'evasione-lampo durante un ricovero per farsi intervistare in tv e protestare contro il trattamento subito. Ora, la sentenza di secondo grado impone la restituzione delle partecipazioni azionarie dell'imprenditore messe sotto sequestro, compresa la quota del 2 per cento di azioni della banca intermobiliare di investimenti e gestioni (Bim). Che sarebbe finita così lo si poteva capire già a dicembre, quando la Cassazione ha accolto il ricorso della Micop e ha decretato la nullità della sentenza di fallimento. Per i legali dell'imprenditore quel provvedimento della Suprema corte probabilmente ha pesato molto sulla decisione dei giudici d'Appello, anche se per esserne certi bisognerà attendere il deposito delle motivazioni della sentenza. La stessa assoluzione di Coppola arriva per la commercialista Daniela Candeloro, ex addetta alla contabilità, che era stata condannata dal tribunale nel febbraio 2009 a 4 anni, oltre ad una serie di pene accessorie. Nel primo processo per il presunto crac Micop già altri 6 imputati erano stati completamente assolti. Alla fine del 2010, il tribunale di Roma aveva disposto il dissequestro di 818.199 azioni Mediobanca (0,1 per cento del capitale), di 4.550.000 azioni ordinarie A.S. Roma (3,4 per cento), di 3.853.360 azioni Ipi (5 per cento) e del 29,9 per cento del capitale della Hotel Cicerone srl, oltre a beni personali riconducibili a Coppola per un valore complessivo di 40 milioni. Undici mesi più tardi il tribunale del Riesame ha dissequestrato anche alcune auto di lusso dell'immobiliarista. Ma qualcosa rimane ancora sospeso perché, rispetto al filone principale dell'inchiesta che portò in carcere Coppola, il manager è a giudizio con altri per il reato d'associazione per delinquere. «Quel processo però deve ancora cominciare», spiega uno dei difensori. Nel dicembre 2007 dopo la fuga da un ospedale contattò «SkyTg24» dichiarando di essere vittima di una persecuzione. In primo grado condannato a 6 anni per il crac Micop, nel 2011 salda il conto con il Fisco, con un maxi-accordo milionario.

Crac Micop, Danilo Coppola arrestato l'1 marzo 2007, con l'accusa di bancarotta, riciclaggio e associazione a delinquere. L'ex furbetto del quartierino Danilo Coppola assolto con formula piena. Ad Andrea Bassi sull'Huffington post dice: "Sono stato vittima di manovre dei poteri forti". Quasi due anni di carcerazione preventiva. Un tentativo di suicidio. Un fuga dall'ospedale dove era piantonato solo per rilasciare un'intervista a SkyTg24 per dichiararsi "un perseguitato". E ora, dopo oltre un lustro, assolto perché il fatto non sussiste. Condannato a sei anni di reclusione in primo grado, l'immobiliarista Danilo Coppola, uno dei protagonisti dell'estate dei furbetti del quartierino, quella delle scalate alle banche, è stato assolto con formula piena in appello. Una sentenza che arriva dopo che già la Cassazione aveva riabilitato l'imprenditore romano annullando il fallimento della Micop. Proprio quello che aveva portato all'arresto di Coppola. L'Huffingtonpost ha raggiunto telefonicamente l'immobiliarista.

Dottor Coppola, lei ha detto a caldo: “molti devono vergognarsi di quello che è accaduto”. Chi e perché?

«Sono anni che cerco di raccontare quello che è accaduto. Il mio arresto è stato creato a tavolino dalla Procura di Roma. Mi hanno arrestato facendo fallire una mia società (la Micop, ndr) senza che io ne fossi a conoscenza. Una società fatta fallire, tra l’altro, per un debito fiscale di 7 milioni di euro in un gruppo che all’epoca fatturava 3,5 miliardi. Per questo sono stato tenuto in custodia cautelare per 2 anni, battendo ogni record nella storia della Repubblica italiana. Senza quella istanza di fallimento, poi annullata dalla Cassazione, non ci sarebbe stato il caso Coppola. È stato fatto un attentato ad una persona ritenuta in quel momento scomoda. Alcuni pm si sono comportati come dei camerieri dei poteri forti. Non so per quali ragioni o quanto consapevolmente.»

In che modo avrebbero "servito" questi poteri forti?

«È bastato che alcuni giornali facessero degli articoli delegittimatori e loro si sono messi a ruota.»

Che fa, tira in ballo il cortocircuito mediatico-giudiziario?

«Sono finito in un meccanismo del genere. Ma non è solo questo. Mi sono scontrato con un pubblico ministero, il dottor Cascini, che probabilmente apparteneva ad una classe sociale diversa e che vedeva in me un arricchito.»

Addirittura pregiudizi sociali?

«La realtà è che ero una preda facile. Non ero legato a nessuna lobby di potere. Si sono accaniti su di me.»

Lei ha tirato in ballo i poteri forti dietro le sue vicende. Chi sarebbe il burattinaio o i burattinai?

«Non voglio fare nomi, ma è semplice tirare le fila. In quel momento ero un imprenditore di 38 anni che era arrivato ad avere il 5% di Mediobanca, una disponibilità di partecipazioni importante. È chiaro che questo dava fastidio a chi è seduto nel salotto buono. C'è stata una reazione.»

In che modo?

«Tramite i giornali. Hanno fatto dei dossier su di me. Dossier prodotti apposta per delegittimarmi e fare il vuoto intorno. Alla prova dei fatti si è dimostrato tutto falso. Quello che mi è successo è veramente una pagina vergognosa della giustizia italiana. Non si può arrestare una persona, far fallire una società a sua insaputa, metterla in custodia cautelare per un tempo lunghissimo, poi si scopre che nulla era vero.»

In termini umani immagino che questa vicenda l’abbia provata moltissimo, ma in termini finanziari quanto le è costata?

«I miei avvocati hanno fatto dei conti precisi. Questa vicenda è costata 1,2 miliardi al mio gruppo. Danni veri. La detenzione ha prodotto un effetto domino che ha portato al sequestro e alla svendita di numerosi asset. Faccio solo l’esempio delle azioni Bim che quando me le hanno sequestrate valevano 22 milioni di euro, oggi che me le restituiscono valgono 10 milioni.»

Adesso cosa farà?

«Grazie a Dio non mi sono mai arreso. Adesso sto facendo delle ristrutturazioni del mio gruppo. Continuo ad avere degli asset molto importanti. La mia famiglia sta costruendo il centro di Porta Vittoria a Milano, 150 mila metri quadri tra residenze e uffici, uno degli alberghi più grandi di Milano, un centro commerciale di cui una parte venduto a Esselunga.»

Adesso si terrà lontano dalla finanza?

«Guardi, il mondo nel frattempo è cambiato. Anche questi poteri forti che c’erano nel 2005-2006 oggi sono meno forti di prima. Tante lobby si sono frantumate. È chiaro che oggi viviamo in un momento in cui c’è molta più meritocrazia che appartenenza a classi sociali o ad amicizie.»

Casi gonfiati e accuse fragili: quelli rovinati dalla giustizia. Dall'ex ministro Romano al provveditore Balducci in troppi messi alla gogna e poi scagionati senza scuse, scrive Stefano Zurlo  su “Il Giornale”. Non si tratta di demonizzare le indagini: i processi a volte vanno in un modo a volte in un altro. Quel che colpisce è, talvolta, la temeraria fragilità di capi d'imputazione che erano stati presentati da giornali e tv come rocce saldissime. E invece basta poco e si scopre che non era così. Il pregiudizio non ha retto al giudizio e il banchiere, il revisore dei conti, il politico di turno, ritrovano d'incanto l'innocenza perduta. Ci vuole poco a macchiare la storia di una persona: un pentito di mafia, un'operazione finanziaria magari complicata, altro ancora. E così certe indagini corrono verso il verdetto e tutti si convincono che alla fine la sentenza sarà una ghigliottina e taglierà le teste dei corrotti. E di chi aveva saltato le regole come ostacolo fastidioso. Poi ecco l'assoluzione. E il testacoda di certezze mai messe alla prova. Assoluzione collettiva, come nel caso dei 19 imputati alla sbarra per i Mondiali di nuoto del 2010. Violazioni urbanistiche, ma quello che conta è il contesto. E quel rosario di nomi rimanda implacabile alle malefatte della presunta «cricca» e al «sistema gelatinoso». Ecco Angelo Balducci, un nome che porta dritto a maneggi e malversazioni e poi Angelo Zampolini, altra garanzia presunta di malaffare, quello dei lavori di ristrutturazione della casa di Claudio Scajola al Colosseo. Figurarsi. Anatema. Condanna prima ancora di iniziare a discutere. Salvo andare a sbattere, alla fine, contro l'assoluzione. E l'assoluzione è arrivata anche per Claudio Rinaldi, il commissario dei Mondiali di nuoto e deus ex machina del presunto scandalo delle piscine romane. Sorpresa. I reati tanto declamati non c'erano. E naturalmente questo non significa che Balducci sia uno stinco di santo o che la cricca e il sistema gelatinoso non esistano. Però ci vorrebbe cautela. Però non è corretto generalizzare. E fare, come si dice, di ogni erba un fascio. È facile, troppo facile, imprigionare in un fumetto nero di corruzione tutte le persone immortalate in una certa fotografia. Ecco l'indagine sul Sistri, il futuribile sistema sulla tracciabilità dei rifiuti: l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Malinconico, che aveva macchiato il governo dei tecnici, finisce ai domiciliari. Scatta la gogna. Ora si scopre che «non c'è mai stato alcun trasferimento di denaro né consulenze». Domiciliari revocati. Ma non funziona così e le sentenze ce lo dicono, strattonando le nostre certezze. Saverio Romano, ministro dell'Agricoltura nel governo Berlusconi, è stato dentro la nube dei sospetti per dieci anni. E per dieci anni la macchina della Procura ha girato contro di lui. Impresentabile. Un marchio negativo, quasi un brand al contrario, per il governo del Cavaliere. Poi, ecco l'assoluzione. Accolta in certi ambienti quasi con fastidio, come un incidente da superare, perché quando si coltiva un teorema non è facile ammettere che quell'ipotesi era sbagliata. Assoluzione. Come in un capitolo roboante della triste vicenda Italease. C'è la banca, anzi le banche, e allora il gesso dei media ha già tracciato sulla lavagna la lista dei cattivi. Per definizione. Salta fuori, filone nel filone, che due banchieri di Deutsche Bank e un revisore di Deloitte avrebbero truffato e falsificato nel grande calderone della banca. Quasi mille azionisti chiedono 34 milioni di risarcimento a Deloitte, il presunto mostro che non ha visto, che si è girato dall'altra parte, forte con i deboli e debole con i poteri forti. Peccato che non sia andata così: anche questa storia finisce in niente. Senza colpa e senza risarcimento. Si insegue la colpevolezza per ritrovare un lembo del mantello dell'innocenza. È l'eterno paradosso di un Paese che pensa di riscattarsi con le manette.

IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»

Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc.  Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.   

Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.

«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»

Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.

«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi,  ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».

Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!

«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà  dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali.  Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»

Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?

«Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»

A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?

«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede  Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»    

Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?

«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»

Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?

«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad  aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho  raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende.  Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.

Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.

«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare.  Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Ferdinando Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice Ferdinando Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese.  Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.»

Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento.  In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio  “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro.  Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini  afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»

Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?

«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione.  Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».

Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?

«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»

Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?

«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti,  o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e  servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico  Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»

Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?

«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011  dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”

A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?

«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima.  Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla  di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013  in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»

Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?

«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità»,  rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia.  «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente  «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea  della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»

Va bene. Allora presenti lei Avetrana.

«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»

La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?

«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara  “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»

La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?

«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone  – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.  Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»

E sui magistrati in generale cosa ha da dire?

«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?

Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»

Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?

«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità  e l’esito differenziato dei processi  in virtù del giudice che ha deciso sulle cause.  Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere  di una persona,  il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo  Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»

Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?

«Non  dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso  un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti,  si asteneva,  tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»

Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?

«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima.  Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»

Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO

Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,

avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.

Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto  riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.

Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.

Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.

Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?

COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni  e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).

LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).

INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.

IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.

IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.

CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.

Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.

Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.

Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.

Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).

Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.

Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.

Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.

Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? 

Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.

DENUNCIA ALLA S.V.

Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,

domiciliata in viale Piceno a Manduria,

per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,

IN QUANTO

Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.

Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.

PREMESSO CHE:

Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006,  la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.

Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.

Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.

Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.

Giangrande Antonio era difensore di Erroi Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21.  Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.

"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).

SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.

Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Una situazione, stigmatizzata recentemente anche dal ministro Cancellieri, che rispecchia le condizioni in cui versa il sistema giudiziario nazionale e che è stata fotografata dal rapporto annuale del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani pubblicato. E sempre sul tema è arrivata anche la notizia del ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza con cui a Strasburgo è stata condannata lo scorso gennaio per le condizioni in cui vivono i detenuti nelle carceri italiane. Un’azione che, secondo molti osservatori, è destinata nella migliore delle ipotesi solo a guadagnare tempo in vista delle decisioni in arrivo sulle cause intentate da centinaia di detenuti e la necessità di intervenire sulle strutture carcerarie per superare l’emergenza. Intanto però a Strasburgo l’Italia è finita anche nella top ten dei “sorvegliati speciali” dal Comitato dei ministri, status che il nostro Paese condivide al momento con altri 28 Paesi. Una condizione che sottopone il nostro Paese a uno stretto monitoraggio e alla necessità di fornire costantemente prove inconfutabili sulle misure che sta adottando per sanare criticità abnormi come la lentezza dei processi e la gestione dei rifiuti in Campania. Un problema, quest’ultimo, approdato al Comitato dei ministri dopo che un anno prima la Corte ha condannato il nostro Paese per la «prolungata incapacità delle autorità di assicurare la raccolta, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti nella regione». Restano poi sempre aperte questioni come quella delle confische e degli espropri fatti dai comuni, sin dagli anni ’70, ai danni di singoli cittadini e società. A far conquistare all'Italia il non invidiabile record di indennizzi sono state in particolare tre sentenze della Corte di Strasburgo in cui i giudici hanno stabilito una violazione del diritto di proprietà. A causa di violazioni sistematiche del diritto alla proprietà, l’Italia è stata condannata a pagare, in un solo anno, indennizzi per ben 97 milioni, di cui 49 per la distruzione dell’ecomostro di Punta Perotti e 48 per l’esproprio di un terreno della società Immobiliare Podere Trieste. Mentre sono ancora pendenti davanti alla Corte altri 300 ricorsi sulla stessa materia e molti ancora sono in arrivo. Ma a pesare sulla “bolletta-indennizzi” del 2012 è stata anche la vicenda delle frequenze TV non concesse a Centro Europa 7, costata ai contribuenti 10 milioni di euro. Da sole queste tre condanne sono costate al contribuente italiano quasi 108 milioni di euro, una somma che supera di molto quella pagata l'anno scorso da tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa messi insieme (72 milioni di euro). Senza queste tre condanne l'Italia avrebbe pagato in indennizzi un totale di 11 milioni di euro, arrivando al secondo posto dietro alla Turchia, condannata a pagare nel 2012 23 milioni di euro. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Parola di Guardasigilli, messa nero su bianco dal neoministro Paola Severino nella sua relazione sullo stato della Giustizia in Italia, presentata alla Camera a gennaio: "Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari". I condannati della strage di via D'Amelio. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno scorso, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà". Proprio questo aveva dichiarato, nel dicembre del 2010, l'allora l'avvocato e docente universitario Paola Severino, commentando la pista falsa che, durante le indagini sul rapimento della piccola Yara Gambirasio, aveva portato in carcere il cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. "Nell'ultimo decennio ci sono state 8 mila richieste l'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro" afferma l'avvocato Gabriele Magno, bolognese, fondatore dell'Associazione nazionale vittime errori giudiziari. "Noi chiediamo l'abolizione di questo tetto, così come chiediamo che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall'assoluzione". 213 milioni di risarcimento nel triennio 2004-2007. Senza considerare che ogni detenuto costa allo Stato 235 euro al giorno (la metà se è ai domiciliari): quanto pesano in termini di soldi gli errori giudiziari? I dati per i periodo 2004- 2007, forniti dal ministero dell'Economia, in quanto ufficiale pagatore parlano di 213 milioni di euro. I risarciti sono 3.600, per il 90 per cento italiani, per il resto stranieri. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario, c'era il problema dell'ingiusta detenzione: cinque anni e mezzo, nel suo caso. "La vera novità è che per la prima volta, per lui, è stato accolto il concetto di risarcire il danno esistenziale" dice l'avvocato Magno. "Un danno che va ad aggiungersi a quello morale, biologico ed economico". Ma è sempre dei magistrati la colpa? No: l'avvocato Magno se la prende anche con i suoi colleghi: "In base alla mia esperienza, la responsabilità è dei giudici nella metà dei casi, per il resto è di noi avvocati: per i ricorsi presentati in ritardo, le scelte difensive sbagliate o gli errori procedurali. I magistrati possono sbagliare, come tutti: non ci interessa punirli, ma vogliamo venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. E di fronte al rischio indennizzo, il giudice si autolimiterebbe e farebbe molta attenzione nell'adottare certi provvedimenti. Senza nulla togliere alla sua autonomia". L'attuale normativa sull'ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari - secondo Magno - non sarebbe sufficiente per compensare chi ha subito danni quasi irreparabili. Così, la sua associazione ha già indicato alcune proposte di riforma: "La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione e proprio il fatto che la richiesta di indennizzo è sottoposta a un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima che incide sull'efficacia reale della tutela di chi ha subito una simile ingiustizia. Vogliamo che quel limite di due anni sia sostituito con la clausola in ogni tempo, per dare modo a chiunque di rivalersi. Altra proposta: creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro. Penso ai concorsi pubblici, dove la condizione di chi ha subito malagiustizia dovrebbe essere equiparata a quella dei portatori di handicap".  Napoli,Le statistiche confermano che, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato. In base ai dati disponibili, non proprio recentissimi, però, errori giudiziari o ingiuste detenzioni si registrano soprattutto al Sud. La Corte d'appello di Napoli guida questa classifica avendo riconosciuto il maggior numero di casi: 449 risarcimenti concessi nel 1999 (e 152 nel 2000), pari al 9,53 per cento del totale nazionale. In seconda posizione, la Corte di Reggio Calabria che, sempre nel 1999, ha dato al via libera a 420 autorizzazioni. Seguono Catanzaro e Palermo, con 412 e 406 sentenze nello stesso anno. Fino al 1999, oltre la metà dei risarcimenti sono stati riconosciuti da giudici del Sud, un quarto al Nord e un quinto al Centro.  Ma altri indennizzi milionari, ben più consistenti di quello di Barillà, sono in arrivo. Se infatti, per i suoi cinque anni di prigione, lo Stato ha risarcito 4,6 milioni di euro, quanto dovrà rifondere agli ex ergastolani della strage Borsellino?

GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.

Tutta la stampa ne da la notizia il 14 aprile 2013. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Non aveva compiuto ancora 60 anni quando ha deciso di lasciare la magistratura. Ex magistrato calabrese, Pietro D'Amico, 62 anni, di Vibo Valentia, è morto in una clinica di Basilea, in Svizzera, dove gli è stato praticato il suicidio assistito. D'Amico aveva deciso di sottoporsi al suicidio assistito in piena lucidità, scegliendo a tale scopo la struttura sanitaria in Svizzera. Il suo ultimo incarico lo aveva svolto alla Procura generale di Catanzaro in qualità di sostituto procuratore. Negli anni scorsi era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. D'Amico era stato poi prosciolto, ma aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". L'ex pg Domenico Pudia ricorda che D'Amico «da tempo, in seguito a quelle accuse, aveva perso il sorriso». Quell'indagine «finì come doveva finire, ma nonostante tutto lui non si è più ripreso. Ebbe una sorta di rigetto della magistratura e forse dei magistrati». I sospetti su D’Amico nascevano in quel clima di veleni che dominava all’epoca la procura di Catanzaro, con una guerra di bande tra magistrati che, dopo l’avocazione dell’inchiesta Why Not a De Magistris, sfociò nel clamoroso conflitto tra la procura salernitana e quella catanzarese, con sequestri e contro sequestri di atti giudiziari. Un ambiente avvelenato in cui in fondo a soccombere, o comunque a pagarne maggiormente le conseguenze, erano i più corretti, quelli che nelle inchieste finirono per essere una sorta di danno collaterale. Oltre a D'Amico, finirono sott'inchiesta a Salerno l'ex pg Domenico Pudia, il capo dei gip Antonio Baudi, il carabiniere Mario Russo e l'ex procuratore Mariano Lombardi, scomparso un paio di anni fa. Furono tutti prosciolti. «Insussistenza della notizia di reato», insostenibile «fattispecie associativa» e «lacunoso impianto accusatorio» furono i termini usati dal giudice per demolire il teorema della fuga di notizie orchestrata dai massimi vertici del distretto giudiziario di Catanzaro. Eppure, nonostante la riabilitazione da quell'infamia subita dopo oltre trent'anni di onorata carriera, Pietro D'Amico non si è più ripreso. È entrato in depressione. Tra il disgusto e la rabbia agli amici aveva confidato: «Questa magistratura non mi merita», e si era dimesso. Era stato massacrato, ai tempi delle Grandi Inchieste di Giggino. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Era finito nel tritacarne investigativo di de Magistris e Genchi (entrambi sotto processo a Roma per l'acquisizione illegale dei tabulati telefonici di otto parlamentari) per aver fatto due telefonate. Una al presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti (suo collega magistrato) della durata di venti secondi. Cronometrati. E l'altra all'allora deputato-avvocato Giancarlo Pittelli. Ecco, i sospetti su D'Amico nacquero così: per aver chiamato due futuri indagati di de Magistris. Il nome del procuratore generale aggiunto fece capolino anche nella vicenda che vide coinvolto l'allora capitano dei carabinieri Attilio Auricchio, braccio destro di de Magistris ai tempi di Catanzaro e poi suo fedele capo di Gabinetto al Comune di Napoli. Fu D'Amico, infatti, a ottenere che l'ufficiale dell'Arma fosse punito per aver sbagliato a trascrivere una intercettazione telefonica in cui, al posto della parola «provveditore», era stato annotato «procuratore», con l'aggiunta (che nella conversazione originale non esisteva) del nome Chiaravalloti. D'Amico impugnò l'assoluzione nel procedimento disciplinare di primo grado e trascinò Auricchio davanti al gran giurì del ministero della Giustizia che ribaltò l'assoluzione e gli inflisse la censura. Ai pm che lo sentirono qualche tempo dopo, Auricchio rivelò che il ricorso di D'Amico era animato da «uno zelo sospetto». «Per l'allucinante inchiesta di Salerno, era entrato in una depressione nerissima», dice al Giornale l'ex governatore Chiaravalloti. «Era un buono, un uomo dolcissimo. Uno studioso, lontano dai giochi di potere. Visse quell'indagine come un torto personale che non è riuscito a superare». L'ex pg Domenico Pudia ricorda che D'Amico «da tempo, in seguito a quelle accuse, aveva perso il sorriso». Quell'indagine «finì come doveva finire, ma nonostante tutto lui non si è più ripreso. Ebbe una sorta di rigetto della magistratura e forse dei magistrati». «Finì nei guai perché parlava con me», sottolinea Giancarlo Pittelli. Che aggiuge: «De Magistris ha fatto del male a centinaia di persone che ho difeso. A me ha distrutto l'esistenza».

Enzo Tortora e le tante vittime della (in)giustizia, scrive Fedro su “Blog Sicilia”. Milioni di italiani hanno seguito la fiction dedicata all’incredibile vicenda giudiziaria ed umana di Enzo Tortora; milioni di italiani sono inorriditi al pensiero di come l’infernale ingranaggio della giustizia in questo paese sia in grado di stritolare la vita di chiunque.

Enzo Tortora non era un italiano qualunque: era un giornalista di straordinarie capacità, un uomo profondamente rispettoso delle leggi ed una delle personalità pubbliche più esposte nella lotta culturale e ideologica contro ogni forma di criminalità; eppure tutto questo non fu sufficiente per, almeno, beneficiare dell’ombra del dubbio rispetto alle false certezze di magistrati ciechi ed incapaci. Bastarono un manipolo di pentiti alla ricerca della rivelazione sensazionale e di un congruo sconto di pena per distruggere, senza alcuna prova e con la connivenza degli inquirenti, un uomo per bene, la cui sola colpa era quella di essere famoso ed indifeso. Uno dei più tragici errori giudiziari della storia italiana, che costò a Tortora un tumore e la prematura morte e che spianò la strada ad un referendum con il quale la stragrande maggioranza degli italiani decise che i magistrati che sbagliavano, rovinando la vita a degli innocenti, dovevano pagare, come accade a qualsiasi altro cittadino. Ed invece, dopo anni ed anni, di un inutile e stanco dibattito, i magistrati restano gli unici servitori dello Stato a non correre alcun rischio per la loro negligenza o per la loro incapacità; le promozioni continuano a fioccare in ragione dell’anzianità senza alcuna valutazione soggettiva. Anzi, persino i magistrati del “caso Tortora”, all’indomani della sentenza e dell’evidenza del clamoroso errore, invece di essere cacciati come sarebbe accaduto in qualsiasi paese civile, continuarono ad esercitare e ad accumulare le promozioni che gli scatti d’anzianità determinarono. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno stato nello stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul parlamento e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo stato o il parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto. Ed allora si applichi subito e senza indugio il risultato di quel referendum e si rispetti la volontà degli italiani; ciascun magistrato risponda ai cittadini del suo operato, paghi se sbaglia e venga premiato solo se è capace. Solo cosi si determinerà un circuito virtuoso che selezioni e protegga i magistrati migliori, faccia riacquistare ai cittadini la fiducia perduta nella giustizia, e soprattutto eviti il ripetersi di altri casi come quello di Enzo Tortora, o come quelli delle migliaia di italiani che sono morti di giustizia.

Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. E’ il 6 ottobre 1954 quando la moglie di Paolo Gallo, contadino siciliano, ne denuncia la scomparsa alla stazione dei carabinieri di Avola (Siracusa). Suo marito è uscito per andare a lavorare nei campi all’alba del giorno precedente, ma non è mai tornato a casa. Le indagini dei carabinieri sono a dir poco precipitose. Sul luogo dove Paolo Gallo era solito lavorare ci sono tracce di sangue. C’è sangue anche nella casa del di lui fratello, Salvatore. E siccome tutti in paese sanno che i due fratelli non vanno d’accordo e sono soliti accapigliarsi per quegli investigatori di paese due più due fa quattro: se Paolo è stato ucciso ad ucciderlo è stato Salvatore, probabilmente con l’aiuto del figlio, Sebastiano. Ma il cadavere di Paolo non c’è. Non fa nulla, si vede che i due lo hanno sotterrato da qualche parte in campagna. A nulla valgono le professioni di innocenza di Salvatore e Sebastiano Gallo. La Giustizia, quando vuole, sa muoversi decisione. E senza tentennamenti. Nel primo processo a nulla serve che due contadini giurino di aver visto Paolo Gallo vivo e vegeto. Non è la giustizia a sbagliarsi, ma loro a mentire: condannati per falsa testimonianza. Salvatore Gallo viene invece condannato all’ergastolo, a 14 anni per occultamento di cadavere (quale?) il figlio Sebastiano. Stessa storia al processo d’Appello: pena confermata per il padre, pena ridotta a un anno e quattro mesi per il figlio. Inammissibile qualsiasi ricorso in Cassazione. Sarà necessaria un’attenta inchiesta giornalistica, condotta da un cronista di razza come Enzo Asciolla, del quotidiano La Sicilia, per dimostrare quanto la giustizia degli uomini sia fallace. Asciolla, seguendo una labilissima traccia, scopre che Paolo Gallo non è mai morto, ha semplicemente deciso di scomparire. Peccato che suo fratello Salvatore abbia trascorso sette anni in galera e che in carcere, nel penitenziario dell’isola di Santo Stefano, vicino a Ventotene, riservato agli ergastolani, si sia gravemente ammalato di artrosi e sia finito su una sedia a rotelle.

Venerdì 12 aprile 2013 alle ore 23.00 su Italia 1, nuovo appuntamento in seconda serata con "Le Iene". Conducono Ilary Blasi, Teo Mammucari e la Gialappa's. Tra i servizi di questa puntata: nei giorni prima la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Per far luce sulla vicenda, Casciari intervista nuovamente Lucia Uva e ripercorre la storia del fratello, quarantenne morto in circostanze poco chiare il 14 giugno del 2008 a Varese. L'uomo, quella notte, viene portato con un amico in centrale per accertamenti da una pattuglia di Carabinieri. È proprio l'amico a raccontare di aver contattato il 118 mentre si trovava in sala d'attesa, sentendo dei lamenti di Uva provenire da un'altra stanza; richiesta fatta poi rientrare durante una chiamata di conferma del 118 alla caserma. Solo poche ore dopo, una guardia medica chiederà l'intervento di un'ambulanza per un Tso (trattamento sanitario obbligatorio); è sempre stato sostenuto, infatti, che Giuseppe Uva si sia reso protagonista di atti di autolesionismo. Ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Varese, l'uomo verrà dichiarato morto poco tempo dopo. Secondo quanto accertato inizialmente dalle indagini, sembra gli siano stati somministrati medicinali incompatibili con l'assunzione di alcool.  Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decide per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata; da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta”; “a misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte". La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso. A quattro anni dalla morte dell'uomo, però, non si ha ancora un colpevole, per questo la sorella di Giuseppe Uva chiede che vengano fatte delle indagini per capire cosa sia successo nel lasso di tempo tra il fermo e il ricovero in ospedale. A questo punto il servizio parla della richiesta di avocazione delle indagini, per inerzia del Pubblico Ministero Abate, avanzata da Lucia Uva presso la procura Generale della Corte d’Appello di Milano, adducendo il fatto che nessuna indagine è stata fatta per trovare il responsabile della morte del fratello Giuseppe. L’istanza viene rigettata e sia Lucia Uva e sia Mauro Casciari spiegano che ha indurre al diniego è stata proprio la querela per diffamazione presentata contro di loro. Quindi, non è stata accolta la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere l'indagine al pm Abate. La Procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate l’indagine ed affidarla ad un altro magistrato. Lo si riferisce nella pagina ufficiale su Facebook dedicata al 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Cucchi e Aldrovandi. Già pochi giorni fa Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, aveva deciso di presentare una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva spiegato De Milato. La procura sulla morte di Uva ha indagato e mandato a processo per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio – e non i carabinieri, che, come sostiene la famiglia picchiarono Uva. Lucia Uva aveva chiesto di verificare l’ipotesi del pestaggio, ma quel fascicolo è stato chiuso dalla procura. Non è mancata la beffa: l’unica ad essere stata denunciata è stata la stessa Lucia Uva, per aver accusato in un’intervista con Le Iene i carabinieri e la polizia per l’omicidio del fratello. Non è mai stato ascoltato dai pm il testimone principale, Alberto Biggioggero, l’amico che aveva condiviso con Giuseppe quella che si rivelerà l’ultima notte della sua vita. Anche dentro il commissariato, dove erano stati portati perché ritenuti ubriachi. Allo stesso modo, non erano state messe agli atti le conversazioni telefoniche registrate tra carabinieri e il 118. La bocciatura della richiesta, per i familiari di Uva, è – come si legge su Fb - lo stop all’ultima speranza affinché si indagasse in caserma. Nonostante “l’abbia chiesto anche il giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado”, in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. “Adesso siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione, dato che non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado. E comunque Abate non cambierà idea certo ora”. Così sembra che non si saprà mai la verità su quello che accadde realmente la notte in cui morì Uva.

La stessa notizia con il titolo “Caso Uva: un altro passo indietro” è stata scritta da  Elisabetta Reguitti l’11 aprile 2013 su “Il Fatto Quotidiano”.  La procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate di Varese l’indagine per affidarla ad un altro magistrato. All’indomani della richiesta presentata da Fabio Anselmo legale della famiglia, Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, ha però presentato anche una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva scritto la giovane donna nipote del 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto nella caserma dei carabinieri di Varese. La procura sulla morte di Uva fino ad oggi ha indagato per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Lucia Uva chiede però che venga sentito il testimone di quella notte e vengano messe a verbale alcune registrazioni telefoniche partite dalla caserma dei carabinieri verso il 118; tutto al fine di verificare l’ipotesi del pestaggio. Al momento l’unica denunciata è Lucia Uva per i suoi commenti scritti su Fb. Parole disperate dopo aver visto suo fratello morto all’obitorio il cui corpo presentava ferite sospette. Ora dopo la bocciatura della richiesta di trasferimento, il processo è a rischio di prescrizione. Sarà una corsa contro il tempo per riuscire a scoprire cosa sia davvero accaduto quella notte in cui è morto.

Omicidio Uva: il Csm indaga sul pm che non indaga, scrive  Checchino Antonini su “Osservatorio Repressione”. Un'azione disciplinare pende sul magistrato che non vuole interrogare il teste di quella notte ed è ostile a familiari e legali. Un'azione disciplinare del Csm pende sul pm del caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ad Agostino Abate è contestato tra l'altro il comportamento ostile, in aula e fuori, nei confronti della sorella dell'uomo ucciso, Lucia, fatta allontanare durante un'udienza. La notizia proviene proprio dal Consiglio superiore della magistratura dove viene spiegato che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda e che dunque non c'è stata nessuna inerzia del Consiglio. Era stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e dunque compagna di sventura di Lucia Uva, a lamentare il silenzio del Csm sugli esposti presentati dalla sorella di Uva e da Luigi Manconi. Di qui la decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli di avviare una ricognizione sulla sorte di queste denunce, su richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm dura da tempo soprattutto per il fatto che Abate ha sempre voluto interpretare quella morte come un "banale" caso di malasanità senza mai voler interrogare l'amico di Uva, Alberto Biggioggero, arrestato con lui quella notte e testimone delle urla di Uva nella caserma della polizia in cui avrebbe trascorso alcune ore in balìa delle forze dell'ordine. Un giudice, assolvendo in primo grado il medico portato alla sbarra da Abate, aveva ordinato - invano - la riapertura dell'inchiesta con l'accusa da parte del pm di essere lui stesso succube del clima mediatico. Il contrasto era culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d'ufficio. Da parte sua Abate s'era scagliato più volte contro la sorella del ragazzo ucciso, contro il suo legale Fabio Anselmo (lo stesso dei casi Aldrovandi, Ferrulli e Cucchi) e contro i giornalisti che osavano riprendere la vicenda come un caso di malapolizia. I famigliari di Uva (Lucia è stata perfino accusata di aver manipolato il cadavere di suo fratello) contestano la chiusura dell'inchiesta: secondo il pm non ci sono responsabilità delle forze dell'ordine nella morte dell'uomo, mentre per i parenti Uva avrebbe subito percosse in caserma. La Procura Generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta di togliere a quel pm l'indagine ed affidarla ad un altro magistrato. «Era l'ultima speranza che si indagasse in caserma, e invece no - scrive Lucia - nonostante l'abbia chiesto anche il Giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. Quindi ora siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione. (Non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado, e comunque il pm Abate non cambierà idea certo ora). Non sapremo mai la verità su ciò che accadde quella notte. Mai».

Invece Articolo 21zione disciplinare nei confronti del pubblico ministero del processo sul caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell’ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Nel procedimento al magistrato Agostino Abate è contestato tra l’altro il comportamento tenuto in aula nei confronti della sorella dell’uomo, Lucia, fatta allontanare durante un’udienza. La notizia si è appresa al Csm, dove spiegano che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda che chiedevano di trasferire ad altro magistrato l’indagine su quanto accaduto quella notte nella caserma dei carabinieri. La decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli è partita dalla richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm. dura da tempo ed è culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio. Ma c’è anche una sentenza che invita a far luce: il 28 giugno dell’anno scorso il giudice Orazio Muscato ha assolto un medico accusato di aver provocato la morte di Uva in seguito alla somministrazione di un farmaco e il tribunale, unitamente all’assoluzione del medico, ha inviato gli atti al pubblico ministero con particolare riferimento a quanto accaduto prima dell’ingresso di Giuseppe Uva in ospedale, ovvero a quanto successo nella caserma dei carabinieri. Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono perentorie e non lasciano adito ad equivoci: “Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva, conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale, siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio.” Dunque secondo il giudice Orazio Muscato se si vuole stabilire con precisione le cause o le concause della morte bisogna ricostruire quanto è successo nella caserma, “occorre disporre della fotografia delle condizioni nelle quali versava Uva al momento del suo ingresso in ospedale, mentre del tutto superflui ed irrilevanti sono gli accertamenti tesi a verificare le ragioni in base alle quali è giunto in Ospedale in quelle condizioni”. La vicenda: Alle 10.30 di mattina del 14 giugno 2008, all’ospedale Circolo di Varese, muore. Giuseppe Uva. Giuseppe Uva, prima di essere ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, è stato dalle 3 di notte alle 6 nella locale caserma dei carabinieri con i militari e con sei poliziotti, tutto l’equipaggio di pattugliamento notturno della cittadina. Giuseppe era stato fermato in compagnia dell’amico Alberto Biggiogero in stato di ebbrezza alcolica mentre spostava delle transenne al centro della strada. Nessun verbale di arresto viene compilato quella notte, proprio perché non hanno commesso alcun reato. Nonostante questo, i due rimangono in caserma per tre ore. Biggiogero viene liberato, mentre Uva nelle primissime ore della mattina viene trasferito in ospedale, dove muore poco dopo. Aveva il naso fratturato, le scarpe consumate e il cavallo dei pantaloni imbrattato di sangue. Da quel 14 giugno la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, chiede con tutte le sue forze che venga fatta chiarezza sulla morte del fratello. Sono passati quasi 5 anni, e a oggi l’unico processo celebrato è stato contro un medico, accusato di aver somministrato un farmaco sbagliato e di avere quindi causato la morte. Il medico è stato assolto e, perizia dopo perizia, si è arrivati a stabilire la correttezza di quella prescrizione. Se non sono stati i farmaci, a uccidere Giuseppe, cosa è stato? All’interno della procura di Varese esiste un fascicolo, il 5509, che dovrebbe contenere le indagini svolte per accertare responsabilità precedenti all’ingresso di Giuseppe in ospedale. Lucia Uva, che è stata recentemente querelata dai carabinieri per diffamazione, ha ritirato il fascicolo 5509, perché la sua querela è stata inserita in quegli atti. Al suo interno ci sono solo doppioni di atti già acquisiti nel processo contro i medici. Delle ore passate da suo fratello in caserma, neanche l’ombra di un’indagine o di avvisi di garanzia.

Giuseppe Uva, la giustizia rovesciata, scrive Paolo Favarin. Indagine bis su carabinieri e polizia senza risultati. La procura di Varese indaga la sorella Lucia e querela per diffamazione gli autori del documentario “Nei secoli fedele”. Per la procura la colpa è sempre dei medici: Giuseppe Uva morto per un caso di malasanità. Dopo l’assoluzione di Carlo Fraticelli, adesso altri due dottori rischiano il rinvio a giudizio, mentre l’indagine bis su carabinieri e polizia – che nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 trattennero Giuseppe e il suo amico Alberto Bigiogero per una notte intera – si è conclusa con un clamoroso nulla di fatto: nessun addebito agli uomini in divisa, tra le quattro mura della caserma di Varese non è successo nulla, le urla e il rumore delle botte non vogliono dire niente, assolutamente niente. Un mare di fango che schizza, con il pm Agostino Abate che ha iscritto nel registro degli indagati Lucia Uva e un giornalista delle Iene, Mauro Casciari, “colpevoli” di aver diffamato l’Arma e la polizia. Decisione presa in seguito a una denuncia sporta dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl. Ma non basta. Le indagini non sono finite e nel mirino adesso ci sono finiti pure gli autori del documentario “Nei secoli fedele”, che ricostruisce tutto il caso con interviste e materiale giudiziario: Adriano Chiarelli – scrittore, documentarista e collaboratore di Contropiano – e il regista Francesco Menghini.«La notizia non ci sorprende – dice adesso Chiarelli -, vista la piega che stanno prendendo gli eventi. A finire sul banco degli imputati, ancora una volta, saranno coloro che si battono in difesa della giustizia e della legalità, e non i diretti interessati. È accaduto con Patrizia Moretti, sta accadendo con Lucia Uva e di conseguenza con noi».La tremenda sensazione di giustizia mancata si somma ora al rammarico per un rovesciamento totale della vicenda: chi cercava la verità diventa colpevole e chi ha fatto di tutto per insabbiare la vicenda è una vittima. La colpa – se esiste – diventa dell’ospedale, che avrebbe sbagliato la somministrazione di alcuni medicinali a Giuseppe Uva, ma «io ho visto tanto sangue. Mille perizie dimostrano che i dottori non c’entrano», dice la sorella Lucia. A nulla è servita la sentenza del giudice Orazio Muscato, che chiedeva alla procura di indagare meglio sui fatti avvenuti in caserma. Per il pm Agostino Abate carabinieri e polizia hanno semplicemente fatto il proprio dovere. E allora è tutta colpa di Lucia e dei suoi “compari”, trattati malissimo e derisi dall’accusa per tutto il processo di primo grado a Fraticelli, tanto che nella sentenza di assoluzione, il giudice non può non sottolineare che «L’esame del pm è stato nel complesso effettivamente condotto con toni e modalità tali da indurre l’esaminato (nel caso, i periti) in stato di soggezione, con ripetuti interventi del Tribunale tesi a ricondurlo nell’alveo delle regole proprie della normale dialettica processuale, a fronte delle lamentazioni avanzate dagli stessi periti di venire sostanzialmente derisi dal pm».Una lotta senza quartiere ormai per arrivare a una verità che ormai sfugge solo alla procura di Varese. «Se i rappresentanti della giustizia intendono perseguire coloro che chiedono la verità – l’amarissima conclusione di Chiarelli -, facciano pure. Siamo disponibili fin da subito a essere interrogati e a mettere a disposizione tutto ciò di cui siamo venuti a conoscenza durante la permanenza a Varese».La polemica infinita e, a tratti, pretestuosa, portata avanti da chi dovrebbe lavorare per la giustizia rischia di far scivolare l’intera vicenda verso l’oblio della prescrizione: la vicenda si trascina da quasi cinque anni e, nei tribunali, il tempo ha il potere di spazzare via ogni cosa. Rimangono alcuni particolari: i vestiti di Giuseppe sporchi di sangue, le fotografie che mostrano un uomo massacrato, pieno di lividi. Torturato. E una telefonata, quella fatta da Bigiogero al 118, nella notte più lunga della sua vita, l’ultima del suo amico Pino.«118…» «Posso avere un’auto-lettiga qui alla caserma di via Saffi?…» «Sì, cosa succede?» «Praticamente stanno massacrando un ragazzo…» «In caserma?» «Eh, sì…» «Ho capito… Va bene… Adesso la mando».

Franco Califano, morto a Roma il 30 marzo 2013 a 74 anni. Personaggio “contro”, finisce due volte in prigione: una volta nel 1970, per possesso di stupefacenti (in cui fu coinvolto anche Walter Chiari , assolto poi con formula piena) e, una seconda volta, nel 1983 ancora per droga, con l’aggravante del porto abusivo di armi (stavolta è coinvolto Enzo Tortora, anche lui assolto). L’esperienza della prigione segnerà la vita di Franco Califano, che inciderà un album per esorcizzare in qualche modo il dolore: “Impronte digitali”. «Io sono stato assolto “perché il fatto non sussiste” e non per non avere commesso il fatto, dopo tre anni e mezzo di carcere, senza mai una lacrima o una lamentela, senza sbraitare, senza dire nulla. E all’epoca non c’era il risarcimento dei danni». In quanti pensano a Califano come una vittima sacrificale della giustizia? Eppure lo sono stati Walter Chiari, Lelio Luttazzi  ed Enzo Tortora, finiti «al gabbio» proprio come Califano, per le stesse indagini, poi riabilitati come simboli dell’ingiusto martirio. Riusciva a scherzarci:« Sono finito nel processo con Walter Chiari e Lelio Luttazzi, poi con Tortora, mai un processo tutto per me». Tre anni e mezzo dentro poi l’assoluzione, tutte e due le volte, perchè il fatto non sussiste «senza una scusa, ma non mi piango addosso. L’ho presa come una esperienza in più. Una brutta cosa, però io ho la forza di pensare ad altro». Superficiale quanto basta, o forse solo abituato al peggio. Finì in cella la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, poi assolto con formula piena, nella vicenda giudiziaria vergognosa che coinvolse anche Walter Chiari, stroncandone la carriera. Da quella esperienza carceraria Califano trovò spunto per far nascere un album, “Impronte digitali”. Califano finì nuovamente in carcere per lo stesso motivo e più il porto abusivo di armi nel 1983, volta insieme al conduttore televisivo Enzo Tortora in un'altra vicenda emblematica di mala giustizia. In entrambi i processi Califano fu assolto “perché il fatto non sussiste”. Subito dopo la sua morte il primo a ricordare quelle ingiuste vicissitudini giudiziarie, via twitter, è Vittorio Feltri: “È morto Califano. Fu incarcerato due volte – scrive -. Innocente. Nessun risarcimento. Quante ne ho viste di storie così. Quante ingiustizie. Dolore”. Dopo questa seconda esperienza chiese aiuto e sostegno all'allora leader del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi. Ne ottenne una risposta e poi questo rapporto si tramutò in amicizia. Successivamente il Califfo (1992) prima che la tempesta di Tangentopoli travolgesse tutto l'arco socialista in Italia decise di candidarsi, nelle fila del Psdi, il Partito Socialdemocratico italiano, senza però essere eletto. Successivamente venne sempre “bollato” come cantante vicino alla destra anche se diceva di sé: “Io sono liberale, anticomunista”. Forse, scrive “Il Foglio”, sono proprio la catena d’oro al collo ed i braccialetti la cause dell’ostracismo schifiltoso contro “il trucido” cui l’ha dannato un certo ambiente, anche prima della sua doppia avventura giudiziaria risoltasi con quelle che chiama “le assoluzioni strapiene”, una volta nel 1970, ai tempi del processo Walter Chiari, e una volta nel 1983, ai tempi del processo Tortora, solo che Califano viene citato un po’ meno di Walter Chiari ed Enzo Tortora, come tragico esempio di errore giudiziario. Ascolta volentieri Radio Radicale, il Califfo, e però si sente un reietto della memoria garantista: gli altri “giustamente esaltati” come vittime di malagiustizia, lui “ingiustamente dimenticato” come vittima di malagiustizia, gli altri “presi nel mucchio” perché famosi, lui preso nel mucchio “per riempire un buco dopo la scarcerazione di Walter Chiari” e poi perché, “nel paese del fango”, aveva il curriculum giusto (“amicizie losche, vizi esibiti, look malavitoso, modo di esprimermi volgare e anticonformista, un passato truce, nessuna protezione politica”, scrive in “Senza manette”). Un tipo adatto ai reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico internazionale di stupefacenti (il cui uso Califano aveva sempre ammesso per uso personale), sfruttamento della prostituzione, anche allora reato perfetto per prove imperfette. Ancora oggi il Califfo non si capacita del perché “soltanto Bettino Craxi” (altra foto su un comodino del salotto) si interessò alla sua sorte di “innocente dietro le sbarre”, disperato come nel primo collegio da cui era “evaso scalzo” da bambino, idolo dei detenuti (“com’è a letto quell’attrice?”, gli chiedevano i carcerati stanchi dei giornaletti porno) e impaurito a morte dall’apatia che aveva preso il compagno di cella Pietro Valpreda. (“Chi mi vuole prigioniero non lo sa, che non c’è muro che mi stacchi dalla mia libertà”, dice, non a caso, la strofa di una delle sue canzoni più celebri, “La mia libertà”). Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. E Califano serviva, eccome: il suo passato, il suo non aver mai nascosto amicizie “pericolose”, l’uso ammesso della cocaina, serviva evidentemente per legittimare i precedenti arresti, in omaggio a teoremi che cominciavano a scricchiolare. Solo che anche Califano era innocente, con la camorra e i suoi traffici non aveva nulla a che fare; e da quelle accuse, alla fine, venne assolto. Ricordare quell’arresto, quella pagina che il buon gusto impedisce di qualificare come si vorrebbe, significava ricordare e rievocare tutta quella vicenda. Meglio ignorare tutto, confidare sul tempo trascorso, e sulla memoria che si scolora… Fummo davvero in pochi, in quei giorni, a osservare che anche per quel che riguardava Califano i conti non tornavano. Ci si cominciò a interessare alla sua vicenda in seguito all'accorato appello al presidente della Repubblica di allora lanciato da Gino Paoli. Califano, detenuto da mesi, si mise in contatto con noi: «Sono frastornato e distrutto, perchè un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile... Ho in testa brutte cose... venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così...». Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Per accertarlo non ci voleva la scienza di Sherlock Holmes, o il genio di Hercule Poirot; bastava il buon senso – meglio: il “senso buono” - di Jules Maigret. Scienza, buon senso e senso buono, con tutta evidenza assenti, e limitiamoci a questo. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare.

Questa è la sorte che tocca ai presunti carnefici ed alle vittime cosa è riservato?

Condannare tutti gli imputati (agenti, medici e infermieri) a pene comprese tra i due anni e i sei anni e otto mesi di reclusione, così scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera” e così riporta “La Repubblica”. Queste le richieste dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy ai giudici della III Corte d’Assise, presieduti da Evelina Canale al termine della requisitoria nel processo per la morte di Stefano Cucchi, geometra romano 31enne fermato per possesso di droga il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini. In particolare i pm hanno chiesto che siano inflitte le seguenti pene: sei anni e otto mesi di reclusione per il primario Aldo Fierro, sei anni ciascuno per i medici Stefania Corbi e Flaminia Corbi, cinque anni e mezzo ciascuno per gli altri due medici Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite; quattro anni ciascuno per Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; due anni ciascuno per gli agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Tutti i sanitari sono accusati a diverso titolo di abbandono di persona incapace. Secondo il magistrato è stata riscontrata una "sciatteria assoluta" nel modo in cui era tenuta la cartella clinica di Cucchi. Tutto il personale medico e infermieristico deve rispondere anche di favoreggiamento e omissione di referto. A carico di Rosita Caponetti è ipotizzato invece il reato di falso e abuso d'ufficio. Per lei sono stati chiesti due anni. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono stati chiesto 2 anni. I tre sono: Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Loro devono rispondere di lesioni personali aggravate. In particolare gli agenti penitenziari sono accusati di lesioni aggravate e di abuso d'autorità nei confronti di arrestati o detenuti per aver, secondo l'accusa, il 16 ottobre del 2009 picchiato Cucchi nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell'udienza di convalida. Non solo gli agenti avrebbero anche sottoposto il 31enne stante "le continue lamentele, a misure di rigore non consentite dalla legge per farlo desistere dalla reiterate richieste di farmaci". Falso ideologico e abuso d'ufficio sono contestati a un medico e al direttore dell'ufficio detenuti per aver scritto cose non corrispondenti al vero nella cartella clinica di Cucchi relativamente alle sue condizioni generali di salute facendolo ricoverare in una struttura per pazienti non acuti, stabilizzati e non con politraumatismi come nel suo caso. Secondo la ricostruzione dell'accusa, in sostanza, sarebbero state precostituite le condizioni formali per coprire gli agenti penitenziari. Gli altri medici e i tre infermieri sono accusati di falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuto di atti d'ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto sono invece i reati contestati, sempre a seconda delle singole posizioni processuali. Secondo l'accusa, questi, "dal 18 al 22 ottobre abbandonavano Cucchi incapace di provvedere a se stesso", omettendo anche "di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo per altro certamente idonei ad evitare il decesso di paziente". Secondo l'accusa, questi, tra l'altro, omettevano "volontariamente di adottare qualunque presidio terapeutico al riscontri di valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica pericolosa per la vita, neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d'acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso". Secondo l'accusa gli stessi indagati, sempre "volontariamente": non avrebbero né svolto un "necessario" elettrocardiogramma né una "semplice palpazione del polso" per tenere sotto controllo la brachicardia; non avrebbero comunicato a Cucchi "l'assoluta necessità di effettuare esami diagnostici essenziali alla tutela della sua vita, limitandosi ad annotare gli asseriti rifiuti nella cartella clinica, motivati dalla volontà di effettuare colloqui con un avvocato, circostanza che omettevano di comunicare alla polizia penitenziaria"; non avrebbero trasferito Cucchi in un reparto più idoneo a curarlo; non avrebbero controllato il "corretto posizionamento o occlusione del catetere". Nella loro requisitoria i pm hanno affrontato le violenze subite da Cucchi. «È stato picchiato nelle celle del Tribunale di piazzale Clodio in attesa del processo di convalida perchè pretendeva cure per la sua crisi d'astinenza in cui probabilmente si trovava. Comunque quelle lesioni non ne causarono la morte» ha detto Barba. "I tre agenti di polizia penitenziaria non hanno mai chiamato il medico, dopo aver preso in consegna Stefano Cucchi, prima dell'udienza di convalida quella mattina", ha detto in un passaggio della sua requisitoria il pm Vincenzo Barba davanti ai giudici della corte d'assise di Roma. "Samura ha sentito il pestaggio che ha subìto Cucchi. Proprio il fatto che lui dice solo di aver ascoltato e non visto gli da proprio ulteriore attendibilità - ha detto parlando del cosiddetto 'supertestimone', un immigrato del Gambia che fu portato in carcere lo stesso giorno del giovane geometra poi deceduto - Samura ha parlato delle lesioni avute da Cucchi, ci ha mostrato come lui gli fece vedere il colpo ricevuto sulla gamba. E quando trovammo i pantaloni che aveva indosso la vittima abbiamo avuto l'ulteriore conferma della veridicità del racconto di Samura. Vedendo le “strisciate” di sangue all'interno della gamba del pantalone si capisce".  "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. ''Sin dall'inizio - ha sottolineato ancora - i pm hanno operato nell'ombra senza clamori mediatici emersi in seguito non certo per nostra volontà. Abbiamo voluto dare massimo spazio a tutte le parti in causa, a tutte le loro richieste. Ma l'impatto mediatico è divenuto sempre più invasivo, ci sono state ben due commissioni che hanno indagato contemporaneamente a noi e con evidenti interferenze. Ci sono state svariate interrogazioni parlamentari fino a numerosi tentativi di depistaggio da parte di personaggi che noi abbiamo inserito nella lista testimoniale''. "Ci sono tre punti chiave di questo processo: Stefano Cucchi fu picchiato mentre era in una cella di piazzale Clodio; fu ricoverato al Pertini pur essendo gravi le sue condizioni; la condotta del personale sanitario dell'ospedale fu caratterizzata da lacune, omissioni e incurie che rivelano un vero e proprio e stato di abbandono del paziente che essendo detenuto non poteva scegliere da chi farsi curare", ha proseguito il pm Barba durante la requisitoria . Il magistrato ha quindi aggiunto che il ricovero all'ospedale Sandro Pertini "per isolarlo dal mondo, dalla sua famiglia e nascondere quanto accaduto nelle celle di piazzale Clodio". E ancora: "Cucchi e la sua malattia sono stati trattati come una mera pratica burocratica come si evince dal certificato di morte, una farsa in cui si parla di morte naturale. Niente degli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi doveva trasparire dalla documentazione ospedaliera. In sostanza secondo il pm l'amministrazione penitenziaria si sarebbe fortemente impegnata per far ricoverare Cucchi al Pertini benché tale struttura sanitaria non fosse adeguata alle sue condizioni di salute. Per raggiungere tale scopo si attiva anche il funzionario del Prap (provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) Claudio Marchiandi. Giudicato con rito abbreviato in altro procedimento questi fu condannato a due anni di reclusione. Tale sentenza è stata capovolta nel giudizio di secondo grado, dove è stato assolto. Pendente il ricorso in Cassazione. "C'è un'evidente falsità di quanto scritto nella documentazione sanitaria da cui sembrerebbe che Cucchi stava benino", ha concluso Barba. E l'altro pubblico ministero, Maria Francesca Loy ha aggiunto: «Le lesioni che aveva Stefano non sono neanche una concausa della sua morte ma hanno valenza occasionale. Cucchi - ha sottolineato il pm - è morto perché non è stato alimentato, non è stato curato, rifiutava di cibarsi e nessuno dei medici si è preoccupato di farlo nutrire». Per il pubblico ministero Loy, Cucchi «è morto di fame e di sete». La magrezza del 31enne viene paragonata a quella «dei prigionieri di Auschwitz». «Tutti noi possiamo immaginare le conseguenze di uso di droghe su un corpo umano per vent'anni. Assumeva ogni tipo di sostanza stupefacente, soffriva inoltre di crisi epilettiche dall'età di 18 anni. Dal 2001 al 2009 ha compiuto ben 17 accessi al pronto soccorso dell'ospedale Vannini, una media di due all'anno». Secondo il pm, quello dei medici «non è stato un comportamento colposo, ma chiari indici di indifferenza nei confronti del paziente». «Il dolo è configurabile in tutte le manifestazioni. Non stiamo dicendo che i medici e gli infermieri hanno voluto far morire Cucchi, ma davanti al rifiuto di un paziente maleducato, cafone e scorbutico, hanno accettato il rischio che potesse morire» spiega Loy. «Non c'è dubbio che nei comportamenti dei sanitari ci siano profili di imperizia. La condotta dei medici ha determinato la morte di Cucchi», anche se «non stiamo parlando di un giovane sano», ha concluso. Forti della super perizia chiesta dal tribunale e che – attribuendo il decesso alle mancate cure - dà loro sostanzialmente ragione sulla scelta di non contestare il reato di omicidio per le percosse subite dal 31enne dopo l’arresto, i pm hanno aperto la loro requisitoria accusando chi, a loro avviso, ha voluto speculare fin dall’inizio sulla vicenda: «Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi», ha detto Barba. Un processo che la pubblica accusa – coprotagonista di aperte polemiche con i familiari del giovane - non ha esitato a definire «mediatico». «I mass media - ha sostenuto ancora il pm - hanno influenzato l'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo». "Cucchi era una persona di una magrezza patologica di quelle che abbiamo visto di rado, per lo più nei film che raccontano quanto successo ad Auschwitz". Cosi il pm Maria Francesca Loy nel corso della sua requisitoria davanti alla III Corte d'Assise. Il magistrato quindi ha affrontato la questione delle lesioni riportare da Cucchi: "Secondo tutti i periti sono modeste anche se dolorose - ha detto - Siamo convinti che le lesioni cagionate dalla penitenziaria siano state, più che un pestaggio, probabilmente una spinta o un calcio che lo ha fatto cadere a terra. Una violenza gratuita inflitta nei confronti di un detenuto che in quel momento teneva un comportamento ritenuto insopportabile". "Stefano Cucchi era lungi da essere un giovane, sano e sportivo - ha aggiunto - era tossicodipendente da circa trent'anni con gli effetti devastanti che ciò comporta per il corpo di una persona. Soffriva inoltre di crisi epilettiche da quando aveva 18 anni. Due volte all'anno circa negli ultimi dieci anni si e' recato al pronto soccorso per traumi, abusi d'alcol. Non e' normale per un giovane sano. Periti definiscono le sue condizioni di grave deperimento organico. Durante la degenza al Pertini ha perso dieci chili". "L'unica lesione comprovata dalla perizia è quella della vertebra sacrale – continua il pm Maria Francesca Loy. - In termini di invalidità civile si può affermare che provocò un danno biologico inferiore al 9 per cento, quindi una lesione lieve, modesta, anche se dolorosa. Ma certamente non doveva portare ad un esito mortale". Il magistrato ha sottolineato che "i medici legali più famosi d'Italia si sono concentrati su questa vicenda". L'atto di violenza subita da Stefano Cucchi fu "gratuito e inutile". “Non servivano esperti per dirci la causa di morte - ha detto - Bastava vedere le foto”. Nel ricostruire quelle lesioni, il pm ha ricordato quanto riferito da un testimone ritenuto dagli inquirenti "credibile": il cittadino del Gambia, Samura Yaya, che la mattina del 16 ottobre del 2009 si trovava in stato di fermo nelle celle sotterranee del tribunale di Roma insieme a Cucchi. "Ho sentito quando loro davano calci - cosi il pm Barba leggendo la testimonianza di Samura che raccontava quanto sentì in quella cella - Lui è caduto e piangeva. Ho guardato dal finestrino e ho visto tre persone vestite di blu che lo trascinavano. Lui poi mi ha fatto vedere una ferita alla gamba". Il gambiano "non ha avuto niente in cambio che non fosse un suo diritto". Per Loy, il comportamento dei medici e degli infermieri del Pertini "non fu colposo, ma un chiaro sintomo dell'indifferenza che hanno avuto nei confronti di quel paziente". Nessun dubbio quindi per il pm sulla configurabilità del reato di abbandono di persona incapace nei confronti del personale che curò Cucchi al Pertini, stesso reato ipotizzato anche nel caso del naufragio della Costa Concordia. "Anche di fronte a un paziente maleducato, che rifiuta le cure e il cibo - ha aggiunto - non si doveva lasciar perdere, dagli esami erano evidenti le gravi condizioni, se cosi non fosse meglio cambiare mestiere". "I medici dell'ospedale Sandro Pertini, con condotte colpose o con imperizia o con negligenza, non hanno saputo individuare la patologia da cui era affetto il paziente Stefano Cucchi, di cui ne sottovalutarono le condizioni. L'evento morte era prevedibile". Era stato il parere dei periti (i milanesi Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla, Luigi Barana) incaricati dalla terza corte di assise di Roma di stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi. "La causa della morte di Stefano Cucchi - dice testualmente la perizia - per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche va identificata in una sindrome da inanizione". "Con il termine di morte per inanizione - scrivono i periti - si indica una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi". Secondo i pm, il processo mediatico ha reso per esempio reso difficile proteggere uno dei testimoni chiave, l'immigrato del Gambia, Samura Yaya, che la mattina del 16 ottobre del 2009 si trovava nella cella adiacente a quella di Cucchi nei sotterranei del tribunale di Roma. «Abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico», ha detto ancora il magistrato- Andando poi nel merito della vicenda, l’accusa si è soffermata a su un punto in particolare: «Il giorno del suo arresto dopo la convalida in tribunale ed il pestaggio, arriva la decisione di portarlo dal carcere all'ospedale Fatebenefratelli. Ma dalle 16.35 alle 19.50 lui resterà in una panchina, senza assistenza perché sono stati posti tutti i possibili ostacoli per impedire, rallentare. E tutto questo tempo per percorrere dieci minuti al massimo di strada, tra il Fatebenefratelli e Regina Coeli». Un atteggiamento che ha secondo i pm una motivazione ben precisa: «La necessità di evitare che occhi estranei vedessero. Per celare una situazione di precarietà»."Abbiamo avuto l'esigenza di tutelare Samura come fonte di prova - ha detto Barba - il clamore mediatico era diventato insopportabile. Ad un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi". Per determinare il momento in cui "Cucchi è stato aggredito - ha aggiunto il magistrato - rilevano le dichiarazioni dei familiari. Dopo l'arresto fu perquisita casa prima di andare a piazzale Clodio e in quell'occasione non fu notato niente di strano. Quando poi il padre incontrò Stefano in tribunale lo notò sofferente e con il volto tumefatto. Tutto ciò dimostra che l'aggressione avvenne prima dell'udienza. Il medico del tribunale che lo visitò, poi, per la prima volta certificò la presenza di lesioni. Lesioni che furono riscontrate anche dal medico di Regina Coeli che però trovò ostruzionismo da parte del personale del carcere per far trasferire il detenuto al Fatebenefratelli. Anche i medici di questa struttura decretarono la gravità delle condizioni di Cucchi".

Questa la verità requirente, dall’altra parte la verità storica riferita dai parenti della vittima. Versione della vittima che lo Stato dovrebbe tutelare e non degli imputati. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Affermare, o peggio alludere al fatto che noi non avessimo riferito ai carabinieri, durante la perquisizione in casa nostra, che Stefano avesse anche un'altra casa a Morena per nascondere la droga, da noi stessi poi ritrovata e denunciata, è un comportamento intollerabile oltre che incomprensibile. Tra l'altro nessuna indagine è stata fatta su chi l'abbia data a Stefano. I pm nella loro ansia accusatoria dimenticano che mio padre aveva regolarmente denunciato alla Questura la presenza di Stefano in quella casa - ha precisato Ilaria Cucchi, sorella della vittima - Io e la mia famiglia ci siamo sottoposti a questo processo lunghissimo e dolorosissimo. Continuiamo a sperare che si riconosca verità su quanto accaduto a Stefano e per questo riponiamo estrema fiducia nella Corte. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora , dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico».

Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così, scrive Luca su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: lo scorso gennaio, la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine. Perché la giustizia italiana è in tilt? «Perché le regole del nostro processo sono farraginose e insopportabilmente burocratiche. Perché, come in tutte le altre professioni, ci sono magistrati che lavorano il giusto e altri che lavorano troppo poco, finendo per ingolfare i tribunali; e poi si perde un sacco di tempo in procedure inutili », ci dice l’avvocato Nino Marazzita, esimio penalista, veterano di casi complessi come quello Moro e Pasolini. «Un esempio? La cosiddetta generalizzazione dei testimoni (obbligatoria da noi, ma inesistente in altri Paesi, come l’Inghilterra) che prima di dire in tribunale quello che sanno devono rispondere a domande del tipo: come si chiama? Quando è nato? Dove abita? Che lavoro fa? Eccetera eccetera. Totale: dieci minuti, in media, persi nei preliminari della testimonianza e cinque pagine almeno di verbale. Moltiplichiamo questi dati per le circa 3 milioni e 300 mila cause penali, ognuna delle quali ha in media cinque testimoni, e scopriremo che la “generalizzazione” ci costa 82 milioni e 5 0 0 mila pagine in u tili e 2.750.000 ore perse ogni anno». E poi c’è il problema delle indagini, troppo spesso sbagliate. «In Inghilterra, è dal 1890 che esistono manuali che spiegano come sterilizzare la scena di un delitto per evitare l’inquinamento delle prove», spiega Marazzita. «Da noi, invece, funziona ancora oggi tutto alla carlona. Ecco perché molte, troppe sentenze di primo grado vengono rovesciate in appello oppure in Cassazione». Sul banco degli imputati c’è il principe delle prove: il test del Dna. «E proprio così», spiega Marazzita. «Anche perché da noi si usa una tecnologia ormai datata che fornisce il risultato, spesso non risolutivo, in 40 giorni, mentre negli Stati Uniti bastano 2 ore e 15 minuti per avere delle certezze scientifiche molto più affidabili. Ecco perché Oltreoceano ci sono magistrati che risolvono, dopo decenni, i cosiddetti coldcase, mentre da noi si impasticciano anche le indagini più lineari o si creano casi spesso grotteschi». Tutto è relativo. C’è da chiedersi, perciò, con che stato d’animo, Alberto Stasi – unico indagato per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco – viva il ricorso in Cassazione (udienza, il 5 aprile) del Procuratore generale di Milano. Sottoposto a un provvedimento di fermo il 24 settembre del 2007, è stato liberato per l’insussistenza di elementi contro di lui quattro giorni dopo; assolto in primo grado; assolto in Corte d’appello con motivazioni durissime nei confronti dell’accusa, che, scrivono i giudici, delinea «un gioco di variabili multiple, di probabilità assolutamente caotiche e non solidali». «Confidiamo nella fine di questa odissea», ci dice l’avvocato Angelo Giarda, difensore di Stasi. «Certo è che, dopo tre sentenze uniformi, ci potevano risparmiare questo ulteriore passaggio. Alberto è vittima di una persecuzione dei pubblici ministeri». Morale della favola: non c’è un colpevole (e non ci sarà mai) per il delitto di Garlasco; Alberto Stasi ha bruciato quasi sei anni della sua vita; la sua famiglia ha speso una montagna di soldi per difenderlo. E previsto un indennizzo? «Ovviamente no», dice l ’avvocato Giarda. «Il codice non lo prevede perché costerebbe troppo allo Stato, il quale non chiederà nemmeno scusa». Il caso di Elisa caso di Elisa Claps è emblematico di quasi tutti i mali della giustizia italiana. «La Polizia aveva risolto il delitto poche ore dopo», ci dice l’avvocato Giuliana Scarpetta, legale della famiglia Claps. «Avevano messo nel mirino Danilo Restivo chiedendo il sequestro e l’analisi dei suoi abiti insanguinati: la verità sarebbe venuta a galla. Ma il magistrato si rifiutò. Ecco perché si sono persi 17 anni. Ora vogliamo chiarire ogni aspetto oscuro, sapere i nomi di chi ha coperto l’assassino. Noi non ci arrendiamo». La famiglia di Yara, invece, sembra prossima a gettare la spugna. «A quasi tre anni dal l’assassin io del la ragazzina e per lo stato delle indagini», ci dice l’avvocato Enrico Pelillo, legale della famiglia Gambirasio, «si può ragionevolmente sospettare che non ci sarà mai un processo». L’ennesimo delitto senza colpevole; l’ennesima sconfitta della Repubblica italiana.

SEI IN CARCERE? CREPA!

Se sei malato in galera, crepa, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. Ci sono detenuti con il cancro, la leucemia, il diabete, l'Alzheimer, l'epilessia. Per non dire dei disabili. E nelle carceri italiane sono quasi sempre abbandonati come bestie. Una vergogna a cui bisogna mettere fine. Antonio respira a fatica, si trascina zoppicando appoggiandosi al muro. I suoi passi lenti dalla cella all'infermeria sono un calvario quotidiano che percorre quasi nell'oscurità. Il diabete gli ha portato via la vista e il piede sinistro è ormai consumato dalla cancrena. Michele, invece, quando è entrato a Rebibbia pesava più di novanta chili. Oggi, divorato dall'anoressia, non arriva a trentotto. Nei penitenziari italiani Antonio e Michele non sono eccezioni. L'elenco di reclusi con patologie gravi è sterminato: ci sono persone colpite dall'Alzheimer e dal cancro, leucemici ed epilettici come ha raccontato "l'Espresso" un mese fa. Dati ufficiali non esistono ma secondo le stime di alcune associazioni - tra cui Antigone e Ristretti Orizzonti - il 47 per cento dei detenuti ha bisogno di assistenza per seri problemi medici o psicologici: quasi 31 mila persone tra le 66 mila e 685 rinchiuse negli istituti di pena. Adesso il caso di Angelo Rizzoli ha permesso di aprire uno squarcio su questi drammi: i legali hanno denunciato la situazione dell'editore settantenne arrestato per bancarotta, provocando interrogazioni parlamentari e l'intervento del Guardasigilli. Rizzoli soffre di sclerosi multipla ma nella sezione detenuti dell'ospedale Pertini di Roma non c'è la possibilità di fisioterapia e quindi il morbo stava avanzando. Il Tribunale del Riesame gli aveva negato la possibilità di andare ai domiciliari ma adesso il gip lo ha autorizzato: potrà curarsi in un centro adeguato. Più a Nord, nel carcere di Busto Arsizio esiste un reparto di fisioterapia completamente attrezzato: non è stato mai aperto. Uno spreco e un paradosso rispetto al panorama disastroso delle prigioni italiane: ci sono istituti clinici solo in tredici penitenziari su 207. La Corte europea dei diritti dell'uomo è stata perentoria: «Le disfunzioni strutturali del sistema penitenziario non dispensano lo Stato dai suoi obblighi verso i detenuti malati».Chi non assicura terapie adeguate viola la Convenzione europea e all'Italia sono già state inflitte diverse condanne. L'ultima lo scorso gennaio: un detenuto di Foggia, parzialmente paralizzato e costretto a scontare la pena in una cella di pochi metri quadrati, verrà risarcito per il danno morale. Una sentenza poco più che simbolica: lo Stato dovrà pagargli 10 mila euro. Spesso però il danno più grave viene dalla burocrazia, che impedisce di fatto le cure specifiche. L'acquisto dei farmaci deve essere autorizzato dal direttore, mentre i ricoveri e persino le visite urgenti passano attraverso procedure lente e complesse, con effetti disumani. Certo, bisogna impedire le fughe e i contatti con l'esterno: il trasferimento in centri clinici è uno strumento utilizzato soprattutto dagli uomini di mafia per evadere o mantenere i rapporti con i clan. Ma, a causa della carenza di mezzi e organici, troppe volte diventa impossibile organizzare il trasporto in ospedale, che prevede la sorveglianza costante da parte degli agenti. Così soltanto a Roma nelle ultime settimane quattro persone sono morte nei penitenziari. Anche i disabili faticano a ricevere assistenza adeguata. Nelle carceri italiane sono quasi mille. Come Cataldo C., 65 anni, detenuto a Parma per reati di droga. Nel 1981 è stato colpito da un proiettile e il trauma midollare lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Da allora deve sottoporsi a una particolare terapia riabilitativa, la idrokinesiterapia, con iniezioni al midollo spinale, per alleviare il dolore e permettergli un parziale recupero. I medici hanno più volte dichiarato la sua totale incompatibilità con il carcere, che fra l'altro non ha ambienti idonei per chi si muove sulla sedia a rotelle. Le istanze presentate dal difensore Francesco Savastano sono state bocciate e oggi l'uomo non può più neppure sottoporsi alle iniezioni: Cataldo C. ha perso anche quel poco di mobilità che era riuscito a recuperare grazie alle cure. Dietro le sbarre moltissimi detenuti si ammalano di anoressia. Arrivano a perdere più della metà del peso e si riducono a larve umane, esposte a traumi e infezioni. Alessio M., 48 anni, dal 2011 è recluso ad Avellino, in attesa di giudizio per usura. A raccontare la sua storia attraverso l'associazione "Detenuto Ignoto" è la moglie Lucia: «Soffre di una forma di idrocefalo che gli provoca mal di testa lancinanti, parzialmente curati con un drenaggio alla testa di cui è tuttora portatore». E' riuscito a ottenere i domiciliari solo per pochi mesi. Poi, con il ritorno in cella, è cominciata anche l'anoressia. Inevitabile che la detenzione provochi o amplifichi disturbi mentali. Spiega l'associazione Antigone, tra le più attive nel denunciare l'abisso dei penitenziari: «Molto spesso arrivano sani, o magari con una lieve tendenza alla depressione, e nel giro di qualche mese la loro mente precipita nel buio». E' il caso di Osvaldo G., 57 anni, detenuto a Reggio Calabria. Invalido e affetto da dieci gravi diverse patologie allo stomaco, al pancreas, al fegato e ai reni, è in carcere da più di un anno per aver danneggiato la porta dell'ufficio di un uomo con il quale aveva litigato. In cella deve condividere il wc alla turca con altri quattro reclusi. Durante il giorno ha violenti conati di vomito e fitte di dolore che lo costringono a letto. Ha diritto a quattro ore d'aria, ma non riesce a uscire: vive sempre in una cella gelida d'inverno e torrida d'estate. L'affollamento rende praticamente impossibile la pulizia personale, che nelle sue condizioni dovrebbe essere ancora più accurata. Nella débâcle del nostro sistema carcerario anche assistere i diabetici è difficile: secondo l'Associazione medici dell'amministrazione penitenziaria italiana sono circa il 5 per cento dei reclusi. Oltre tremila persone che devono fare i conti con un duplice ostacolo. Le dosi di insulina che devono farsi iniettare quotidianamente e più volte al giorno a volte sono irreperibili. La mensa interna non è in grado di garantire i pasti totalmente privi di zuccheri e scarsi di amidi, gli unici compatibili con la loro condizione. Secondo il regolamento, il detenuto diabetico avrebbe diritto all'insulina 3-4 volte al giorno e a una dieta personalizzata. La realtà però è molto diversa. L'associazione Ristretti Orizzonti si è occupata attraverso l'avvocato Davide Mosso del caso di un detenuto algerino di 36 anni, Redouane M., trovato senza vita nel reparto psichiatria del carcere di Monza. L'uomo - diabetico, epilettico e con diagnosi di disturbo borderline - il giorno prima della morte si era rifiutato di prendere l'insulina e i medici del carcere non gli avevano fatto la somministrazione forzata. Ancora più penalizzati gli anziani. Soli e malati, spesso restano dietro le sbarre anche dopo i 70 anni, il limite di età previsto dal nostro codice penale. Nel carcere di Cagliari è rinchiuso ad esempio Carlo F., 75 anni. Soffre di cardiopatia ischemica dovuta a tre infarti al miocardio, claustrofobia e morbo di Parkinson. Ad aggravare la situazione fisica c'è la depressione che, insieme all'ansia, gli provoca un'accentuazione del tremore al punto da fargli cadere gli oggetti dalle mani. Le sue istanze per ottenere i domiciliari sono rimaste inascoltate. E solo di recente gli è stata concessa una cella con un wc normale, e non quello alla turca, inagibile per un anziano.

Carceri, se questi sono uomini, scrive Paolo Biondani e Arianna Giunti su “L’Espresso”. Malati con cancro e Aids senza cura. Donne con neonati in gabbia. Sporcizia dovunque. Le testimonianze dei prigionieri. Il ladro di biciclette. L'alcolista senza tetto che ha rubato un panettone. L'ex tossicodipendente che è evaso dalla comunità perché non gli facevano vedere la figlia. Il detenuto con un tumore al cervello. Il ventenne devastato dalla cocaina che dorme sul pavimento di una cella fradicia. Lo straniero che lavorava in nero nei cantieri, con la crisi è finito a vivere per strada e ora è dentro per furto di cibo. L'anziano paralizzato in carrozzella. La mamma italiana arrestata con una piccola dose di droga che è costretta a crescere in prigione la figlioletta di undici mesi. Il carcere in Italia è una discarica sociale. Dopo anni di proclami sul giusto processo e il garantismo, il nostro Paese ha il record assoluto di condanne inflitte dalla Corte europea per condizioni di detenzione disumane. Per descrivere il male di vivere nei penitenziari, "l'Espresso" ha raccolto testimonianze dirette dei detenuti, che si raccontano in una serie di lettere. Scritti (e disegni) disperati, confermati dai documenti giudiziari e dai referti sanitari forniti da avvocati, medici e volontari delle più note associazioni ed enti di tutela. Tra tante, troppe storie di dolore e ingiustizia, ne sono state selezionate alcune rappresentative dei drammi più diffuse tra le oltre 65 mila persone rinchiuse nei penitenziari italiani, che dovrebbero al massimo contenerne ventimila di meno. Il detenuto L. è un italiano di 38 anni con un cumulo di piccoli precedenti per droga. In cella ormai da nove anni, ha il virus dell'Hiv e l'epatite, come molti ex tossicodipendenti, ma ha anche un tumore al cervello, per cui ha già subito due interventi chirurgici. Oggi non è nemmeno in grado di scrivere: la sua storia è raccontata nelle carte dei medici dell'associazione Antigone. Sballottato da un carcere all'altro, tra Genova, Firenze e Pisa, L. non riesce a curarsi con i farmaci salvavita, anche perché la terapia anti-cancro risulta incompatibile con quella contro l'Aids. Quindi il tumore al cervello continua a riformarsi. Due anni fa tenta per la prima volta il suicidio. In estate, la beffa: ottiene finalmente la detenzione domiciliare, ma dopo una settimana esce di casa («Dovevo solo buttare l'immondizia», giura, senza essere smentito) e viene riarrestato per evasione. Imprigionato a Rebibbia, non può fare la chemioterapia, perché mancano agenti per scortarlo in ospedale. Pallido, magrissimo, perde sangue dalle feci e rifiuta le medicine. Il resoconto sanitario si chiude con queste parole: «Ha tentato di nuovo di uccidersi inghiottendo tre tagliaunghie». Nel dicembre scorso il tribunale di sorveglianza ha disposto una nuova perizia medica. Nell'attesa L. resta in prigione. Fine pena: 2016. «Se non muore prima», è l'amaro commento dell'avvocata Simona Filippi, responsabile legale di Antigone. Il detenuto M., italiano di mezza età, ha un passato di alcolista senza tetto: scrive di aver vissuto per anni «nei boschi attorno a Roma». Arrestato e condannato per piccoli furti (rubava cibo e sigarette), non viene curato, ma imprigionato. A Rebibbia riceve farmaci contro l'epilessia che provocano incontinenza: di notte non riesce a trattenere urina e feci. Nessuno lo vuole vicino. La sua lettera è straziante: «Da tre mesi la mia malattia si è aggravata e non trattengo più nulla. Per le paure e la depressione il mio cervello sta perdendo i pezzi. Ora mi trovo in cella con altri due detenuti, uno è psicopatico, l'altro fa lo sciopero della fame. Quando vado in depressione mi abbraccio nel bagno e piango. Sono diventato un maiale nel suo porcile. Per favore aiutatemi, mandatemi uno psicologo». Il primo choc per tutti i carcerati è il sovraffollamento. L'italiano V., detenuto a Ivrea, descrive così la sua cella: «Questo è un piccolo carcere che dovrebbe contenere non più di 150 detenuti, ma ne ospita il doppio. La mia cella è predisposta per un detenuto, in realtà siamo in tre: misura 4 metri per 3. Il bagno è senza acqua calda: in realtà è solo un wc non separato dal cucinino. C'è molto freddo, dalle finestre entrano spifferi diabolici. E il lavoro è un privilegio per pochi. Io sono sepolto vivo 24 ore su 24. Che carcere è questo, dove non sono rispettati il minimo della dignità e della salute?». Cinque ventenni tunisini, rinchiusi a San Vittore, hanno disegnato il loro angolo del "sesto raggio" in una lettera spedita agli avvocati dello studio Losco-Straini. «In ogni cella siamo in sei: due metri quadrati a persona, ma buona parte del locale è occupato dai due letti a castello su tre livelli, che chiudono anche l'unica finestra, per cui non c'è mai ricambio d'aria. Il davanzale è coperto da strati di escrementi di piccione. La cella è infestata di scarafaggi, la porta resta chiusa per venti ore al giorno, le docce sono comuni a tutto il reparto...». I cinque ragazzi non avevano commesso alcun reato: nel gennaio 2012 sono stati rinchiusi al Cie di via Corelli solo perché erano senza permesso di soggiorno. Quando è scoppiata l'ennesima rivolta, sono stati arrestati con l'accusa di "devastazione". A Crotone il tribunale ha assolto tre stranieri come loro, giudicando «legittimo» ribellarsi contro strutture«indecenti e disumane». A Milano invece i tunisini sono stati condannati senza attenuanti e rinchiusi nel raggio che ha impressionato il presidente Giorgio Napolitano. Da Monza un ventenne lombardo arrestato per scippo (cercava i soldi per la cocaina) scrive che è costretto a dormire «su un materasso per terra, in una cella piccolissima, dove fa freddo e le pareti sono fradicie d'acqua».Gli avvocati delle Camere penali confermano che nella ricca città brianzola «675 detenuti sono stipati in stanze che dovrebbero ospitare solo una persona, ma ne contengono quattro, con due letti e due materassi stesi a terra, perché ben 83 celle sono state chiuse per allagamenti e infiltrazioni». Da Lecce il detenuto F. spiega: «Siamo in tre in una cella singola dove spesso restiamo senza acqua e senza luce»; «d'inverno fa freddo e d'estate con il caldo l'aria diventa irrespirabile soprattutto per me che sono cardiopatico»; «il passeggio è coperto da un rete metallica piena di escrementi»; e «per risolvere il problema della mancanza di spazio ora ci vengono sequestrati gli indumenti». Dalla Toscana A. protesta, con feroce autoironia: «Quattro metri quadrati a testa non sono uno spazio consono a un essere umano, visto che una legge ne garantisce un minimo di sette ai suini». I più soli e disperati sono i tantissimi stranieri (e italiani) che non hanno neppure un amico o parente che possa visitarli e aiutarli. Mohamed, 25 anni, è arrivato in Italia tre anni fa senza permesso. Essendo clandestino, poteva lavorare solo in nero. Per due anni è stato reclutato a giornata dai caporali in piazzale Lotto a Milano: operaio invisibile nei cantieri delle grandi opere. Con la crisi ha perso anche il lavoro nero. Senza casa, senza famiglia, ha dovuto«dormire per strada e vivere di elemosina», come spiega agli avvocati dello studio Di Leo-Bottino. Un giorno ha rubato cibo in un centro commerciale: arrestato e condannato a 8 mesi, ha ottenuto la condizionale. Ma la sospensione della pena vale solo la prima volta. Tornato all'addiaccio, è stato riarrestato per un secondo furto di scatolame. Ora è in cella e deve scontare entrambe le condanne: il ladro per fame uscirà nel 2014. Ma non si lamenta:«Stare in carcere è meglio che dormire al gelo». Il carcere è una tragedia anche tra bambini e genitori. Oggi sono 60 i minori di sei anni (età media, 12 mesi) che crescono in cella con le mamme per mancanza delle strutture alternative, in teoria previste da un decennio dalla legge Finocchiaro: a Milano funzionano, nel resto d'Italia no. Ma c'è anche il problema dei minori con un genitore o entrambi in carcere. «Sono circa centomila», stima Lia Sacerdote, presidente di Bambini senza sbarre, l'associazione che ha creato a San Vittore uno "spazio giallo" per ridurre lo choc delle visite.«E' un problema nel problema: i genitori si vergognano di parlare dell'arresto e i figli li colpevolizzano pensando di essere stati abbandonati». Nella sede dell'associazione c'è G., una bella mamma italiana con la vita distrutta da sei grammi di eroina: «Ero tossicodipendente, mi hanno arrestata nel '97 e condannata a sei anni. Mia figlia aveva 11 mesi, è rimasta in cella con me fino ai tre anni. Una suora buona la portava di nascosto a vedere il papà, anche lui detenuto nell'ala maschile. Quando ha compiuto tre anni, me l'hanno tolta di colpo: la mia piccolina piangeva disperata, fu il giorno più brutto della mia vita. Dopo la scarcerazione, sono impazzita per riaverla. E' tornata con me a 13 anni. Ma nel 2011 mi hanno riarrestata. Mi hanno considerata complice di uno spacciatore veneto che non vedevo dal 1997, solo perché mi telefonava lui. Mi hanno processato come irreperibile, l'avvocato d'ufficio non mi ha mai avvertito: ho saputo del processo solo dopo la Cassazione. Quindi sono finita nel carcere di Como, che è veramente un inferno. Condannata a due anni ingiustamente, lo giuro. Questa estate è morto il mio compagno. Non ho avuto il permesso di andare al suo funerale. Mia figlia mi vuole molto bene, ma io non ce la faccio più. Oggi ho potuto finalmente vedere la tomba del mio uomo. Accanto c'è un loculo vuoto. Ho pensato: aspetta me». La lettera dell'italiano F. alla comunità Saman sembra quasi il manifesto di una generazione bruciata tra droga e prigione: «Ho 46 anni, metà della mia vita l'ho trascorsa in carcere: ho fatto solo furti e piccole rapine, sempre per avere i dieci euro per la dose, ma ogni volta mi condannavano a 3-4 anni. Non mi è stata data mai la possibilità di curarmi, di avere una misura alternativa al carcere. In cella a Favignana, a Sulmona e poi al Nord ho visto tantissimi casi come il mio: ragazzi che non sono delinquenti, ma hanno solo un problema, la droga». «Due terzi dei detenuti sono in cella per tre sole leggi», lamenta Riccardo De Facci, responsabile del coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza: «La Fini-Giovanardi sulla droga, le norme penali della Bossi-Fini sull'immigrazione e la ex Cirielli che punisce chi ha precedenti. Tre leggi che creano un circuito criminogeno che blocca le misure alternative e fa saltare tutti i percorsi di rieducazione». Gli effetti repressivi delle nuove norme sugli stupefacenti, arrivate a equiparare gli spinelli all'eroina, si sono aggravati proprio con la ex Cirielli, la famigerata legge berlusconiana che salva con la prescrizione politici corrotti e grandi evasori, ma toglie ogni speranza al popolo dei recidivi: chi ha già subito condanne anche lievi, viene bersagliato di aggravanti e paga carissimo ogni nuovo reato anche minore. Il detenuto C., 45 anni, scrive a Saman dal carcere di Velletri: «Ho rubato un panettone per fame e sto scontando 26 mesi di reclusione. Sogno di rifarmi una vita e voglio aiutare gli altri». Il signor A., 64 anni, è un ex operaio diventato alcolista e senza tetto dopo la morte del figlio e il licenziamento. Già incarcerato per aver rubato scatole di tonno e alcolici al supermercato, nel settembre 2011 è stato riarrestato per furto di una bicicletta. Condannato a tre anni e mezzo, sta scontando nel carcere di Monza. L'avvocata Antonella Calcaterra, referente nazionale per il carcere delle Camere penali, mostra indignata il casellario del detenuto T.: «Ha quasi 50 anni e ne ha vissuti trenta da tossicodipendente. Ha commesso solo piccoli furti. Dopo ogni scarcerazione, violava l'obbligo di non uscire di casa la notte e in questo modo ha accumulato nove pagine di mini-condanne per evasione. Riarrestato nel 2008, avrebbe meritato sei mesi di cella, ma la ex Cirielli gli ha resuscitato tutte le condanne precedenti per le evasioni da casa: la pena finale ha raggiunto l'assurdo tetto di 13 anni e sei mesi».

SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?

Chi mangia sulle carceri-lager, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Mentre in galera le condizioni sono sempre più disumane, emergono le spese folli dei super dirigenti: foresterie con Jacuzzi in terrazzo, tivù da sessanta pollici e tappeti persiani (ma anche scopini da bagno pagati 250 euro l'uno). Il vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena. Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell'amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano. Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l'incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto-terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idromassagio, in salotto ci sono tv da sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno. L'elenco di queste spese "fuori norma" è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana. I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone. «Più volte ho denunciato l'insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto», ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l'unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l'amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare«non una ma dieci volte». A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l'amministrazione penitenziaria, ma l'88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni. Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze. Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per il circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri. La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l'emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d'Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l'anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria. La cronica carenza di stanziamenti oggi ha azzerato gli investimenti per nuovi padiglioni e l'assenza di manutenzione ha determinato la chiusura o il completo abbandono di intere sezioni che «attualmente si trovano in condizioni strutturali e igieniche assolutamente incompatibili con le finalità penitenziarie per cui gli spazi a disposizione dei detenuti si sono ulteriormente ridotti». Ma invece di fare passi avanti, si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c'è «un numero eccessivo di istituti»: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l'Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni. Tutt'altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobiche, con tre-quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce. Anche il primato nel rapporto tra detenuti e agenti penitenziari resta teorico: si continua a discutere della carenza di personale di custodia mentre una moltitudine di agenti è in servizio nel ministero di via Arenula, negli uffici periferici regionali o viene distaccato ad altri incarichi, lasciando sguarniti i raggi delle celle. «E' assolutamente chiaro che si sia sbagliato qualcosa», si legge nella relazione del Dap al Consiglio d'Europa, «così com'è chiaro che proprio ragionare su questi apparenti paradossi costituisca il corretto approccio per provare, almeno, ad allineare il sistema penitenziario italiano a quello degli altri Stati europei». Nell'ultimo anno i vertici del Dap hanno cercato di cambiare la rotta. Con investimenti limitati, evitando gli sprechi, hanno ristrutturato alcune sezioni degli istituti, realizzando 4.630 nuovi posti. La nuova legge sugli arresti domiciliari, che permette di scontare in casa condanne inferiori ai dodici mesi, ha fatto uscire quasi novemila detenuti. Su altri 6.000 con pene fino a due anni si devono pronunciare i giudici di sorveglianza. Nonostante questo l'emergenza continua. Ad affollare le carceri sono soprattutto gli extracomunitari: ben 24 mila, con una predominanza di cittadini marocchini e tunisini. La maggioranza dei detenuti è accusata o condannata per reati contro il patrimonio: 34.583 sono finiti dentro per furti, rapine, estorsioni, ricettazione, usura, frodi, riciclaggio. Altri 26.160 hanno commesso reati legati alla droga; 24.090 sono accusati di crimini contro la persona come violenze e omicidi; 10.425 invece devono scontare pene per armi. I colletti bianchi in cella per reati contro la pubblica amministrazione come corruzione e concussione invece sono 8.307. Su 65mila reclusi, solo 604 sono laureati, di cui 176 stranieri: altri 21 mila hanno la licenza di scuola media inferiore. E gli unici a potere contare su celle comode, con uno o due letti per stanza, sono mafiosi e terroristi sottoposti a regime di media e massima sicurezza: settemila persone, tra cui 133 donne. Ma questa esigenza ha provocato un altro squilibrio, con la necessità di riservare numerose sezioni a questi sorvegliati speciali, aumentando la ressa nelle altre. Dopo l'indulto varato dal governo Prodi nel 2007, i cui effetti sul sovraffollamento sono stati vanificati nel giro di tre anni, di fatto non ci sono stati interventi. Con la solita logica emergenziale, nel 2010 il ministro Angelino Alfano ha elaborato un piano straordinario per l'edilizia carceraria. E' stato nominato un commissario con ampi poteri e risorse finanziarie: nei proclami iniziali si parlava di 700 milioni di euro, poi i soldi sono spariti. Oggi sono in fase di avvio i lavori per costruire un paio di padiglioni mentre tutto il programma iniziale è stato riesaminato secondo criteri di efficienza dal nuovo commissario straordinario. Nel piano Alfano, oltre alla nomina di consulenti amici del politico, sono stati pianificati tanti cantieri ignorando le situazioni più urgenti o le esigenze dei territori. Come il caso del carcere che si voleva edificare a Mistretta, nel Messinese, eliminato in fretta dalla mappa. Un vecchio vizio: negli anni Ottanta lo scandalo delle carceri d'oro ha dimostrato come i nuovi penitenziari erano stati edificati solo in base a logiche politiche, di collegio elettorale o di tangente, senza guardare alle necessità dei detenuti. Che spesso sono obbligati a rimanere concentrati negli istituti più vicini alle sedi dei processi. Ma anche in tempi recenti le nuove prigioni sono diventate l'occasione per rapidi arricchimenti. Durante la gestione del Dap guidata da Franco Ionta ha destato curiosità la figura del "responsabile unico di progetto" che a norma di legge intascava il 2 per cento dell'opera. A firmare era sempre lo stesso funzionario, un tecnico, sostituito poi da un magistrato: lo stesso Ionta. Oggi nella campagna elettorale la questione delle carceri è stata ignorata. Solo i Radicali hanno continuato senza sosta a proporre il problema. E ora toccherà al nuovo Parlamento dare risposte concrete per uscire da quella che il presidente ha definito una «situazione mortificante», ribadendo senza mezzi termini: «Sono in gioco l'onore e il prestigio dell'Italia».

Il lavoro dei detenuti? E' un business, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”.

La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali. Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354. Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono 'empirici') ma è anche un'opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d'opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. E' un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano. La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall'associazione Antigone, 'Senza dignità', il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: "Nel primo semestre 2012" recita il report "a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi". Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario. "Quello che si tende a dimenticare" spiegano dall'osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane "è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio". Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese. La mercede viene calcolata da un'apposita commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria. "Questa è la teoria" continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti "la pratica è un po' diversa. Tanto per cominciare la commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro". Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all'interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perchè il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010, ai 9,3 del 2011 ai 3,2 del 2012. Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante. Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del CCNL (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa. Un silenzio difficile da scalfire. "Solo da poco siamo riusciti a penetrare l'ambiente del carcere" conferma Corrado Mandreoli, della CGIL di Milano "Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione". Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un'industria metalmeccanica. "Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l'azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l'orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi". Un altro problema riguarda la buona fede delle cooperative. Se la stragrande maggioranza di loro offre lavoro, istruzione e reale riscatto, altre approfittano della situazione e non negano di aver trovato la "Cina in Italia". La ragione è semplice. Per ogni detenuto impiegato ricevono, per effetto della legge Smuraglia, 516 euro di credito di imposta. In questo modo non solo hanno un lavoratore che costa poco e che non si lamenta, ma anche la cui sola presenza consente loro di risparmiare su tutti gli altri. Un quadro difficile pensato per aiutare i carcerati e che invece, nei casi peggiori, può degradarne ancora di più la situazione. "Il problema del lavoro dei detenuti c'è" conferma il vice direttore del DAP Luigi Pagano "e ha grandi dimensioni. Non riguarda solo i singoli abusi di singoli datori di lavoro in malafede, ma in senso più ampio il sistema. Il lavoro penitenziario va profondamente ripensato e riformato, e soprattutto agevolato. La legge Smuraglia, per la quale sono arrivati ora, in modo rocambolesco e che non sapremo se si ripeterà, 16 milioni di euro, non basta. Spesso per le aziende far lavorare i detenuti è complesso e costoso, dunque se possono, evitano. Allo stesso modo per i detenuti lavorare è incompatibile con gli obblighi carcerari e legali della loro condizione, come l'ora d'aria o i colloqui". Ad oggi però di riforma non si parla, anzi, si valuta un nuova legge che porti a 1000 euro il credito di imposta per le aziende, e renderebbe ancora più appetibile la forza lavoro dietro le sbarre, con il pericolo di attirare ancora di più i "furbetti dell'esenzione fiscale", in cerca di agevolazioni. I carcerati però devono lavorare e con compensi adeguati. Lo prevede la legge, lo richiede il loro benessere e la sicurezza di tutti. Dunque come fare? La soluzione, forse un po' naif, la propongono proprio gli analisti e i volontari di Ristretti Orizzonti: "Bisogna disinnescare il meccanismo che rende il lavoro dei detenuti, con i mille limiti del caso, un business per le imprese e non un'opportunità vera per i detenuti. Se questi soldi fossero gestiti direttamente dallo Stato e non dalle cooperative o dai privati sarebbe meglio per tutti: per le casse dello Stato che non dovrebbero elargire esenzioni, per i detenuti, i cui diritti sarebbero più al sicuro e anche per le imprese che non si sobbarcherebbero l'onere retributivo di dipendenti che, per motivi oggettivi di orario e altro, spesso rendono meno di altri".

Il Lettore scettico, disabituato al racconto dei fatti umani senza pregiudizi sociali od ideologici, ovvero conditi da ignoranza od approssimazione, si chiederà: perché leggere questo libro e non la miriade di lavori aventi lo stesso tema, stilati da più o meno autori improvvisati ed estemporanei?

Per prima cosa perché tale opera è citata più di altre nei canali d'informazione come punto di riferimento ed addirittura indicata da Wikipedia come resoconto ufficiale del "Delitto di Avetrana".

Per seconda cosa perché il lettore, assuefatto alla cultura omertosa e censoria imperante, proverà a leggere i fatti, scritti senza peli sulla penna e basati sulla conoscenza diretta: insito nello stile di Antonio Giangrande, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" da poter leggere gratuitamente sui suoi canali web, in quanto nessun editore ha voluto pubblicare i suoi volumi.

Chi legge questo libro, aggiornato periodicamente e da scoprire fino all'ultima pagina, si immergerà nella vicenda umana con riferimento ai fatti della società italiana che fanno da corollario ai fatti di cronaca, divenuti storia.

Si inizia per dire che, a proposito del delitto di Sarah Scazzi....ad Avetrana non è venuto alcun giornalista degno di questa qualifica. Il vero giornalista la notizia la cerca nel luogo dell'evento e la dà al pubblico: certamente non la crea. Egli riporta il fatto e poi, se è capace, dà il commento. Ad Avetrana il commento sul luogo e sull'evento (spesso frutto di pregiudizio e/o ignoranza) è diventato un fatto, oggetto di disquisizioni salottiere!!!

BUONA LETTURA....... 

Per rimembrare ed a futura memoria si presenta al mondo la composizione e l'elaborazione di un'opera di didattica e di ricerca senza influenze ideologiche, territoriali e temporali. Opera di me medesimo, Antonio Giangrande, autore di decine di libri di inchiesta e di denuncia. Scrittore non omologato, quindi osteggiato da media ed istituzioni e per questo poco conosciuto.

La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perché "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sé, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento verticale, criminale e vessatorio, di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso e non recedo mai dal dire: la mafia ti distrugge la vita, lo Stato ti uccide la speranza.

ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.

Partiamo dall’aspettativa di giustizia che hanno le vittime (ed i loro familiari). La mamma di Sarah, Concetta Spagnolo Serrano, non crede nella giustizia. «La morte di Sarah è un segreto che si porteranno sempre dentro Cosima e Sabrina». Queste alcune delle parole di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, raccolte dall'inviato di Quarto Grado e in onda su Retequattro alle 21.10 del 7 settembre 2012. «Quel 26 agosto - racconta Concetta Serrano parlando con l'intervistatore del giorno della scomparsa della figlia quindicenne - ho avuto l'impressione che a Sarah fosse accaduto qualcosa di grave, ma non sapevo di preciso cosa. Mai avrei immaginato nulla del genere». «Mia figlia - afferma la donna - è stata vittima della cattiveria di Sabrina e Cosima. Il fatto che mia sorella, insieme alla figlia, abbiano rincorso Sarah, mi fa pensare a qualcosa di più squallido della gelosia. Secondo me oltre a quello ci sono altre cose». «In questi mesi non ho mai avuto il desiderio di parlare con loro semplicemente perché tanto, vigliaccamente, non si assumono le loro responsabilità dicendo la verità. Continueranno sempre con quella versione all'infinito. È una pugnalata quando mi guardano con quegli occhi indemoniati e pieni di scherno. Mi sento tradita e penso che un tempo erano altre persone». «Non so se ci sia ancora poco o molto da scoprire sull'omicidio di mia figlia. L'importante - dice ancora la donna - è che si arrivi alla verità. Questo è un segreto che si portano dentro Cosima e Sabrina e non so come facciano a sopportare questo peso atroce sulla coscienza, ammesso che ne abbiano una». La donna conclude parlando del processo e del suo stato d'animo quando si trova in aula: «Quando sono in aula - racconta - mi sembra di perdere il contatto con la realtà. In questi mesi ho assistito alle udienze e sono rimasta profondamente turbata. Mi sembra un processo assurdo, tant'è che spesso mi pongo degli interrogativi e dico: ma questo processo perché si svolge? A chi serve? Chi se ne avvantaggia? La vittima? Non direi proprio». «Se la giustizia deve rendere a ciascuno il suo - conclude Concetta Serrano - a Sarah cosa verrà corrisposto?»

La domanda che sorge spontanea è: cerchiamo giustizia o piuttosto pretendiamo vendetta? Ed una persona di fede che crede nella misericordia divina, può perseguire la vendetta e non la giustizia? E poi quale giustizia: quella pretesa dai media; quella pretesa dalle parti; quella imposta dai magistrati?

Nella trasmissione "Quarto Grado", in onda su Rete 4, è intervenuta  la mamma della povera Sarah, la bimba uccisa due volte: prima dall’omicida e dopo dai media. Pur comprendendo il dolore di una madre a cui viene uccisa una figlia, in modo crudele e da parenti, c'è da dire che la signora ha lanciato una serie di nefandezze. Nessuno le toglie il diritto sacrosanto di pretendere giustizia giusta e  vedersi risarcita per la perdita della figlia. Tuttavia, questo non la autorizza, in pubblico via Tv, a lanciare proclami di vendetta con parole forti e ancor di più fare ingiusta pubblicità alla setta dei Testimoni di Geova. Proprio lei che afferma che chi invita "zio Michele" nelle trasmissioni tv, lo invita in cerca audience a buon  mercato. Concetta Spagnolo Serrano più volte ha detto che vuole vendetta, che questa vendetta è gradita a Dio Geova. Insomma, un Dio vendicatore e giustiziere, una vera eresia mandata in diretta, senza che nessuno degli ospiti avesse avuto il coraggio di contraddirla. A parere della mamma di Sarah Scazzi, Dio dovrebbe mandare fulmini e saette sugli assassini. Una concezione eretica e blasfema, perché detta da una persona di fede. Quel Dio a cui la signora si riferisce forse è il Dio del vecchio testamento, adorato dai Testimoni di Geova, dagli ebrei e dai mussulmani. Il Dio di Gesù Cristo è Dio fatto da amore puro e  misericordia e sa perdonare, se pentito, anche il peggior delinquente. Se Dio fosse stato come dice la signora, non sarebbe morto di Croce, avrebbe sterminato facilmente i suoi aguzzini. Bisogna distinguere: Dio non manda mai il male, ma lo permette, quando questa specie di catechismo del male, serve per ottenere un bene. La sparata della signora Scazzi, ci fa riflettere su come la Tv esageri con dibattiti relativi ai delitti, alle morti. Si ascoltano parole in libertà, interviste che potrebbero anche essere frutto di contrattazione e teorie spesso senza fondamento, in quanto nessuno dei soloni, ha letto le carte processuali. Non sarebbe ora di smetterla con questi catechizzatori mediatici, senza arte, ma di parte, che ci lavano il cervello?

Nei fatti di cronaca nera si impreca contro il mostro sbattuto in prima pagina, spinti dall’impeto dell’odio ed in base alle informazioni date per un interesse, quindi spesso distorte od artefatte. Al presunto autore si scaglia l’anatema più grave: affinché egli bruci all’inferno per tutta l’eternità. Inferno è il termine con il quale in ambito religioso, si indica il luogo metafisico (o fisico) che attende, dopo la morte, le anime (o i corpi) degli uomini che hanno rifiutato Dio scegliendo in vita il male ed il peccato. l'Inferno è caratterizzato da estremo dolore, enorme disperazione e tormento eterno. Può essere visto come un luogo metafisico o spirituale che ospita le anime incorporee dei morti, oppure come luogo fisico sede di tormenti altrettanto fisici. L'Inferno costituisce una condizione di dannazione eterna e questa condizione è solitamente assegnata in base alla condotta morale e spirituale che la persona ha tenuto in vita. Certo è che nessuno sa che l’inferno in terra si chiama carcere e che lì dentro vi sono persone, spesso, che non meritano di starci. E’ una discarica di rifiuti umani, spesso frutto di raccolta differenziata (poveri ed indifesi), la maggior parte senza colpa, o colpa apparente, o comunque non tanto grave da giustificarne la reclusione. Di questo tutti stanno attenti a non parlarne, tanto i delinquenti sono sempre gli altri e meritano quella pena. Ce ne rammarichiamo solo quando in discarica ci andiamo noi, ben pensanti. Solo allora scopriamo che l’inferno in terra è ingiusto, specie se esso a noi perviene dalla giustizia terrena e non da quella divina.

E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.

E il giudice si tolse la toga: "Non sopportavo più l’idiozia di troppi colleghi". Per 42 anni al servizio dello Stato, 80mila sentenze e mai un giorno d’assenza.  Sei volte davanti al Csm per le critiche alla corporazione: "Sempre prosciolto". Edoardo Mori, l’emblema di un sistema che non garantisce e non tutela i diritti dei cittadini, così viene raccontato da Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto - ragiona - provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».

Perché ha fatto il magistrato? «Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».

Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci. «Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».

Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli? «Ma è evidente! Perché i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano».

Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti. «Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».

Sono sconcertato. «Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».

Può fare qualche caso concreto? «Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro - con costi miliardari, parlo di lire - i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».

Prego. Sono rassegnato a tutto. «Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».

Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher. «Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».

Cioè? «In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».

Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma? «E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».

Un sistema che ha fatto scuola. «La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».

Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali? «Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».

Come mai la giustizia s’è ridotta così? «Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».

In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile. «Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».

Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini? «I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».

E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti. «L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».

No, no, non mi risparmi nulla. «Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».

In che modo se ne esce? «Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».

E per le altre magagne? «In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».

Ci provi. «È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».

Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi? «Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».

Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente? «Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».

Gli chiese scusa? «Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».

Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia».

Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».

Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente? «Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».

Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo? «A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».

PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

Perché, noi poveri mortali, ci felicitiamo delle disgrazie altrui?

La risposta la dà Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale.

La postura e gli atteggiamenti propri di chi codardo subisce e tace e si rivale sui suoi simili. Della serie: gli sfigati alla riscossa. Isterica rivolta morale o linciaggio puro?

Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiacciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda.

Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, pubblicato da Orme. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile.

Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci. 

MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.

Una lettera di scuse. L’ha scritta Barbara Palombelli inviandola idealmente a Sarah Scazzi. Barbara Palombelli durante il Tg5 delle 20 del 17 ottobre 2010 ha letto con voce fuori campo una lettera di scuse indirizzata a Sarah Scazzi per l’eccesso mediatico. Secondo alcune voci di redazione, il direttore del Tg5 Clemente Mimun non avrebbe però gradito.

“Cara piccola Sarah, occhi da cerbiatto”. Così comincia la lettera. Mentre scorrono le immagini di quello che è diventato un accanimento mediatico, la voce della giornalista invita a un pentimento generale, che coinvolga tutti, a partire dagli addetti ai lavori. “Noi che, senza conoscerti, ti abbiamo incontrato nei telegiornali e sui giornali, ti abbiamo mangiata proprio come l’umidità di quel pozzo. Un pezzettino al giorno, piano piano, senza sprecare nemmeno una briciola della tua tragica favola”. “Tu, principessa che sei finita sfigurata e putrefatta dopo quaranta giorni in un pozzo, tanto che il professor Strada, che ti ha sezionato e analizzato, ti ha nascosto persino alla tua mamma”, continuava la giornalista che collabora con le reti Mediaset con i toni dolci di una madre che ha guardato “e giudicato con sospetto i manifesti horror, gli stessi che sono su tutti i muri delle stanze delle nostre figlie”. Palombelli poi conclude: “Ora che stai uscendo di scena per lasciare spazio ai tuoi assassini e alla rivelazione del male, in cui hai vissuto forse senza saperlo oppure sì, ora che tutta l’Italia partecipa all’indagine nazionale su di te che non ci sei più, ora è proprio arrivato il momento di pregare, pregare per te e per noi, per il nostro lavoro, per voi che state vedendo queste immagini. Non ti dimenticheremo. Sarah, perdonaci se puoi…».

I toni usati non sarebbero piaciuti al direttore del Tg5, Clemente Mimun che dopo l’edizione avrebbe avuto una discussione con la Palombelli. E, secondo quanto si apprende da fonti della redazione, Barbara Palombelli avrebbe lasciato il Tg5. Mediaset però smentisce e chiude il caso con queste parole diffuse alle agenzie: ”Barbara Palombelli non può avere lasciato il Tg5 per il semplice motivo che non fa parte della testata di Clemente Mimun”. La giornalista lavora infatti per Videonews, la testata Mediaset che produce tra gli altri Domenica Cinque, Mattino Cinque, Pomeriggio Cinque e Matrix, programmi dove Barbara Palombelli si esprime come commentatrice.

La lettera di scuse di Barbara Palombelli, un mea culpa a nome della categoria dei giornalisti, letta al Tg5 delle 20 di domenica, non è piaciuta al direttore Clemente Mimun. Che era allo stadio, ma è stato informato in diretta. E si è arrabbiato. Perché non era quello che le aveva chiesto. La Palombelli ha fatto di testa sua. «Non ha capito le indicazioni» spiegano al Tg5. C'è stata, tra i due, una discussione accesa. La Palombelli, che collabora con la testata Videonews e non con il tg, se n'è andata stizzita. Rottura non si sa quanto insanabile. «Se capiterà, la utilizzeremo ancora», spiega Mimun. Ma dovrà capitare.

“Cara Sarah Scazzi tu che sei finita sfigurata e putrefatta, tanto che il medico legale ti ha dovuto nascondere allo sguardo di tua madre Concetta."

Nel carosello mediatico del delitto perfetto, siamo ormai alla follia.

Una lettera quella di Barbara Palombelli piena di descrizioni horror, sanguinose, quasi violente sulla condizione del corpo di Sarah dopo morto. Necrofilia e giornalismo direi. Una macabra lettera, poesia nello spettacolo del delitto di Avetrana, che ha lo scopo di far giungere al pubblico le scuse tardive di un comitato di giornalisti che ha toppato sotto ogni punto di vista. Le prime lucide e logorroiche analisi sulla scomparsa di quella quindicenne con i poster dei gruppi rock dark appesi alle pareti della camera da letto. Una lettera macabra che descrive nei dettagli il corpo maciullato di Sarah, decomposto dall'acqua, mangiato dalla terra. Una lettera in cui la giornalista Barbara Palombelli invoca le scuse per Sarah, dal momento che lei come tanti altri "vampiri", le si sono gettati sopra il corpo innocente. Come nei clichè dei film horror, Barbara Palombelli scrive una lettera a Sarah Scazzi. Un colpo ad effetto scenico, che arriva nella giornata delle lettere, quella dell'amica di Sabrina ad un redattore del TG5 e le lettere di Cosima Spagnolo alla figlia Sabrina. Lettera che giunge dopo le polemiche che hanno investito la giornalista Barbara Palombelli e i suoi coattori nelle trasmissioni televisive, quelle che cercavano di scavare nella vita di Sarah Scazzi, considerandola una bad girl.

Scrive Barbara Palombelli: "Principessa che sei finita sfigurata e putrefatta tanto che il medico legale ti ha nascosto agli occhi di tua madre il corpo mangiato come l'umidità di quel pozzo..."

Durante la fase delle ricerche, c’è stata una morbosità eccessiva: a quale altra persona sono stati pubblicati i diari di scuola, dalle frasi da adolescente ai disegnini? A chi è capitato vedere pubblicate le confessioni private fatte con le amiche? Frasi del tipo. “Ho litigato con mia madre, mi mancano mio fratello e mio padre”? E poi i differenti profili di Facebook, proposti, raccontati, analizzati come terribili prove del reato, diventati subito terreno di congetture maligne. Gli adulti conosciuti in chat, la sua passione per Marilyn Manson, la sua cameretta ripresa in ogni angolo e mostrata nei collegamenti tv…

Non le è stato risparmiato niente.

Invece Sarah non aveva un amante trentenne, non era scappata al Nord in “fuga volontaria”, non si era affiliata segretamente alla setta satanica del luogo. Quella sua vita di ragazza di oggi, che frequenta Facebook e Internet, anche se la mamma non le ha dato il permesso di avere un computer in casa, è una vita normale, come quella di tanti nostri figli e amici. Una vita che avrebbe dovuto rimanere custodita, protetta e non esposta alle mille insinuazioni malevole dei retroscena quasi sempre inventati. Frutto della fantasia (anche banale) di tanti pseudo giornalisti.

Stringe il cuore due volte la storia di Sarah. Perché è un esempio da manuale di privacy violata di una ragazzina, che faceva le cose che fanno tanti adolescenti. Viveva di sogni, si sfogava con gli amici in Internet e quei suoi pensieri sono diventati pubblici e anzi sono stati usati. I cronisti hanno intervistato persino una sua simpatica amicizia scolastica, un ragazzino ripreso solo dai jeans sdruciti. “Sì mi veniva dietro”. Pensiamo con terrore se una volta toccasse a noi avere contatti con i cronisti, magari ai nostri figli che scrivono su Facebook e lasciano le loro foto e le loro sciocchezze dappertutto e non sanno che un giorno potrebbe esserci l’orco dell’interesse pubblico che mangia in due bocconi la loro vita, chiudendo lo spinoso caso di cronaca nera, con quattro supposizioni da strapazzo.

Ma che razza di giornalismo si pratica oggi in Italia? Non ci sarebbe da vergognarsi e da chiedere scusa? L’ha fatto Studio Aperto, diretto da Giovanni Toti. Rendiamogli merito. Sarebbe bello che questo diventasse un coro: “Scusa Sarah. Il mondo che hai lasciato, troppo presto, era molto brutto !!!"

Eppure, non è finita qui, perché dopo il ritrovamento del cadavere è andata pure peggio. Il caso s’è risolto praticamente in diretta, a “Chi l’ha visto”. A quella drammatica notte sono seguite ore e ore di dirette, per giorni, per mesi, per anni....

Il dr Antonio Giangrande, scrittore, autore del libro sul delitto di Sarah Scazzi, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, senza intenti diffamatori si chiede e chiede agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale.

Gli avvocati e la Stampa non potranno mai dare una risposta. Ma la risposta arriva dallo scrittore Massimo Prati, attraverso il suo blog. Un solo avvertimento, non fidatevi di quei  giornalisti che dicono da sempre di saper tutto ma che, se non riportano parole di altri, dimostrano di essere ben poco preparati sul caso Scazzi. Un esempio? Nel Corriere del Mezzogiorno un giornalista nazionale, venerato a Taranto, scrive che la procura, a sorpresa, ha depositato in tribunale una collanina con attaccato uno scoiattolino. "Chissà di chi è?" - si chiede il giornalista - "la famiglia Scazzi non l'ha mai vista addosso alla figlia... sarà mica che appartiene a chi l'ha gettata nel pozzo?". Quindi l'intenzione qual'è? Far sospettare di una ragazza mora, magari figlia dell'occultatore ufficiale, e far pensare al lettore distratto che "l'ha persa" mentre era intenta ad aiutare il padre (come sostiene la procura)? Ma no, quella frase è stata scritta tanto per dire e senza secondi fini, come d'altronde quella in cui si chiede: "Chissà da quanto era in quell'anfratto, forse c'era già da prima che vi fosse gettata Sarah?". Beh, il buon giornalista si tranquillizzi e mi permetta, dato che è una questione di libera e seria informazione, di rispondergli che non serve indagare, che la collanina con lo scoiattolino è caduta nel pozzo lo stesso giorno in cui si è occultato il corpo di Sarah. Forse la famiglia della piccola vittima non conosceva lo scoiattolino, anche se fatico a crederlo dato che lo conosco io, ma il ciondolo è immortalato attorno al collo di Sarah in diverse fotografie. Forse, dico forse, il giornalista si è distratto e non ha capito che la procura sa bene di chi è quella collanina, che l'ha inserita agli atti per creare un nuovo gioco di magia. Serve per far credere ai giudici sia stata strappata durante l'aggressione. Quindi non uno strangolamento improvviso, come sostiene il Misseri reo-confesso, ma una vera e propria esecuzione premeditata partita in auto al momento in cui, oniricamente, la ragazzina è salita sotto l'impulso dell'indice di sua zia. Mi sbaglio? Lo vedremo presto. Per intanto devo dire che non è l'unico appunto che devo fare al giornalista. C'è un filmato sul Corriere del Mezzogiorno, sempre a sua firma, in cui si vede un bell'albero di fico e si sente una voce dire essere quello in cui è stato portato il corpo della ragazza per essere violentato. Mi scuserà se sono inopportuno, ma volevo informarlo che la versione accettata dalla procura non prevede più alcun vilipendio di cadavere. Il dottor Galoppa, nell'incidente probatorio e penando non poco (secondo quanto denunciato da Michele Misseri), è riuscito a far dire al suo assistito che quell'evento era tutta un'invenzione della sua mente malata. Inoltre, altra cosa che non pare vera presente nel filmato, l'albero segnalato dal Misseri nella confessione è, parole sue, a cinquanta/cento metri dalla casa, e quello che in video ci viene mostrato è attaccato ai muri della masseria. In ogni caso il filmato è un buon filmato, specialmente nella sua parte finale quando viene inquadrato l'ex pozzo in cui la piccola fu gettata. Ed è buono perché ci mostra, tramite vecchie bottiglie di plastica e terra smossa, come la gente, che parla-parla-parla e sovente sparla, pensi davvero a Sarah. Non un fiore, non un biglietto con su scritto una frase a ricordo è presente nel punto in cui la piccola è stata ritrovata. Certo, Sarah riposa al cimitero di Avetrana, come Melania Rea riposa a Somma Vesuviana e Yara Gambirasio a Brembate. La differenza sta nel fatto che al chiosco della Pineta un fiore ed un pensiero ci sono sempre, che a Chignolo d'Isola, pur se confinati a lato del campo per volere del sindaco, un fiore ed un pupazzo ci sono sempre, mentre in contrada Mosca ci sono bottigliette di plastica. So che il luogo è isolato, ma mi aspettavo che chi chiede con veemenza giustizia per Sarah, parlo di chi abita in zona e tanto reclame fa in televisione dell'amore che portava a quel piccolo scricciolo quando era in vita, un minimo di sforzo lo avesse fatto. Visto che si spendono soldi in bombe carta da gettare in casa Misseri, mi aspettavo se ne spendessero anche per qualche litro di benzina ed un fiore da lasciare nel luogo in cui per quarantadue giorni la piccola è rimasta sepolta. Ma tant'è che i soldi mancano, sarà la congiuntura economica e l'aumento della "verde" a frenare le spese, e chi si è riunito di fronte alla caserma dei carabinieri per apostrofare ad assassina la signora Cosima Serrano, ha finito gli spiccioli e non ha tempo per fare una piccola colletta. E neppure il sindaco ha qualche centinaia di euro da investire in una lapide a ricordo, lapide che in pochi vedrebbero (visto che nessuno ci va in contrada Mosca) e non servirebbe a dar lustro mediatico alla cittadinanza. Quindi si può dire che manca la volontà di ricordare Sarah quando non se ne ha un ritorno di immagine, o economico, ma non manca l'intenzione di incamerare qualche spicciolo entrando a processo come parte lesa. Caro il mio sindaco, avrebbe dovuto incamerare soldi querelando chi ha venduto libri o montato trasmissioni tv parlando di Avetrana come di un paese di orchi e mostri, non credo che i suoi concittadini si siano rivisti in quelle parole e non credo che abbiano giovato a far ricordare al resto degli italiani la sua cittadina in maniera sana e amena. Pazienza, lasciamo il giornalista ed il sindaco e concentriamoci sul processo che presto sparerà i primi mortaretti. Tutti son contenti di essere in tribunale. I legali delle imputate, degli imputati e delle parti civili (molti di coloro sono di seconda o terza scelta per abbandono dei precedenti difensori), che non vedono l'ora di far domande ai testimoni; i procuratori, che tanto han fatto per arrivare al giudizio in Assise; le parti civili, a partire dal sindaco per arrivare alla badante rumena che ha chiesto un minimo di indennizzo per quanto subito. Quattro milioni di euro per essere stata additata da Sabrina Misseri quale possibile complice dell'ipotetico rapitore. Certo, la sua memoria va e viene, infatti non ricorda neppure di essere stata lei la prima a sospettare, la prima a dire che non si fidava della cugina di Sarah, additando in tal modo chi poi l'avrebbe additata. Per cui se fosse una partita di calcio il risultato sarebbe uno ad uno e la palla tornerebbe al centro. Ma qui non si tratta di pallone, qui si tratta di business, quindi quattro milioni di euro alla badante che poi si porterà in Romania la palla d'oro con cui s'è giocato. Un vero affare se il giudice la accontenterà. Ed a proposito del giudice c'è da constatare che la separazione delle carriere avrebbe fatto del bene a questo processo. Per carità, fino a prova contraria il presidente della Corte, la dottoressa Maria Ausilia Cesarina Trunfio, è un buon giudice che non sarà influenzabile dal contesto in cui "vive ed opera". Il problema è che ad ogni istanza difensiva non accolta, ad ogni ulteriore chiusura alla Difesa, ci potrebbero essere polemiche. Questo perché "vive ed opera" a Taranto da più di vent'anni e negli anni novanta era lei stessa un sostituto procuratore di quella città, al pari del dottor Buccoliero per fare un paragone attuale, ed ha lavorato gomito a gomito, tutti i giorni, anche con chi tutt'ora in procura vi lavora. E, per fare un esempio, nell'anno appena passato coi i procuratori ha avuto frequentazioni. Lei ed il dottor Argentino il 28 aprile 2011, dalle 15.30 alle 17.30, hanno parlato agli studenti della sezione di Taranto della facoltà di giurisprudenza (con sede centrale a Bari), sul tema: "L'esame incrociato: insidie e strategie". E l'esame di cui si parla riguarda i testimoni e gli indagati, quindi sia l'uno che l'altra hanno una identica veduta su come lo si deve fare, combacerà con quanto crede la Difesa? Ma non pensate "male", tutto andrà per il meglio. Al limite, se qualcosa non andrà come deve andare (sia per la Difesa che per l'Accusa), se ne riparlerà in Corte d'Appello, il secondo kolossal della serie (e sarà un successo pazzesco). In ogni caso non vi preoccupate di nulla e continuate i preparativi. La poltrona che non fa sudare l'avete? I pop corn, le noccioline, le patatine e le bibite? Presto che è tardi, mancate solo voi, lo sceneggiatore ha già consegnato i copioni e gli attori saranno nuovamente in postazione il prossimo martedì mattina...A proposito del citato “Il Corriere della Mezzogiorno” si riporta "Vita e morte dell’informazione". Intervista a Nazareno Dinoi su “Cronaca Nera”.

Dinoi, lei vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria” e collabora per il “Corriere del Mezzogiorno”. Qual è stato il suo primo pezzo pubblicato sul caso?

Il mio primo articolo su Sarah Scazzi l’ho pubblicato il 29 agosto, tre giorni dopo la sua scomparsa. La notizia l’avevo avuta il giorno prima, ma parlando con i carabinieri decisi, sbagliando, di aspettare ancora.

Vivendo a Manduria, vicino ad Avetrana, ha potuto respirare anche le sensazioni della popolazione: qual è stata la sua prima impressione, e quale, invece, l’idea che si è fatto in seguito?

L’impressione che ho avuto subito è stata quella che poi si è purtroppo avverata. Nessuno in quel paese, me compreso, ha mai creduto ad una fuga volontaria nonostante le voci iniziali del possibile coinvolgimento di facebook, delle chat e della volontà di fuggire della ragazza. Tutti eravamo convinti del peggio. Un aspetto alquanto strano, questo, che meritava di essere approfondito sin da subito. Solo dopo si è capito che tutti quanti siamo stati manipolati dalla famiglia Misseri che è stata la prima, dai primissimi istanti della presunta scomparsa di Sarah, ad infondere pessimismo sulla sua sorte.

Che cosa significa, per i cittadini di Avetrana, da un punto di vista socio-antropologico, un delitto in una cittadina così piccola e così lontana finora dai fatti di cronaca?

L’abnorme interesse dei media su una comunità così piccola, così distante dai grandi eventi mediatici, difficile da raggiungere persino geograficamente, ha prodotto un’iniziale eccitazione con forte desiderio di partecipare al circo dell’informazione “all inclusive”. Nessuno di noi cronisti, per molti giorni, ha mai avuto difficoltà a raccogliere impressioni, racconti, aneddoti, persino spunti investigativi dagli avetranesi. Dopo, però, la macchina si è guastata e la gente ha cominciato a vederci come degli intrusi; e aveva ragione perché in troppi abbiamo approfittato, anche con l’inganno, della loro disponibilità.

Perché il turismo macabro dell’orrore, e quello squallido voyeurismo, ad Avetrana?

Voglio subito sfatare quello che è stato marchiato come una prerogativa tutta avetranese e del Sud più in generale. Il turismo dell’orrore è sempre esistito laddove si sono consumate le peggiori tragedie a danno di giovani vittime. Casalecchio di Reno, Cogne, Erba e Parma, e prima ancora Vermicino. Anche in quei casi non sono mancati gli altarini con fiori, dediche e orsacchiotti bianchi e gite di gruppo o familiari in visita nei luoghi dell’orrore.

Quale “vuoto” di umanità, relazioni, cultura c’è alla base di questo fenomeno, secondo lei?

Assodato che il voyeurismo noir non predilige latitudini, mi diventa più difficile dare una lettura antropologica del fenomeno. Forse tutto si spiega con il bisogno dell’essere umano di sentirsi partecipe del dolore altrui: più insopportabile è la perdita per gli altri, più ci interessa conoscerla da vicino, studiare i particolari, provare a rendere tangibile quella sensazione di sofferenza che si prova da semplice spettatore. O molto semplicemente per dire: “io sono stato lì”. In quest’ultimo caso giocano un ruolo fondamentale la televisione, le immagini, l’informazione in generale.

In uno dei suoi articoli, si legge che “tutti ci siamo fatti travolgere dall’eccitante ebbrezza del giallo di Avetrana dimenticando la piccola Sarah”. Qual è il modo migliore per ricordare Sarah, allora: costruire e intitolarle un canile come ha pensato il fratello Claudio, cercare verità e giustizia, fare un passo indietro dal punto di vista mediatico e giornalistico…

Bella domanda che merita più risposte. Ribadisco: ci siamo fatti travolgere dall’eccitazione del giallo dimenticando la vittima. Noi operatori dell’informazione, forse per la prima volta nella storia dei grandi omicidi, abbiamo avuto a disposizione una grande quantità di materiale da raccontare. Dai primissimi giorni abbiamo avuto accesso alle cose più personali, intime di Sarah. Abbiamo potuto raccogliere i ricordi della madre, del padre, gli zii, le cugine, le amiche, i professori. Siamo stati abbondantemente serviti, al limite della liceità, da una mole di dati investigativi spesso imbarazzanti. La prima volta che sono andato a casa Scazzi ho trovato le porte incredibilmente aperte e un’insperata disponibilità della famiglia. Io con altri colleghi siamo entrati nella stanza di Sarah quando c’erano ancora i suoi odori, tutte le sue cose sparse sulla scrivania, persino i jeans che il 26 agosto aveva tolto per indossare il costume da bagno. Conservo ancora le foto e un breve filmato video con il cellulare di quei pantaloni-feticcio rivoltati e gettati disordinatamente e in fretta sul suo lettino. Noi giornalisti, prima ancora degli investigatori, abbiamo avuto tra le mani i diari di Sarah, i suoi quaderni di scuola, le lettere piegate nei libri. I dirigenti della sua scuola hanno permesso la pubblicazione dei suoi diari, delle schede di ammissione, hanno fatto fotografare le scritte che Sarah lasciava sui banchi e sui davanzali dell’aula. Abbiamo tutti coscientemente violato il suo mondo ma pur avendo la possibilità di raccontarlo abbiamo preferito parlare del giallo, del pericolo di facebook, delle insidie di internet, del traffico d’organi, dei sospetti sui familiari, delle cose peggiori della loro vita privata. Nessuno di noi si è preoccupato, se non in minima parte e solo dopo la scoperta della sua morte, del dramma di quella ragazzina vissuta da sola nell’indifferenza di tutti. Sarah, abbiamo scoperto dopo, era un piccolo fantasma passato inosservato persino agli abitanti di una comunità dove si conoscono tutti. Qualcuno dei nostri intervistati, allora, aveva inventato ricordi di lei pur di apparire o di rendersi utile. Tutti abbiamo trascurato il vero dramma di questa storia che è l’abbandono: la mamma di Sarah, Concetta, abbandonata dalla sua famiglia che l’aveva ceduta agli zii diventati secondi genitori, la stessa Sarah abbandonata dal padre che aveva deciso di vivere lontano da lei e abbandonata anche dalla madre divenuta schiava di un credo in Geova che segna l’isolamento suo e della sua bambina dal resto del mondo. Sarah non ha mai potuto festeggiare un compleanno, un capodanno, un Natale, una festa di cresima, un ferragosto, una notte di San Lorenzo. Per questo persino il carattere non dolce della cugina Sabrina diventava un piacere per la povera ragazzina che adorava vivere con la famiglia che l’ha uccisa. L’idea del fratello Claudio di intitolare un canile a Sarah sarebbe stata buona se fosse stata gestita da altre persone.

In un suo articolo, lei ha insistito molto sulla figura di Ivano Russo. Di lui si racconta che, nonostante la confidenza con Sarah, il giorno della scomparsa della quindicenne, Ivano non la cercò mai al cellulare quando gli fu detto che Sarah era scomparsa. Qual è il suo parere su questo aspetto?

Prima che lo zio di Sarah, Michele Misseri, confessasse il delitto, noi giornalisti e credo anche gli inquirenti, eravamo convinti che Ivano sapesse la verità. Credo anche che in quel periodo il suo mandato di cattura fosse già pronto. Per il resto credo che la sua posizione sia tuttora oggetto di forte interesse da parte della procura.

A proposito di Concetta, la mamma di Sarah, lei l’ha descritta come una “madre distratta, prigioniera della sua fede a Geova”. Io credo però che le espressioni del viso, la “poca loquacità” di un essere umano, il suo essere anche un po’ defilato e riservato, non siano condannabili. Forse la affettività e la anaffettività, non possono essere decodificate, non possono equivalere a un modo di comportarsi standardizzato, o assoluto. Credo che pensare in questo modo, cioè attribuire una natura distratta a una madre da una posizione esterna, per giunta attraverso la telecamera, sia il prodotto di una “sovrastruttura sociale” di cui noi stessi siamo vittime. Lei che ne pensa?

Personalmente non ho mai condannato Concetta per l’assenza di lacrime. Anzi, come dicevo prima, dopo Sarah è lei la seconda vittima di questa triste storia: da un’infanzia fatta di abbandoni ha trovato un matrimonio sbagliato che l’ha lasciata sola con la figlia e ora con la figlia ha perso anche ogni seppure minimo legame che aveva con le sue sorelle e il fratello naturale che, di fatto, si sono tutti schierati con la famiglia Misseri. Dopo tutto questo, non le si può fare una colpa se non è capace di piangere. Io ho vissuto con lei tutti i momenti delle ricerche ed ero con lei la terribile notte in cui fu trovato il corpo della figlia gettato nel pozzo. E’ stata l’unica volta che ho visto le lacrime sul suo volto, erano lacrime senza pianto, senza singhiozzi, eppure l’immagine di lei che seguiva le notizie dei telegiornali della notte e quelle che le davamo noi era quella del dolore puro, indimenticabile.

In quale modo “La Voce di Manduria” ha trattato l’argomento del giallo di Avetrana e come hanno reagito i lettori de “La Voce di Manduria”, anche sul vostro sito?

Il sito “La Voce di Manduria” ha trattato costantemente l’argomento con almeno due notizie al giorno. I lettori si sono comportati nella maniera scontata: inizialmente hanno gradito poi, dai commenti che lasciavano, hanno cominciato ad esprimere giudizi negativi dicendoci di chiudere il sipario. Nonostante tutto, ancora oggi, le notizie su Sarah sono le più lette con una preferenza costante di almeno tre volte in più rispetto alle altre.

Qual è dal punto di vista mediatico e giornalistico l’aspetto più squallido della vicenda, secondo lei? L’errore da non commettere mai più?

L’aspetto più squallido è stato il mercato di immagini, di interviste e di documenti dell’inchiesta ad opera di personaggi tuttora, diciamo, “oscuri” e lo sfruttamento televisivo che si è fatto e si continua a fare: troppi esperti da talk show che si inventavano i fatti hanno fatto perdere credibilità alla notizia. A mio avviso sono questi gli errori da non commettere più insieme a quello di non violare l’intimità di una ragazza morta perché era sola. Già. Da quale pulpito viene la predica!

Ma Nazareno Dinoi non è quello che ha pubblicato su “Il Corriere del Mezzogiorno” e “Il Corriere della Sera” - "Il ritrovamento di Sarah in 71 foto: la sequenza dell’orrore". Foto raccapriccianti che hanno suscitato tanto disdegno anche tra i suoi colleghi? Da ricordare anche che Nazareno Dinoi ha pubblicato su "Puglia Press", un periodico gratuito, l'articolo della mia condanna, Dr Antonio Giangrande, l'autore del presente libro e, cosa più importante, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le mafie, riconosciuta dal Ministero dell'Interno. La notizia passata da soggetti operanti in ambienti giudiziari e forensi manduriani e tarantini, (forse dei giuda) che avevano tutto l'interesse a denigrare la persona e l'operato di chi si batte contro ogni illegalità ed ingiustizia, riportava l'epilogo in primo grado di un procedimento per abusivo esercizio della professione forense e l'indebito percepimento dell'onorario per l'opera prestata. Da sempre Antonio Giangrande si batte contro l'abilitazione forense truccata ed ogni concorso pubblico manipolato e contro gli insabbiamenti delle denunce scomode. Il Dinoi è stato tanto scrupoloso nel dare la notizia della condanna, foriera di ingenti danni, ma non ha dato la notizia del successivo proscioglimento in appello: la procura di Taranto ben sapeva del patrocinio legale risultante dagli elenchi depositati presso l'albo degli avvocati, ciò nonostante ha proceduto, così come ha proceduto per i reati di diffamazione a mezzo stampa, di cui mai, però, è conseguita condanna, in quanto gli articoli incriminati erano stati stilati da altri autori e pubblicati su siti web di altri proprietari. Il tutto facilmente verificabile. Il Dinoi non ha mai pubblicato questa notizia; come non ha mai pubblicato la notizia che il giudice che ha emesso a Manduria la sentenza poi appellata è stata denunciata per anomalie su questa e su altre sentenze; come non ha mai pubblicato le denunce di malamministrazione e di malagiustizia, le pretestuose archiviazioni delle quali sono state oggetto di attenzione addirittura dai giornali del Sud Africa. In loco si pensa bene di tacitare ogni voce libera contro chi denuncia gli abusi e le omissioni dei magistrati e chi tacita, spesso, appartiene proprio alla categoria dei giornalisti.

Bene. Nonostante tutto, come ben si legge, per amore di verità io non censuro, dando a tutti una visibilità immeritata. Se altri usano la censura o addirittura l'omertà nel nome di una omologazione o conformità alla cultura imperante, faranno i conti con la propria coscienza e con la propria professionalità.

Ciò non basta. Ci si può fidare di quello che dice la tv? La risposta negativa, sembra ovvia in questi ultimi tempi. Sempre più ci troviamo di fronte a servizi giornalistici falsi, e non pertinenti alla realtà. Immagini di catastrofi già accadute anni prima, che vengono riproposte per casi recenti. Questi giochetti non vengono poi fatte da reti minori, ma bensì da Tg di riferimento per milioni di italiani. Gli ultimi episodi scandalosi, riguardano il famoso affondamento della nave Costa Crociera. In primis i Tg misero in onda immagini che erano già di dominio pubblico su you tube da un paio di anni. Per marciare ancor sopra questa assurda storia, gli autori di varie trasmissioni pseudo-informative, hanno cominciato a costruire delle vere e proprie soap sui passeggeri della nave e la loro triste e sfortunata avventura. L’intento era quello di conquistare il pubblico emozionandolo. L’ultima storia in ordine di tempo è quella della ragazza che a causa dell’affondamento della nave, pare abbia perso il suo bambino che portava ancora in grembo. Dapprima, questa fantomatica mamma è intervenuta telefonicamente in trasmissioni quale Pomeriggio cinque. Il suo avvocato ospite di Lorella Cuccarini, si è dimostrato disgustato dei circa 11mila euro proposti come risarcimento, in quanto la vita umana non ha prezzo. Tutto andava per il meglio, finchè gli spettatori non hanno segnalato a Striscia la Notizia, la non pertinenza della foto mostrata dagli autori Rai al pubblico italiano. Quei due signori nella foto non erano gli sventurati passeggeri della Costa Crociera. Dietro front di avvocato e Lorella Cuccarini allora, la vera mamma verrà mostrata a Domenica Cinque. Macchè!! Anche qui vedendosi immischiati in “brutte acque”, lasciano perdere e non mandano in onda il Finto scoop. Sfortuna vuole che qualche talpa passi il filmato già registrato da Domenica cinque (avvenuto prima della messa in onda di Striscia che rivelava il finto scoop) alla trasmissione di Antonio Ricci. Poco cambia quindi se la Panicucci non abbia mostrato quell’intervista falsa, già bella e preparata per la domenica. La Tv invece di fare passi indietro e non mostrare i servizi falsi una volta beccati, dovrebbe cominciare a lavorare sulla fonte ed a mostrare al pubblico italiano soltanto la realtà…La storia era stata pubblicata da tutte le agenzie di stampa. Ma chi si è presentato a reclamare in tv il proprio dramma, a quanto pare, sul Concordia non c’è mai salito. Francesco Specchia su Libero ci racconta di un servizio di Striscia la Notizia in cui si mette in dubbio la veridicità della storia. E si ricorda che a mandare in onda due figuranti è stata proprio la Rai:

Accade che, il 5 febbraio scorso (2012), la Cuccarini intervisti via telefono, appunto, Cristina della suddetta coppia - i sedicenti Cristina & Gabrieli sposini in crociera sfuggiti al destino mortale della nave Costa -. Gli ascolti s’impennano, Lorella si commuove. Ma Striscia la Notizia s’accorge che la foto degli sposi usata dalla Rai di sfondo all’intervista è falsa. Palesemente falsa. Al punto che i due ragazzuoli, sotto diversa identità, sembrano essere, invece gli stessi - un po’ più invecchiati - concitati ospiti del legal show "Verdetto Finale" con Tiberio Timperi, guarda caso su Raiuno. Figuranti ad uso di viale Mazzini, parrebbe di prim’acchito. L’avvocato dei due meschini, Giacinto Canzona - un nome, un programma - che all’inizio in diretta s’era indignato contro la mala società che permette gli aborti sulle navi Costa senza risarcirli mai abbastanza, riconosce spudoratamente che Cristina e Gabriele, sì, è vero, non sono proprio quei Cristina e Gabriele; e che la fotografia mandata in onda non è altro che il frutto “di un mero errore materiale”.

Su questa falsa riga scoppia il caso della giornalista ‘postina’ che recapitava le lettere di Salvatore Parolisi all’amante. La notizia shock data il 15 febbraio 2012 dalla trasmissione ‘Chi l’ha visto?’. La vicenda è finita nelle carte dell’inchiesta della procura di Teramo sull’omicidio di Melania Rea. «Un fatto imbarazzante per la nostra categoria», l’ha definita Federica Sciarelli quando ne ha dato notizia. Increduli i parenti della giovane mamma di Somma Vesuviana, presenti in collegamento video. Con tanto di carte della procura in mano la trasmissione ha svelato che «una giornalista Mediaset» avrebbe fatto da ‘postina’ tra Salvatore Parolisi (in carcere con l’accusa di aver ucciso sua moglie) e l’amante, la soldatessa Ludovica. Le missive sarebbero state intercettate dalla direzione del carcere di Ascoli e, ha assicurato la Sciarelli, sarebbero regolarmente arrivate a destinazione. Ma l’aspetto ancor più inquietante è che la ‘postina’ avrebbe recapitato la missiva quando a Salvatore era stato fatto esplicito divieto di avere contatti con l’esterno e soprattutto con la sua amante. «Cara (nome giornalista, non reso pubblico), la busta bianca chiusa non è per voi», scrive Parolisi nella lettera mostrata da Rai3, «ma tu sai a chi mandarla, mi raccomando che arrivi a destinazione, assicurati che sia li». E nella lettera alla soldatessa Parolisi scrive: «ti ho mandato questa lettere tramite (nome della giornalista) perché sul mio verbale di accusa non posso avere nessunissimo contatto con te. Se riceverai questa lettera mi raccomando non lo dire a nessuno e non fidarti di nessuno». Poi Parolisi consiglia a lei di fare lo stesso: «metti in una busta sigillata la lettera che sarà per me». La giornalista e un suo collaboratore sono stati anche intercettati e la Procura ha scoperto che i due, che lavorano per «una trasmissione Mediaset» avrebbero redatto una finta lettera, spacciandola per una missiva di Parolisi alla loro redazione «e poi letta in trasmissione la sera del suo arresto». Incredulo lo zio di Melania, il signor Gennaro, che ha notato che la lettera spedita da Salvatore a Ludovica era datata 23 marzo, ovvero 4 giorni dopo l’arresto. «Salvatore si preoccupava addirittura di scrivere alla sua amante…» ha detto sconcertato. «Adesso mi viene il dubbio che Salvatore non abbia mai amato Melania…», ha commentato invece il fratello della vittima, Michele, «è sotto gli occhi di tutti… che intrallazzi che ha fatto e che faceva. Non si può accettare che dica ‘amo ancora mia moglie’ quando invece si preoccupava di scrivere ancora alla sua amante. Non è giusto e non accetto che lui continui a dire che ama Melania». Ma nella lettera spedita a Ludovica c’è anche una frase che lascia sconcertati. Salvatore scrive alla sua donna: «ho tante ammiratrici che mi scrivono ah ah ah». Sempre ‘Chi l’ha visto?’ nella puntata ha rivelato che nel corso delle indagini è emerso che il caporal maggiore frequentasse siti di trans (video e foto con contenuti pornografici) sia dal pc di casa che da un personale che portava in caserma. «Si tratta di siti che a Melania non avrebbero fatto piacere», ha commentato il fratello, «era una persona di sani principi e se lo avesse scoperto avrebbe sbattuto il marito fuori casa». E’ possibile che la donna si fosse accorta di quello che stava accadendo e si fosse arrabbiata? Potrebbe essere stato proprio questo il movente del delitto? Dal pc fisso sono stati estratti 145 indirizzi di posta elettronica di cui 5 visibili ed attivi e altri 140 cancellati e recuperati attraverso tecniche di ‘data carving’. «Dalla cronologia di navigazione Explorer normale non emergono siti di particolare interesse», si legge nella relazione dei carabinieri, «mentre dalla navigazione ‘in private browsing’ emergono siti di trans» con immagini molto forti. Anche le foto sono state allegate alle carte dell’inchiesta. «Non abbiamo alcuna intenzione di vederle», ha detto il fratello, «anche se possiamo immaginare il genere..». Sciarelli ha ricordato che nei mesi prima gli avvocati Biscotti e Gentile (difensori anche della Famiglia Scazzi) che difendono Parolisi avevano diffidato i giornalisti a parlare di questa vicenda. «Le carte sono qui», ha detto la giornalista. «Queste sono cose che dice la procura». Infine l’amarezza del fratello di Melania: «Salvatore aveva tante cose da fare: chattare con le trans, telefonare all’amante, tutte cose che riguardavano la sua seconda vita che noi non conoscevamo. Nei momenti successivi alla scomparsa di mia sorella invece di cercare sua moglie tornò in caserma… Andare a cancellare tutto questo gli avrebbe fatto molto comodo». Già. Proprio quella Sciarelli fa la predica a Mediaset e poi sputtana Parolisi ed i suoi avvocati censori. Quella giornalista che ha dato in diretta alla madre la notizia del ritrovamento del corpo di Sarah. La notizia della morte di Sarah viene data in diretta tv alla madre Concetta che era collegata in diretta dalla casa dello zio - l'assassino di Sarah - da Avetrana. Era il 6 ottobre 2010. Era la quarta puntata del programma Chi l'ha Visto? dedicata al caso della scomparsa della 15enne di Avetrana. E poi la svolta. Sarah strangolata e violentata dallo zio. In studio arrivano le prime notizie: i carabinieri sono alla ricerca di un corpo. La conduttrice si trova davanti ad una situazione «terribile»: così Federica Sciarelli definisce la puntata del suo programma “Chi l'ha visto” che ha seguito in diretta i tragici sviluppi della vicenda di Sarah Scazzi, mentre la madre della ragazza era in collegamento. «Le notizie si susseguivano in modo concitato: in un primo momento - racconta la conduttrice - abbiamo cercato di non dire nulla, anche perchè ci auguravamo che si trattasse della solita battuta di ricerca da parte degli investigatori. Poi a un certo punto la situazione è andata fuori controllo perchè alla madre arrivavano le telefonate di altri giornalisti. Allora la mia unica preoccupazione è stata accompagnare in qualche modo la madre di Sarah a casa. Eravamo infatti in collegamento con l'abitazione dello zio: se fossimo stati a casa di Sarah ce ne saremmo andati via noi. Ho cercato anche di allentare la tensione mandando in onda un lungo pezzo di ricostruzione della vicenda, è stato veramente difficile». A chi sottolinea il ruolo invasivo della diretta tv di fronte alla tragedia, la Sciarelli replica: «Se ho sbagliato mi dispiace. La direzione di Raitre ha deciso di mandarci in onda fino a Linea notte, facendo saltare “Parla con me”, ma del resto sarebbe stato assurdo e irrispettoso mandare in onda un programma di satira registrato, che sarebbe stato inevitabilmente fuori tono. Siamo il programma degli scomparsi: dal primo momento abbiamo sostenuto che quello di Sarah non era stato un allontanamento volontario, avremmo preferito che fosse stata trovata viva». Già nel 2008 Chi l'ha visto? seguì in diretta la notizia del ritrovamento dei corpi dei fratellini di Gravina: «Allora però - spiega la conduttrice - avemmo la notizia subito prima della messa in onda. E il padre venne a saperlo mentre era in carcere. Quella di ieri è una situazione che non ci era mai capitato e forse mai ci capiterà più nella vita». Già, davvero dispiaciuta!

ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.

E che dire di Cogne e del Caso Franzoni. La morte tragica del piccolo Samuele ed una responsabile mediatica e giudiziaria. Anna Maria Franzoni condannata a 16 anni: pochi per un omicidio; tanti per una inferma di mente; troppi per una innocente.

Per gli articolisti telematici in principio fu la villetta di Cogne. Esattamente il 30 gennaio 2002 le agenzie battevano la notizia di un bambino di tre anni rinvenuto in casa con la testa fracassata. Iniziava così uno dei casi di cronaca nera più discussi del recente passato italiano. Una tragedia familiare che portò in carcere la mamma Annamaria Franzoni. Ma anche un omicidio che cambiò la storia della televisione e il ruolo dell'opinione pubblica. Un plastico della casa faceva per la prima volta il suo ingresso a Porta a Porta. Vespa si tramutava nella signora in giallo e nascevano i due schieramenti: colpevolisti e innocentisti. Ogni telespettatore si sentiva una via di mezzo tra un Ris di Parma, un giudice e un avvocato. E ancora: lacrime della mamma in tv, annuncio della nuova gravidanza, avvocati di grido esperti tanto in diritto quanto in comunicazione, psicologi e psichiatri, giudici e tuttologi. Tutti insieme nell'arena. Un processo mediatico che, volente o nolente, fondava un genere. Il grande fratello del delitto. L'horror fiction. Seguirono poi Erika e Omar, Meredith kercher, Chiara Poggi, la strage di Erba, Sarah Scazzi, Melania Rea, ecc.. Plastici sempre più dettagliati, completi di auto o bicicletta da spostare all'occorrenza in strada o nel garage per meglio mostrare la presunta dinamica della tragedia. Fino all'ultimo, discusso modellino, quello della Costa Concordia, con tanto di "giallo". Vespa è stato accusato da alcune testate giornalistiche di un supposto favoritismo di cui avrebbe beneficiato la trasmissione ottenendo una riproduzione in scala della nave dalla Costa Crociere che lo avrebbe così negato a Vigili del Fuoco e sommozzatori impegnati nelle difficili operazioni di recupero. Ma Porta a Porta ha replicato di aver chiesto alla società un modellino della nave, ricevendo un rifiuto, e di essersi perciò rivolta a un artigiano che ha fornito una copia perfetta della nave per una cifra molto modesta. Chi di plastico ferisce...

Cogne è un punto di non ritorno. O, quanto meno, un rilevantissimo punto di svolta. Ecco cosa significò, dal punto di vista della comunicazione, il delitto di Cogne, all'indomani della cui gigantesca copertura mediatica si può davvero dire che nulla sarebbe stato più come prima. La tragica vicenda del piccolo Samuele Lorenzi dette inizio a un processo, fino a quel momento sconosciuto, di serializzazione dei programmi televisivi, che cominciarono a gemmare puntate su puntate su quell'unico evento, colorandosi di tinte sempre più noir (e splatter). La tv del dolore si fondeva così con il talk show, dando vita a una sorta di nuovo format di successo, fondato su una cronaca vera (e nera) che si convertiva in serial e veniva sceneggiata come un reality show. Tanti furono infatti i talk show che abbracciarono questa formula pulp di grande impatto emozionale (e un po' ossessivo), dal Maurizio Costanzo show a Matrix, per non parlare di trasmissioni pomeridiane come Buona Domenica e tante altre. Ma a fare da insuperabile laboratorio fu (e chi se lo dimentica più?) il Porta a Porta di Bruno Vespa, che ritornò su quel delitto per svariate decine di serate, conseguendo alcuni dei picchi di audience più alti della sua storia. Lo stesso salotto per antonomasia di un certo giornalismo che aveva fatto contribuito in Italia a creare e promuovere la «politica pop» (come l'hanno chiamata Gianpietro Mazzoleni e Anna Maria Sfardini) si inventava, di fatto, una formula di infotainment nella quale ogni alchimia equilibrata tra le parti saltava, e la dose di informazione veniva travolta da quella dell'intrattenimento (morboso e grandguignolesco). Il caso Cogne divenne, nella «versione di Vespa», un' autentica palestra di (discutibile) innovazione del modo di fare tv. Fu proprio in quell'occasione che venne brevettato un «accessorio scenografico» destinato a notevole fortuna: il famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) plastico, che riproduceva la villetta dove venne consumato l'infanticidio, antenato di futuri modellini per tragedie successive (dall'omicidio di Avetrana alla nave Concordia). E fu allora che a vivisezionare, da ogni immaginabile (e pure inimmaginabile) punto di vista, quei fatti così tristi, si formò una «squadra speciale» di criminologi, psicologi, opinionisti che avrebbe dato vita a una sorta di compagnia di giro pronta a macinare ospitate su ospitate, e a sbarcare, come una truppa d'occupazione, in altri palinsesti e programmi. L'invenzione di una tradizione (televisiva): quel giornalismo popolare (e con punte trash) che, da noi (a differenza di quanto accaduto in altre nazioni), non si era mai tradotto in carta stampata, trovava il proprio perfetto habitat nel piccolo schermo. Non più informazione spettacolo, ma qualcosa che andava persino oltre: informazione spettacolista, potremmo dire, prendendo a prestito il termine da uno che se ne intendeva come l'intellettuale situazionista Guy Debord. Un «prodotto informativo» che dal tubo catodico rimbalzava sul web, dove i siti si riempivano delle discussioni accanite e feroci tra colpevolisti e innocentisti rispetto alla posizione di Annamaria Franzoni. Dalla tv generalista alla «comunicazione personale di massa» dei blog, insomma, Cogne ha fatto scuola.

E già, perché, non c'è niente da dire, il delitto, in termini di interesse del pubblico, paga sempre. Rotocalchi popolari e tribune televisive si avventano come sciacalli sulle carcasse di uomini e cose (delitti di Erba, Cogne, Novi Ligure, Avetrana, ecc. o affondamento della Concordia.) La cronaca nera impone mode di lunga durata, facendo leva sulla propensione nazionale alla tuttologia e sui corollari geografici che la accompagnano: razzismo, pressapochismo e distacco al nord, dietrologia al centro, fatalismo al sud. Ennio Flaiano, come al solito, aveva capito tutto: “Due anni fa, se non sbaglio, affondò un piroscafo nello scontro con un altro piroscafo. Noi per un mese – e anche due – ogni sera abbiamo parlato, tecnicamente, del disgraziato evento. Pur non avendo una diretta conoscenza della navigazione oceanica (i nostri spostamenti per mare si limitavano al tratto Napoli-Capri) noi sapevamo tutto: quali luci i due piroscafi avrebbero dovuto tenere accese (lo scontro accadde di notte), che intervallo passa tra un segnale di sirena e l’altro in caso di nebbia, come si naviga in alto mare, che differenza passa tra stazza, volume e tonnellaggio…” (Gli esperti” da “Le ombre bianche” è un intervento pubblicato nel 1958 sul Corriere della sera.) In televisione a quei tempi nessuno si sarebbe mai sognato di allestire circhi, arene e teatrini sulle disgrazie altrui, e così restavano i caffè, che erano luoghi di ritrovo, circoli di conversazione e sale da gioco, come in certi bar di città cantati dal giovane Gaber. E se non c’erano disastri navali, si poteva sempre contare sulle esondazioni del Po, su incidenti aerei e ferroviari, uxoricidi. Ci si improvvisava esperti di qualsiasi cosa. La televisione di oggi funziona allo stesso modo: un bar analogico o digitale. Se si desse lo spazio necessario a veri conoscitori dei fatti su cui si sproloquia, basterebbero pochi minuti e si potrebbe passare ad altro. E invece no, i veri esperti si lasciano a caso, nell'indifferenza generale. Ogni compagnia di giro della tv ha i suoi personaggi fissi ed amicali, interpretabili di volta in volta da figure intercambiabili, indistinguibili, probabilmente estratte a sorte da un elenco di amici e iscritte a un apposito registro di collocamento. Non manca mai lo psicologo vestito in maniera informale, tanto presuntuoso quanto benestante, abile nello spacciare sesquipedali banalità per affermazioni provocatorie e straordinariamente intelligenti. Poi c’è il criminologo, abbigliato come un ragioniere del catasto se uomo, come una professoressa dei film di Pierino se donna: più misurato ma non meno apodittico dello psicologo, diventa una belva se qualcuno si azzarda a contraddirlo. Ovviamente c’è anche un prete, con perle di saggezza da sciorinare alla bisogna: quando apre bocca nessuno osa contraddirlo, soprattutto nel primo canale. E qualche giornalista più narciso degli altri, specializzato nel cosiddetto “costume”. Seguono alcune figure minori, ma non meno scenografiche, in presunta rappresentanza della gente comune, o meglio dell’idea, sempre straordinariamente bassa, che autori e funzionari hanno della gente comune: il cantante degli anni ’60, la soubrette in disarmo con le ultime cartucce da sparare (magari un décolleté), la reduce di qualche reality con minigonna inguinale d’ordinanza e il fancazzista professionista con velleità da playboy. Che noia, che barba.

Il processo di primo grado, però non è che l'inizio di un cammino ancora lungo e pieno di sorprese, a cominciare dall'esposto che l'avvocato Taormina consegna alla guardia di finanza di Roma a nome dei Lorenzi e in cui viene fatto il nome di quello che secondo la difesa sarebbe il vero assassino. Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto 'Cogne bis', in cui si ipotizza la creazione di false prove nella villetta e in cui figurano 11 indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare quando l'avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 in una delle maxi aule del tribunale di Torino di fronte a una corte presieduta da Romano Pettenati e a una platea di curiosi che per ben 22 udienze, tanto è durato il dibattimento, ha fatto la fila fin dall'alba davanti al Palagiustizia, improvvisando addirittura una distribuzione di numeri per non perdere la priorità d'arrivo. Di tanto in tanto, in aula, aperta al pubblico ma non a fotografi e cineoperatori per decisione della Franzoni, arrivano anche una rappresentanza del comitato nato proprio per sostenere l'innocenza dell'imputata. La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché la Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di ''stato crepuscolare orientato''. Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l'inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ripetuto la sua innocenza. Qualcuno pensava che il caso si sarebbe risolto in una manciata di ore. Un bimbo di tre anni era stato ucciso, in casa, in presenza della madre, una donna che non stava molto bene visto che la notte precedente aveva chiamato il 118 per un malore di poco conto. Eppure, con il passare dei giorni, il delitto di Cogne si trasformò nel ''giallo'' di Cogne, appassionò il pubblico dividendolo in colpevolisti e innocentisti, ebbe la sua robusta dose di colpi di scena e si chiuse solo dopo sei anni e quattro mesi, il 21 maggio 2008, quando la Cassazione rese definitiva la condanna a sedici anni di carcere (ridotti a tredici per l'indulto) per Annamaria Franzoni. Il piccolo Samuele muore nel lettone dei genitori, la testa fracassata da 17 violenti colpi inferti con un'arma mai trovata, il 30 gennaio 2002. Ci vuole un mese e mezzo (le manette scattano il 14 marzo) prima che Anna Maria venga arrestata. E subito si scatena la bagarre attorno agli elementi messi insieme dalla procura: il pigiama della donna inzuppato di sangue, le macchie sugli zoccoli, gli otto minuti passati dalla Franzoni fuori casa per accompagnare l'altro figlio allo scuolabus. Ogni discussione, in aula e fuori, si avviterà, fino all'ultimo giorno, attorno a questi e ad altri pochi elementi. Anna Maria, nel marzo del 2002, ha come difensore l'avvocato Carlo Federico Grosso, tratti e modi da antico gentiluomo torinese, ex vicepresidente del Csm, che la fa liberare nel giro di due settimane: mancanza di indizi, scrivono i giudici del tribunale del riesame.

Ed è solo il primo dei tanti stravolgimenti di fronte che scandiranno la storia dell'inchiesta. ''Per individuare l'assassino la procura di Aosta deve avere uno scatto di fantasia'', dice Grosso. Ma la procura di Aosta non molla la presa sulla Franzoni, ricorre in Cassazione e vince: il 10 giugno la Suprema Corte annulla l'ordinanza del riesame. E' in quel frangente che la famiglia di Annamaria chiama in aiuto Carlo Taormina, uno dei personaggi più in voga del momento: avvocato in processi clamorosi, docente universitario, parlamentare, grande frequentatore dei talk-show in tv, uomo dalle dichiarazioni roboanti e aggressive. L'opposto di Grosso (che, in pochi giorni, lascia la difesa della mamma di Sammy). Il 19 settembre, il riesame-bis stabilisce che l'ordine di cattura di Anna Maria è valido, che gli indizi ci sono, ma ormai la donna può attendere i processi in assoluta libertà. L'appuntamento con il giudice è il 19 luglio 2004. Taormina sceglie il giudizio abbreviato, si decide sulla base delle carte raccolte dalla procura, per sciogliere l'enigma al gup Eugenio Gramola basta un'udienza: Anna Maria è colpevole, sono 30 anni di carcere. Parte il contrattacco. Al grido di ''troveremo l'assassino'' Taormina raduna una squadra di collaboratori e, dopo un sopralluogo a Cogne il 28 luglio, compone una denuncia sulla plausibile colpevolezza di un vicino di casa.

Ma è un boomerang. Le carte arrivano alla procura di Torino, che ipotizza un inquinamento della scena del delitto: nasce l'inchiesta Cogne-bis, che anni dopo si chiude con una marea di proscioglimenti e la sola condanna della Franzoni a due anni per calunnia. Il 16 novembre 2005 scocca l'ora del processo d'appello. In teoria è un rito abbreviato, ma la Corte accontenta la difesa riaprendo il dibattimento e la causa si allunga a dismisura: si ascoltano nuovi testimoni, si rifà la perizia psichiatrica e Taormina trasforma ogni udienza in uno show. L'indomabile professore trova però un degno contraltare nella placida e sottile ironia del presidente, Romano Pettenati, e nell'austerità del pg Vittorio Corsi. Il tutto in un'aula stracolma di pubblico, tanta gente che non perde una battuta e soprattutto non stacca gli occhi dalla Franzoni per vedere se piange o se guarda il marito. Taormina polemizza su ogni virgola e il 20 novembre 2006, dopo l'ennesima protesta, lascia il processo. Al suo posto viene nominato un legale d'ufficio, Paola Savio. ''Sulle prime pensavo a uno scherzo'', confessa. E' un'avvocatessa giovane dall'aria mite, ma presto, con l'aiuto del collega Paolo Chicco, prende in mano la situazione. La strategia dei Franzoni cambia di nuovo, ora è più misurata, più centrata sul dolore e sulla commozione. Il pg Corsi non è da meno: ''Annamaria è una bimba che ha commesso un grosso guaio in un momento di debolezza, ammetta ciò che ha fatto e tutti le vorremo bene lo stesso''. La sentenza viene pronunciata il 27 aprile 2007: la mamma di Sammy è di nuovo colpevole ma questa volta merita le attenuanti e la pena è ridotta a sedici anni. Ed è la sentenza che, tredici mesi dopo, viene confermata dalla Cassazione. E' la sera del 21 maggio 2008. Già nella notte per Anna Maria si aprono le porte del carcere.

Certo per i magistrati e per i giornalisti ci sono dubbi, ma per la storia i dubbi permangono. L’arma del delitto non è mai stata trovata così come presumibilmente nemmeno il colpevole dell’ omicidio. Questo processo e questo delitto segnano l’inizio di un’attività mediatica negli omicidi più particolari ed efferati che l’Italia abbia mai avuto. L’avvocato Taormina, che per un certo periodo di tempo ha difeso la mamma di Cogne ha spinto perchè il caso di Anna Maria Franzoni fosse portato in televisione alla luce del pubblico giudice che si è diviso tra chi sosteneva una tesi colpevolista e chi invece sosteneva una tesi innocentista. Grazie alla trasmissione Porta a Porta, condotta da Bruno Vespa poi, il caso ha avuto una risonanza mediatica enorme quasi fosse una telenovela. L’omicidio di Samuele è diventato così un evento che ha coinvolto ogni famiglia italiana nel privato. Il viso della Franzoni e la sua persona sono stati esposti mediaticamente fino al 2008 anno in cui è stata confermata la sentenza che l’ha vista colpevole dell’omicidio del suo bambino e che le sta facendo tutt’ora scontare una pena nel carcere di Bologna. Durante le indagini, alcune prove sono state manomesse altre invece sono state montate nel tentativo di scagionare l’unica indagata, ma non solo, celebre è diventata la frase della Franzoni che di fronte ai Carabinieri venuti a casa sua per interrogarla poco dopo la morte del figlio implorava il marito di farne un altro come se la morte del piccolo Samuele non fosse altro che un cambio di bambino o un capitolo della propria vita da eliminare.

Sono le 8.28 del 30 gennaio 2002: al 118 di Aosta arriva la telefonata di una mamma disperata, che chiede aiuto per il suo bambino che "vomita sangue". Comincia così uno dei casi di cronaca più discussi e controversi, che in dieci anni di polemiche, perizie e colpi di scena, ha continuato ad appassionare l'opinione pubblica. Quella mamma è Anna Maria Franzoni, e il suo bambino il piccolo Samuele Lorenzi. Ucciso, secondo il processo, proprio dalla madre. Mentre l'autopsia accerta che il bambino è stato colpito alla testa da un corpo contundente, da subito i riflettori vengono puntati sulla mamma del bambino, Anna Maria Franzoni, e l'Italia torna a dividersi ancora una volta tra innocentisti e colpevolisti, trasformando la vicenda di Cogne in un caso giudiziario lungo e difficile, sul quale nel corso di questi anni si sono espressi esperti e non, di ogni genere e valore, e dove non sono mancati neppure anonimi "investigatori" che con lettere e perfino cartoline hanno hanno suggerito agli inquirenti la loro personale verità.

Il primo arresto di Anna Maria. A dare ragione a chi è convinto che Anna Maria, che da sempre si proclama innocente, sia colpevole arriva, il 14 marzo 2002, l'ordinanza di arresto firmata dal gip di Aosta, Fabrizio Gandini. L'accusa è di omicidio volontario e la mamma di Samuele viene rinchiusa nel carcere di Torino, dove rimane fino al 30 marzo, quando viene scarcerata su decisione del Tribunale del riesame che accoglie il ricorso presentato dal legale di Anna Maria, Carlo Federico Grosso. Per il Tribunale gli indizi non sono sufficienti, ma la decisione viene a sua volta annullata il 10 giugno dalla Cassazione, che rimanda tutto ad un nuovo collegio giudicante del Tribunale della libertà che questa volta, il 4 ottobre sempre del 2002, dichiara valido l'ordine di custodia per la Franzoni. Prima che il provvedimento diventi definitivo, il gip aostano, però, lo ritira per cessate esigenze cautelari. La donna resta indagata a piede libero.

Arriva l'avvocato Taormina. A difenderla, ora c'è però un altro avvocato. E' Carlo Taormina che il 25 giugno 2002 la famiglia Franzoni include nel collegio difensivo, provocando l'uscita di scena polemica di Carlo Federico Grosso. Intanto, l'8 aprile 2002, Annamaria a Novara incontra i periti incaricati di accertare se la donna, al momento dell'omicidio, fosse capace di intendere e di volere. La perizia stabilirà che Anna Maria è sana di mente e che lo era anche al momento dell'omicidio.

Prima condanna a 30 anni. Il 19 luglio 2004 il gup di Aosta, Eugenio Gramola, condanna la mamma di Cogne a trent'anni di carcere, il massimo della pena previsto con il rito abbreviato scelto dalla difesa. Per Annamaria , che nel frattempo ha avuto un nuovo figlio, Gioele, non si aprono però le porte del carcere. Insieme al marito Stefano Lorenzi e ai due figli si rifugia nel paese natale, protetta dalla famiglia che non ha mai smesso di credere nella sua innocenza.

La controaccusa ai vicini di casa. Il processo di primo grado non è che l'inizio di un cammino ancora lungo e pieno di sorprese, a cominciare dall'esposto che a fine di luglio l'avvocato Taormina consegna alla Guardia di Finanza di Roma a nome dei Lorenzi e in cui viene fatto il nome di quello che secondo la difesa sarebbe il vero assassino. Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto "Cogne-bis", in cui si ipotizza la creazione di false prove nella villetta e in cui figurano 11 indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare il 2 novembre, quando l'avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 in una delle maxi aule del tribunale di Torino di fronte a una corte presieduta da Romano Pettenati e a una platea di curiosi che per ben 22 udienze, tanto è durato il dibattimento, ha fatto la fila fin dall'alba davanti al Palagiustizia, improvvisando addirittura una distribuzione di numeri per non perdere la priorità d'arrivo. Di tanto in tanto, in aula, aperta al pubblico ma non a fotografi e cineoperatori per decisione della Franzoni, arrivano anche una rappresentanza del comitato nato proprio per sostenere l'innocenza dell'imputata.

La perizia psichiatrica: "Vizio parziale di mente". La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché la Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di "stato crepuscolare orientato". Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l'inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ripetuto la sua innocenza. Nuovi sopralluoghi, perizie neurologiche e tecniche, interrogatori colpi di scena caratterizzano anche il processo d'appello che si protrae per oltre un anno e mezzo. Nella maxi aula 6 del Tribunale torinese, il pubblico non manca mai, ogni volta si presenta con la speranza di poter cogliere nei gesti o negli atteggiamenti della mamma di Cogne qualche indizio che possa anche solo alimentare il gossip.

Taormina rinuncia, arriva l'avvocato Savio. L'ultimo colpo di scena quando il legale Carlo Taormina, nel novembre 2006, rinuncia al mandato in aperta contestazione con la corte e con quella che per lui, come ha ripetuto più volte, è "una sentenza già scritta". D'ora in avanti sarà un avvocato d'ufficio a occuparsi del processo, l'avvocato Paola Savio, che dopo qualche mese da legale d'ufficio diventa avvocato di fiducia e impronta la sua difesa al massimo fair play, tanto che lo stesso presidente della Corte, Pettenati, prima di ritirarsi in Camera di consiglio per la sentenza, sottolinea: "E' stata una fortuna che il sistema informatico abbia scelto lei quel giorno in cui la signora era stata abbandonata dalla difesa".

Già. Meglio un avvocato di ufficio che un agguerrito e preparato avvocato di fiducia: Cose già viste, anche ad Avetrana.

Confermata la condanna di primo grado. Il procuratore generale, Vittorio Corsi e l'avvocato Savio si confrontano per due udienze ciascuno. Il primo, al termine di una requisitoria durata diverse ore, nella quale, uno dopo l'altro, analizza tutti gli elementi clou del processo, dall'arma del delitto, al pigiama, dagli zoccoli al calzino mancante, al ruolo che la famiglia Franzoni ha svolto negli anni in cui si è dipanata la vicenda, chiede, per Anna Maria la conferma della sentenza di primo grado, 30 anni, non senza prima averla invitata a confessare ed aver invocato la pietas della Corte. Alla pietas del procuratore generale risponde l'avvocato difensore che in due giornate di arringa ribatte punto per punto alle affermazioni dell'accusa e al termine chiede l'assoluzione piena per la sua cliente. Qualche giorno dopo è di nuovo il pg a replicare, conferma la sua accusa e chiede ad Annamaria il coraggio della confessione, mentre la difesa il coraggio lo chiede alla corte. Dicendosi certa dell'innocenza della cliente, appellandosi al "ragionevole dubbio" in processo in cui non ci sono ne arma né movente, chiede alla corte il coraggio di dubitare.

Anna Maria in lacrime davanti ai giudici. La parola fine tocca però ad Anna Maria. Tra le lacrime, la mamma di Cogne, che quel 30 gennaio 2002 chiedeva aiuto per il figlioletto ferito, ora con la voce rotta, ha chiede giustizia. «Siate giusti nel giudizio - ha detto - non ho ucciso mio figlio, non gli ho fatto niente». La corte però decide diversamente e dopo oltre 9 ore di Camera di Consiglio la condanna a 16 anni per l'omicidio del figlio (13 con l'indulto).

Anche la Cassazione respinge: condanna confermata. Contro la sentenza, i legali presentano ricorso in Cassazione che la suprema corte però respinge il 21 maggio 2008 confermando la sentenza emessa poco più di un anno prima dalla corte d'assise di Torino. Anna Maria Franzoni aspetta la sentenza a Ripoli Santa Cristina, sull'Appennino tosco-emiliano, a casa di un'amica. E a casa la raggiungono i carabinieri per notificarle l'arresto e trasferirla in carcere a Bologna.

Prosegue il turismo dell'orrore nella villetta. E non accenna a diminuire il turismo macabro a Cogne. La processione di gente nella casa di Montroz continua ancora oggi, magari in forma più contenuta. E' ancora l'allora sindaco Osvaldo Ruffier, memoria storica della comunità, a trovarsi a dover indicare il percorso da seguire per raggiungere la villetta di Annamaria e Stefano Lorenzi. «Quella vicenda resterà per noi una ferita incancellabile - afferma l'ex sindaco -. Dopo dieci anni va registrato che ci sono ancora persone che arrivano a Cogne e chiedono indicazioni per andare a vedere di persona la casa dove è stato ucciso il piccolo Samuele. Una pratica che, credo, non si interromperà mai». Il tempo, come racconta l'allora sindaco, ha contribuito a fare decantare la vicenda ma dalle sue parole si capisce che ci sono ancora ferite aperte: «chi ha vissuto la vicenda non potrà mai archiviare le infamanti accuse che ci si è sentiti rivolgere. Ad un certo punto è stata messa sotto accusa mezza Cogne, ma la giustizia ha messo da tempo la parola fine alla vicenda. A noi resta la macchia».

Cogne ha neve, gelo. E indifferenza. Il sindaco Franco Allera, primo cittadino dal 2010, geometra, è il progettista della «Villetta di Cogne», come ancora la chiamano, anzi, la rivendicano i turisti. «Sembra che il tempo non passi più, siamo ancora lì», dicono al bar «Centre», piccolo locale nella piazza del paese. Si ferma un'auto di una coppia a due passi del municipio. Lui chiede: «Scusi sa indicarmi la "villetta di Cogne"?». E un altro turista fa tintinnare la porta del tabaccaio, a qualche passo dal bar, e brucia il tempo del saluto con la sua impellente richiesta: «Avete una cartolina della "villetta"? Sa, quella...». Risposta: «So, so... No, non ne esistono». Il turismo macabro non ha limiti. Cogne come Avetrana. La «Villetta» in quel prato ripido in cui sbucano dalla neve rovi di rose selvatiche con bacche color del sangue è un po' meno sola, ma è una casa lasciata alla sua tragica testimonianza. Lasciata lì, non venduta, né affittata. Ad aprirla ogni tanto ci pensava «nonno Mario», il papà di Stefano Lorenzi, morto a fine agosto 2010. Hanno costruito due case appaiate e gemelle appena sopra e una grande di legno brillante e imponenti muri in pietra a fianco. C'è un grande cartello giallo dell'Immobiliare che l'ha costruita: si vende e si affitta. Ma dove Samuele fu ucciso con un oggetto mai scoperto (forse un cristallo di quarzo) tutto pare fermo al 2002. Solo il vento è riuscito a strappare sul lato nord i sigilli del sequestro. Sono spariti anche dalle ante di legno che proteggono gli «occhi» voluti da Anna Maria. Sulle altre finestre e sulle porte i fogli dell'autorità giudiziaria sono ancora lì, incollati da un largo e resistente nastro isolante marroncino. La «Villetta di Cogne» è in frazione Montroz. Guarda dall'alto il capoluogo e la prateria di Sant'Orso. Nessuno sa se sia ancora nei sogni di Anna Maria, forse lo è negli incubi. La mamma di Sammy, in carcere a Bologna, non vuole parlare con nessuno. Si è perfino chiusa nel bagno della sua cella per non incontrare il deputato Melania Rizzoli del Pdl che sta raccogliendo testimonianze per un libro sulle donne in prigione. Il suo avvocato torinese, Paola Savio, che ha tentato in tutti i modi di spegnere i riflettori sul «caso Cogne», mantiene la riservatezza di sempre. E dice: «Non verrà mai un giorno in cui Anna Maria smetterà di professare la sua innocenza».

Anna Maria in carcere riceve soltanto il marito Stefano, da sempre convinto della sua innocenza, e i suoi figli, Davide, che il mattino del delitto accompagnò allo scuolabus e Gioele, nato l'anno dopo. La Cogne tanto amata diventò un «paese di invidiosi» per Anna Maria proprio mentre aspettava il suo terzo figlio. Ne parlava nell'area verde dell'agriturismo della sua famiglia, a Monte Acuto, sull'Appennino bolognese. E lanciava le accuse, i suoi sospetti sui vicini. Si sentiva tradita dal paese che l'aveva accolta e l'aveva sorretta nei giorni della morte di Samuele. Un paese che si spaccò, che fu dilaniato da fronti contrapposti, che diventò a lungo un set tv.

Sindaco nel 2002 era Osvaldo Ruffier: «La gente adesso è indifferente, allora era un tumulto. Anche per Anna Maria è finita, a breve uscirà pure dal carcere. Donna tosta, sa? Eravamo in buoni rapporti anche se Stefano era un consigliere di opposizione. Subito fu la solidarietà, la compassione ad abbracciare quella famiglia, poi cominciarono a fare nomi di vicini e altri come coinvolti nell'omicidio. E allora Cogne si offese. Fu la frattura». E quello di oggi, Allera: «L'imperativo è uno solo, dimenticare e passare oltre. è stato un dramma della follia, una terribile vicenda umana. La giustizia ha fatto il suo corso e Cogne ha ritrovato il suo equilibrio». Dimenticare. Anche il parroco don Corrado Bagnod, che celebrò i funerali di Samuele, non spende parole: «Buongiorno, arrivederci».

La cittadina di Cogne troppo presto ha preso le distanze con i media e con Anna Maria Franzoni. Cosa nasconde la riservatezza di quella gente. Forse niente. Ma ad Avetrana quella stessa riservatezza per i media e per i forestieri è diventata omertà. Sono convinto che dietro il delitto di Cogne ci sia una verità storica non riconosciuta dalla verità processuale e mediatica. Ciò si evince da alcuni dati inconfondibili: manca il movente, manca l'arma del delitto, manca la confessione; la difesa aveva accennato di sapere chi era l'autore vero del delitto, annunciando di poterlo rivelare a tempo debito, ma poi non si è fatto più niente; la difesa insiste su indizi e macchie di sangue in posti della villetta che farebbero pensare ad una fuga precipitosa, ma queste prove non sono state abbastanza approfondite; si sa che la Franzoni non aveva un buon rapporto con Cogne, i cui abitanti, sbrigativamente, puntano il dito contro di lei quale unica indiziata, salvo poi non sapere un bel nulla del perchè del delitto; il sindaco o l'ex sindaco di Cogne affermavano che tutto era chiaro; si accennava che il probabile omicida è una persona di cui molti avrebbero paura. Si dice che la Franzoni potrebbe coprire il secondo figlio quale esecutore materiale del delitto. Si dice che la madre potrebbe aver dimenticato. Si parla persino di amanti della Franzoni. Forse qualcuno voleva rapire il piccolo Samuele e alle strilla di questi l’ha ucciso ed è scappato di corsa. Qualcuno ha fatto allusione anche a possibili interconnessioni politiche legate all’impegno amministrativo del padre dell’ucciso presso il Comune di Cogne. Si accenna anche a screzi continui con i vicini. Ma il fatto più inquietante è una intervista rilasciata da un familiare della Franzoni poche settimane dopo il delitto del piccolo Samuele, che parlava chiaramente di eventi che non possono essere resi pubblici.

Su “Oggi” Carlo Taormina a Giangavino Sulas afferma: è questa l’arma del delitto di Cogne? L’hanno cercata per anni. Dovunque. Hanno rivoltato come un guanto la villetta di Cogne. Hanno scavato in giardino. Hanno setacciato i terreni sottostanti. Hanno scandagliato i corsi d’acqua. Niente. I processi si sono chiusi in Cassazione il 21 maggio 2008 con la condanna definitiva di Annamaria Franzoni, senza l’arma che, la mattina del 30 gennaio 2002 aveva ucciso Samuele Lorenzi. Medici legali, carabinieri del Ris, periti, consulenti e magistrati si sono persi in mille ipotesi: dalla piccozza al martello, dal pentolino al sabò (lo scarpone valdostano), dal mestolo al moschettone da alpinista. L’hanno cercata invano con tale e tanta cocciutaggine che un giorno, qualche mese dopo il delitto, Giorgio Franzoni, il padre di Annamaria, esasperato ma con una buona dose di cinismo si fece intercettare da una microspia piazzata nella sua auto mentre diceva: «Sotterriamo una martellina dopo averla immersa nell’acido muriatico e gliela facciamo trovare. Così la smettono di cercarla». Oggi però la possibile arma che uccise il bambino di Cogne compare nello studio romano di piazza Cavour di Carlo Taormina, l’avvocato che ha difeso la Franzoni dal giugno 2002 al 20 novembre 2006, quando in Corte d’Assise d’Appello, a Torino, annunciò: «Lascio la difesa perché qui la sentenza è già scritta». «E se fosse questo l’oggetto con il quale è stato colpito a morte Samuele?», sorride e sogghigna Taormina mentre da un cassetto della scrivania tira fuori una pinza da elettrauto. «I miei medici legali, ai quali la feci esaminare, sono stati chiari: “È compatibile con le ferite sulla testa del bambino”. Ma io non ci credo perché a farmela trovare è stata una veggente. Questi personaggi sono dei ciarlatani, ma quella volta quella signora insistette tanto che alla fine mi convinse…». Scusi avvocato, quando quella volta? E chi è questa signora? Insomma, da dove salta fuori questa pinza e da quanto tempo la tiene nel suo studio? La storia che potrebbe addirittura portare a una richiesta di revisione del processo sul delitto di Cogne nasce negli studi di Telelombardia una sera del dicembre 2011 durante la trasmissione Iceberg condotta da Marco Oliva. Per poi approdare a Domenica 5 del 5 febbraio 2012, il talk chow di Canale 5 condotto da Federica Panicucci  Si parla della scomparsa di Yara Gambirasio. Va in onda un’intervista a una veggente che dichiara di sapere tutto sul destino della ragazza di Brembate Sopra. Il conduttore chiede a Taormina che cosa ne pensi. «Buffonate », sbotta con la sua solita feroce schiettezza il penalista, che subito dopo però aggiunge: «Anche se a me, anni fa, è capitato un episodio… ». E qui inizia la clamorosa rivelazione: «Una signora insistette tanto sostenendo di avere avuto una visione durante la quale era sicura di avere individuato l’arma con la quale era stato ucciso Samuele. Mi convinse, dopo tante insistenze, ad accompagnarla a Cogne ed effettivamente sul greto di un torrente che scorre sotto la casa dei Franzoni trovammo uno strano oggetto». Fine della trasmissione.

Il giorno dopo chiamiamo Carlo Taormina: «Scusi avvocato, ma quell’oggetto l’ha fotografato?». «No. Io ho l’oggetto. Lo tengo nel mio studio». Andiamo da Taormina ed ecco da un cassetto comparire una pinza, grande e pesante, con i beccucci rotondi in cima. Classico strumento di elettricisti, elettrauto, periti elettrotecnici. Sembra nuova. «Vede, impugnata così, diventa un oggetto snodabile che può aver lasciato quella scia di macchie di sangue sulle pareti della stanza del delitto», dice l’avvocato. «E la forma arrotondata del manico è compatibile con le ferite. Me l’hanno detto i medici legali». Quando l’ha trovata? «Nel settembre 2004. C’era appena stata la sentenza di primo grado con la condanna a 30 anni per la Franzoni. Una signora di Parma che sosteneva di essere una veggente, diciamo solo il nome, Wanda, moglie di un noto imprenditore, cominciò a telefonarmi: “Le faccio ritrovare l’arma che ha ucciso Samuele”. Non le diedi retta finché un giorno mi disse: “Ho sognato il posto dove è stata nascosta. Se andiamo a Cogne la troviamo”. Alla fine cedetti. Partimmo accompagnati dalla mia scorta. In base a quanto diceva di aver visto durante il sogno, la donna iniziò la ricerca del nascondiglio lungo il torrente che scorre sotto la villetta dei Franzoni. Lo individuò dopo due ore e allora, io, lei e gli agenti della scorta iniziammo a cercare l’arma. Passarono altre due ore e proprio uno dei poliziotti, in una specie di piccolo anfratto, trovò questa pinza. “È questa l’arma che ha ucciso Samuele”, disse la donna. Be’, lo ammetto, ne fui impressionato ». Perché non la consegnò agli inquirenti? «Non rientrava nei miei compiti. Io ero il difensore della donna accusata del delitto. Ero tenuto solo alla sua difesa e al segreto professionale. Mi limitai a consegnarla ai miei medici legali. Avuta la loro risposta, decisi di tenerla e seguire gli sviluppi dell’inchiesta e del processo di secondo grado». Perché non la fece analizzare? Su quella pinza si potevano scoprire impronte digitali o genetiche di qualcuno. Forse temeva che potessero diventare la prova provata della colpevolezza della Franzoni? «Questo lo insinua lei. Le prove contro Annamaria dovevano trovarle gli inquirenti, non io. E non le hanno mai trovate». Perché non la consegna adesso, la pinza? «No. Dopo che uscirà il servizio su Oggi, la butterò via».

Con Carlo Taormina non c’è molto da discutere. Però, se quella pinza ha massacrato Samuele, negli spazi fra le ganasce potrebbero ancora essere custodite tracce di materiale biologico. Ma può davvero essere l’arma del delitto? L’abbiamo chiesto all’uomo che più di chiunque altro ha esaminato le ferite che hanno provocato la morte del bambino di Cogne. Francesco Viglino, medico legale e docente universitario, fece due autopsie: il 31 gennaio e il 4 febbraio 2002. L’8 giugno dello stesso anno consegnò la relazione conclusiva del suo lavoro alla Procura di Aosta. Sulle ferite, nella perizia sostiene: «Per quanto si evince dalla morfologia delle lesioni rilevate… si è potuto ipotizzare che le stesse siano state prodotte da corpo contundente che presenta le seguenti caratteristiche: facile e agevole impugnabilità; rigidità; di buona consistenza; dotato di margini acuti, rettilinei e spigoli vivi». E prosegue: «Tale condizione consente di rilevare una superficie di impatto del corpo contundente assai ristretta, come appunto, quella di uno spigolo o di una grossa punta». E conclude: «Ciò detto circa le caratteristiche delle lesioni, dovendo ipotizzare quale possa essere stato il mezzo che le ha prodotte, non può essere identificato in un mezzo ben preciso ma può essere compreso in una vastissima gamma di strumenti idonei a ledere. Ad esempio manganelli o bastoni o mazze per ciò che concerne le armi proprie, martelli, soprammobili, strumenti per l’uso domestico, quali armi impropriamente usate». Chiediamo a Viglino perché nella sua relazione non parli di pinze: «Avrei dovuto enumerare decine di oggetti. Il problema è la forma delle ferite: sono a coda di rondine. Queste pinze, impugnate al rovescio, potrebbero essere l’arma del delitto perché provocherebbero lesioni con le caratteristiche che ho detto». Luciano Garofano, ex comandante del Ris di Parma, allora cercò di scoprire quale fosse l’arma non solo dalla forma delle ferite ma dalla scia di macchie di sangue sulle pareti della stanza: «E conclusi», ci dice oggi, «che doveva essere un oggetto maneggevole e con un manico abbastanza lungo. Un oggetto che facesse “l’effetto aspersorio” trascinando il sangue dal basso verso l’alto. Questa pinza ha un manico che può provocare questo effetto. E anche alcune delle ferite sono compatibili con le punte della pinza rivolte verso il basso. Ma mi chiedo: perché saltano fuori adesso?».

A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana?

IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.

Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia.

Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini.

Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione.

Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati.

Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro in elaborazione su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti.

Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda?

Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte.

Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.

L'omicidio Giusy Potenza: le tappe.

Dal delitto all'arresto del cugino, al coinvolgimento delle due ragazze di Manfredonia per favoreggiamento della prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia.

Giusy Potenza viene uccisa il 12 novembre del 2004 a Manfredonia con una grossa pietra da 4 chili. Il suo corpo è ritrovato nei pressi dello stabilimento ex Enichem e di una scogliera il pomeriggio successivo all'omicidio. Dopo un mese e mezzo di continue voci sulla presenza di un branco e su presunte frequentazioni poco raccomandabili della ragazza, arriva la confessione di Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni cugino del padre. Il 23 dicembre il presunto omicida, sposato e padre di due figli di 2 e 8 anni, racconta agli inquirenti di aver cominciato dalla fine dell'estate precedente una relazione segreta con la giovane studentessa. Il pomeriggio dell'ultimo incontro, dopo aver avuto un rapporto sessuale in auto, l'uomo avrebbe detto a Giusy di essere intenzionato a mettere fine alla relazione.

Il 6 maggio 2005 le indagini hanno una svolta. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Le due, residenti a Manfredonia e incensurate, avrebbero mentito agli inquirenti per non far sapere di essere implicate in un giro di prostituzione in cui avrebbero trascinato anche Giusy Potenza. Il sospetto di un loro coinvolgimento esisteva da tempo: le due ragazze avevano infatti sostenuto di aver trascorso a casa il pomeriggio dell'omicidio, mentre alcuni testimoni le avevano notate proprio davanti al negozio Bernini, dove Giusy si era recata per comprare dei dischi poco prima che si perdessero le sue tracce. Particolarmente importante la testimonianza di un uomo, secondo il quale le due giovani avrebbero fatto prostituire Giusy in sporadiche occasioni con clienti procurati da loro e con la promessa di dividere gli incassi. In ogni caso, secondo gli inquirenti, le due ragazze non sarebbero coinvolte nell'omicidio, di cui sarebbe unico responsabile Giovanni Potenza.

Poi, il 30 maggio, un nuovo colpo di scena. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. La rabbia innescata dal desiderio di vendetta lo ha spinto a entrare nel bar Olimpia di via Gargano, a Manfredonia, poco distante da casa sua: ha ordinato una birra, si è avvicinato con calma al bancone, ha estratto il coltello, ha urlato: «È ancora vivo questo qua?». Poi ha colpito, una volta sola, alla pancia, forse lo ha fatto seguendo un copione criminale maturato con il passare dei giorni, forse è stato un raptus scattato all'improvviso: fatto sta che in pochi istanti di lucida follia, Carlo Potenza, 37 anni, ha tentato di vendicare la figlia Giusy, la quindicenne massacrata il 12 novembre 2004 a Manfredonia, riducendo in fin di vita Pasquale Mangini, 41 anni, il padre di Filomena Rita, 19 anni, una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver spinto la minorenne alla prostituzione, una storia affiorata nel corso di ulteriori indagini avviate dalla polizia. Potenza è uscito dal bar subito dopo aver colpito, ha tentato di fuggire ma è stato bloccato e arrestato dalla polizia; il ferito è stato trasportato in ospedale: è stato ricoverato nel reparto di chirurgia d'urgenza e poi in rianimazione. I medici lo hanno operato, le sue condizioni sono gravi e la prognosi è riservata. L'uomo viene ferito all'addome, Carlo Potenza è arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Il giorno successivo altre due persone vengono arrestate con l'accusa di concorso in tentato omicidio: si tratta di due pescatori, amici del padre di Giusy, che lo avrebbero accompagnato nei pressi del bar e lo avrebbero aspettato fuori. Subito dopo il ferimento avrebbero preso in consegna il coltello e lo avrebbero nascosto mentre Potenza si dava alla fuga. Potenza era stanco delle voci del paese sulla figlia, diffuse sia durante la fase delle indagini ma anche successivamente al fermo del presunto assassino. Incontrò Mangini nel bar Olimpia dove quest’ultimo stava bevendo una birra e lo colpì con un grosso coltello da cucina. Poi uscì dal bar e consegnò l’arma a due amici pescatori, Antonio Varrecchia e Biagio Piemontese. Poco dopo giunsero i poliziotti del Commissariato che lo arrestarono e lo sottrassero al linciaggio della folla. Potenza, anche lui pescatore come il presunto assassino della figlia, venne scarcerato e posto agli arresti domiciliari in una località segreta, lontano da Manfredonia. Da quel momento Carlo Potenza è tornato a vivere a Manfredonia, sempre ai domiciliari presso la casa dei suoceri.

Infine, il 24 ottobre 2006, l’ennesimo lutto: la madre di Giusy, Grazia Rignanese, peraltro in attesa di 7 mesi di un figlio, si è tolta la vita impiccandosi. Non ha retto al dolore per la perdita tragica della figlia e a tutte le altre tragedie.

La ragazza avrebbe reagito male minacciando di riferire tutto alla moglie del pescatore e agli altri familiari. A quel punto la vittima sarebbe uscita dall'auto e, forse per il buio e la pioggia, sarebbe caduta accidentalmente giù per la scogliera profonda 8 metri, ferendosi. L'uomo l'avrebbe aiutata a risalire ma la ragazza avrebbe ripetuto le minacce. In un impeto d'ira, il pescatore le avrebbe fracassato la testa con un grosso sasso, lasciandola esanime sotto una pioggia battente. A incastrare Giovanni Potenza, dopo 40 giorni di indagini, è il confronto tra il suo Dna, abilmente prelevato dagli investigatori, e quello del liquido seminale ritrovato sul corpo della vittima. Una prova che conferma quanto detto dalla ragazza a un suo coetaneo il pomeriggio dell'omicidio in un negozio di dischi, parole alle quali gli investigatori, in un primo tempo, non avevano dato peso. I familiari della ragazza, attraverso il loro legale, sostengono la presenza di altre persone al momento dell'omicidio (smentita dagli investigatori) e negano la relazione di Giusy con l'uomo, di cui peraltro in paese nessuno sembrava essere a conoscenza. Anche dai tabulati telefonici non arrivano elementi che confermano il rapporto. I risultati definitivi dell'autopsia poi sostanzialmente confermano quanto ipotizzato dagli inquirenti in un primo momento: nessuna violenza sessuale e omicidio d'impeto.

8 ottobre 2011. La corte d’appello di Bari ha assolto Filomena Rita (Floriana) Mangini e Sabrina Santoro, le due ragazze accusate e condannate in primo grado a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione di Giusy Potenza, la 15enne di Manfredonia uccisa da un cugino del padre il 13 novembre 2004 a colpi di pietra. In primo grado l’accusa sosteneva che le due ragazze dividessero tra loro i guadagni delle prestazioni di Giusy con i clienti (da 10 a 30 euro), visto che, secondo l’accusa, procacciavano i clienti alla giovanissima. In un secondo momento decadde l’accusa di sfruttamento e restò in piedi solo quella di favoreggiamento. Le dichiarazioni di un amico di Giusy non sono state ritenute credibili in appello, così come dai tabulati telefonici è emerso che non ci fossero contatti tra le due imputate e la ragazzina. Il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione famiglia della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Indagando sull’omicidio della minorenne (l’assassino è stato condannato a 30 anni in via definitiva), Procura foggiana, agenti del commissariato e squadra mobile scoprirono che Giusy si prostituiva per pochi euro, da 10 a 30 euro a secondo della prestazione. E lo faceva - diceva l’accusa che non ha retto al vaglio dibattimentale - perchè Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini le procacciavano i clienti e spartivano i guadagni, vicenda per le quali le due imputate furono arrestate e poste ai domiciliari il 6 maggio del 2005 (l’accusa di favoreggiamento nei confronti dell’omicida inizialmente ipotizzata dal pm fu poi archiviata), per poi tornare libere dopo due mesi. Già la sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007, aveva in parte ridimensionato l’impianto accusatoria: escluse che le due imputate avessero indotto Giusy a prostituirsi e l’avessero sfruttata: furono comunque condannate a 4 anni a testa «solo» per favoreggiamento della prostituzione (e non anche per induzione e sfruttamento). Per questo reato, dopo innumerevoli rinvii, si è celebrato e chiuso in un’unica udienza il processo d’appello a Bari davanti alla «sezione famiglia». Il sostituto procuratore generale chiedeva la conferma della condanna, richiesta ribadita dagli avvocati Raul Pellegrini e Flora Torelli costituitisi parte civile per conto dei familiari di Giusy; i difensori, gli avv. Francesco Santangelo e Mario Russo Frattasi, hanno replicato parlando di accuse prive di riscontri, basate su voci e sulla testimonianza di un cliente di Giusy che tra indagini e processo di primo grado aveva cambiato innumerevoli versioni, dicendo tutto e il contrario di tutto. L’accusa contro Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini poggiava su due testimonianze, essenzialmente. C’era un coetaneo della vittima al quale la minorenne confidò, un mese prima dell’omicidio, d’essere entrata in un giro di prostituzione per soddisfare gli uomini e d’averlo fatto su proposta delle due imputate. E c’era soprattutto un manfredoniano di 34 anni (all’epoca dei fatti) che avrebbe avuto rapporti a pagamento con Giusy, dalla quale fu indirizzato - sostenevano inquirenti e investigatori - dalla Mangini e dalla Santoro («vuoi fre...? C’è quella ragazza lì...» l’invito che gli avrebbero rivolto le imputate, sempre smentito da queste ultime). La difesa replicava che le due imputate conoscevano Giusy solo per essere amiche della sorella maggiore, ma non la frequentavano e tantomeno ne «gestivano» la prostituzione; i tabulati telefonici dimostravano che non c’erano contatti tra la vittima e le imputate, pure «obbligatori» se le due amiche fossero state coinvolte nel presunto giro di prostituzione; il presunto cliente di Giusy aveva detto tutto e il contrario di tutto, negando prima, ammettendo rapporti a pagamento con la vittima, accusando le due imputate e poi facendo marcia indietro. Non è nemmeno certo che Giusy si prostituisse, altro argomento battuto dagli avv. Santangelo e Russo Frattasi per chiedere l’assoluzione delle due sipontine: vero che lei lo aveva confidato ad un amico, ma Giusy non sempre era credibile; e lo stesso presunto cliente ne aveva dette tante da renderlo assolutamente inattendibile e incredibile.

E’ stato scritto un libro sul delitto di Giusy Potenza: "Non ce lo dire a nessuno" di Innocenza Starace. Diario dell'avvocato di Giusy Potenza. Il libro comincia così: “Chiamo per conto di un amico, una giovane uccisa si trova vicino allo stabilimento ex Enichem”. - È un giorno di novembre piovoso quello in cui la telefonata, ovviamente anonima e inquietante, giunge al commissariato di Manfredonia. I poliziotti corrono e rinvengono il corpo di una giovinetta con il volto sfigurato e privo di alcuni denti. I jeans abbassati fino alle ginocchia. La ragazzina non aveva le scarpe e indossava una maglia gialla dal collo alto. Le braccia rivolte all’indietro. Il viottolo dove il corpo è disteso è di terra battuta e procede parallelo alla statale che porta alle spiagge di ciottoli bianchi di Mattinata e alle scogliere dei lidi di quella frazione di Monte Sant’Angelo dal breve nome di “Macchia”. Un luogo appartato, anche se vicino ci sono masserie frequentate da pecorai. Resti di biancheria intima, disseminati qua e là sull’erba, ne fanno intuire l’uso e la gente che lo frequenta quando cala la sera. Il corpo avrà presto un nome: Giusy. È la figlia quindicenne di Grazia Rignanese e Carlo Potenza, di cui era stata denunciata la scomparsa il giorno prima dai genitori, pazzi di terrore e rabbia. Inizia il giallo più sconcertante che abbia mai vissuto questa terra garganica, già insanguinata da faide e violenze. I suoi figli, però, seppur spesso presi da incomprensibili attacchi di violenza, mai si erano macchiati del sangue di una ragazzina innocente. In queste pagine vi è quella storia. È un diario cronaca perché registra i fatti, documenta le vicende, riporta gli atti giudiziari e le testimonianze raccolte negli interrogatori e nella fasi processuali; ma registra anche ciò che lo sguardo della donna avvocato, cittadina di Manfredonia, mamma di due ragazze, educatrice scout, non può fare a meno di vedere. Nella vicenda di Giusy si può entrare in modi diversi. Con la curiosità morbosa dei media o con il legittimo dovere di far luce sulla verità. Con i “lo avevamo sempre detto” della folla anonima e numerosa, sempre presente ad ogni cambio e colpo di scena o con il grido “vendetta e non giustizia” del nonno. Con la rabbia composta ma all’improvviso furente e aggressiva del padre o con il silenzio assordante del suicidio della mamma, ancora più assordante per la morte con lei del bimbo che ha un nome ma non viene al mondo. Con lo sguardo dolce e ammiccante di Michela e il suo prendersi cura, nell’abisso della tragedia, dei capelli di chi le sta accanto: “posso farti i capelli?” Io ci sono entrata perché coinvolta come avvocato di parte. La famiglia mi ha dato fiducia, abbandonandosi totalmente a me. Ci sono entrata al punto tale da capire che la ragione vera da trovare in questa storia non è solo quella della morte di Giusy, ma la ragione per cui si può morire a quindici anni in una città come Manfredonia (ma è solo Manfredonia?) che guarda a se stessa e ai suoi giovani voltando lo sguardo dall’altra parte. Dalla posizione privilegiata di chi è catapultato in una vicenda drammatica e complessa, tragica nel suo apparire e nel suo evolversi, mi è stato permesso di avere uno sguardo più profondo. Di quello sguardo il libro non priva il lettore, il quale può scegliere, una volta terminato la lettura, con la sentenza, di ritenere la vicenda conclusa. Oppure può ricominciare, pagina dopo pagina, a rileggere la storia e le domande vere che quel corpo trovato di fronte all’orizzonte, lasciano aperte. A queste domande ho dato forma non per futura memoria di Giusy ma per il futuro dei ragazzi che a quindici anni hanno molte domande, molti sogni, molti problemi. Ma non sempre hanno la fortuna di trovare le persone giuste.-

Torno a ripetere. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutte come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e sono state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.

«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si  chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.

Cosa differenzia i casi di persone scomparse è nella definizione mediatica dell’atteggiamento delle comunità, che nulla sanno circa modi, tempi e circostanze delle sparizioni: al nord si parla di riservatezza, nel sud di omertà. Certo è che se qualcuno sa, il modo in cui vengono trattati i testimoni, incentivano questi a non dire nulla di quanto loro conoscenza. Andirivieni dagli uffici giudiziari, spese, oneri e perdita di giornate lavorative con risibili rimborsi. Mancata tutela con sputtanamento mediatico e probabili ritorsioni. Eventualità di coinvolgimento con accuse e sospetti infondati.

Cosa accomuna i casi di Ottavia de Luise e Elisa Claps a Potenza, il caso dei fratellini Ciccio e Tore a Gravina di Puglia, di Sarah Scazzi di Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra: l’inadeguatezza se non il fallimento del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Ottavia, Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Ciccio e Tore e per Yara si incarcerarono degli innocenti: il padre Filippo Pappalardi per Ciccio e Tore e il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano, per Yara.

Mai che si parta da dei punti fermi nelle ipotesi: intra familiare o extra familiare. Intrafamiliare significa motivi passionali o di interesse economico. Extrafamiliare significa spasimanti respinti o diverbi con soci o vicini di casa, raptus o serial killer, pedofilia, ratto per espianto organi o schiavitù, sette sataniche. L'adottare la tesi della fuga volontaria per ragazzi al di sotto dei 18 anni, significa mancare il dovere di riportare a casa fanciulli che per legge sono incapaci e, comunque, non poter adottare gli strumenti investigativi (quali le intercettazioni, le perquisizioni, i fermi giudiziari), riservati ai reati più gravi, come il rapimento e l'omicidio.

OMICIDI E SETTE SATANICHE: NON SE NE DEVE PARLARE!!

Certo che non ci si può esimere dal citare il pensiero di Rita Pennarola che scrive su “La Voce delle Voci”. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell'ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l'arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l'accusa di omicidio, ovviamente, c’è il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo - o più probabilmente, potuto - rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell'altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all'interno dell'esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell'assassinio. «Accade talvolta - dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi - che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d'indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato - che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l'altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent'anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito - spiega Imposimato - non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l'ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell'immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. A disporre l'arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l'omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest'ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l'autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand'anche essi fossero all'interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l'arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all'istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l'uomo che aveva dettagliato l'esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani.

A tal proposito per rimarcare la fondatezza del riferimento si cita l’interrogazione parlamentare “Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272, pubblicato il 17 novembre 2011, Seduta n. 637. LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che: il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato; l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno; successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio; dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma; pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano; i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito; si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti; -considerato che: la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati; in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986; secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima; la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato; tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta; sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione; in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa; della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano; nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli; considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere: di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa; quali iniziative di competenza intenda adottare.”

Il 9 agosto 2011 Giovanni Cirillo lascia da un giorno all'altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d'Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un'intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l'incarico: «da due ore - esordisce - non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l'ordinanza di custodia cautelare del pm Monti), l'idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto”, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l'amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all'ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com'è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania - dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l'indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sè». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l'addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell'ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell'ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l'ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l'immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell'esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell'area il 18 aprile, a quell'ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.

Poi c'è un'altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell'esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all'eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall'Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall'Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un'indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall'Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l'arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un'altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall'Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall'Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l'arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell'inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio - commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra - quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l'hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent'anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è  stato in qualche modo complice?. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E' la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.

E a proposito di morti improvvise nell'esercito, sempre in quella tarda primavera del 2011, il 4 giugno, a Kabul viene ucciso il tenente colonnello Cristiano Congiu in circostanze che lasciano aperta la strada a molti dubbi. Se infatti l'esercito si affretta a precisare che si è trattato di un delitto di criminalità comune (avrebbe difeso una donna dagli “scippatori” in suolo afgano...), va ricordato subito che in quel bollente contesto mediorientale Congiu si occupava precisamente di segnalare e consegnare alla giustizia gli artefici dei traffici di stupefacenti, forte di una lunga esperienza in materia. L'aveva acquisita, forse, nei lunghi anni in cui era stato in servizio a Napoli, caserma del Rione Traiano. Un'ombra si allunga, inoltre, su quell'ultimo messaggio di Cristiano affidato alla sua pagina Facebook: «Qualcuno mi vuol far tacere». Scrive il Messaggero all'indomani dell'agguato che «la sua morte potrebbe quindi essere legata alla sua attività di investigatore, un agguato studiato nei minimi particolari per farlo tacere». Sono state aperte ben due inchieste su quei fatti, una della magistratura e l'altra dell'Arma dei carabinieri. Ad oggi, nulla è stato reso noto sui risultati. Congiu, che era balzato alle cronache per aver arrestato un pericoloso esponente dei Casalesi, quel giorno a Kabul aveva ricevuto la visita di una donna americana. Così sintetizza Peacereporter i contorni finali del giallo: «Rimane senza risposta da parte del ministero della difesa l'interrogativo della presenza in quella zona del militare e della sua ospite statunitense, in visita a una miniera di smeraldi a cinque ore da Kabul». L'informatissimo Corsera.it ha da tempo messo in relazione l'elementare puzzle tra l'atroce fine di Melania, l'omicidio Congiu, la presenza di Laura Titta alla Clementi e perfino il “suicidio” di Marco Callegaro, che a metà 2010 aveva denunciato sprechi e strani movimenti nel battaglione dell'esercito di stanza a Kabul. Tutti elementi che, a parte il coraggioso giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo, nessuno fra gli inquirenti ad Ascoli o a Teramo ha messo in connessione fra loro per dare una spiegazione al massacro di Melania e trovare un movente ben più convincente rispetto a quello del presunto folle amore per la soldatessa: un sentimento che le stesse intercettazioni mostrano invece fragile, se non addirittura inesistente («ma chesta è scema?», dice Salvatore parlando con se stesso di Ludovica). E c'è ancora una frase, detta a botta calda, che accomuna Parolisi ad un'altra protagonista di un caso recente, anche lei imputata per omicidio. Salvatore Parolisi la dice, subito dopo la scomparsa di Melania, all'allora amico Raffaele Paciolla: «me l'hanno presa...». Pari pari l'esclamazione di Sabrina Misseri dopo la sparizione della cugina Sarah Scazzi: «l'hanno presa...».

Chi aveva preso Sarah? E perchè? Anche qui, la cortina di silenzio sulle tante incongruenze della ricostruzione ufficiale, è diventata di piombo. Cristallizzata, per giunta, dalle mille sequenze realizzate per la tv ripercorrendo quasi esclusivamente le carte dell'inchiesta giudiziaria. Nessuno, insomma, che provi almeno una volta a porre apertamente domande sugli stessi investigatori. I quali spesso non guardano dentro quei piccoli squarci rivelatori, illuminanti di un'altra verità. Quella che non si può dire. Forse qualcuno è disposto a scontare 30 anni di carcere piuttosto che svelare i veri mandanti. Un terrore imposto a chi ben conosce logiche e linguaggi della malavita organizzata.

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.

DOLORE E DELUSIONE

La madre di Yara scrive a Napolitano e critica le indagini sul caso. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.

Dolore e sconforto. Sentimenti troppo forti per continuare a rimanere chiusi a doppia mandata nel proprio cuore. Scrive Cesare Zapperi, su “Il Corriere della Sera”. Mamma Maura lo ha fatto per quasi due anni, ma adesso non ce la fa più. E lo scrive, in una lettera accorata, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L'assassino di sua figlia Yara non ha volto. Tante le piste, tante le supposizioni, tante le amarezze sopportate dal giorno in cui il corpo della ragazzina è stato trovato in un campo incolto di Chignolo d'Isola. Ma vedere che la Giustizia non approda a nulla è troppo anche per chi non ha mai perso occasione di manifestare fiducia negli investigatori e negli inquirenti. Proprio per questo l'iniziativa è clamorosa. Mamma Maura si rivolge direttamente al Capo dello Stato, come rivelato dalla trasmissione «Quarto grado». Lo fa da semplice cittadina che si rivolge alla massima autorità. Il tono è pacato ma fermo. Le parole misurate, gli aggettivi calibrati. Ma da quelle poche righe emerge forte, senza inutili orpelli, l'insoddisfazione per il modo in cui finora sono state condotte le indagini sull'omicidio di Yara. Senza assumere i toni del «j'accuse», la lettera sottopone a Napolitano i dubbi e le perplessità che più volte sono state sollevate anche dagli organi di informazione. Le diverse piste battute: dal cantiere di Mapello ai sospetti su Mohamed Fikri fino al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto ormai da parecchi anni. La battaglia, legittima certo, ma poco comprensibile all'uomo della strada, tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. I tempi infiniti per avere risposta anche sulle iniziative del proprio legale. Mamma Maura rende partecipe il presidente della Repubblica del dolore provato in questi due anni (Yara fu trovata cadavere a Chignolo il 27 febbraio del 2011) e gli esterna il suo sconforto. Non si aspetta che la soluzione arrivi dal Quirinale. Non cerca a Roma le risposte che tardano ad arrivare (se mai arriveranno) da Bergamo. È lo sfogo di una cittadina amareggiata e delusa. Il grido di dolore di un'intera famiglia che ha sempre tenuto un atteggiamento molto composto. I Gambirasio hanno dovuto farsi forza. All'inizio non avevano voluto nemmeno affidarsi a un avvocato, come pure qualcuno aveva consigliato loro anche solo per mantenere il controllo sull'operato degli inquirenti. Poi, si erano convinti ad affidarsi ad Enrico Pelillo, il legale che dal momento in cui fu effettuata l'autopsia li segue. Ed è toccato a lui sollecitare, come parte lesa, il pubblico ministero ad effettuare nuovi accertamenti. Di qui anche la soluzione di affidarsi a un consulente del calibro dell'ex ufficiale del Ris di Parma, Giorgio Portera, che ha portato nuovi elementi all'attenzione degli inquirenti. Ma era stata proprio Maura Gambirasio ad esternare, rompendo il silenzio fin lì rigorosamente osservato, in aula davanti al giudice per le indagini preliminari Ezia Maccora, lo sconcerto per la mancata verifica delle traduzioni della frase di Fikri che hanno ingenerato più di un sospetto. «Posso dire una cosa?» si era fatta avanti con tono fermo in Tribunale. «Da mamma mi chiedo com'è possibile che le traduzioni siano così diverse», aveva chiesto rivolgendosi al giudice. Un paio di mesi prima, ancora lei aveva sussurrato: «Se questo ragazzo non c'entra nulla, sarò io la prima a chiedergli scusa». E invece, rimane ancora tutto aperto. Il pubblico ministero che vuole l'archiviazione del marocchino. Il gip si oppone. E il mistero, insieme al dolore di una madre e di una famiglia, rimane profondissimo.

La madre di Yara, insomma, avrebbe manifestato tutto il dolore e lo sconforto perché, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia, scrive “Il Secolo XIX”. "Cosa è successo quel giorno a Brembate? Qualcuno ce lo dovrà dire?''. E' questo il commento del sindaco Stefano Locatelli alla notizia della lettera scritta dalla madre di Yara Gambirasio al Presidente della Repubblica per lamentare l'assenza di risultati e le piste nulle dell'inchiesta. ''Una cosa è la fiducia, dei cittadini come della famiglia, che non è mai venuta meno, un'altra è produrre delle risposte'', ha detto il sindaco, che già in passato aveva con forza auspicato che venisse chiarito l'accaduto. ''Ringraziamo tutti per il lavoro svolto - ha proseguito - ma è legittimo chiedere risposte, capire dove si è sbagliato e dove si sono fatti dei passi avanti, capire se le risorse spese sono state bene o male indirizzate''. Il primo cittadino ha precisato che «non chiediamo giustizia e non abbiamo rabbia, ma è ovvio che chi era a capo delle attività renda conto, bisogna capire cosa non ha funzionato, se il caso è chiuso o se si può ancora arrivare alla verità. Non sapevo della lettera, ma possibile che bisogna sempre fare appelli? Ognuno faccia il proprio dovere, e se qualcuno ha sbagliato ci sono quelli preposti a valutare».

Infine, Locatelli ha ricordato come Napolitano «fu sin da subito vicino alla comunità», tanto che «telefonò nei primi mesi delle indagini per esprimerci la sua vicinanza dopo alcune polemiche seguite al fermo di Fikri».

26 novembre 2010, la scomparsa - 26 febbraio 2011. Yara, finita la speranza. Come Sarah Scazzi di Avetrana, i fratellini di Gravina di Puglia, Ciccio e Tore, Elisa Claps ed Ottavia de Luise di Potenza. Come migliaia in Italia.

Trovato il corpo: era a 300 metri dal Centro delle ricerche. Incredibili analogie col caso dei fratellini di Gravina, trovati morti in un pozzo, nel centro del paese, dove nessuno aveva guardato.

E’ andata in onda l’8 febbraio 2012, un nuovo appuntamento con Chi l’Ha Visto?, la trasmissione di Rai Tre condotta da Federica Sciarelli, che tratta casi di cronaca e di scomparsa. E’ andato in onda un interessante resoconto sul caso di Yara Gambirasio: oltre allo sfogo di Belotti è stata mostrata la lettera di due sostenitori delle forze dell’ordine che esprimono tutto il loro dispiacere per come sono state condotte le indagini fino a questo momento. Le perplessità sulle indagini del caso Yara Gambirasio hanno visto protagonista anche l’assessore regionale Daniele Belotti, il quale si è detto poco convinto di quello che è successo fino ad ora, le indagini sarebbero costellate di errori e ciò sarebbe anche dovuto alla storica rivalità tra polizia e carabinieri. Tutto sarebbe partito dalle dichiarazioni di alcune persone alle quali sarebbe stato prelevato il DNA: ebbene ad alcuni sarebbe stato chiesto il prelievo per il DNA per ben due volte (sia dalla polizia che dai carabinieri), segno che le due forze non starebbero collaborando. Se così fosse si spiegherebbero alcune cose: il ritardo nelle indagini, le incongruenze e i quasi 10mila prelievi per esame del DNA che hanno portato (ancora oggi) a scarsi risultati. A Chi l’Ha Visto è stato fatto il punto sulle indagini del caso e ancora una volta ci si è chiesti come mai si brancoli ancora nel buio. Perplessità anche sul comportamento del pm, colpevole di non aver voluto consentire alla famiglia di Yara Gambirasio l’accesso ai documenti delle indagini ma anche di aver stabilito troppo presto il dissequestro del campo dove la piccola Yara è stata ritrovata.

A Chi l’ha visto” continuano ad arrivare, da varie zone d’Italia, segnalazioni di persone che vivono lontano da Brembate alle quali gli inquirenti hanno chiesto un campione di Dna. Altre, invece, pur avendo avuto a che fare con la palestra di Yara proprio nel giorno dell’omicidio, hanno contattato il programma per dire che non sono state interpellate. Dopo che la famiglia Gambirasio ha nominato un legale e un consulente genetico, il prof. Giorgio Portera, biologo e genetista forense dell’università di Milano, dubbi sulle indagini sono stati espressi clamorosamente da una raccolta di firme. È stata lanciata dall'assessore regionale lombardo a Territorio e Urbanistica Daniele Belotti, che ha deciso di inviare al ministro della Giustizia Paola Severino e per conoscenza al vicepresidente del Csm, al procuratore generale della Corte d'Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, la richiesta di sostituire o "in alternativa" affiancare al pubblico ministero Letizia Ruggeri "un pm di provata esperienza e capacità". Nel documento sono citati "l'affrettato dissequestro dell'area in cui è stato ritrovato il corpo, il mancato sequestro" e la mancata "perquisizione dell'auto e del furgone con cui Mohammed Fikri e i suoi amici si erano imbarcati diretti a Tangeri; il mancato controllo su un centinaio di operai stranieri che lavoravano al cantiere di Mapello; la mancata richiesta di rogatoria internazionale in modo da poter verificare se il telefonino di Yara fosse stato utilizzato all'estero; la mancanza di coordinamento tra le varie forze dell'ordine", tanto che "diversi Dna risulterebbero essere stati raccolti due volte, sia dai carabinieri che dalla polizia". Belotti ha anche definito "inspiegabile” il diniego opposto alla richiesta fatta dal prof. Portera, a nome della famiglia Gambirasio, di poter accedere agli atti dell'inchiesta. Intervistato da “Chi l’ha visto?”, il consulente di parte ha detto che la famiglia di Yara, pur mantenendo la massima fiducia negli inquirenti, vuole sapere che cosa è stato fatto finora dal punto di vista scientifico e non ha accolto positivamente il rifiuto. Portera ha ribadito che la richiesta, fatta come parte offesa, ha uno scopo collaborativo e che continua a sperare possa essere accolta al più presto.

Acceso dibattito, anche nella puntata del 3 febbraio 2012 del ciclo di "Quarto Grado", in merito al caso di Yara Gambirasio ed alla richiesta di sostituzione o affiancamento del pm titolare delle indagini, Letizia Ruggeri, fortemente criticata per la gestione dell'inchiesta, nella quale sarebbero stati accumulati ritardi, malfunzionamenti ed errori. Di fatto, le indagini sull'omicidio della tredicenne di Brembate sono comunque ad un punto fermo, né si comprende, al momento, che direzione intendano prendere. Tema conduttore della puntata, la petizione dell'assessore regionale della Lombardia a Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti, il quale si è fatto promotore della petizione indirizzata al ministro della Giustizia, Paola Severino per sostituire il pm che indaga sulla morte di Yara o l’affiancamento di un magistrato di provata esperienza, per scoprire la verità. Nella vicenda è intervenuta anche la Associazione Nazionale Magistrati, che ha preso le parti del pm Ruggeri, ritenendo assolutamente inopportuna l'iniziativa dell'assessore Belotti, ma fatto sapere anche di non voler prendere una posizione sulla gestione del caso Gambirasio, in quanto caso delicatissimo e tutt'ora in corso. Un'intromissione sarebbe lesiva della deontologia professionale. Ma le adesioni alla petizione stanno però aumentando giorno dopo giorno, soprattutto da parte di sindaci di molti paesi ed esponenti politici che condividono questa posizione.

Yara, il pm Ruggeri querela Belotti "Procederemo per diffamazione". Secondo “Il Giorno” la denuncia non è ancora stata inviata alla Procura di Venezia, ma il pm Letizia Ruggeri querelerà per diffamazione l’assessore regionale leghista Daniele Belotti, che ha lanciato una petizione fra gli amministratori bergamaschi per chiedere la sostituzione o, in alternativa, l’affiancamento con un pm di «provata esperienza», del sostituto procuratore che coordina le indagini sul delitto di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui cadavere venne ritrovato tre mesi dopo, il 26 febbraio del 2011, in un campo incolto di Chignolo d’Isola. Il magistrato non ha gradito soprattutto la frase in cui, parlando di lei, si scrive «conferma, purtroppo, un basso profilo sia tecnico che morale per un caso di simile rilevanza». La conferma arriva dal legale del magistrato, l’avvocato Roberto Bruni. «L’intenzione della dottoressa Ruggeri è quella di procedere con la querela - spiega -. Ho letto, inoltre, che Belotti vuole inviare la petizione anche al ministro della Giustizia, al presidente del Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni. E questo fatto, secondo me, costituisce un’ulteriore diffamazione, in quanto altre persone verrebbero a conoscenza della frase ingiuriosa». Dal canto suo Daniele Belotti annuncia che andrà avanti con la sua iniziativa. «Anche stamattina  - sottolinea - mi sono arrivate le adesioni di diversi amministratori. Ma confermo che la petizione la firmerò solo io. Pentito per quella frase? Assolutamente no. Il mio è stato uno sfogo, dettato dalla delusione e dalle modalità con cui il magistrato ha negato alla famiglia, con solo tre righe di spiegazione, l’accesso agli atti delle indagini. Sono convinto che anche l’aspetto umano abbia un valore. Mi riferivo, insomma, al caso specifico, alla condotta specifica, non certo alla persona della dottoressa Ruggeri, che neppure conosco. Molte e-mail che ho letto in questi giorni mi danno ragione e mi invitano a non desistere». «Per quanto riguarda, invece, l’intervento dei giudici che hanno ricordato che un intervento della politica sulla magistratura non ha senso e non è previsto dall’ordinamento, do loro ragione - conclude Belotti -. È tutto vero, ma mi chiedo anche se deve arrivare un assessore regionale a metterci la faccia prima che la giustizia si muova per dare un supporto al pm del caso Yara». Belotti respinge invece l’accusa di aver dato vita all’iniziativa per ottenere visibilità politica. «A chi dice questo, rispondo che quando si intraprendono certe azioni la visibilità è niente rispetto ai rischi che si corrono. Ho sentito in forma anonima molti agenti di polizia che condividono tanti miei dubbi. Se tanti la pensano così, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo, significa che i rischi sono molti».

Il tenue filo a cui erano ancora aggrappate le speranze dei genitori di Yara Gambirasio si è spezzato nel pomeriggio di sabato 26 febbraio 2011, quando è stato rinvenuto il corpo senza vita della 13enne scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate Sopra. Il cadavere della ragazzina, praticamente scheletrito, giaceva in un campo in località Madone, a pochi chilometri da casa sua, in un'area incolta, in prossimità del Centro di coordinamento delle ricerche che dista neppure 300 metri dal luogo del ritrovamento. Il corpo della tredicenne è stato rinvenuto in una campo tra Madone e Chignolo d'Isola, a una decina di chilometri da Brembate di Sopra, il paese in cui la ragazza viveva con la famiglia, e a poche centinaia di metri dal centro di coordinamento delle ricerche. Era abbandonato in un campo incolto, fra l'erba alta, in posizione supina con braccia e gambe leggermente allargate. Sul collo e sulla schiena, stando a prime informazioni, sarebbero stati trovati segni di un'arma da taglio, forse un coltello. Yara era ferita anche sui polsi, cosa che potrebbe testimoniare un'eventuale colluttazione della ragazzina con il suo o i suoi aguzzini. Le ferite sul corpo dell'adolescente, però, potrebbero anche essere segni dovuti all'azione degli agenti atmosferici sul cadavere. Ed è giallo su come il suo corpo possa essere arrivato in quel campo. C'è chi sostiene che possa essere stato portato lì addirittura nella mattinata. Gli investigatori hanno ascoltato un testimone che dice di aver visto un'auto partire a tutta velocità dal sentiero dove è stato rinvenuto il corpo. Lo stato di decomposizione, però, sembra rendere insostenibile questa tesi. Il corpo si presenta in parte mummificato e in parte scheletrito. C’era anche il porta chiavi e l’apparecchio ortodontico, l'ipod, la sim e la batteria del cellulare che la ragazzina portava al momento della scomparsa. Essendo in stato di decomposizione avanzato, a dire dei primi soccorritori, il cadavere sembrava particolarmente fragile. Gli accertamenti immediati dovranno stabilire se il corpo sia rimasto in quel posto sin dal giorno della scomparsa della ragazzina oppure se vi sia stato trasportato in seguito. La prima ipotesi getterebbe pesanti ombre sul lavoro degli investigatori: in tal caso vi sarebbero analogie col caso dei fratellini di Gravina trovati morti in un pozzo a due passi dal municipio del loro paese e cercati altrove, mentre a tutti sfuggiva quello che avevano sotto il naso.

Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione e il riconoscimento formale è venuto dai genitori Maura e Fulvio Gambirasio, all'istituto di Medicina legale di Milano. E’ stato forse il momento più atroce che mai nessun papà o mamma  al mondo sicuramente vorrebbe vivere. Prima di varcare l'ingresso dell’obitorio la signora Maura straziata dal dolore si è rivolta  al capo della polizia di Bergamo, il questore Vincenzo Ricciardi: «Perché in questi mesi ci avete detto che Yara era viva? Sulla base di cosa? È stata trovata morta dopo tre mesi. Se per di più il corpo è sempre rimasto nel luogo dove è stato scoperto che cosa vi portava a dire che era ancora viva?» Secondo gli inquirenti è più probabile che Yara sia stata uccisa a coltellate, dopo un tentativo di autodifesa, nelle ore immediatamente successive alla sua sparizione e che il suo corpo sia rimasto tra le sterpaglie di Chignolo d’Isola per i successivi tre mesi. Appunto. In quel campo effettuate soltanto ricerche marginali. Gli inquirenti avrebbero accertato che le ricerche in quel campo furono condotte il 12 dicembre 2010 da un gruppo di circa 15 persone che in quella giornata si occupò delle zone di Bonate Sopra (l'area del tiro al piattello), Terno D'Isola (le aree adiacenti il cimitero) e Chignolo D'Isola (la zona di via Bedeschi). Il gruppo delle ricerche, che comprendeva dieci volontari della Protezione Civile, due carabinieri e almeno un'unità cinofila, si sarebbe diviso in due diverse direzioni: una che portava verso un'area di alberi, alle spalle del campo dove sono stati trovati i resti, e una verso un torrente che scorre parallelo allo sterrato."Pensavo di trascorrere un pomeriggio di distensione, invece la notte non ho dormito. Sono molto scosso, sto male". A parlare è Ilario Scotti, impiegato 48enne di Bonate Sotto, l'uomo che quel sabato pomeriggio verso le 15.30 ha trovato il corpo di Yara Gambirasio a Chignolo d'Isola. "E' stato solo un caso - ripete nell'intervista pubblicata da L'Eco di Bergamo - un caso fortuito. Di solito faccio atterrare l'aeroplanino ai miei piedi, sull'asfalto, non nel prato. Ma l'aereo ha compiuto una traiettoria anomala, non volava bene così l'ho fatto scendere nel campo, per evitare che cadesse e si rompesse". Quel modellino è così finito a terra, a un metro di distanza dal corpo di Yara. "Mi sono addentrato nel campo per recuperarlo - spiega - e quando l'ho trovato, a circa un metro ho notato qualcosa tra le sterpaglie. La prima impressione è di aver visto un mucchio di stracci buttati lì da qualcuno. Ma appena mi sono reso conto che si trattava di una persona ho chiamato il 113". Ilario Scotti conosceva la storia di Yara, ma al momento non pensava fosse la 13enne scomparsa tre mesi prima da Brembate Sopra. "All'inizio credevo si trattasse di un ragazzo, solo dopo l'arrivo degli inquirenti mi sono reso conto che poteva essere lei". La zona è molto frequentata e gli uomini della protezione civile l'avevano già perlustrata: possibile che quel corpo sia rimasto lì tre mesi senza che nessuno lo vedesse? Per l'appassionato di aeroplanini sì. "Se il mio aeroplanino non fosse finito proprio in quel punto non l'avrei mai vista, era nascosta dalle sterpaglie".

A centinaia, intere famiglie con bambini, si avviano in processione verso il luogo dove è stata ritrovata la piccola campionessa di ginnastica ritmica. C’è pietà, c’è dolore, c’è anche pura curiosità, la stessa, inevitabile, che ogni volta, in occasioni del genere alimenta il turismo del macabro, come ad Avetrana. Un altarino improvvisato. Decine di mazzi di fiori bianchi lasciati accanto al nastro che transenna la zona.

A Brembate è in vigore un’ordinanza comunale che vieta ai cronisti di stazionare davanti a quella che è stata la residenza della piccola vittima.

«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si  chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.

Critiche su ricerche ed indagini formalizzate da Filippo Facci su “Libero-news”. Un tempo si scriveva: la polizia brancola nel buio. Oggi guai a scriverlo, e infatti nessuno l’ha sostanzialmente scritto per tre mesi: ma qualche parolina sulle indagini - domanda - ora almeno possiamo dirla? Oppure il rispetto sacrale per l’abnegazione dei nostri inquirenti deve esimerci dal giudicare demenziale ciò che ci sembra demenziale? Ieri i carabinieri sono tornati a recintare il terreno di Chignolo sul quale è stata trovata Yara, questo per ordine del pubblico ministero Letizia Ruggeri; ora: lasciamo anche perdere tutta la polemica sui controlli effettuati inutilmente almeno due volte (con i cani) senza che nessuno vedesse nulla, non facciamo innervosire ancora di più la Protezione civile di Bergamo, d’accordo, rispettiamo il silenzio stampa: ma qualcuno ci spiega il senso della cosa? Il sequestro è arrivato soltanto ieri, appunto, dopo il passaggio di decine di persone e troupe televisive: davvero l’analisi del terriccio sarà egualmente efficace e permetterà di capire se Yara sia stata lasciata lì subito dopo il delitto, consumato quasi certamente il 26 novembre, cioè subito, cioè tre mesi fa? E se è vero che i volontari che perlustrarono quella radura non sono sotto accusa, e che nei giorni scorsi sono stati ascoltati solo per poter escludere che Yara possa esser stata trasportata lì successivamente alla morte, diteci, in definitiva perché nessuno si è accorto del cadavere per tre mesi? La magistratura ha niente da rimproverarsi?

PISTE SUGGESTIVE E VANE. Lo chiediamo non per leziosità, ma proprio perché intanto, per tre mesi, rimiravamo l’impegno di chi organizzava battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, georadar, intercettazioni e rilevazioni satellitari, piste estere, consulenze di genetisti, anatomopatologi, tecniche di reazione a catena delle polimerasi, piste suggestive ma che ora paiono rigirare su se stesse, come in tondo. «Stiamo ascoltando persone già sentite in precedenza» hanno fatto sapere gli investigatori di Bergamo. «Le attività di indagine non si fermano», ripetono. Beh, forse dovrebbero, perché per quanto «è un indagine complessa e stiamo lavorando su tante piste», come hanno pure detto ieri, dalla lista degli indagati non è neppure ancora stato cancellato Mohamed Fikri, l’operaio 22enne subito arrestato e subito rilasciato dopo aver addirittura fermato la nave dove viaggiava. C’è stata la pista dei parenti, degli amici, i tabulati telefonici, la pista dei pozzi, hanno preso il dna praticamente di tutti i pregiudicati del bergamasco, ora dicono - notare - che vorrebbero sottrarre il dna di alcuni soggetti a loro insaputa (per esempio: raccogliendo un mozzicone di sigaretta) e però per farlo occorrerebbe che il sospettato venisse indagato: ma «non ci sono indagati», fanno sapere. Chiaro come nebbia. Possiamo capire?

LE COLPE DEI CRONISTI. Ma certo che la colpa è anche di noi giornalisti: siamo noi che ingigantiamo e pompiamo e dilatiamo ogni singolo caso - ogni singola Yara - e mettiamo dunque una pressione terribile addosso a inquirenti e poliziotti e volontari e tutti quanti, siamo noi che facciamo articoli e servizi anche quando non c’è niente da dire, siamo noi che impieghiamo minuti per dire soltanto «nessuna novità di rilievo» o per rivelare che la famiglia di una ragazzina scomparsa ha ricevuto la visita della zia e della cugina. Siamo anche noi dei soggetti da circo (mediatico-giudiziario, d’accordo), ma non c’è niente di nuovo sotto il sole, in questo. Ci volete più seri? Fateci capire. Dateci una mano.

Altra stoccata su come sono state svolte le indagini viene data da  Matteo Pandini e Matteo Magri su “Libero-news”. Il sostituto procuratore di Bergamo Letizia Ruggeri, che indaga sul caso della povera Yara Gambirasio, è andata in ferie due settimane dopo la scomparsa della tredicenne trovata cadavere il 26 febbraio 2011. La ragazzina era stata inghiottita dal buio il 26 novembre 2010, dopo essere uscita dal centro sportivo del suo paese, Brembate Sopra. Era lo stesso giorno, quello, in cui il procuratore della Repubblica di Bergamo Adriano Galizzi festeggiava le ultime ore di lavoro prima di andare in pensione dopo 49 anni di brillante carriera nella magistratura. Quella sera, il caso finisce sulla scrivania della dottoressa Ruggeri. Gli inquirenti si tappano la bocca e iniziano a lavorare immediatamente. Ben sapendo che i primi giorni sono quelli che spesso risultano decisivi per risolvere i casi. Sembrava fosse così anche per il dramma di Brembate Sopra, visto che sabato 4 dicembre viene bloccato un marocchino di 23 anni, Mohamed Fickri. Era su un traghetto salpato da Genova. Le accuse sono pesanti: sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Lunedì 6 dicembre è interrogato dal gip e dal pm Ruggeri nel carcere di via Gleno, ma nel giro di un amen viene rilasciato con tante scuse. L’impianto accusatorio si regge soprattutto su un’intercettazione che si scoprirà essere stata tradotta male. Passano pochi giorni. 10 dicembre. Gli inquirenti rompono il silenzio e organizzano una conferenza stampa nell’ufficio del procuratore aggiunto Massimo Meroni. Arrivano giornalisti da tutta Italia, si fa fatica a trovare spazio, ma i taccuini non annotano una notizia che sia una. Il motivo è semplice: non c’è nulla da dire, al di là di un pronostico che si rivelerà tragicamente sbagliato: «Yara è viva? Per noi sì, non ci sono indicazioni contrarie» afferma Meroni. La Ruggeri già non c’è. Ha salutato tutti per andare in ferie, con la speranza di tornare più rilassata e pronta a risolvere il caso. Purtroppo, le indagini faranno registrare novità solo il 26 febbraio, col ritrovamento del cadavere in un campo di Chignolo d’Isola. A poche centinaia di metri dal comando della polizia locale che era stato trasformato in centro di coordinamento delle ricerche. Da lì, sono piovute critiche contro i molti volontari bergamaschi ritenuti incapaci di scovare il corpicino. Anche loro, effettivamente, si erano presi dei giorni di ferie dopo la drammatica scomparsa della giovane. Ma per cercarla, gratis.  Tanto che sono stati difesi dal viceprefetto di Bergamo Sergio Pomponio, mentre il ministro Roberto Maroni ha parlato di «polemiche vergognose». «Dopo la vicenda della piccola Yara i magistrati dovrebbero dimettersi» perchè «se avessero impiegato per le ricerche le stesse risorse e tecnologie che hanno speso per indagare sulle ragazze dell'Olgettina forse Yara sarebbe ancora viva». È quanto afferma Daniela Santanchè, sottosegretario all'Attuazione del Programma, secondo cui la riforma della giustizia è «necessaria e urgente». «Tutti chiedono le dimissioni di tutti - osserva Santanchè -. A Berlusconi per il Rubygate, a Bondi perchè è crollato un muro marcio a Pompei, a Rosi Mauro per la gestione dell'aula del Senato» mentre «perchè - chiede - non si possono chiedere le dimissioni dei magistrati e dei procuratori? Li ha toccati la mano di Dio?». "L'assurdità e il livore che connotano tale dichiarazione - si legge in un comunicato diffuso dagli inquirenti - sono tali che la stessa non meriterebbe alcun commento da parte della Procura di Bergamo." «Rivendico la libertà di critica per un'indagine che si è dimostrata finora inadeguata. La magistratura non può pretendere di avere, oltre all'immunità per i propri errori, il diritto di non vedere il proprio lavoro essere messo in discussione». Così Daniela Santanchè, sottosegretario al Programma di governo, replica alla nota del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, in risposta alle critiche della deputata del Pdl sull'indagine per l'omicidio di Yara Gambirasio. «Mi sorprende che un alto rappresentante di questa casta - prosegue la Santanchè - voglia zittire un rappresentante del governo, quando i suoi colleghi intervengono quotidianamente e pubblicamente su questioni politiche e legislative che non dovrebbero riguardarli. Adesso - conclude l'esponente del Pdl - mi aspetto che oltre al mio silenzio chieda anche le mie dimissioni».

Yara forse è morta di botte, di  freddo e di stenti in quel campo dove è stata trovata. E intanto nulla è certo su come, quando, chi è perchè.

Da Andrea Scaglia da “Libero-news il reportage della conferenza stampa del 16 marzo 2011. "Ora, non è che uno vuol per forza prendersela con gli investigatori: trovare il colpevole di un delitto è faccenda affatto semplice, e il caso della povera Yara è apparso complicato fin dal principio. Però insomma, capita di assistere alla conferenza stampa organizzata dal procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, e certo un po’ basito rimane. C’è da dire che Meroni è il capo della Procura, non colui che ha seguito l’indagine giorno per giorno, ma comunque: come da copione il giornalista inizialmente chiede se c’è una pista, un indizio, anzi una cerchia di persone verso cui s’indirizzano le indagini a tre mesi dall’omicidio, e il magistrato risponde con un secco «no». E in effetti è comprensibile, anche se una traccia ci fosse non sarebbe certo rivelata ai cronisti davanti a microfoni e telecamere. Poi però, dopo aver bacchettato i giornalisti poiché «si è oltrepassata la misura, non è possibile andare avanti per mesi sentendo chiacchiere pubbliche fondate sul nulla», ecco che arriva quell’altra frase che suona se non sprezzante quasi beffarda, «non ci sentiamo di escludere nessun sospetto in tutto il mondo». Cos’è, una battuta?

Ma, ancora, il cronista rimane comunque stupìto da quell’altra risposta. Viene chiesto al procuratore della situazione giudiziaria in cui attualmente si trova Mohammed Fikri, il manovale marocchino inizialmente sospettato del delitto. E il magistrato, quello che si lamenta delle chiacchiere sul nulla, risponde che «Fikri? Non credo che verrà richiamato dal Marocco. Se è indagato? Credo che la collega abbia richiesto l’archiviazione». Credo? Non credo? Ma scusi, a chi bisogna chiedere per sapere qualcosa di certo?

E poi, a tempo scaduto, ecco che il procuratore Meroni ti sfodera l’altra perfomance quasi teatrale.  Nel senso che i giornalisti notano sulla scrivania un disegnino scimmiottante quello mostrato dal presidente del Consiglio durante la presentazione dell’annunciata riforma della giustizia: ricordate? C’era la bilancia della Giustizia pendente dalla parte dei pm, a significare quel che secondo il premier è attualmente uno squilibrio nel processo penale a favore dell’organo inquirente. E dunque, il dottor Meroni mostra il disegno, anche questo con la bilancia che pende dalla parte di giudici e pm (e però tra parentesi c’è anche il nome di Yara, mentre dall’altra è scritto “cittadino” con sotto la scritta “presunto aggressore di Yara”. E poi spiega il significato: «La bilancia  pende dalla parte di giudici e pm perché sono loro che devono scoprire i reati e che rappresentano le vittime, mentre tra i cittadini ci sono anche persone che li commettono». Come dire in sostanza che è giusta l’attuale impostazione, mentre invece se passasse la riforma del governo anche il delinquente (anzi, il “presunto” delinquente, come scritto nello schemino con un riflesso condizionato tragicamente esilarante) sarebbe messo sullo stesso piano della vittima. E attenzione, non è che sul punto uno deve per forza essere d’accordo con Berlusconi, figuriamoci, ma quest’uscita del magistrato stona malamente, soprattutto per la circostanza. Che poi Meroni è a Bergamo da circa sei mesi: prima esercitava alla Procura di Milano, e all’inizio del 2010 si scontrò - giuridicamente parlando, s’intende - con Niccolò Ghedini, che di Berlusconi è l’avvocato, di cui aveva disposto l’accompagnamento coatto per farlo testimoniare nel processo sull’illecita diffusione delle intercettazioni legate al caso Unipol. In ogni caso, tornando a bilance e giustizie, lo stesso Meroni ha subito precisato che «quel che penso io sulla riforma non è rilevante, questo disegno è qui da quando in tivù è stato fatto vedere l’originale». Ma cos’è, signor giudice, ci prende per scemi? E ti vien da dire che allora è meglio Ingroia: almeno la sua opinione la sbandiera dal palco. Senza tanti disegnini".

"Aspettiamo che gli inquirenti facciano il loro lavoro, ma vogliamo sapere chi ha ucciso Yara". Questo il messaggio lanciato dal sindaco di Brembate, Diego Locatelli, dopo l'intervento del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni. Le sue parole, ha detto Locatelli, "non mi hanno entusiasmato ma sinceramente non mi aspettavo molto di più. Si capisce che non hanno niente in mano. Lasciamoli lavorare e aspettiamo"."Siamo ancora in tempo, ma la richiesta che abbiamo formulato subito dopo il ritrovamento di Yara, interpretando anche il pensiero dei suoi genitori, è tuttora valida e legittima: vogliamo sapere chi è stato. Rispetto la professionalità di tutti - ha aggiunto il sindaco - ma anche loro dovranno rendere conto della loro competenza e della loro responsabilità". In merito alla possibilità che ad uccidere Yara possa essere stato qualcuno che non vive in paese, Locatelli ha commentato: "Ancora non si sa nulla al riguardo e il fatto di sapere che forse l'assassino non è del paese non mi rende più o meno contento. Sono pronto a qualsiasi soluzione".

In questa vicenda non manca la denuncia di due agenti: "Non c'è coordinamento nelle indagini". La lettera aperta di due persone appartenenti alle forze dell'ordine impegnate sul campo nelle ricerche di Yara che scrivono, in forma anonima, al quotidiano "L'Eco di Bergamo". "Avvertiamo un livello tale di rabbia e scoramento che non ci possiamo più esimere dal non esprimerlo", si legge nella missiva. "Negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. (...) Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere".

"Una gestione discutibile. Sottolineiamo questo, sgombrare il campo da strumentalizzazioni di sorta o di parte e il sorgere di sterili polemiche prive di spirito costruttivo. Ispirandoci a Martin Luther King, che sosteneva che «le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano», nemmeno noi in questo momento possiamo restare in silenzio. Potremo sbagliarci, ma negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. Dualismo deleterio. La questione è annosa e di vecchia data, ma si ripropone in maniera antipatica e puntuale, eppure non si riesce a comprendere quando questo Paese capirà (ed ammetterà) quanto sia deleterio il dualismo tra due forze dell'ordine che invece di condividere mezzi, uomini e risorse, finiscono per nascondere alla controparte informazioni ed indizi, con l'unico risultato di non raggiungere mai il traguardo consolandosi che nemmeno i cugini (di un versante o dell'altro) sono riusciti a raggiungerlo. Semplicemente avvilente! Il caso della scomparsa di Yara prima e della scoperta del suo povero corpo deturpato, ha di nuovo portato alla ribalta il problema: il palese conflitto di interessi e attribuzioni tra i vertici dell'Arma dei carabinieri e della polizia di Stato, che determina, con puntualità ossessiva, una chiara, evidente dispersione di forze e di energie, a discapito della scoperta della verità d'indagine. Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere, come testimoniato in modo eclatante nella circostanza dell'arresto di un cittadino straniero (determinato da un'errata traduzione di una conversazione telefonica) rintracciato a bordo di una nave fatta rientrare apposta nelle acque territoriali italiane (!). E non da ultimo, come non citare le circostanze (evidenziate ampiamente da numerosi organi di stampa) del nuovo sequestro, a distanza di giorni, dell'area del ritrovamento del cadavere di Yara per l'effettuazione di rilievi scientifici chiaramente ormai «inquinati» dal libero accesso di giornalisti e gente comune dei giorni precedenti. Ad ogni modo, al di là delle questioni prettamente tecniche ed investigative, la drammatica ed assurda vicenda dell'assassinio della piccola Yara ha indelebilmente segnato tutta la società civile e spolverato ogni coscienza, nessuna esclusa. Proprio per questo motivo, la magistratura e le forze dell'ordine avrebbero, anzi «hanno», il dovere di fare il loro dovere nel massimo della trasparenza, assicurando alla giustizia colui (o coloro) che hanno commesso l'omicidio o che ad esso sono connessi. Questa lettera non è uno sfogo ma solo un'ammissione pubblica che se le cose a volte non vanno come dovrebbero, le responsabilità non si possono sempre camuffare. È troppa l'amarezza per l'evoluzione della vicenda, dal punto di vista investigativo, e per quello che, ahinoi, ci ritroviamo a vedere da chi osserva da una visuale privilegiata come la nostra. Troppa, per continuare a comprimerla nel silenzio."

Il marocchino disse: "Uccisa davanti al cancello". Riporta Panorama che Mohamed Fikri, il marocchino arrestato in un primo momento il 4 dicembre 2010, durante una telefonata alla fidanzata registrata dai carabinieri disse: "L'hanno uccisa davanti al cancello". Questa conversazione non venne inserita nel fascicolo riguardante il muratore. Secondo quanto riporta il settimanale il pm non avrebbe nemmeno mai chiesto conto della frase durante l'interrogatorio del 6 dicembre. Fikri era finito in cella per un'altra telefonata, ma in quel caso le sue parole vennero tradotte erroneamente e quindi fu liberato.

Gli investigatori lavorano nel silenzio e mettono insieme i tasselli di un puzzle che è tutt’altro che completo. Su uno dei guanti neri con le pailettes ritrovati nella tasca del giubbotto Hello Kitty di Yara ci sono due profili genetici, tracce di dna di un uomo e di una donna. «Due profili che non appartengono alla bambina, ai famigliari, alla cerchia stretta di chi la conosceva o alle persone già note ai database della polizia», ammette il magistrato. Impossibile pensare ad allargare a chissà chi la ricerca. Impensabile un’ipotesi di lavoro privilegiata: «Non ci sentiamo di escludere alcun sospettato in tutto il mondo».

Si capisce che è un paradosso. E’ chiaro che nella testa degli investigatori c’è l’ipotesi che Yara conoscesse e si fidasse della persona con cui sarebbe salita in auto prima di sparire nel buio di una strada deserta. «Non abbiamo elementi per dire che l’aggressore fosse una persona sola o di più», evita ogni certezza il magistrato. L’ipotesi che Yara sia stata vittima di un’aggressione sessuale è appunto solo un’ipotesi: «Yara è stata ritrovata vestita. Solo il reggiseno che aveva indosso era sganciato. Ma non ci sono segni evidenti di violenza sessuale». Medici ed esperti sono ancora al lavoro per accertare anche questo. Ci vorranno settimane, forse mesi, forse non si saprà mai.

Al momento non è nemmeno chiaro come sia morta Yara. Il magistrato fa l’elenco dei pochi risultati fino a questo momento: «Sul corpo di Yara sono stati rilevati tagli ai polsi, sul collo, sul dorso e sulle gambe. Non sembra che siano la causa della morte perché sono molto superficiali. Ci sono segni di contusione di origine incerta al capo e al volto, provocate da un corpo contundente, da percosse o da una caduta. La morte non è avvenuta né per dissanguamento né per soffocamento». Di sicuro Yara è morta in quel campo di Chignolo d’Isola a nove chilometri da casa dove è stata ritrovata per caso tre mesi dopo. Di sicuro l’assassino che conosceva la zona l’ha portata lì e lì l’ha abbandonata, con la certezza di averla uccisa e invece Yara potrebbe essere morta pure di freddo dopo ore.

Dalle 18 e 44 di venerdì 26 novembre 2010 quando dal cellulare LG di Yara parte un ultimo messaggio a un’amica - «Ci vediamo domenica», risponde lei o chi è con lei - a quando finisce nel campo di Chignolo d’Isola, dove ci sono ancora i nastri bianchi e rossi degli investigatori e qualche fiore appassito e biglietti commossi oramai scoloriti, è il buio assoluto. Il niente in cui si va a tentoni per cercare di capire quello che può essere successo a questa ragazzina di tredici anni. Si è fantasticato sui segni lasciati sulla sua schiena con un coltello. Una specie di croce di Sant’Andrea sopra due linee parallele. A qualcuno è venuto in mente che potesse essere un simbolo esoterico. Il procuratore aggiunto di Bergamo ci crede pochissimo: «I segni sulla schiena sono casuali. Qualunque segno compone un disegno, non c’è nulla per dire che sia una cosa deliberata. Non mi risulta che siano stati sentiti esperti di questione esoteriche. Non sappiamo nemmeno se quei segni con un coltello sono stati fatti prima o dopo la morte». Anche i pantaloni leggins neri che Yara indossava la sera della scomparsa e con cui è stata ritrovata tre mesi dopo sono tagliati in vita e più sotto. Gli slip che Yara indossava sono tagliati in corrispondenza delle ferite sul dorso. «I segni sulla schiena sono coerenti», rivela il magistrato. Ed è una delle poche certezze di questa indagine sulla morte di Yara, la cui fine non è ancora stata scritta e chissà se lo sarà mai. Al procuratore aggiunto di Bergamo non resta che sperare nelle analisi scientifiche che devono essere ancora terminate: «Andiamo avanti a lavorare. Non abbiamo ipotesi privilegiate». Il magistrato aspetta una svolta che potrebbe sempre arrivare. I genitori di Yara aspettano di poter presto celebrare i funerali della loro figlia. E chi quella sera l’ha uccisa, a questo punto, spera di non essere mai scoperto.

Intanto «La messa la celebra don Gustavo, il curato. Io non farò neppure l’omelia e non dirò più nulla in pubblico su Yara. Voi giornalisti avete strumentalizzato le mie parole». E’ nervoso, don Corinno Scotti, parroco di Brembate di Sopra. Da giorni evita i contatti con i giornalisti. Non spiega, non puntualizza. Si sottrae e basta. E gli abitanti di Brembate di Sopra dove abitava Yara raccolgono firme perché, ancora una volta, venga tolto l’assedio delle televisioni.

CASO YARA GAMBIRASIO: Resoconto

Venerdì 26 novembre 2010, scompare Yara Gambirasio. La scomparsa di Yara Gambirasio è diventato un caso mediatico. Le troupe televisive di tutti i più importanti telegiornali d’Italia hanno messo le tende a Brembate Sopra. Dopo il giallo di Avetrana si accendono i riflettori su un’altra storia che vede protagonista una ragazzina scomparsa, una storia dai contorni misteriosi, una storia da dare in pasto ai telespettatori dei vari Pomeriggio 5, Chi l’ha visto, Domenica In, Studio Aperto, ecc.. Memori del caso di Sarah Scazzi, le forze dell’ordine hanno deciso di transennare la via in cui abita la famiglia Gambirasio per evitare l’assalto dei giornalisti. Che si sono posizionati a poche centinaia di metri dall’abitazione, a metà strada dal centro sportivo dove la ragazzina è stata vista per l’ultima volta. Sono stati allestiti vari studi televisivi mobili, proprio come è successo per mesi ad Avetrana. E come per il giallo di Sarah i giornalisti sono pronti a darsi battaglia a colpi di esclusive, anche a discapito delle indagini ufficiali. Domenica un vicino di casa 19enne ha raccontato a News Mediaset di avere visto Yara parlare in strada con due uomini. Dopo qualche ora però il ragazzo, sentito dagli inquirenti, ha ammesso di non ricordare bene la scena. Ora rischia una denuncia per essersi inventato tutto. Il volto di Yara è su tutte le prime pagine dei giornali. Tutta la comunità di Brembate Sopra è impegnata a garantire la tranquillità dei genitori di Yara Gambirasio, assediati dai mass media provenienti da tutta Italia. In prima fila, l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Diego Locatelli, il quale ha emesso un’ordinanza ad hoc con la quale ordina la chiusura di via Rampinelli, la strada dove risiedono il papà, la mamma, i due fratelli e la sorella della 13enne scomparsa. «Basta parlar male di mia figlia» - Lo sfogo della mamma di Yara sul “L’Eco di Bergamo” - «No, Yara con questa storia non c'entra: non è scomparsa volontariamente, non lo avrebbe mai fatto». Sono le parole di Maura, la mamma della tredicenne scomparsa, che ha ribadito con forza quello che già aveva sottolineato il giorno successivo alla sparizione misteriosa di sua figlia. «Un colpo di testa? Non è proprio da lei», aveva detto. Poi, lo sfogo: «Su questa vicenda si sta cominciando a fare troppa pubblicità negativa – ha dichiarato – sia nei confronti di mia figlia, sia nei confronti di Brembate Sopra, che non lo merita». «Non abbiamo ricevuto alcuna novità per il momento, restiamo in attesa», ha detto la mamma di Yara. Sono ore di grande angoscia per la famiglia Gambirasio, chiusa nel silenzio all'interno dell'abitazione di via Rampinelli, ormai assediata da un esercito di cronisti. Il sindaco è dovuto ricorrere perfino alla firma di un'ordinanza, che vieta ai furgoni della diretta Tv di avvicinarsi: si può passare soltanto a piedi e a gruppetti di poche persone. Quel che è certo, dice la famiglia, è che Yara è sparita contro la sua volontà, non è sicuramente scappata. Nessun litigio, nessun brutto voto a scuola, nessuna delusione: nulla al momento è emerso che possa giustificare una simile ipotesi. «Yara – aveva già spiegato la madre Maura – aveva da poco ritirato la pagellina scolastica (frequenta la terza media, ndr) e i voti erano tutti molto buoni. Anche dalla ginnastica ritmica ha sempre avuto tante gratificazioni. Vive solo per la ginnastica e per la sua famiglia». La mamma di Yara fa l'educatrice all'asilo nido comunale di via Solata, a Bergamo, in Città Alta. Il papà invece è geometra per una ditta di Brembate Sopra. Seconda di quattro figli (ha una sorella maggiore e due fratellini più piccoli), Yara ha riscosso ottimi risultati nel suo sport, fra cui una medaglia d'oro ai campionati nazionali di Fiuggi nel 2009 e un successo nel 2010 a Pesaro. Dall'abitazione non mancherebbe nulla di Yara, vestiti compresi: altro motivo in più per escludere – dice la famiglia – l'ipotesi di un allontanamento volontario. «Sulla vicenda di mia figlia – ha detto Maura riferendosi alle tante ipotesi giornalistiche che si susseguono sui media – si sta facendo una cattiva pubblicità e si inizia a sentire di tutto. Una cattiva pubblicità che purtroppo coinvolge anche Brembate Sopra, che certo non lo merita». I media si sono prodigati a definire i bergamaschi come poco collaborativi. Con Sarah Scazzi si parla di Avetranesi omertosi, con Yara si parla di Bergamaschi muti. La sol colpa dei cittadini è non riferire in esclusiva a loro qualsiasi notizia utile allo scoop mediatico. Yara Gambiarasio una giovane e attraente ragazza è scomparsa senza dare notizia ai genitori. Scomparsa improvvisamente. Da Avetrana a Brembate Sopra, si capovolge l'obiettivo della telecamera e con affanno inizia un'altra caccia al Lupo, all'uomo o al branco che potrebbe averla uccisa e seviziata, perchè purtroppo le ipotesi degli inquirenti sono queste. Da Avetrana ci torna in mente la lezione di mamma Concetta Scazzi, quando intervistata in televisione ripeteva nei giorni prima del ritrovamento del corpo della figlia Sarah: in circostanze di questo genere dovete indagare anche su di me, sui miei familiari più stretti." Dove è finita Yara Gambirasio? Gli inquirenti questa volta metteranno sotto sorveglianza i parenti più stretti e gli amici di scuola? Comunque il 4 dicembre 2010 un tunisino bloccato nella notte su un traghetto è in stato di fermo con l'accusa di omicidio. Secondo gli inquirenti, l'uomo avrebbe sequestrato e ucciso la ragazza occultando poi il suo cadavere. Il tunisino sarebbe un muratore al lavoro nei cantieri del bergamasco e in particolare avrebbe lavorato a Mapelloi nel cantiere del centro commerciale dove i cani avevano portato gli inquirenti sulle tracce di Yara. L'uomo era tenuto d'occhio dagli investigatori dall'inizio della vicenda subito dopo la scomparsa della ragazzina. "Che Allah mi perdoni, ma non l'ho uccisa io". Secondo indiscrezioni, sarebbe stata questa frase, intercettata al telefono, a convincere i Carabinieri che investigavano sulla scomparsa di Yara Gambirasio della responsabilità del magrebino sottoposto a fermo per sequestro di persona, omicidio e ora anche occultamento di cadavere. Pare che i sospetti fossero indirizzati nei suoi confronti quando l'uomo si è assentato dal lavoro nei giorni successivi alla scomparsa di Yara. L'uomo lavorava proprio nel cantiere del centro commerciale di Mapello dove i cani avevano più volte condotto gli investigatori. Intanto sale la tensione in paese e arrivano i primi segni di intolleranza a Brembate Sopra. Quando si è sparsa la notizia del fermo di un operaio magrebino di 23 anni con l'accusa di omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere, davanti alla casa della ragazza si è fermato un suv Audi dal quale è sceso un uomo che ha inalberato un bersaglio con la scritta 'Occhio per occhio, dente per dente'."Non ne possiamo più di questi immigrati - ha detto -, devono tornarsene a casa loro". Anche un'altra persona è arrivata davanti Villa Gambirasio urlando contro il presunto omicida. "Io non ce l'ho con lui perché è uno straniero - ha detto - non mi interessa di che razza sia, voglio però che sia fatta giustizia, vorrei che facessero a lui quello che ha fatto alla ragazzina". Brembate Sopra è un Comune di 7.800 abitanti da anni guidato da una giunta del Carroccio. "Qui non siamo razzisti - ha aggiunto un'altra signora passando - ma ci piace l'ordine e la tranquillità e qui non era mai successa una cosa come questa". Intanto sulla stampa:"Bergamo omertosa perché non fa i reality su Yara". Ecco come Matteo Pandini, giornalista bergamasco, su Libero replica al collega del messaggero e anche alla mamma di Sarah Scazzi. Pensate che scandalo: gli inquirenti lavorano in silenzio, i familiari non parlano, i vicini di casa non si eccitano vedendo le telecamere. Dovrebbe essere normale, tanto più in una situazione drammatica come la scomparsa di una tredicenne, uscita dal centro sportivo del paese e ingoiata dal buio, e invece qualcuno parla di «omertà». Era il 26 novembre. Da allora, Yara Gambirasio sembra evaporata. Ricerche, controlli, domande. All’esterno non è trapelato nulla, o quasi. Pochi giorni dopo, era saltato su un 19enne vicino di casa di Yara, che a favore di tv aveva raccontato la balla di aver visto la ragazzina, in compagnia di due adulti e accanto a un’auto con le quattro frecce accese. Era una sciagurata bugia, ritrattata nel giro di poche ore. Dato che non esce nulla di concreto e il circo mediatico - tenuto distante da casa Gambirasio - non sa cosa spremere, ecco che tra una falsa pista e un’interpretazione fantasiosa fioccano le analisi sociologiche. Che accendono l’ennesimo, inutile, derby Nord-Sud. Si paragona la leghista Brembate Sopra all’Avetrana di Sarah Scazzi. O a una roccaforte della mafia. A parte Massimo Gramellini, che sulla Stampa ha elogiato la sobrietà della famiglia Gambirasio, sul paesino bergamasco stanno piovendo le prediche di chi definisce quella comunità «una sorta di Corleone del profondo Nord» (lo ha fatto il Messaggero). Concetta, madre di Sarah - uccisa, ritrovata in un pozzo dopo quaranta giorni e per il cui omicidio sono sospettati lo zio Michele e la cugina Sabrina - ha detto: «In quel paese i familiari non parlano». E poi: «Nessuno ha visto niente, sono tutti chiusi. Se lo avessimo fatto noi che siamo del Meridione ci avrebbero definito omertosi». La signora merita rispetto, se non altro per il dolore e la tragedia che l’hanno colpita, ma proprio la vicenda di Avetrana dovrebbe insegnare. Piuttosto che tante sceneggiate tv, meglio un silenzio rispettoso. Piuttosto che finte lacrimucce sparse nei salotti del piccolo schermo, meglio qualche dialogo riservato con gli inquirenti. A Brembate Sopra non è vero che nessuno parla. Non lo fanno con i giornalisti, a parte lo sciagurato 19enne che abbiamo citato. I testimoni sono decine. Un centinaio le persone ascoltate. L’altro giorno pure un boliviano irregolare, vincendo la paura di essere espulso, ha contattato i carabinieri perché convinto di aver visto Yara. Molto probabilmente è un abbaglio, ma dietro una facciata silenziosa c’è una comunità che si muove, cerca, prega. D’altronde, se nessuno ha visto cosa deve dire? Niente, appunto. C’è la certezza che il paese stia coprendo qualcuno? Al momento, risulta di no. Allora è meglio tacere. Ed evitare prediche. Gli inquirenti hanno invocato uno sforzo di memoria. Ma qui si parla di una giovane che, uscita dal centro sportivo a due passi da casa, s’è volatilizzata in pochi metri.
Hanno messo in campo pure dei super-segugi, che la signora Concetta Scazzi ha lamentato non essere arrivati ad Avetrana, quando si cercava la povera Sarah. Le conclusioni sono che la sobrietà ed il buon senso dovrebbero essere adottate sempre e comunque da tutti i giornalisti. Così come la ponderazione da parte dei magistrati. Così come la pazienza di aspettare le sentenze definitive da parte dei cittadini. Ogni frase o ogni scritto pronunciata dai media può influenzare l'opinione pubblica: quando gli eventi riguardano noi, ma anche quando riguardano gli altri. Perchè gli altri siamo noi. Dal resoconto sul caso di Sarah Scazzi, contenuto nelle pagine delle tematiche territoriali di Taranto provincia, sembra che il trattamento mediatico riservato ad Avetrana sia identico a quello riservato a Brembate Sopra. Nè il primo paese, nè il secondo meritano cattiverie gratuite da chiunque proferite.

8 dicembre 2010. "Indagini da cani: Yara è un mistero". Questo è il titolo a firma di Giuseppe Sanzotta sul “Il Tempo”. Scarcerato il marocchino, le ricerche ripartono da zero. Ai carabinieri ora si affianca la polizia e dopo gli animali si dà peso ai testimoni. La storia di Yara ricorda da vicino quella di Sarah Scazzi. La frase di circostanza che si usa in questi casi è: si seguono tutte le piste. Come dire che non sanno che pesci prendere. Sì, perché la scomparsa di Yara, la tredicenne promessa della danza, resta un mistero. Chi l'ha presa? Dove l'ha presa? Cosa le ha fatto? Forse la sola drammatica certezza è che quella bambina sia morta. Certamente finché non si trova il corpo resta una flebile speranza, soprattutto nel cuore straziato dei genitori, ma polizia e carabinieri più che cercare un rapito, cercano un corpo senza vita, nei corsi d'acqua, tra le montagne di sabbia e sassi dei cantieri della zona, nei boschi. Cercano con quei cani giudicati infallibili che sembrano guidare le indagini. Sono loro che hanno portato a quel cantiere dove lavorava il marocchino fermato dopo un inseguimento in alto mare e poi rilasciato. Perché, ora si sa, hanno sbagliato a tradurre l'intercettazione, non si riferiva a Yara, non era in fuga, e il viaggio a casa era stato deciso da tempo. Come si fa a sbagliare così? Sembra impossibile. E ora si riparte, e l'impressione è che lo si faccia senza un programma. Così il guardiano di un cantiere, vicino a quello dell'azienda dove lavora il padre della ragazza, denuncia che da lui non sono state fatte indagini. E la macchina delle ricerche si sposta, passa tutto al setaccio. Viene trovato un telefonino, ma non è quello della ragazza. E c'è da scommettere che altri faranno nuove segnalazioni. Fin qui la gestione di tutta la vicenda non fa molto onore alle capacità investigative. Quel clamoroso abbaglio sul marocchino ne è la testimonianza. Torna alla mente la drammatica e quasi analoga vicenda di Sarah Scazzi. Fu schierato un esercito di esperti, ma senza il pentimento dello zio che fece di tutto per mettere i carabinieri sulle sue tracce, forse non avremmo scoperto un bel niente e il corpo sarebbe rimasto in quel pozzo per chissà quanto. Ma torniamo a Brembate di Sopra, qui la vicenda è ancora aperta. Il mostro è nei paraggi. Il sospiro di sollievo che hanno avuto in molti credendo di aver individuato nel marocchino fermato, l'assassino, è stato subito ricacciato indietro. L'intercettazione era un bluff, niente che potesse inchiodare il ragazzo. Ci sono testimoni, compreso il suo datore di lavoro, che affermano che all'ora della scomparsa era in servizio. A lui erano arrivati i cani, i soli detective di questa operazione, che avevano portato gli inquirenti nel cantiere e in particolare in un gabbiotto del guardiano del parcheggio di un centro commerciale in costruzione. È vero che c'era anche un testimone, un ragazzo di 19 anni che dava una versione diversa, aveva visto la ragazza in un altro luogo con due uomini e l'aveva vista vicina a una auto rossa. Non gli hanno creduto, i cani non gli hanno creduto perché da quella parte non sono mai andati. Così oggi si ripresenta il dubbio: hanno ragione i cani o quel testimone ridicolizzato? E non azzardiamo una risposta perché se i carabinieri credono ai cani, la polizia che ha avviato una indagine parallela prende in seria considerazione quella testimonianza. E la differenza non è da poco, perché se Yara stava effettivamente parlando con due uomini, dalla palestra aveva preso una strada diversa da quella che finisce al cantiere. Certo nulla toglie che possa esserci stata portata dopo. Di sicuro ora torna d'attualità la ricerca di due uomini. E di quella Citroen rossa. Così come quel furgone bianco che altri dicono di aver visto aggirarsi. E anche Fikri, il ragazzo marocchino, non è del tutto fuori dalla vicenda. Una confusione di ipotesi tra il dolore e lo sconforto di quei due poveri genitori che non sanno che fine ha fatto la loro bambina. E ora si chiedono anche perché è uscita da una porta secondaria della palestra. Qualcuno l'aspettava o qualcuno l'ha costretta. Un dubbio e una paura che ora hanno portato i genitori a non mandare più i ragazzi in quel luogo. Sospese le lezioni: non c'è sicurezza. O forse c'è solo tanta paura. A parte la psicosi, non del tutto ingiustificata viste le circostanze, resta angosciosa la domanda: cosa hanno fatto a quella bambina? Quanto avrà sofferto? Si è fidata di qualcuno che conosceva o è stata trascinata a forza? Se come tutto lascia temere è morta i suoi ultimi pensieri e forse le invocazioni saranno stati per i genitori, per la mamma. Così come è stato per Sarah. E questo pensiero aumenterà lo strazio, il dolore, la rabbia dei genitori. Verrebbe voglia di gridare a chi indaga di fare presto. Non siamo riusciti a prevenire ed evitare una mostruosità, almeno facciamo in fretta per togliere dalla circolazione quel mostro o quei mostri che ancora si aggirano liberi. E ci dobbiamo chiedere se da quel 26 novembre sia stato fatto proprio tutto il possibile, se nessuna segnalazione, testimonianza sia stata sottovalutata. Se non c'è stata una presunzione, la presunzione di chi segue una propria pista e per questo sottovaluta le altre. Ricordiamo che per Sarah si pensava a una fuga. E ricordiamo quell'episodio lontano dei fratellini di Gravina di Puglia. Ritrovati morti, caduti da un muro non lontano da casa. Eppure c'è chi pensò fin dall'inizio alla colpevolezza del padre, volevano incastrarlo invece di cercare quei due bimbi che agonizzavano a poche centinaia di metri da casa. Ora, con i cani o senza di loro, non solo Brembate, ma tutta l'Italia chiede verità e giustizia. Non un colpevole, ma il colpevole. Critiche anche da Massimo Martinelli de “Il Messaggero”. Almeno settanta ore di vantaggio. Che per un assassino in fuga sono un’enormità. Un regalo impagabile soprattutto per chi ha ucciso in preda ad un raptus. Di tipo sessuale, probabilmente. Perché consente al killer di riacquistare lucidità e pianificare una strategia di uscita. E’ questo l’effetto dell’errore da dilettanti allo sbaraglio che renderà difficile la caccia a chi, forse, ha già ucciso Yara. E’ come se gli investigatori di Bergamo fossero stati avvertiti con tre giorni di ritardo. Invece sono rimasti al palo per scelta, imboccando una pista che appariva suggestiva, ma che avrebbe dovuto suggerire alcune cautele in più. La verità è che hanno cercato il risultato immediato, l’arresto spettacolare, l’operazione mediatica. Anche se quel marocchino aveva un alibi granitico, che poteva essere verificato chiamando il suo datore di lavoro in un tempo inferiore a quello che è stato necessario per intercettare un traghetto in acque internazionali. E anche la telefonata indicata come unica prova per l’arresto: aveva un mittente, Fikri, e un destinatario. Che se fosse stato consultato subito avrebbe spiegato il motivo della chiamata. E fornito un contributo a tradurre la frase che invece è stata affidata ad un interprete di dubbia affidabilità. E ancora, Fikri aveva una fidanzata, che poteva informare i carabinieri che il viaggio in Marocco non era una fuga, ma era stato programmato da tempo. E che la decisione di gettare via una vecchia scheda sim era l’effetto di una scenata di gelosia, perché su quel numero continuavano ad arrivare telefonate di ex fidanzate. E’ vero, Fikri sembrava un uomo in fuga. Ma non lo era. E le indagini di polizia giudiziaria, come quelle della magistratura, non possono utilizzare un verbo all’imperfetto, ”sembrava”, per giustificare l’azzeramento dei diritti costituzionali. Non possono farlo mai. E se esistesse un termine più assoluto sarebbe il caso di utilizzarlo per la vicenda di questo marocchino, il cui arresto poteva scatenare una reazione xenofoba, che nel paese di Yara non c’è stata. Oppure finire sul tavolo di magistrati poco esperti e appiattiti sui rapporti della polizia giudiziaria. E non, come è accaduto, nelle mani di due donne che hanno avuto da subito la sensibilità tutta femminile di scavare negli occhi di Fikri. Sono le due uniche stelle che hanno vegliato sulla triste sorte di Fikri: un paese come Brembate dove ieri sera tre uomini al bar hanno visto un nordafricano sconosciuto e gli hanno offerto da bere, per solidarietà. E due donne che, con la toga sulle spalle, ci stanno davvero bene.

«Cosa accomuna i casi di Elisa Claps a Potenza, di Sarah Scazzi ad Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra? L'inadeguatezza, se non il fallimento, del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Yara si incarcerò un innocente, il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano». Lo sfogo è di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana e personaggio noto del web attraverso la sua battagliera associazione “Contro tutte le mafie”. Nel monumentale dossier dedicato alle tragiche vicende di queste giovani donne, Giangrande è forse l'unico che non teme di indicare con chiarezza elementi che riguardano gli stessi investigatori. E a chiedersi, per esempio, «come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio nonché collega dell'aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?». «Qualsiasi decisione finale sarà presa - rincara la dose l'avvocato – sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale». C'è solo Giangrande a ricordare come nel 2004, in quella stessa zona, le indagini sul delitto di una coetanea di Sarah, Giusy Potenza, avessero avuto come sfondo quella prostituzione minorile che nei territori fra Taranto e Foggia vede da sempre all'opera la Sacra Corona, orrenda gemmazione della camorra in terra pugliese, e come vittime centinaia di bambine innocenti, cui la natura aveva donato una bellezza senza pari. Abbandonata subito, infine, anche la pista del delitto di camorra nel caso di Yara Gambirasio, benché entrambi i titolari della ditta per la quale lavorava il padre della ragazza siano stati arrestati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. E così, mentre si continuano ad eseguire gli oltre diecimila esami del Dna ad interi paesi, sperticandosi fino alla ricerca di possibili “figli naturali” dei presunti assassini, nessun rilievo è stato dato dagli inquirenti alle voci che fin dai primi giorni si rincorrevano in paese, a Brembate, su quella droga che circolava a fiumi nelle zone periferiche, gestita - come ormai ovunque in Lombardia e in tutto il Nord - da uomini che portano cognomi calabresi o campani. E che in zona vivono e lavorano da tempo anche con attività imprenditoriali alla luce del sole. Per Yara insomma, proprio come per Melania e Sarah, ad essere privilegiata rimane la strada del delitto passionale, o al massimo di un balordo. E a ricordarci qualcosa sulla principale investigatrice del caso Brembate, il pm Letizia Ruggeri, era stato solo il quotidiano Libero. Che il 9 marzo 2011, con il corpo della bambina appena ritrovato, ricorda come quel 26 novembre 2010, quando Yara scompare, sia lo stesso giorno in cui va in pensione il procuratore capo di Bergamo Adriano Galizzi. E che il sostituto Ruggeri, cui era stato assegnato il fascicolo, il 4 dicembre 2010 parte per due settimane di vacanze sulla neve. Situazione: «Nei 40 giorni cruciali per le indagini - sintetizza Libero - il pubblico ministero era in vacanza». Indignazione che si è materializzata con una raccolta di firme per l’estromissione del PM dalle indagini. Finale: ad oggi, mandanti ed assassino di Yara Gambirasio sono ancora senza volto.

Non meno stravagante e bizzarra è anche la coincidenza per la quale gli avvocati di Parolisi e della famiglia Scazzi sono gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, che si sono occupati anche del caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Essi difendevano il condannato Rudy Guede. Per quel delitto sono stati assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Anche loro vittime dei PM di turno innamorati della loro ipotesi investigativa.

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.

Palesi e fondate critiche sulla conduzione delle indagini, per quanto riguarda Sarah, sono a firma di Giorgio Sturlese Tosi su Panorama del 9 dicembre 2010.

Gli italiani, è storia vecchia, sono tutti allenatori della nazionale di calcio. Ma da qualche tempo sono diventati anche un popolo di investigatori. Le serie televisive e i grandi gialli, trattati in tutte le trasmissioni, hanno svelato i segreti di ogni tecnica investigativa e, al bar come al mercato, uomini e donne discettano con competenza di autopsie, luminol, guanti di paraffina e dna. Le indagini sulla morte di Sarah Scazzi vengono ormai seguite con più attenzione e trasporto delle serie tv sui Csi americani. Ma proprio dal confronto con i delitti più celebri e le crime fiction più apprezzate emergono alcuni aspetti dell’inchiesta sul caso Scazzi che lasciano perplessi. E il pubblico, sempre più preparato, segue con sconcerto l’evolversi dell’inchiesta. A cominciare dalle prime mosse dei carabinieri, dopo la denuncia di scomparsa del 26 agosto.

La prima pista falsa, seguita per troppe settimane.

All’inizio, e per settimane, fu battuta la pista dell’allontanamento volontario. Si scoprì, con stupore, che Sarah aveva creato più profili su Facebook mentre una frase banale, che tradiva un adolescenziale desiderio di andarsene da Avetrana, fu interpretata come la prova che si trattasse di una messinscena.

Le intercettazioni, disposte solo in settembre.

In quasi tutti i casi di scomparsa le prime attenzioni degli investigatori si concentrano sulla cerchia familiare. Ma fra agosto e settembre nessuno pensò d’intercettare le telefonate e le conversazioni delle persone legate alla vittima. Concetta Serrano, madre di Sarah, disse subito: «Indagate anche sulla famiglia, pure su di me». Ma nel mirino finì il padre di Sarah, Giacomo. Non i Misseri, nella cui casa Sarah trascorreva gran parte delle sue giornate. Solo il ritrovamento del cellulare di Sarah da parte di Michele Misseri, il 29 settembre, ha portato a una svolta nelle indagini.

Le ricerche a vuoto, ma qualcosa si poteva sospettare.

Inutili anche le battute condotte sul territorio da decine di volontari e dai carabinieri. Il cadavere di Sarah verrà scoperto solo grazie a Misseri, unico regista dell’inchiesta. Eppure, era noto in paese che l’uomo, nel giorno del delitto, aveva lavorato in quel campo di contrada Mosca.

La scena del delitto, isolata alcuni giorni dopo la confessione.

È la prima regola di ogni indagine. Ma il garage dove sarebbe avvenuto il delitto è stato setacciato dai tecnici della scientifica solo alcuni giorni dopo la confessione di Misseri. Lo stesso è accaduto per la casa di via Deledda, più recentemente indicata come il luogo dove sarebbe stata uccisa Sarah. Nessuno, in procura, aveva pensato di mandarvi gli esperti del Ris.

L’ambiguità della traccia telefonica.

Impossibile anche tracciare gli spostamenti del cellulare di Sabrina, cugina di Sarah e oggi principale sospettata. Nella guerra di perizie, già iniziata tra accusa e difesa, persino il fatto che il suo telefonino abbia agganciato il ripetitore vicino al pozzo dove è stato trovato il cadavere, un dato apparentemente di univoca interpretazione, è in realtà motivo d’incertezza: perché i periti della procura ritengono che a seconda di circostanze del tutto casuali i cellulari di Avetrana possano agganciare la zona di Nardò (dove si trova il pozzo) e viceversa.

Gli interrogatori, un po’ troppo incalzanti.

Quasi tutti gli interrogatori di Michele Misseri sono stati condotti con sollecitazioni incalzanti, che sembrano volerlo condurre verso una strada precisa. Ma le otto versioni rese fin qui dall’indagato hanno avuto fondamentalmente l’effetto di renderlo poco credibile.

L’arma del delitto, non ancora scoperta.

Insolito è stato anche l’approccio che gli inquirenti e i carabinieri del Ris hanno avuto con la Seat Marbella di Misseri, l’auto utilizzata per il trasporto del cadavere, che è stata sequestrata e custodita per giorni nel cortile della caserma dei carabinieri. I tecnici inizialmente ne hanno ispezionato il bagagliaio, senza però tenere conto di una cintura in cuoio. Soltanto dopo che Misseri l’ha indicata come arma del delitto (ma poi è stato smentito dall’autopsia) quella cintura è stata portata in laboratorio.

I possibili complici: ci sono, oppure no?

Anche le modalità dell’occultamento del cadavere sono avvolte nel mistero e i periti non sono ancora riusciti a stabilire se Michele abbia fatto tutto da solo o se qualcuno l’abbia aiutato a calare il corpo di Sarah nel pozzo.

Le visite dei familiari in carcere.

Del tutto particolare appare poi l’autorizzazione concessa dalla procura alla moglie e alla figlia di Misseri, Cosima e Valentina, di visitare Michele e Sabrina. Tanto più considerando che uno accusa l’altra e che il resto della famiglia si è da subito schierato con la ragazza. Un’interferenza che rischia di compromettere l’intero quadro testimoniale.

L’autopsia incerta.

Di nessun aiuto è stata la prova scientifica per eccellenza: l’autopsia. Luigi Strada, consulente tecnico dalla procura, non è riuscito a stabilire se a strangolare Sarah sia stato suo zio Michele, un contadino abituato a lavorare nei campi, oppure sua cugina Sabrina, una ragazza di 22 anni. Il medico legale deve ancora completare la sua analisi, tuttavia il corpo di Sarah è già stato sepolto.

L’ora del delitto, ancora non stabilita.

Neanche questa è certa. L’assenza di tracce di un «cordon bleu» ingerito da Sarah prima di uscire di casa, rilevata dal Ris, stravolge l’intera ricostruzione del delitto fin qui fatta da Misseri e sposta di oltre un’ora il momento del decesso.

Le ricostruzioni, che lasciano molte incertezze.

Condotto una seconda volta in contrada Mosca, Misseri ha ripetuto i gesti compiuti per gettare Sarah nel pozzo, allo scopo di dimostrare di avere fatto tutto da solo. Ma gli inquirenti, non avendo di meglio e forse inclini alla teoria del «dove sta il più sta il meno», gli hanno fatto sollevare prima un robusto carabiniere e poi un grosso masso che si trovava a portata di mano. Non solo, il consulente Strada, nel tentativo di far ripetere l’esecuzione a Michele Misseri in carcere, non avendo a portata di mano una cintura né una corda, ha utilizzato «un foulard arrotolato a mo’ di fune». Che, nelle sue rudi mani, ha evidenziato l’incertezza dei movimenti di zio Miche’.

Il segreto istruttorio, violato per due mesi.

Nonostante quanto prevede la legge, gli audio dei verbali di interrogatorio, i filmati dei sopralluoghi, i tabulati telefonici e i risultati delle perizie sono finiti sui giornali, in televisione e sul web. Tardivo, e inutile, il sequestro della procura di tutti gli atti ormai di dominio pubblico.

Ecco, in sintesi, le diverse versioni fornite da Michele Misseri agli inquirenti sull'uccisione della nipote Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010.

6 OTTOBRE 2010, MISSERI 'UNO': Michele Misseri si imbatte in Sarah che, alla ricerca della cugina Sabrina, entra nel garage dello zio, dove lui sta sistemando il trattore. L’uomo tenta un approccio sessuale con la nipote, che respinge le avances. Michele l’aggredisce alle spalle e con una corda la strangola. Nasconde il cadavere, poi lo colloca nel bagagliaio della sua auto, si dirige nelle campagne di Avetrana, denuda la salma e si lascia andare a un rapporto sessuale completo. Depone di nuovo il cadavere in auto e, infine, lo getta in un pozzo. L’uomo non chiama mai in causa la figlia Sabrina.

15 OTTOBRE 2010, MISSERI 'DUE': Sarah arriva in casa Misseri e la cugina Sabrina la trascina nel garage con la forza, avendo la stessa Sabrina ed il padre concordato di darle una lezione per intimorirla ed evitare che la ragazza diffondesse in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza. Mentre quest’ultima tiene per le braccia la cugina, Michele Misseri avvolge una corda intorno al collo di Sarah e la strangola. Sabrina, nel momento in cui vede la cugina accasciarsi, impaurita molla la presa e si allontana. L’uomo poi fa sparire il cadavere gettandolo nel pozzo. Alcuni giorni dopo, tramite il suo legale, Michele Misseri fa sapere di voler ritrattare la precedente confessione nella parte relativa agli atti sessuali sul cadavere.

4 NOVEMBRE 2010, MISSERI 'TRE': Sabrina e Sarah si incontrano per andare al mare e litigano, forse per gelosia nei riguardi di un amico comune, Ivano Russo. Sabrina trascina nel garage Sarah: la discussione degenera e lei strangola la cugina con una cintura trovata in garage. Sabrina sale a casa ed informa il padre Michele, che stava dormendo. L'uomo rassicura la figlia, che si allontana con l’amica Mariangela. Michele Misseri carica la salma di Sarah in auto, si dirige in campagna, abusa sessualmente del cadavere e, infine, lo getta nel pozzo calandolo con una corda.

19 NOVEMBRE 2010, MISSERI 'QUATTRO': Michele Misseri conferma sostanzialmente l’ultima versione, ma ritratta le presunte avances alla nipote e l’abuso sessuale del cadavere.

VIGILIA DI NATALE 2010, MISSERI CINQUE: Michele Misseri scrive due lettere alle figlie Sabrina e Valentina, scagionando di fatto la secondogenita e scusandosi per averla accusata ingiustamente ma senza spiegare i motivi delle precedenti accuse. È proprio in una lettera di poche righe inviata alle figlie Valentina e Sabrina (quest’ultima detenuta in carcere perchè accusata di concorso in omicidio) che Michele Misseri fa riferimento al fratello Carmelo: «mi hanno detto – scrive testualmente – che se non faccio quella confessione dovevano arrestare la mamma e zio Carmelo io per non mettere altri innocenti o dovuto fare la falsa».

16 FEBBRAIO 2011. MISSERI SEI. L’ultima confessione, sarebbe contenuta in una lettera che Michele Misseri avrebbe consegnato, o forse spedito, al suo difensore di fiducia, l’avv. Francesco De Cristofaro del foro di Roma. La circostanza è stata riferita nella trasmissione di Rai Uno “La vita in diretta”. La missiva, secondo quanto riferito nella trasmissione tv, sarebbe stata scritta il 16 febbraio. Misseri vi avrebbe raccontato che quel maledetto 26 agosto Sarah sarebbe entrata nel garage mentre lui era adirato perchè non partiva il motore del trattore. L’uomo avrebbe invitato bruscamente la nipote ad andar via, la ragazzina non gli avrebbe dato retta e Misseri, preso da un raptus d’ira, avrebbe strangolato la nipote con una corda. Il corpo esanime sarebbe caduto sul compressore. Era stato proprio Michele Misseri, in una lettera inviata mesi fa alla figlia maggiore Valentina, a parlare di un compressore, scrivendo che Sarah vi avrebbe battuto la testa cadendo dopo essere stata strangolata.

Nel processo in corte d’Assise Miche conferma di essere stato lui ad uccidere Sarah e che le versioni in cui accusava la figlia Sabrina erano state indotte dall’avv. Daniele Galoppa e dal consulente Roberta Bruzzone.

La Corte d’Assise di Taranto ha messo a punto le date delle ultime udienze del processo per l'uccisione di Sarah Scazzi. Il 25 e il 26 febbraio 2013 è prevista la requisitoria del pubblico ministero Mariano Buccoliero, il 4 marzo prenderà la parola il procuratore aggiunto Pietro Argentino, poi sono state fissate altre udienze per la discussione delle parti civili e dei difensori degli imputati fino all’8 aprile. Gli imputati sono nove. Sono accusate di omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere la zia di Sarah, Cosima Serrano, e sua figlia Sabrina Misseri. Michele Misseri è imputato di concorso in soppressione di cadavere con le due donne e del furto del telefonino di Sarah e di danneggiamento, seguito da incendio, degli effetti personali di Sarah. Carmine Misseri e Cosimo Cosma sono accusati di concorso in soppressione di cadavere. Gli altri quattro imputati a giudizio sono l'avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina, al quale vengono contestati i reati di favoreggiamento personale e intralcio alla giustizia, e altri tre presunti favoreggiatori: Antonio Colazzo, Cosima Prudenzano e Giuseppe Nigro, che sono il cognato, la suocera e l’amico del fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri che dapprima raccontò di aver visto Cosima Serrano costringere Sarah, con la forza a entrare nella propria automobile e poi disse che si era trattato di un sogno. Buccolieri non è a giudizio in questo processo.

Concetta Serrano, fuori dall’aula nella pausa del processo, in collegamento con Giancarlo Magalli a “I Fatti Vostri” non ha perso occasione di accusare i suoi parenti e di promuovere la sua religione (Testimoni di Geova) con citazioni bibliche che ha lasciato inebetiti gli interlocutori in studio. (Vi era anche l’avv. Nino Marazzita). Intervistata da Filomena Rollo (la giornalista definita “cretina” da Michele Misseri perché accusata di essere giustizialista nei confronti di Sabrina) ha, anche, accusato i testimoni chiamati in aula di pensare più alla loro posizione che ad affermare la verità. Intanto l’odio parla per bocca della madre si Sarah. «L'hanno uccisa per tapparle la bocca. Perché‚ Sarah non doveva parlare più. Ho la sensazione che la bambina sapesse o avesse visto qualcosa… che sotto ci fosse qualcosa di grave». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la ragazzina uccisa ad Avetrana, in un'intervista che verrà trasmessa il 25 gennaio da "Quarto Grado" su Retequattro e della quale è stata diffusa un'anticipazione. Per Concetta, «la bugia più grossa di mia nipote Sabrina (Sabrina Misseri, accusata con la madre Cosima dell'omicidio) è stata quando ha detto "Mio padre è un vigliacco"». «Quando Sabrina dice così - ha detto ancora - vuol far credere che sia stato Michele ad uccidere Sarah e non lei. Secondo me, in realtà, il senso è un altro: lo dice perché‚ suo padre ha parlato e invece doveva stare zitto, come hanno fatto lei e la madre tutto questo tempo». Per Concetta, «visto che non hanno nessun altro a cui dare la colpa, le due si nascondono vigliaccamente alle spalle di Michele. Lui si presta, perché‚ sono le sue donne: la figlia e la moglie». Parlando del comportamento di Michele in aula, la signora Serrano ritiene probabile «che in aula Michele stia recitando o calcolando la corda giusta per impiccarsi, visto che dice che vuol farla finita». In chiusura Concetta parla della sorella Cosima: «C'è un detto che dice "Chi tace acconsente". Prima nelle interviste Cosima sbandierava la frase "Male non fare, paura non avere". Adesso si è ammutolita. Vorrei capire perchè davanti al giudice non parla». «Da sorella a sorella - conclude - vorrei chiederle cosa voleva dire il 26 agosto, in caserma, quando ha detto riferendosi a Sarah: "Questa volta l'ha fatta grossa. Questa sera, se viene, quando viene, le devi tirare uno schiaffone". Vorrei capire cos'ha fatto di grosso o cos'ha detto di tanto grave Sarah».

Non c’è dubbio nel suo pensiero, né discernimento tra i fatti avvenuti e quelli raccontati. Stille di odio e non di razionalità. L’esperienza dovrebbe insegnare e i suoi avvocati, proprio loro che difendono Salvatore Parolisi, dovrebbero spiegarle che nulla è mai come appare e che i giudizi (e le condanne) vanno date al di là di ogni ragionevole dubbio. E spesso l’odio o le influenze interessate sono cattive consigliere.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI. Non si arrendono i sostenitori dell’innocenza di Olindo Romano e della moglie Rosa Bazzi, definitivamente condannati all’ergastolo come autori della strage di Erba, l’11 dicembre del 2006. La notizia, rimbalzata via internet, riguarda la costituzione di un "Comitato Rosa - Olindo:”giustizia giusta", fondato dall'avvocato Diego Soddu e dai giornalisti Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, quest'ultima già autrice di una pubblicazione, "Finché morte non ci separi", che raccoglie le lettere di Rosa e Olindo dal carcere. Secondo i sostenitori dell'innocenza della coppia, «il Comitato ha come scopo principale quello di promuovere le iniziative e le attività che ritiene idonee al fine di dimostrare l'ingiusta condanna di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano, attualmente condannati all'ergastolo. Sono campi di intervento del Comitato tutti quelli in cui si può impegnare in una lotta civile contro le forme di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano». Tra i propositi ci sono quelli di organizzare convegni, dibattiti, riunioni, di lanciare petizioni, raccolte pubbliche di adesioni, fondi e firme. I due coniugi erbesi, lo ricordiamo, furono riconosciuti, dopo tre gradi di giudizio, colpevoli di una delle più orrende stragi dell'Italia del Dopoguerra. Persero la vita una giovane mamma, Raffaella Castagna, all'epoca 30 anni, disoccupata, volontaria in una comunità di assistenza a persone disabili, colpita con una spranga e da dodici coltellate; Paola Galli, 60 anni, casalinga, madre di Raffaella, lei pure uccisa a colpi di coltello, e la vicina di casa Valeria Cherubini, 55 anni, commessa, accorsa per prestare aiuto. Con un unico colpa alla gola, Rosa Bazzi assassinò il piccolo Youssef Marzouk, un bambino di due anni e tre mesi, figlio di Raffaella. Il marito della Cherubini, Mario Frigerio, 63 anni, si salvò per un miracolo. La sua testimonianza si rivelò fondamentale per la condanna degli assassini. Sono ormai passati più di sei anni da uno dei delitti più efferati, la strage di Erba, ma nonostante la confessione dei due colpevoli, i coniugi Olindo e Rosa Romano che abitavano nello stesso palazzo in cui sono avvenuti i fatti, c'è chi li difende e ha deciso di fondare anche un comitato a loro sostegno. E' sempre difficile riuscire a dimenticare un caso di cronaca particolarmente grave nonostante il passare degli anni e il delitto di Erba è certamente uno di questi proprio perchè a causa di alcune liti di condominio due coniugi, Olindo e Rosa Romano, che sono ora stati condannati all'ergastolo, hanno deciso di agire con grande crudeltà attraverso coltellate e spranghe uccidendo quattro persone, tra cui anche il piccolo Youssef, che al tempo aveva solo due anni e mezzo e senza mostrare alcun tipo di pentimento. A distanza di qualche anno Carlo Castagna, che con questo delitto ha perso moglie, figlia e nipotino, ha trovato la forza di perdonare comunque gli assassini, anche se ben diversa è la reazione di Azouz Marzouk, il suo ex genero, che non solo si è ricostruito una famiglia, ma clamorosamente è arrivato addirittura a ipotizzare che i colpevoli non siano Rosa e Olindo. Il parere de tunisino, pur essendo sorprendente, non è però l'unico e lo dimostra anche la nascita di un comitato nato in loro dfesa chiamato appunto "Comitato Rosa - Olindo: giustizia giusta", che si pone proprio l'obiettivo quello di promuovere una serie di iniziative e attività volte a dimostrare l'ingiusta condanna della coppia. Si tratta comunque di un progetto apolitico e apartitico nato dall'iniziativa dell'avvocato Diego Soddu e delle giornaliste Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, autrice del libro "Finchè morte non ci separi", che raccoglie proprio le lettere che i due si son scambiati da quando sono rinchiusi in carcere a dimostrazione che il loro legame, per quanto li abbia portati a compiere un atto tanto grave, non ha scalfito minimamente il loro amore. Da qui in avanti si proverà quindi a lottare contro ogni forma di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Chi lo vorrà potrà quindi aderire a questa iniziativa attraverso la partecipazione a dibattiti, convegni, riunioni o raccolte fondi che saranno organizzati nei prossimi mesi. Azouz Marzouk scagiona Olindo e Rosa: "Non hanno ucciso loro Youssef e Raffaella". Una rivelazione che può riaprire il processo. Il marocchino pensa che i due assassini della moglie e del figlio non sono i vicini di casa. Parole che fanno discutere. I colpevoli non sono più colpevoli. Una rivelazione che può ribaltare una sentenza. Azouz Marzouk torna a parlare sulla strage di Erba. La sua dichiarazione lascia molte ombre su quello che è successo in quelle sera quando morirono il figlio Youssef, di 2 anni e la moglie Raffaella Castagna, e la suocera. Per l'omicidio sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi, che per discussioni condominiali avevano deciso di fare fuori un'intera famiglia. Ora Marzouk parla e mette in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa: "Loro non sono i colpevoli, sono solo dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Credo che giustizia non sia stata fatta – spiega al quotidiano “Il Giorno” a firma di Gabriele Moroni -. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari che mi convincono che a ucciderli non siano stati i Romano”. Azouz vorrebbe la riapertura del procedimento per dimostrare che i due vicini non hanno compiuto la strage. “Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Prima o poi farò uscire la verità”. Su Erba il sipario non cala mai. «Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla». Azouz Marzouk sei anni dopo. A sei anni dalla strage di Erba, quell’11 dicembre di orrore infinito, nella casa di ringhiera, grande come un falansterio, in via Diaz 25/C. Il giovane tunisino, marito, padre e genero di tre delle quattro vittime, parla da Zaghouan, la cittadina dove vive. E va oltre. La Cassazione si preparava a confermare l’ergastolo ai coniugi Romano, i vicini di casa che si erano autoproclamati giustizieri, e già Azouz auspicava una rilettura dell’inchiesta. Oggi Marzouk compie un passo in più. «Credo - dice scandendo le parole nell’italiano corretto di sempre - che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Vedremo per un nuovo processo». Lancia quella che suona come una sfida. «Non ho mollato il processo. Chi pensa che mi sia fatto da parte si sbaglia. Prima o poi farò uscire la verità». L’ex netturbino di Erba e la moglie, la colf maniaca di ordine e pulizia, sono allora due innocenti murati nel carcere a vita? Azouz denuncia il suo parere assolutorio: «Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Lo so perché ho passato anch’io il carcere da innocente, sottolineo da innocente». Una nuova moglie conosciuta a Lecco, una bambina, la proprietà di un minimarket nella sua città. Quanto pesa il passato sulla vita che ha ricominciato? «Porto nel cuore la breve vita che abbiamo passato insieme, io, Raffa, nostro figlio. La ripercorro almeno una volta la settimana per non dire tutti i giorni. L’amore per loro non lo può cancellare nessuno. L’uomo non è un computer a cui è possibile cancellare la memoria». Quella sera acqua mista e sangue lungo le scale, ristagnava nell’ampio cortile. Nell’appartamento al primo piano i corpi massacrati di Raffaella Castagna, della madre Paola Galli, del piccolo Youssef, due anni, sgozzato, riverso su un divano. Valeria Cherubini, la premurosa vicina, era vissuta giusto il tempo di risalire le scale, nove gradini, un pianerottolo, un’altra rampa e altri nove gradini, inseguita dal coltello assassino, per andare morire nella sua mansarda. Un uomo contemplava il massacro della sua famiglia: Carlo Castagna, il marito di Paola, il padre di Raffaella, il nonno di Youssef. Uomo di lavoro e di fede. Lì affonda la sua serenità, la stessa che usa per commentare le affermazioni di Azouz: «Non ho parole. Rispetto la sua posizione, anche se non riesco a capire cosa lo abbia indotto a prenderla. Mi pare incredibile, dopo tre gradi di giudizio. Come mi pare incredibile il ricorso della difesa a Strasburgo, come se non si avesse fiducia nella magistratura italiana. Vado avanti. Vivo nel ricordo di quelli che ho perduto, nella speranza e nell’attesa di raggiungerli. Nella vita ho messo il fieno in cascina con mia moglie Paola. Tanto fieno. Mi ha aiutato a passare questi inverni gelidi». Il coltello che gli trapassa la gola e recide una corda vocale. Nelle orecchie le invocazioni di aiuto della moglie. Mario Frigerio, il marito di Valeria Cherubini, è l’unico sopravvissuto. Ha lasciato Erba, vive in una paese vicino (ancora in via Diaz), a pochi passi dalla casa di Elena, la figlia dolce e forte. «Il nostro dolore - dice Elena - lo teniamo tutto dentro. La sofferenza è ancora tanta, tanto grande che è difficile esprimerla a parole». La truce saga di Erba forse non è ancora conclusa. Il difensori di Olindo e Rosa tenteranno di ottenere un nuovo processo. «Stiamo lavorando - dice l’avvocato Fabio Schembri - per la revisione. Abbiamo raccolto elementi interessanti, nuove dichiarazioni».

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA. Fabrizio Corona: la giustizia sbaglia, ma non perdona, spiega Antonio Pellegrino. Dopo la fuga in Portogallo, Fabrizio Corona si è consegnato alle autorità portoghesi. Tornato in Italia, dovrà scontare 7 anni, 10 mesi e 17 giorni di carcere (la condanna iniziale era di 5 anni). Il reato di estorsione deve essere sicuramente punito e non ci sono scusanti. (Ma quel fatto configura l’estorsione e se sì, perché non perseguire tutto il sistema gossipparo?) In tale sede mi preme sottolineare il modus operandi quantomeno discutibile, a mio avviso della giustizia italiana. Il titolo del blog in esame non deve indurre il lettore in errore: con la locuzione “la giustizia sbaglia” non intendo affermare che la pena inflitta al fotografo dei vip sia erronea, bensì credo sia sbagliata nella sua commisurazione. Un esempio su tutti può evidenziare il mio ragionamento: Michele Misseri, noto alle cronache per essere implicato nella vicenda che ha portato all'uccisione di sua nipote, Sarah Scazzi, fu accusato di occultamento di cadavere. Si parla quindi di una vicenda legata alla morte di una persona, per di più una ragazza quindicenne. L'articolo 412 del codice penale recita testualmente: “Chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri, è punito con la reclusione fino a tre anni”. Il reato di estorsione, dal canto suo, è disciplinato dall'articolo 619 del codice penale: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065”. C'è qualcosa che non quadra nelle due vicende: nella prima, quella riguardante Corona, quest'ultimo viene condannato a 5 anni dalla Cassazione (pena poi aumentata per la fuga) per aver estorto 25 mila euro a David Trezeguet, calciatore plurimilionario; nella seconda, legata all'omicidio di una ragazza, il codice prevede per occultamento di cadavere una pena massima di tre anni (il giudice decide da da zero a tre anni). Badate bene: con questo esempio non voglio scagionare il più noto paparazzo d'Italia, ma sottolineare l'incongruità della sua pena. Il reato di estorsione è sì grave, ma come molte norme del codice, penale o civile, c'è bisogno sempre di una interpretazione giurisprudenziale. L'estorsione di 25 mila euro fatta ad un calciatore plurimilionario è sicuramente meno grave rispetto a quella fatta ad una qualsiasi persona che porta a casa uno stipendio “ordinario”. In questo caso, anche 1000 euro sarebbero influenti nell'economia familiare. La giustizia italiana, talvolta, mostra alcune incongruenze e non solo. Lettera aperta a Tempi di Giuseppe Lucibello, avvocato di Fabrizio Corona: “Inspiegabile disparità di trattamento. In tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro”.  «Nel paese dove tutti si sentono allenatori della Nazionale di calcio si assiste, da qualche giorno, ad un nuovo, avvincente, esercizio intellettuale: improvvisarsi avvocato difensore del sig. Fabrizio Corona. In televisione e sui giornali ognuno dice la sua spingendosi sino a voler individuare, retrospettivamente, le migliori strategie processuali. Tuttavia, prima di lanciarsi in più o meno autorevoli, nonché improvvisate, dissertazioni su come si sia giunti alle sentenze di condanna occorrerebbe avere piena cognizione delle vicende processuali. Pertanto abbandonando il riserbo che mi ero imposto per non incentivare inutili illazioni e strumentalizzazioni sulla pelle di Fabrizio e sulla tragedia che sta vivendo, ritengo che sia doveroso, a questo punto, effettuare alcune considerazioni, avendo vissuto questa vicenda in prima persona (sia pur a processi già avviati, con le ovvie preclusioni del caso). Quando sono iniziate le sue vicissitudini giudiziarie (Potenza- Woodcock – con l’inchiesta Vallettopoli) Fabrizio era stato rappresentato come il dominus di una sorta di S.P.E.C.T.R.E. del gossip, seppur incensurato. Dopo anni di processi, grazie alla paziente e laboriosa opera anche dei colleghi che mi hanno preceduto o affiancato, l’ipotesi accusatoria di Potenza è stata smontata e la quasi totalità delle accuse mosse a Corona è venuta meno. L’imputazione di associazione per delinquere non è giunta neanche al dibattimento. Conseguentemente le contestate estorsioni, si sono “sparpagliate” – per ragioni di competenza territoriale – in mezza Italia, creando così il primo serio danno a Fabrizio, costretto a difendersi in più sedi anziché innanzi ad un unico Giudice. I giudizi sono stati i più disparati; come si suol dire paese che vai usanza che trovi. Per i Giudici di Roma il pagamento di decine di migliaia di euro – da parte di un noto sportivo – per il ritiro di un servizio giornalistico non aveva natura illecita, tant’è che il procedimento è stato archiviato. I Giudici di Milano, competenti per sette casi di estorsione tentata o consumata, tra il primo ed il secondo grado, hanno ritenuto di mandare assolto Corona in ben 5 di essi. La condanna, ad un anno e 5 mesi, per i due residui tentativi è intervenuta per l’eccessiva lesività delle foto. Nonostante le decisioni di Roma e Milano, i Giudici di Torino, per un fatto indiscutibilmente analogo a quelli per cui vi è stata assoluzione, hanno ritenuto Corona colpevole condannandolo alla pesantissima pena di 5 anni di reclusione. Un esito particolarmente infausto che conclude un iter travagliato e denso di colpi di scena: basti pensare che il GUP inizialmente aveva mandato assolto Fabrizio o che la Corte d’Appello, “giocando” tra attenuanti ed aggravanti, ha aumentato la pena inflitta dai Giudici di primo grado da tre anni e quattro mesi a cinque anni. In punto di pena basti pensare che il Tribunale di Milano, in primo grado, per un’estorsione consumata e tre casi di estorsione tentata aveva inflitto una pena di tre anni e otto mesi! Ebbene il sottoscritto è ancora fermamente convinto che le condanne inflitte in relazione alla pratica del “ritiro” siano assolutamente ingiuste e che prospettare a qualcuno l’esercizio di un diritto quale la pubblicazione di un servizio fotografico (realizzato lecitamente) non ha nulla a che fare con la coercizione tipica del reato di estorsione. Del resto è singolare che dal 2007 ad oggi la lotta a questa “diffusissima pratica” si sia risolta unicamente nel processo a Fabrizio Corona ed ai suoi collaboratori. Se fosse bastata una sola inchiesta a smantellare definitivamente una pratica illecita ci troveremmo innanzi alla più efficace operazione anticrimine di questo paese. Ma posto che il “ritiro” dei servizi risulta essere ancora, pacificamente, in auge è evidente come Corona abbia assolto la funzione di capro espiatorio e che nella eccessiva severità di questa condanna siano entrate in gioco molte, troppe, variabili. Tra queste variabili che peso hanno avuto le assoluzioni di Corona a Milano nella condanna di Torino? In definitiva, in tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro e la circostanza che, pur applicando le stesse norme di diritto, i Giudici siano giunti a sentenze così diverse. Mai come in questo caso, in effetti, la supplenza giurisdizionale volta a colmare l’ennesimo vuoto legislativo ha prodotto risultati così discordanti.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. dELITTO DI MELANIA REA.

SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE. Altra incongruenza. Il delitto di Melania Rea. Salvatore Parolisi è stato condannato per l'omicidio di Melania Rea? Si chiede Michela Murgia. Dipende dai punti di vista. Certo, in un'ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all'ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un'assoluzione civile. Raccontano, perché è questo che le motivazioni alle sentenze devono fare, e lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i romanzi, al punto che alcuni romanzieri italiani tengono appositi corsi ai giudici per insegnare loro a scriverle in modo narrativo. Se dovessimo quindi vederla dal punto di vista letterario, la ricostruzione del caso Rea mostra una trama che lascia interdetti, perché l'omicida vi appare come una figura fragile e deviata, preda di incontrollabili istinti, ma sottomessa e vessata dalla personalità forte di una moglie che lo umiliava di continuo. Melania Rea viene descritta invece come un'Erinni che faceva vivere il marito «in una sorta di sudditanza morale e fisica, già peraltro esistente per il divario economico e culturale ravvisabile tra le rispettive famiglie d'origine». In che modo venire da famiglie di diversa condizione socio-economica dovrebbe determinare sudditanza morale e addirittura fisica tra due coniugi non è per nulla chiaro, ma il giudice lo racconta come se il rapporto fosse logico. Tutte le ipotesi di premeditazione per odio, avidità e desiderio di vivere senza impedimenti un'altra relazione sono venute a cadere in questa nuova narrazione: quello di Parolisi è un «delitto d'impeto», un altro di quei «delitti passionali» che tante aggravanti fanno cadere nei processi per femminicidio. Di passione, intesa come brama sessuale, nella narrazione del giudice Tommasini ce n'è proprio tanta. Pure troppa per essere letterariamente credibile, al punto che viene presentato come verosimile un uomo che si eccita alla vista della moglie occupata in funzioni fisiologiche in un prato e vuole accoppiarsi sul posto a dispetto della figlia minore che poco distante dorme in auto. Ma persino il lettore di gialli di serie B riterrebbe fuori luogo che nel 2013 il rifiuto di Melania Rea ad avere rapporti sessuali in una situazione come quella venga raccontato come «l'ennesima umiliazione» inferta al marito e che l'omicidio feroce che ne è derivato sia motivato come reazione istintiva a un'umana passione respinta con sprezzo. Nella narrazione della sentenza del giudice Tommasini Melania Rea non è morta perché Parolisi la odiava, la tradiva e non sopportava che i soldi in casa li avesse lei. È morta invece perché ha rifiutato di soddisfare le «impellenti esigenze sessuali» di un uomo certamente bugiardo e avido, ma che lei umiliava ripetutamente e che aveva nei suoi confronti un rapporto di «sudditanza fisica e morale». È Melania Rea che è morta, ma nelle motivazioni della sentenza la vittima alla fine è Salvatore Parolisi. Che brutta storia ha scritto, signora giudice. Da qui lo sfogo di Salvatore Parolisi riportato da Diana Pompetti suIl Centro”.  «Io e Melania quel giorno siamo stati a Colle San Marco. L’ho sempre detto, nessuno mi ha creduto. Oggi un giudice riconosce questa verità. Ma per me non c’è nessun sollievo. Di che cosa dovrei sentirmi sollevato? Io so di non essere l’assassino. Ma come posso difendermi da accuse che cambiano sempre?» Salvatore Paroli si si prepara ad affrontare il secondo processo di un’altra vita: quella senza moglie, senza figlia, con una condanna di primo grado all’ergastolo. Nella sala colloqui di Castrogno consegna amarezza e paure all’avvocato Nicodemo Gentile, uno dei legali che lo difende con Valter Biscotti e Federica Benguardato. Chi è il caporal maggiore? L’assassino di Melania Rea o lo sventurato protagonista di un destino maligno che gli ha assegnato, in un solo colpo, due tragedie: la moglie ammazzata con 35 coltellate e le accuse contro di lui ? «Ora è un uomo molto preoccupato a cui non dà più sollievo nemmeno il fatto di sapersi innocente», dice Gentile, «perchè si trova davanti un’accusa in continua evoluzione, con una dinamica che cambia di giudice in giudice». A cominciare dal movente. Il giudice Marina Tommolini, il magistrato che lo ha condannato all’ergastolo al termine di un rito abbreviato, nelle sue motivazioni ne ipotizza un altro: Parolisi avrebbe ammazzato la moglie perchè lei gli ha negato un rapporto sessuale. «Mi sono difeso dall’imbuto passionale, mi sono difeso dal segreto inconfessabile della caserma e continuerò a difendermi perchè io non ho ucciso», dice all’avvocato, «ma come faccio a difendermi da accuse che cambiano sempre? Il perchè e il come di questo delitto continuano a mutare. Se è così, è davvero facile condannare una persona». Lo fa nel giorno in cui all’Aquila s’inaugura l’anno giudiziario e il presidente della Corte d’appello Stefano Schirò dice che le «sentenze vanno criticate, ma non denigrate». Al suo avvocato, pronto a dire «che c’è il massimo rispetto per il giudice Tommolini, l’unico che ha avuto il coraggio di dire che erano stati violati i diritti della difesa», racconta che non è Melania, non è la loro vita quella tratteggiata nelle sessanta pagine di una sentenza che ha letto e riletto. «Quel 18 aprile non c’era tensione, Melania mi aveva perdonato per il mio tradimento. Melania non è mai stata aggressiva, non è mai stata dominante», dice il caporal maggiore, «da quelle pagine emerge un’immagine distorta di mia moglie». Entro i primi giorni di marzo i legali depositeranno il ricorso in Appello e molto probabilmente già prima dell’estate ci sarà la prima udienza del processo di secondo grado. Processo che Parolisi chiederà di tenere a porte aperte. Nel canovaccio che in questi giorni sta prendendo forma nelle mani dei difensori tanti spunti, a cominciare da quello del vilipendio sul corpo di Melania. Per la Tommolini il caporal maggiore l’avrebbe fatto nella mattinata del 20 aprile , giorno in cui nel pomeriggio venne scoperto il cadavere. «Alle 8.57 di quella mattinata», ricostruisce Gentile, «Parolisi chiama i carabinieri che stanno indagando perchè deve consegnare delle cose che gli hanno chiesto nell’ambito delle ricerche. Gli dicono di aspettare a casa e così lui fa. Resta fino alle 10.49 ad attendere i militari con cui si intrattiene anche a parlare per un po’ di tempo. Come avrebbe fatto a raggiungere il bosco di Ripe in un momento, in cui quella zona era piena di elicotteri e forze dell’ordine impegnati nelle ricerche?». Per tutto il resto bisognerà aspettare l’inizio del secondo processo per l’omicidio di Melania Rea. Parla di “nulla totale” uno dei componenti della difesa di Salvatore Parolisi, l’ex caporalmaggiore condannato all’ergastolo per l’omicidio di sua moglie Melania Rea. Il nulla totale corrisponde al fatto che non c’è niente, secondo Federica Benguardato, che colleghi Parolisi alla scena del crimine. Ed è questa, a suo dire, la vera prova della sua innocenza. L’avvocato del marito di Melania è tornato a parlare del caso nella trasmissione televisiva “Attualità” su Vero, ha parlato delle tanto discusse motivazioni della sentenza di condanna e del ricorso in appello. Un ricorso che, ha spiegato, spingerà sulla mancanza di prove sulla scena del crimine: “Non c’è una sola goccia di sangue o solo un capello che leghi Parolisi alla scena del crimine, la sentenza ha ancora molti dubbi aperti e le interpretazioni sono contraddittorie”. Per questi motivi il lavoro della difesa di Salvatore Parolisi, come avevano già annunciato gli avvocati, si muoverà su due fronti: il ricorso in appello per la sentenza di condanna all’ergastolo e l’azione legale per far incontrare il loro assistito con la figlia Vittoria. Secondo l’avvocato Benguardato, infatti, è importante che i due possano vedersi perché la bimba è stata tenuta lontana dal padre anche prima del processo. A proposito della mancanza di prove nell’omicidio, l’avvocato parla in televisione della questione del Dna rinvenuto sulla bocca di Melania e appartenente a Parolisi. Quella traccia è stata considerata per l’accusa una prova schiacciante ma l’avvocato ha affermato che “non ci sono studi che determinano il tempo di permanenza del Dna all’interno della bocca, quindi nessuno è in grado di stabilire quanto tempo prima è avvenuto il contatto”. Per la difesa di Parolisi, inoltre, ci sono molte incongruenze da chiarire anche riguardo al luogo in cui si trovava Melania Rea il giorno della sua uccisione e, infine, non manca in televisione il riferimento al rapporto tra l’ex caporalmaggiore e la sua amante Ludovica Perrone. “Il giudice ritiene la relazione fra i due non forte, è vero Parolisi tenta nell’immediato di depistare le indagini, ma si giustifica come un tentativo di protezione nei confronti della famiglia e della figlia. Gli indizi a suo carico in questo caso non sono stati, infatti, ritenuti sufficienti dal giudice”, ha affermato l’avvocato. Insomma, sia per la sua difesa che per il giudice che ha emesso la sentenza, l’atteggiamento di Parolisi non può far supporre direttamente un coinvolgimento nell’omicidio.

GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.

La storia di Ciccio e Tore Pappalardi: una storia di ordinaria italianità. La Procura di Bari riapre le indagini sulla morte dei fratellini di Gravina in Puglia, morti il 5 giugno del 2006. Indagano la Procura ordinaria e quella dei minorenni sulla base dell’esposto presentato dalla madre di Salvatore e Francesco Pappalardi, 11 e 13 anni, Rosa Carlucci. Secondo la donna cinque ragazzini, all’epoca dei fatti minorenni, erano in compagnia dei figli e saprebbero di più su come morirono. I corpi furono trovati nel pozzo di un palazzo abbandonato al centro della cittadina murgiana il 25 febbraio del 2006.

La vicenda - Per il periodo della scomparsa gli amici dei due fratellini avrebbero taciuto sulla loro morte ma la donna nella denuncia accusa anche alcuni maggiorenni. Il ritrovamento dei corpi portò a scagionare il padre di Ciccio e Tore che nel frattempo era finito in carcere con l’accusa di aver sequestrato e ucciso i figli e di averne fatto sparire i corpi. Secondo Rosa Carlucci, i fratellini caddero verosimilmente nella cisterna mentre partecipavano, assieme ad altri cinque adolescenti, a un gioco, a una sorta di prova di coraggio nella casa poi soprannominata delle cento stanze. Gli amichetti di Ciccio e Tore, quindi, sempre stando all’esposto, avrebbero visto i due ragazzini precipitare nella cisterna ma avrebbero nascosto la verità. La vicenda dei fratellini di Gravina ha inizio il 5 giugno del 2006 con la scomparsa di Francesco e Salvatore Pappalardi, 13 e 11 anni, di Gravina in Puglia. Una scomparsa rimasta nel mistero per quasi due anni, quando vengono ritrovati morti in una cisterna sotterranea in via Consolazione. Di seguito le tappe del caso.

5 Giugno 2006: E' il giorno della scomparsa a Gravina di Francesco e Salvatore Pappalardi. Al momento della scomparsa da circa venti giorni per decisione del Tribunale dei minorenni sono affidati al padre Filippo che vive con una convivente, Maria Ricupero, le sue due figlie ed una figlia nata dalla seconda unione del genitore. Pappalardi è separato dalla moglie Rosa Carlucci, che vive con un'altra figlia minorenne della coppia a Santeramo in Colle (Bari).

Giugno 2006: Ricerche ininterrotte in città (compresi pozzi e anfratti), nella gravina , sulla Murgia, nei boschi, finanche in Romania. Le ipotesi sono varie: allontanamento volontario, ruolo della madre, pista della pedofilia, pista rumena, tutte senza riscontri. Le indagini si concentrano sul padre.

27 Novembre 2007: Primo sviluppo importante dell'inchiesta: viene arrestato Filippo Pappalardi con le accuse di duplice omicidio aggravato da futili motivi e dai vincoli di parentela ed occultamento di cadavere.

25 Febbraio 2008: La tragica scoperta: i corpi di Ciccio e Tore vengono trovati da un vigile del fuoco alle 19.00 in una cisterna sotterranea di un grande stabile abbandonato (la 'casa delle cento stanze') in via Giovanni Consolazione, nel centro storico di Gravina. Il ritrovamento avviene fortuitamente: nella cisterna è caduto un altro bambino, Michelino, 12 anni, precipitato nel pozzo che conduce alla cisterna da un'altezza di 25 metri. Per soccorrerlo, i vigili del fuoco si calano, facendo così la drammatica scoperta.

11 Marzo 2008: Filippo Pappalardi viene scarcerato ma non viene rimesso del tutto in libertà: dopo l'istanza del legale difensore Angela Aliani e nonostante il parere negativo del procuratore Emilio Marzano e del pm Antonino Lupo, il gip Giulia Romanazzi dispone gli arresti domiciliari. Derubrica l'accusa di omicidio e ipotizza invece il reato di ''abbandono di minore o persona incapace aggravato da morte successiva'', come stabilito dall'articolo 591 comma 3, che prevede una reclusione da 3 a 8 anni di reclusione. Secondo questa nuova impostazione Pappalardi non ha ucciso i due figli Francesco e Salvatore, ma non ha detto tutta la verità e potrebbe avere delle responsabilità in quanto è accaduto.

4 Aprile 2008: Filippo Pappalardi viene rimesso in libertà. Le perizie medico-legali avvalorano l'ipotesi della caduta accidentale. Ciccio è morto per un'emorragia dopo la caduta nel giro di poche ore, Tore è morto nel sonno dopo un'agonia per fame, freddo, sete e per le ferite riportate nella caduta.

24 Luglio 2009: L'inchiesta a carico di Filippo Pappalardi viene archiviata dal gip del tribunale di Bari Giulia Romanazzi. Viene chiuso così ogni possibile profilo penale a carico dell'uomo. Rimane in piedi l'aspetto civile della vicenda con la richiesta di risarcimento danni di 516mila euro del legale Angela Aliani, avanzerà in merito all'ingiusta detenzione 'sancita' dalla Corte di Cassazione il 27 maggio del 2008.

21 Febbraio 2012: La Procura di Bari riapre le indagini sulla morte dei fratellini di Gravina in Puglia, morti il 5 giugno del 2006. Indagano la Procura ordinaria e quella dei minorenni sulla base dell'esposto presentato dalla madre di Salvatore e Francesco Pappalardi, 11 e 13 anni, Rosa Carlucci. Secondo la donna cinque ragazzini, all'epoca dei fatti minorenni, erano in compagnia dei figli e saprebbero di più su come morirono.

Sono gli amichetti di Ciccio e Tore la chiave di volta della riapertura del caso dei fratellini di Gravina in Puglia, Francesco e Salvatore Pappalardi, all'epoca di 13 e 11 anni, morti in un pozzo il 5 giugno del 2006 ma ritrovati solo venti mesi dopo, il 25 febbraio del 2008. Dopo la denuncia della madre, Rosa Carlucci, la Procura di Bari e quella dei minorenni hanno riaperto il caso. I bambini morirono in una cisterna sotterranea dopo che Ciccio cadde da un'altezza di circa 15 metri e l'altro fratellino lo seguì per soccorrerlo. Rosa Carlucci vuole che si indaghi proprio sulle circostanze della caduta e, attraverso le tv, ha fatto sapere che bisogna riascoltare gli amici, all'epoca minorenni, che erano con i due fratellini quel 5 giugno quando scomparvero. L'ipotesi dichiarata pubblicamente dalla madre (anche se non è esplicitata nella denuncia) è quella di una ''prova di coraggio'' a cui i due bambini potrebbero essere stati sottoposti, costretti a scendere in quel pozzo che percorre dalla cima ai sotterranei la famigerata ''casa delle cento stanze'' dove trovarono la morte. E qualcosa poi e' andato storto, con la caduta rovinosa del maggiore dei due fratelli. Agli atti dell'indagine ci sono le testimonianze dei tre amici che dichiarano di aver giocato a gavettoni con dei palloncini nella piazza delle Quattro fontane. Due di loro oggi sono maggiorenni e tra loro c'e' anche il bambino che veniva ritenuto teste-chiave dell'accusa quando dichiarò di aver visto l'ultima volta i suoi amici nell'auto di Filippo Pappalardi. Queste dichiarazioni sono state sconfessate dagli eventi successivi, a cominciare dalla riabilitazione di Pappalardi, ora ritenuto innocente. Era stato arrestato proprio ma dopo il ritrovamento dei corpi fu scarcerato e scagionato da ogni accusa.

La svolta nell'inchiesta avvenne il 25 febbraio del 2008 con il ritrovamento fortuito dei corpi dei bambini dopo la caduta di un altro minorenne, Michele, nello stesso pozzo. Anche lui ci giocava, come altri gruppi di bambini e come Ciccio e Tore. Gli accertamenti medico-legali, radiografici ed anatomo-patologici hanno stabilito che Ciccio è morto nel giro di poche ore per un'emorragia e sono state riscontrate numerose fratture, dovute alla precipitazione. Il più piccolo, Salvatore, è morto invece per un'agonia di freddo, fame, sete. Sono stati riscontrati anche segni di sanguinamento da una ferita. Se davvero c'erano altri bambini, dando l'allarme Ciccio e Tore si sarebbero salvati. Come è avvenuto per Michele che si salvò perché un amico di gioco avvisò la madre. E' questo il dilemma della vicenda. Ma gli amici del 5 giugno non parlano nè vogliono essere disturbati dai giornalisti. Perché è già stata dura uscire da quel trauma ed ora invece vengono nuovamente tirati dentro. Rosa Carlucci indica la presenza di altri bambini con la necessità di fare nuove investigazioni, risentendoli. E' importante sapere se c'erano, cosa hanno fatto, se ci sono implicazioni di genitori in tutto quello che è accaduto. Vale a dire nei silenzi. Quindi se c'è stata omertà. Anche Filippo Pappalardi vuole l'inchiesta sull'ipotesi della ''prova di coraggio'' in cui potrebbero essere coinvolti anche altri bambini. Stavolta gli ex coniugi la pensano allo stesso modo. “Se sarà necessario chiederò la riesumazione delle salme di Ciccio e Tore”. Rosa Carlucci lo riferisce oggi a “Barisera” e lo ripete in diretta tv in quelle trasmissioni che sono tornate a occuparsi della morte dei suoi figli, Francesco e Salvatore Pappalardi. “Ci sono verità nascoste in un maledetto fascicolo che nessuno ha mai preso in considerazione. Anche le modalità del ritrovamento dei corpi non sono chiare. Un piedino di Francesco fu trovato in posizione innaturale. E come mai? E’ giusto che mi diano spiegazioni. E se c’è qualcuno che ha nascosto le cose, è giusto che paghi”. Rosa nutre più di un sospetto ed è per questo che ha deciso di andare avanti. Il suo avvocato è già pronto a sostenere le richieste della donna. “Non ho ancora formalizzato la richiesta di riesumazione dei fratellini – dichiara Domenico Ciocia – Un nuovo esame sarebbe funzionale ad accertare la causa della morte. E’ nostra intenzione ripercorrere tutto l’iter, a 360 gradi, senza lasciare nulla di intentato. E se ci sono dei dubbi, chiarirli”. Aggiunge poi il legale: “Questa volta i nostri dubbi possiamo rappresentarli al magistrato. C’è un approccio più sereno alla vicenda. Nelle precedenti indagini ci si è concentrati sulla figura di Filippo Pallapardi trascurando tutto il resto. Quando poi furono trovati i fratellini e il padre fu scagionato, l’indagine non ha avuto più stimoli per procedere in altre direzioni. E credo che questo sia il problema fondamentale”. L’attenzione della mamma di Ciccio e Tore si è ora concentrata sui compagni di gioco dei suoi figli. Definisce due di loro “leader”, si facevano chiamare così anche perché più grandi. E continuando a indagar in forma privata, Rosa ha scoperto che a Gravina era consuetudine sottoporsi a prove di coraggio nella casa delle “cento stanze”, la stessa dove furono ritrovati morti i fratellini. Insomma, in paese qualcuno potrebbe conoscere la verità e continuare a negarla. “Alcuni compagni di gioco di Ciccio e Tore sono caduti in contraddizione quando furono ascoltati dal magistrato – conclude Ciocia – A Gravina c’è un’omertà dilagante. A volte sembra di entrare in un paesino della Sicilia o della Calabria”.

Da un atto dell’inchiesta sulla morte dei fratellini di Gravina di Puglia Ciccio e Tore, spunta una telefonata che il padre Filippo Pappalardi fece alla questura di Bari chiedendo di verificare circostanze della scomparsa dei figli. Al commissario Barbara Strappato, Pappalardi descrive con dovizia di dettagli circostanze e protagonisti di un’assurda sfida infantile che ha portato alla scomparsa dei suoi figli il 5 giugno 2006. L’uomo parla del luogo dove sono poi stati ritrovati i corpi dei bambini, di un altro bambino che giocava con loro quel pomeriggio. Cita nomi, cognomi, numeri di telefono, prove indiziarie che avrebbero potuto condurre ad una puntuale risoluzione del caso della scomparsa, se verificati subito. Grazie alla determinazione della madre dei bambini, ex- moglie di Pappalardi, che ha portato avanti con convinzione la sua battaglia per la verità in questa storia, finalmente, emerge un quadro chiaro di ciò che potrebbe essere accaduto. Una puerile ed incosciente sfida di coraggio proposta ad uno dei due ragazzini, si è sviluppata in una tragedia che ha commosso tutto il paese.

Ciccio e Tore, la verità in una registrazione? A Tgcom24 la telefonata del papà alla questura Filippo Pappalardi la sera del 14 agosto 2006 chiamò il commissario capo della Polizia di Stato Barbara Strappato fornendo dettagli sull'ultima sera in cui furono visti i suoi figli  E' la sera del 14 agosto 2006: Filippo Pappalardi, il papà di Ciccio e Tore i due fratellini di 11 e 13 anni, morti nel 2006 dopo esser precipitati nella cisterna di un palazzo abbandonato a Gravina di Puglia, chiama la questura di Bari e chiede di verificare una testimonianza. Filippo parla in maniera dettagliata con il commissario capo della Polizia di Stato, Barbara Strappato fornendo dettagli sulla sera del 5 giugno, giorno della scomparsa dei suoi figli. In particolare nomina un bambino che quel pomeriggio stava giocando con Ciccio e Tore: cita luoghi esatti, cognomi precisi, numeri di telefono e tutta una serie di indizi che forse avrebbero potuto svelare prima il mistero della scomparsa. Da quando si è riaperto il caso sulla morte dei fratellini, grazie alla pervicacia della mamma, l'attenzione degli investigatori si è concentrata proprio su quei bambini che forse imposero una prova di coraggio finita in tragedia. Una pista, all'inizio, forse trascurata.

La richiesta di archiviazione del pm è stata rigettata, la Procura di Bari dovrà rileggere le carte, fare ulteriori accertamenti sugli atti già a sua disposizione e, entro tre mesi, comunicare al giudice la nuova valutazione. L’inchiesta in sostanza deve andare avanti, così ha deciso il giudice Antonio Diella che era stato chiamato a decidere se porre o meno la parola fine su una vicenda legata all’indagine sulla scomparsa dei fratellini di Gravina, Salvatore e Francesco Pappalardi. A riaccendere i riflettori sull’inchiesta una data di un verbale di audizione del padre di Ciccio e Tore, Filippo Pappalardi, che sarebbe stata cambiata a penna e posticipata di circa due mesi. Il 17 giugno del 2006, dodici giorni dopo la scomparsa di Ciccio e Tore, Filippo Pappalardi venne ascoltato dagli investigatori e riferì a polizia e magistratura che una donna di Gravina le aveva confessato di aver visto i suoi figli giocare in piazza Quattro fontane prima che si perdessero le loro tracce. Quando Pappalardi fu arrestato (il 27 novembre 2007) con l’accusa di aver ucciso i ragazzini, tra gli indizi a suo carico venne inserito anche quel verbale. Ma la data dell’audizione era stata cambiata a penna, non veniva più riportato il 17 giugno 2006 bensì il 16 agosto dello stesso anno. Nell’accusare Pappalardi, gli inquirenti si chiedevano come mai l’uomo avesse riferito agli investigatori quei particolari ritenuti importanti solo due mesi dopo la scomparsa dei figli e non immediatamente. La tesi degli inquirenti era che Pappalardi stava provando a depistare le indagini. Ma la difesa dell’uomo, l’avvocato Angela Aliani, durante l’udienza davanti al Tribunale del Riesame sollevò il problema della data cambiata a mano. Il 13 dicembre 2007, però, i giudici sostennero che l’ipotesi del “falso” nella data risultava “priva di elementi di riscontro”. La Procura aprì un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato, salvo poi chiedere al gip l’archiviazione non avendo trovato riscontri. Il giudice, però, ha rigettato la richiesta della Procura. Dopo la decisione della Procura di Bari di riaprire le indagini per la morte di Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina di Puglia, Rosa Carlucci, la madre dei piccoli di 13 e 11 anni trovati morti venti mesi dopo la loro sparizione (i sospetti all'epoca caddero proprio sulla donna) alla trasmissione tv 'Quarto grado' del 24 febbraio 2012 ha denunciato di essere stata malmenata dagli inquirenti. A tanti mesi della tragedia, ospite nello studio per fare il punto sulle indagini, la donna dopo la proiezione di un filmato in cui si sottolineava come all'epoca (nel 2006) i sospetti per la sparizione dei bambini caddero su di lei, la signora Carlucci è sbottata dicendo:«Ho subito sedici ore di interrogatorio e sono anche stata malmenata dagli organi inquirenti». Poi:«Mi hanno messo le mani alla gola, hanno aperto una finestra minacciando di lanciarmi di sotto». E solo alla fine, ha detto, «si sono scusati affermando che era il loro metodo per arrivare ad avere informazioni».

Indizi fragili, suggestioni, false piste: i buchi neri di un'indagine che adesso rischia di sgretolarsi. Tra intercettazioni e microspie. La caccia al colpevole perfetto e l'inchiesta è finita in un pantano. L’inchiesta di Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. L'inchiesta ha tanti buchi quanti ce ne sono nel ventre di Gravina in Puglia. Il padre era il colpevole perfetto e sembra proprio un brutto pasticcio giudiziario quello che si sta per rivelare intorno alla morte di Francesco e Salvatore, i fratellini ritrovati in fondo a una caverna. Errori, passi falsi, incertezze investigative. Il "caso" è raccontato soprattutto da una frase, due righe scritte da quei magistrati di Bari che hanno deciso l'arresto del padre per l'omicidio dei suoi figli. È alla pagina 165 dell'ordinanza di custodia cautelare contro Filippo Pappalardi: "Sarà sua cura, se lo vorrà, spiegare a questa Autorità Giudiziaria dove li abbia portati e, soprattutto, dove gli stessi siano attualmente". I procuratori hanno praticamente chiesto all'imputato di fornire le prove che loro non avevano trovato. È la sintesi di un'investigazione, il riassunto di diciassette mesi di ricerche. È la fine del novembre del 2007, il padre violento è appena finito in carcere per avere ammazzato i due bimbi, l'inchiesta è chiusa e con una rapidità sorprendente - 15 minuti è il conto che fa Angela Aliani, l'avvocato di Pappalardi - il Tribunale del riesame conferma l'impianto accusatorio che indica nel violento autotrasportatore l'assassino di Salvatore e Francesco. "Filippo Pappalardi non può confessare quello che non ha fatto, è incredibile, i procuratori dicono che è stato lui a uccidere i suoi figli senza però dimostrarlo con gli atti", accusa sempre l'avvocato Aliani dopo aver letto le carte sull'arresto del padre padrone. E denuncia, dopo il Tribunale del riesame: "Quei giudici sono senza pudore, poco più di un quarto d'ora per decidere su una situazione così complessa, significa che sapevano già come sarebbe andata a finire prima di entrare in camera di consiglio: scandaloso". Bisogna cominciare dalla fine per ricostruire questa inchiesta che vacilla sempre di più dopo la scoperta dei corpicini, la loro posizione in fondo al pozzo (erano distanti uno dall'altro, segno inequivocabile che erano ancora vivi, che uno dei due si è spostato di almeno quindici metri), il luogo inaccessibile senza essere visti da qualcuno, la frattura del femore del bambino più grande. Bisogna cominciare da quell'ordinanza di custodia cautelare quando i magistrati arrivano all'assassino. Interpretando malamente parole intercettate. Credendo frettolosamente a una tardiva testimonianza. Lasciandosi trasportare da suggestioni per azzardare ipotesi che oggi sembrano smentite dai fatti. Per esempio. Nell'atto di accusa i magistrati scrivevano ancora: "Solo la perfetta conoscenza del territorio, l'indagato ha fatto anche il pastore, poteva agevolare l'occultamento dei cadaveri rendendo vane le ricerche fin qui operate in un luogo impervio come quello della Murgia ricca di gravine e pozzi". Il pozzo della morte non era così lontano, appena cinquecento metri dalla piazza Quattro Fontane, il centro di Gravina in Puglia, l'ultimo posto dove - secondo l'accusa - avevano avvistato Francesco e Salvatore. Era stato controllato quel pozzo ma distrattamente, qualcuno si era avventurato sul precipizio di quella "bocca" sul terrazzino del caseggiato abbandonato, aveva gettato un'occhiata in fondo e poi se n'era andato. Non aveva visto niente. È stato un controllo scrupoloso? E come si fa un controllo scrupoloso dentro un pozzo quando si cercano i cadaveri di due bambini? Con una torcia? Con i vigili del fuoco? Scendendo con le corde nei sotterranei? Quello che sappiamo di sicuro è che i "soccorsi" di lì sono passati, hanno lasciato una freccia di vernice rossa e se ne sono andati. Francesco e Salvatore c'erano ma non li hanno trovati. I soccorsi? Quali soccorsi? "Le ricerche sono scattate solo il giorno dopo la scomparsa dei bambini", ricorda l'avvocato Aliani. In verità la ricostruzione della polizia è un po' diversa. Alle 23,50 del 5 giugno 2006, Filippo Pappalardi e la sua compagna Rosa Ricupero si sono presentati al commissariato. Parlano con un poliziotto, raccontano che Francesco e Salvatore si sono allontanati "e comunque non sporgono una formale denuncia di scomparsa". Un paio di ore dopo, "esattamente all'1,40 del mattino del 6 giugno, il Pappalardi si portava nuovamente presso il commissariato senza entrarvi, citofonicamente, comunicava di non avere ricevuto più notizia dei suoi figli". Alle 7 il padre è contattato telefonicamente dai poliziotti del commissariato di Gravina, gli chiedono se ha trovato Francesco e Salvatore, lui risponde di no. Invitato a tornare in commissariato, dice che non può, sta lavorando. È in quel momento che, a torto o a ragione, nasce il primo sospetto sul padre "assassino". Il resto dell'indagine sono quasi due anni all'inseguimento di un indizio. La pista "romena", le sette sataniche, i pedofili. E di voci captate ai telefoni o dalle microspie. Quella del padre più di tutte. Una mattina è con suo cognato Giuseppe, sono in campagna per dar da mangiare ai cani. Filippo dice al cognato: "È da sabato o da domenica che non vengo qua, dovessero pure morire i cani qua". È una tipica espressione dialettale ma quelle sono parole che lo inchiodano, quel "pure" porta Filippo Pappalardi in galera. Anche se le ruspe scavano e scavano in quel terreno ma non trovano niente. Un'altra telefonata intercettata, un altro indizio contro il padre: "Mai successa la morte di due fratelli, eh". Filippo Pappalardi "dava per scontato" che i suoi figli non ci fossero più. Quindi sapeva, lo sapeva soltanto lui, perché lui li aveva uccisi. Il profilo dell'indiziato si adattava ai sospetti: prepotente e manesco. Anche la sua miserabile vita era quella ideale per un assassino. La sua tragica storia familiare, la sua provenienza sociale, i suoi modi selvatici, la sua strafottenza nei confronti dei magistrati che l'avevano interrogato per due volte. L'identikit di un omicida perfetto. Un colpevole "a tutti i costi". La giustizia, si sa, è uguale per tutti.

L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO. Ora che i corpi di Salvatore e Francesco Pappalardi sono stati trovati in un pozzo, dove nessuno era andato a cercarli, emerge un volto della nostra giustizia penale a dir poco discutibile. Da un lato, il padre dei due bambini, Filippo Pappalardi, in carcere perché indiziato, sulla base solo di un’intercettazione ambientale e della fragile testimonianza (tardiva) di un bambino, di averli uccisi. Inoltre un' inchiesta che ha cercato Salvatore e Francesco nelle grotte di Matera, nelle campagne delle Murge, persino in Romania, lungo le piste delle sette sataniche e del traffico di organi. Dall'altro, il casuale ritrovamento dei loro corpi in un pozzo nel centro di Gravina, non lontano dalla piazza dove erano stati visti l'ultima volta. Da un lato, dunque, il volto di una giustizia metafisica, che cerca aprioristicamente la verità attraverso la speculazione intellettuale e gli indizi, anche i più inverosimili, costruiti nel laboratorio della mente inquirente. Dall’altra, la scoperta casuale dei corpi dei due bambini morti, ma per fame e per freddo, nella profondità di un pozzo.  Qui non è in discussione la colpevolezza o l'innocenza del Pappalardi. Sono in discussione un pregiudizio giudiziario e la stretta correlazione fra il sistema giudiziario e quello mediatico che sta diventando tale da rendere sempre più difficile capire dove finisca l'uno e incominci l'altro e viceversa.

«Lo Stato ha ammazzato Ciccio e Tore»: è una delle scritte che sono state fatte nelle ultime ore su muri di Gravina in Puglia, evidentemente in polemica con le modalità con cui sono state condotte le ricerche dei due fratellini. Ricerche che hanno trascurato quel pozzo annesso alla vecchia casa in via Giovanni Consolazione, nel quale sono morti i due fratellini.

Le accuse sono contenute nella richiesta di archiviazione del procedimento presentata dal pm nei confronti del padre dei bambini, Filippo Pappalardi. Nel provvedimento, di cui oggi sono pubblicati stralci sui giornali locali, si parla tra l’altro di «pesante ombra sull'operato della polizia giudiziaria (Squadra mobile ndr) delegata per le indagini». Il magistrato accusa la polizia di avere posticipato di oltre due mesi (dal 17 giugno al 19 agosto 2006) la data di un verbale di audizione del padre che riferiva particolari sul luogo in cui i figli erano stati visti l’ultima volta. Secondo il pm, poiché questa audizione fu fondamentale per la formulazione dell’accusa nei confronti dell’uomo, il cambio di data lo avrebbe indotto in errore.

"Forti contrasti" e "conflitti accentuati" nella gestione delle ultime fasi dell'inchiesta sui fratellini di Gravina, Ciccio e Tore Pappalardi. Le audizioni al Csm del procuratore capo di Bari Emilio Marzano e del pm Antonino Lupo, titolare dell'indagine, confermerebbero quanto già circolato, ossia il sorgere di opinioni del tutto diverse tra il capo della Procura e del sostituto su come continuare l'inchiesta. Il pm Lupo, secondo quanto si è appreso al termine delle audizioni davanti alla Prima Commissione di Palazzo dei Marescialli, avrebbe voluto, subito dopo il ritrovamento dei cadaveri dei due fratellini, la pronta scarcerazione di Filippo Pappalardi, il padre finito in cella con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere. Il pm, però, avrebbe incontrato le resistenze del procuratore, la cui intenzione era quella di continuare il lavoro seguendo la linea più dura. Era stato proprio il pm Lupo ad inviare un esposto al Csm, lamentando il comportamento del capo della Procura, il quale, pur non essendo formalmente assegnatario dell'indagine sui bambini di Gravina, aveva delegato ad altri sostituti o alla squadra mobile l'adempimento di alcuni atti.

«ADDIO CICCIO E SALVATORE, ADDIO PICCOLI ANGELI»

Sono le parole scritte dal padre Filippo Pappalardi e lette da un nipote nella cattedrale di Gravina in Puglia al termine dei funerali dei suoi figli, Francesco e Salvatore. I due bambini vennero trovati morti in una cisterna sotterranea il 25 febbraio scorso. «Addio Ciccio, addio Salvatore». Comincia così una lettera che Filippo Pappalardi ha scritto rivolgendosi ai suoi figli scomparsi, letta in cattedrale da un nipote del papà dei fratellini. «Nei tristi giorni del buio della detenzione – ha scritto Pappalardi – un solo pensiero mi confortava: avrei potuto ancora rivedervi, stringervi, vi immaginavo in un paese lontano correre sereni verso casa. Sapevo che sareste tornati, aspettavo quel momento. Poi un bambino cadde in una cisterna. Michelino precipita lungo un cunicolo buio con lo stesso dolore di Ciccio. Grida aiuto, gli amici chiamano i soccorsi che arrivano e Michelino si salva. Starà bene. Ciccio e Salvatore hanno gridato per ore, ma nessuno ha potuto ascoltarli. Le loro grida mi tormentano, le urla di dolore di Ciccio e la disperazione del piccolo Salvatore osservare impotente spegnersi suo fratello nel buio freddo di una cisterna, lontani dalla luce della notte e sperare, pregare, implorare aiuto per lunghe, lunghissime ore che qualcuno si accorgesse che in fondo a quel pozzo un bambino lottava con la fame, il freddo, la sete, la paura, l’angoscia. Interminabili momenti di atroce dolore». «Addio Ciccio – conclude la lettera – addio Salvatore. Addio piccoli angeli che in fondo al buio hanno visto la luce di una nuova vita. Angeli che con il loro spirito hanno chiamato un altro bambino, salvando lui e me, che resto un uomo solo che può continuare a vivere libero nel ricordo di tanti giorni felici vissuti insieme. Addio piccoli angeli. Il vostro papà». L'uomo non era in condizione di leggere quelle parole: ha pianto per quasi tutta la durata del rito funebre, disperandosi. Sempre piangendo a dirotto e urlando i nomi dei figli, Ciccio e Salvatore, Filippo Pappalardi ha baciato e toccato le bare dei due bambini che sono state trasportate fuori dalla chiesa per il loro ultimo viaggio.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA.

L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.

Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.

Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”. L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto. La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale. I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364. Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito. Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale. La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti. Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar. Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc. La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa. Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta. Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto. Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo. Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale.

Il processo dura anni perchè il denunciante (magistrato) non si presenta.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.

“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.” Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità. Antonio Giangrande presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’ambiente truccato ha scritto un libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione. E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna. «Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi  e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».

TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI ANCHE PERCHE' ANTONIO GIANGRANDE E' VITTIMA DI UN CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.

Da decenni partecipo al concorso di avvocato indetto dal Ministero della Giustizia, che ogni anno si svolge presso ogni Corte di Appello, le cui commissioni sono composte da magistrati, avvocati e professori universitari. Da anni i miei elaborati sono giudicati sempre con identico voto negativo e senza alcuna motivazione. Il fatto certo è che i miei pareri legali non sono corretti (mancanza di correzioni, glosse, ecc.) e sono dichiarati tali in un tempo che il Tar ha dichiarato estremamente insufficiente. Da anni il presidente, prima locale e poi nazionale, ed i componenti della commissione d’esame sono quelli che ho denunciato in questi anni per favoritismi durante e dopo le prove selettive. Da anni sono disoccupato pur capace di esercitare la professione. Ciò ha influito negativamente sulla vita di tutta la mia famiglia, condannata all’indigenza. Potevo rassegnarmi ad essere un incapace, ma sono diventato, mio malgrado, un esperto in concorsi truccati. Da anni sono destinatario come presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie della disperazione di tanti altri come me. Per dimostrare la verità, raccolgo le testimonianze da tutta Italia di centinaia di migliaia di candidati vittime dei concorsi truccati tra i più disparati. Testimoni anche autorevoli come possono essere i magistrati o i professori universitari che ambiscono a ruoli superiori. Testimonianze che si sono estese oltre che ai concorsi come la magistratura, notariato ed avvocatura. Le testimonianze denunciano i concorsi truccati in Italia come regime generale di cooptazione nel sistema della classe dirigente o di livello professionale superiore. Chi detiene una pubblica funzione, anche senza merito in virtù di un concorso truccato, è componente di quelle commissioni d’esame, che reiterano il sistema di cooptazione all’interno del regime.

La Corte Costituzionale mi dice: "siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili".

La Corte di Cassazione mi dice: "siamo in Italia, devi essere giudicato (sui concorsi, ma anche sui procedimenti penali a tuo carico per reati d’opinione) dai magistrati che hai denunciato alle procure e criticato sui giornali. E dato che ti sei ribellato, chiedendo la rimessione dei processi, ti condanno alla pena di 2000 euro".

Il Governo mi dice: "hai ragione facciamo le riforme". Dal 2003 fa girare i compiti in tutta Italia. Il criterio di correzione diventa razzista. Il presidente locale della commissione 1998/2000/2001 estromesso dalla riforma, diventa addirittura presidente nazionale nel 2010.

Il Tar mi dice: "siamo in Italia, ma se la Corte Costituzionale afferma che le commissioni sono insindacabili, la Cassazione mi dice che non vi può essere ricusazione, se il Ministero della Giustizia mi mette come presidente di commissione chi aveva cacciato, io rigetto il tuo ricorso". Ricorso presentato con 1000 euro tra contributo unificato, bolli e spese di notifica.  Una tangente a favore di uno Stato che non ti tutela.

Le procure informate con prove e circostanze mi dicono: "è impossibile che le commissioni d’esame abusino dei loro poteri contro di te". Resta il fatto che nessun commissario denunciato e criticato mi ha mai denunciato per calunnia o diffamazione.

La mia unica speranza è la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, se non ci sono italiani di mezzo. Con Essa sono investiti il Parlamento Europeo e la Commissione Europea. Chiedo Loro se sia possibile che le autorità pubbliche da me biasimate, ad oggettiva ragione con rispondenza giuridica e con fondamento di prove accluse al ricorso, siano le stesse, impunemente e con parzialità, a valutare  i miei esami ed a giudicare penalmente le mie critiche nei loro confronti in tema di malagiustizia. Mi rispondono: il tuo ricorso è irricevibile.

Fa niente se sei perseguitato dalla mafia, se essa non è ritenuta tale dai suoi commensali. Proprio vero: la Giustizia non è di questo mondo.

Strano che da anni nessun organo di stampa nazionale ha sostenuto la mia lotta. “Ballarò” di Rai3 ha fatto un servizio mai mandato in onda. “I programmi dell’accesso” della Rai hanno fatto un servizio mai mandato in onda. Soldi dei contribuenti bruciati nel nome della censura.  

Per difendersi dagli attacchi della magistratura Antonio Giangrande ricorre alla Corte di Cassazione. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p. Oltre al danno vi è la beffa: rigettato e condannato anche alle spese. Si intimidisce il cittadino per disincentivarlo alla presentazione delle istanze di rimessione. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

QUESTO E’ IL CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA MAFIOSA SI DOVREBBE VERGOGNARE. COSI' SI DIVENTA AVVOCATO O SI IMPEDISCE DI ESSERLO!!! IN UN CONCORSO PUBBLICO, (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI), I TEMI SCRITTI NON SONO CORRETTI, MA DA 14 ANNI SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.

CONCORSI DI AVVOCATO PRESIEDUTI DA CHI E' STATO DENUNCIATO COME PRESIDENTE DI COMMISSIONE LOCALE. LA DENUNCIA E' STATA PRESENTATA ANCHE AL PARLAMENTO. SI E' CHIESTA UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE. NONOSTANTE LE INTERROGAZIONI PARLAMENTARI PRESENTATE: TUTTO LETTERA MORTA. COSTUI NON HA POTUTO PIU' PRESIEDERE LA COMMISSIONE LOCALE, PERCHE' E' STATO ESTROMESSO DALLA RIFORMA DEL 2003, E NONOSTANTE CIO' POI E' STATO NOMINATO PRESIDENTE DI COMMISSIONE CENTRALE.

Queste sono le conclusioni del ricorso amministrativo presentato dall’avv. Mirko Giangrande per conto del padre dr. Antonio Giangrande. Ricorso con cui si contestano in fatto e in diritto i giudizi negativi delle prove scritte resi dalle sottocommissioni per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato. Ricorso presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce. Ricorso n. 1240/2011 che per 13 anni nessun avvocato per codardia ha mai voluto presentare. La commissione competente nel 2010 per tali conclusioni ha negato l’accesso al gratuito patrocinio. Il TAR ha rigettato l'istanza di sospensiva nonostante i vizi, mentre per altri candidati l'ha accolta, valutando l'elaborato direttamente nel merito.

CONCLUSIONI

Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.

1.     Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.

2.     Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.

3.     Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.

4.     Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.

5.     Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.

6.     Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.

7.     Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.

8.     Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.

Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza.

RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica.

Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona".

Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti".

Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura".

Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini".

Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?».

«La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente: “Sono in carcere da innocente, ma io quattro anni qui dentro non resisto”.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.

Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.

La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.

Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. La mazzata è arrivata poi dai rilievi dei Ris che - seppur in alcuni casi effettuati tre mesi dopo l'omicidio - non hanno dato alcun risultato: non ci sono tracce di Sarah a casa Misseri e in nessuno dei presunti luoghi del delitto. E soprattutto non ci sono tracce della ragazza sulle armi del delitto possibili sequestrate nel corso dei mesi. Le cinquanta cinture di Sabrina, la corda di Michele, il compressore del garage: è stato tutto analizzato senza alcun esito. La procura colloca l’ora del delitto tra le 13.55 quando Sarah viene vista per strada e le 14,25 quando a casa Misseri arriva Mariangela Spagnoletti. Lo stesso fa la Cassazione ritenendo genuina la testimonianza di un uomo che è sicuro di aver visto Sarah poco prima delle 14 passeggiare verso casa Misseri. "La ragazza è arrivata lì e ha trovato la morte: Sabrina ha poi aspettato per strada l'amica Mariangela per evitare che si accorgesse dei movimenti in macchina e ha mentito alla zia Concetta, quando è andata a chiedere di Sarah, sostenendo che i genitori non erano in casa", dice in sintesi la Procura. La difesa fa notare, però, che c'è stato uno scambio di squilli e sms tra Sarah e Sabrina intorono alle 14,30 quando la ragazza secondo questa ricostruzione avrebbe già dovuto essere morta. "Ha fatto tutto Sabrina - risponde l'accusa - per depistare e avere un alibi". "Ciao mi chiamo Sarah, in questo periodo sono molto legata ad un ragazzo che ha 27 anni, io ne ho solo 15 ma lui è dolcissimo con me e mi coccola sempre, si chiama Ivano, e lui piace anche a mia cugina Sabrina". Sarah appuntava queste parole sul suo diario qualche giorno prima di essere ammazzata. Mentre Sabrina tempestava Ivano di sms e scenate di gelosia. Sono le prove inoppugnabili, secondo la procura, che sta nella gelosia il movente dell'omicidio. La tesi però non convince la Cassazione che ha chiesto al Riesame di Taranto di rimotivare meglio anche questo punto.

«Lotterò sempre per farle scagionare, ma se non riuscirò a farle uscire, la farò finita perché non riesco ad andare avanti così». Intervistato dalla trasmissione Mediaset Domenica Cinque, solitamente affollata di reduci del grande Fratello, Michele Misseri si rammarica per non aver lasciato tracce evidenti della sua colpevolezza. «Mi pento di non aver lasciato nessuna traccia del delitto. La corda l'ho buttata insieme alle scarpe nel bidone della spazzatura». E ancora: «Gli abitanti di Avetrana vogliono che io dica che sono state Sabrina e Cosima ad uccidere Sarah. Soffro per la mia famiglia perché quella poveretta di Sarah non riposerà mai in pace».

Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; da l’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove.

Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato.

Se fosse per le serie televisive come i "Ris" o "La Squadra" l'Italia sarebbe la patria dei casi risolti. Ma purtroppo qui stiamo parlando solo di fiction e la realtà ci racconta ben altre storie. Partiamo proprio dal Reparto Investigazioni Scientifiche, i famigerati carabinieri dei Ris. La letteratura e la televisione (programmi, film, ecc..) li hanno reso imbattibili, mentre invece sul campo spesso e volentieri banali errori commessi da questo reparto compromettono l'arresto o la detenzione del colpevole.

L'omicidio Meredith Kercher, ma soprattutto l'assoluzione per non aver commesso il fatto di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è solo l'ultimo dei casi irrisolti.

I "delitti imperfetti", da cui prendono il nome sia i libri dell'ex comandante Luciano Garofano che la famosa serie televisiva, diventano perfetti proprio a causa di grossolani errori degli inquirenti. Tutto è iniziato quando i Ris sono diventati famosi all'opinione pubblica durante il caso del duplice omicidio di Novi Ligure nel 2001. Per tutti fu un vero e proprio successo, nato dall'ottimo lavoro del reparto dei carabinieri. Ma non va dimenticato, però, che a mettere sulla pista giusta gli investigatori fu proprio Erika, che quando era ancora solo sospettata di aver ucciso madre e fratellino venne filmata in una stanza della caserma dei carabinieri mentre mimava ad Omar, fidanzatino e complice, come avesse pugnalato la donna. Quindi la chiave di volta di questo caso furono le intercettazioni ambientali. Forse possiamo considerare proprio delitto di Novi l'ultimo delitto risolto senza che ci fossero ombra di dubbi. Tracce, arma del delitto, confessioni: insomma, tutti i tasselli del mosaico al loro posto.

Lo stesso non si può dire di Cogne. Nonostante la condanna di Anna Maria Franzoni per l'omicidio del piccolo Samuele ancora oggi l'Italia è divisa in due, innocentisti e colpevolisti. Infatti, seppure ci siano degli indizi manca l'arma del delitto e l'assassina, in questo caso la madre della vittima, tutt'altro che reo confessa. Molti sono stati gli errori degli inquirenti sul caso Cogne che hanno portato a un ritardo di anni sulla verità che ancora oggi, come detto, può avere dei punti deboli e traballa.

Vi ricordate dell'omicidio di Garlasco della giovane Chiara Poggi? Tanti sospetti sul fidanzato Alberto Stasi e i pochi indizi raccolti facilmente smontati dalle perizie di parte. Anche qui errori di chi dovrebbe essere (o si considera) infallibile. Basti pensare che dopo il delitto la "scena del crimine", come ormai siamo abituati a chiamarla dopo essere stati influenzati dai Csi vari, venne addirittura inquinata da un gatto, che la scientifica chiuse dentro la villetta per un giorno intero a scorrazzare! Anche qui nessun elemento valido per trovare l'assassino. Un esempio: la prova ferrea data da una macchia di sangue della vittima sul pedale della bici di Stasi venne facilmente smontata dai difensori del ragazzo, che riuscirono a dimostrare che si poteva trattare benissimo di macchie di flusso mestruale calpestate accidentalmente giorni prima del delitto dal giovane. Ad oggi nessuno è riuscito a respingere la tesi difensiva seppur a prima vista improbabile.

L'omicidio di Perugia è ormai noto a tutti. In molti nonostante la sentenza della corte d'appello sono convinti che Raffaele e Amanda non fossero estranei all'assassinio di Meredith. Ma anche qui i Ris e affini non sono riusciti a dimostrare nulla e per i periti è stato facile evidenziare i loro errori, smontando così la tesi accusatoria. Unico colpevole Rudy Guede (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti).

Nel caso della piccola Yara Gambirasio, invece, ci troviamo di fronte a una vera e propria sfida da parte dell'assassino, o assassini, agli inquirenti, i quali stanno facendo di tutto per perderla: ritardi nelle indagini, auto e furgone dell'unico sospettato, il marocchino Mohamed Fikri, non perquisito, etc, etc. Si è preferito schedare tutto il dna degli abitanti di Brembate e dintorni, ma non degli operai o di chi ha lavorato nel cantiere che potrebbe essere la vera scena del crimine, come viene suggerito dalla polvere di calce nei polmoni della piccola vittima e dalla presunta arma del delitto (un utensile da lavoro utilizzato nel campo dell'edilizia).

E arriviamo al caso del giorno. Fino a ieri tutti eravamo convinti che i magistrati avessero in mano dei saldi indizi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, nell'omicidio della piccola Sarah Scazzi, ad Avetrana. Invece, anche questa volta le granitiche prove appaiono argillose. Addirittura si parla di elementi inconsistenti, che potrebbero alla prossima udienza del Tribunale del Riesame portare alla scarcerazione delle uniche due accusate dell'omicidio, dopo il proscioglimento di Michele Misseri (prima reo confesso poi scagionato e ora nuovamente reo confesso, ma non creduto).

Nel caso di Melania Rea ci sono tutti gli elementi del vecchio "delitto all'italiana": lui, lei, l'altra, quattrini. Parolisi è in galera (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti), ma anche qui come in quasi tutti i casi che abbiamo elencato si rischia di andare ad un processo indiziario e quindi a tenere aperte le porte del dubbio. Negli ultimi decenni nel campo investigativo la scienza ha dato una grossa mano. Però a volte è proprio la certezza scientifica o l'ossessione di trovarla che conduce, come abbiamo visto, a degli errori in cui spesso il fiuto del vecchio investigatore non incappava. Uno su tutti negli anni Settanta l'indimenticabile commissario della squadra mobile di Torino Giuseppe Montesano, uno "sbirro" alla vecchia maniera che ispirò registri e scrittori grazie ai suoi successi. Tutti veri.

PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.

“La colpa di Ottavia. La bambina che nessuno ha cercato”. Di Sarah Scazzi tanto si è parlato. Finalmente un libro dedicato alla scomparsa di Ottavia De Luise. Scomparsa a 12 anni, in un libro la ricostruzione dei fatti. Ottavia De Luise svanì nel nulla a Montemurro nel 1975. Accadde il 12 maggio 1975, Ottavia uscì da scuola e non tornò mai a casa. In un paese piccolo, dove tutti si conoscono. Sembra un nuovo caso Claps. Per 35 anni di lei non si è saputo più nulla, fino a che il ritrovamento di Elisa Claps non ha fatto tornare alla luce quest’altra storia, meno famosa, così dimenticata. Ora, la novità. In un pozzo non lontano dal paese sono stati trovati quelli che la polizia scientifica ha definito “reperti”. Il pozzo cisterna è proprio nella zona dove alcune lettere anonime, in passato, avevano suggerito di cercare Ottavia. Ed ecco la storia. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l’ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17.00, non vedendo la figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese. Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All’epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c’era solo un carabiniere. In aiuto e supporto alle indagini, dopo ben più di venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani: come prevedibile non emerse nulla. Le prime 48 ore sono le più importanti. Solitamente, trascorsi due giorni, le probabilità di trovare un minore in vita diminuiscono in maniera vertiginosa. La famiglia, all’epoca dei fatti, segnalò a quell’unico carabiniere, un possibile sospettato: un uomo che viveva da solo, e che già in passato aveva approcciato con Ottavia, invitandola in casa. Ma l’abitazione di questa persona non venne mai perquisita. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all’archiviazione del caso. Poi ci chiediamo perchè scompaiono così tanti ragazzi? La risposta secondo me sta nel mancato esercizio da parte della magistratura di svolgere il proprio compito in tempi brevi.

Ottavia De Luise scompare da Montemurro il 12 maggio del 1975. Era una bambina di 12 anni. Le indagini della prima ora furono condotte male e senza interesse. Qualcuno in paese ebbe il coraggio di definire la 12enne una di "facili costumi". Uno stupido pregiudizio che fece archiviare la scomparsa della ragazzina in men che non si dica. Un libro scritto a quattro mani da Fabio Amendolara, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno ed Emanuela Ferrara, anch'ella giornalista, ricostruisce la vicenda nei minimi dettagli alla luce anche delle nuove indagini aperte nel 2010 dalla procura di Potenza. Indagini che però, ad oggi non hanno dato alcuna risposta ai familiari della piccola. "La colpa di Ottavia" è il titolo del libro di Amendolara e Ferrara. Ottavia De Luise ha 12 anni ed è l'ultima di otto fratelli. Scompare nel nulla il 12 maggio del 1975 in un piccolo borgo della Basilicata, Montemurro. A oltre 35 anni dalla scomparsa, questo libro, nella forma di una breve inchiesta giornalistica, presenta una serie di documenti (riportati in modo integrale), testimonianze e prove che mettono in luce tutto ciò che si poteva fare e non è stato fatto. Su questa vicenda, che ha segnato anche sul piano simbolico la Basilicata, purtroppo non ci sono ancora verità. Questo libro, presentato dalla conduttrice di "Chi l'ha visto?" Federica Sciarelli, non si limita a ricostruire la cronaca di quella scomparsa. Ma è una indagine contraria alle numerose versioni ufficiali e ufficiose, spesso diverse tra loro, se non addirittura opposte e contrastanti, presentate fino a oggi. Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi? La tragica storia di Ottavia, scomparsa nel nulla a Montemurro nel 1975, potrebbe sembrare lontana: sono passati troppi anni e il suo mondo, paese dell’entroterra lucano, arretrato, isolato, fissato per sempre nel tempo, ci appare distante, sbiadito come la vecchia foto che la ritrae, unica traccia rimasta di quella vita spezzata. Eppure il libro di Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara, con sobrietà ed efficacia, ci permette di riattraversare quella vicenda, facendoci avvertire tutta l’attualità del dolore e degli interrogativi che impietosamente ci pone. Perché nessuno ha mai cercato Ottavia De Luise? Questo si chiede Stefano Nazzi.

Quando Ottavia De Luise sparì, il 12 maggio1975, l’Italia era molto diversa da quella di oggi. Il referendum sul divorzio c’era stato da un anno, di legge sull’aborto non si parlava nemmeno. C’era Paolo VI, allora, e quell’anno era Anno Santo. Ottavia aveva 12 anni, scomparve a Montemurro, in Basilicata, un vecchio villaggio proprio in mezzo alla regione. Ci vivono oggi meno di 1.500 persone. Ottavia uscì da scuola, venne vista lungo quella che chiamano strada per Armento, un paese vicino. Poi più nulla. La cercarono poco e male. Il fatto è che Ottavia, nell’Italia di allora, in quel vecchio villaggio, era vista come una poco di buono. Una che stava con i grandi, gli adulti. Oggi quegli adulti verrebbero arrestati per pedofilia, per abusi. Allora si chiudeva un occhio: era Ottavia la “mela marcia”. Dicevano che si facesse dare 100 lire per farsi toccare. Era bella, dice chi se la ricorda, bionda, e alta per la sua età. Poi, improvvisamente, 35 anni dopo, qualcuno è tornato a cercare. È stata la scoperta del corpo di Elisa Claps, poco lontano, a Potenza, a spingere il fratello di Ottavia, Settimio, a chiedere che si riaprissero le indagini. Negli anni erano anche arrivate un paio di lettere anonime: “Cercate in quella tenuta”, era scritto. Non doveva essere difficile capirci qualcosa se in pochi giorni di ricerche sono stati trovati alcuni reperti, in una cisterna proprio nella zona dove Ottavia venne vista l’ultima volta. E qualcuno ha anche iniziato a ricordare qualcosa. Perché in un paese di 1.500 abitanti è come stare seduti in un cinema grande, alla fine le facce rimangono impresse. Così a Montemurro, figuriamoci, si conoscono tutti. E volete che qualcuno non sapesse chi erano quei grandi che passavano il tempo con Ottavia? No, qualcuno sapeva. Tanti, probabilmente. Così ci si è ricordati di un uomo, lo chiamavano il “viggianese”: lui pagava un cono gelato a Ottavia per toccarla; quando fu interrogato, dopo la scomparsa della ragazzina, era pieno di graffi ma la cosa finì lì. In paese da tempo pensavano che fosse morto. Non lo è: vive a Torino, ha 87 anni, è malato. Magari lui non c’entra nulla, chissà: erano tanti gli adulti di Ottavia, uno di loro era il proprietario del terreno dove si trova la cisterna dei reperti. Intanto Settimio, il fratello della ragazzina, ha denunciato il comandante della stazione dei carabinieri di allora. Dice che non indagò affatto, che lasciò correre. Perché Ottavia era una poco di buono. Luisa, la mamma della ragazzina, oggi non vive più a Montemurro, sta al nord, anche lei a Torino. L’unica cosa che vuole, che ha sempre voluto, è seppellire sua figlia. Trovarla e seppellirla. Lei l’ha sempre pensato che Ottavia era morta. Speriamo che ci riesca, che possa farle quel funerale che sempre sognato. Le mamme di solito sognano un matrimonio per la figlia, Luisa De Luise è stata costretta a sognare un funerale. E speriamo che con Ottavia si seppellisca quell’Italietta falsa e codarda che in 35 anni non l’ha mai voluta cercare. Nulla ha però a che vedere con la vicenda il successivo arresto del fratello di Ottavia, Settimio. I Carabinieri di Marsicovetere hanno arrestato a Villa d’Agri Settimio De Luise, di 52 anni, accusato di stalking e di atti persecutori nei confronti della ex moglie, scrive “Il Giornale Lucano”. Da tempo l’uomo molestava l’ex compagna, e per questo a suo carico era stato emesso un più volte disatteso divieto di avvicinamento. La donna, a causa dell’atteggiamento dell’ex marito, delle minacce e delle ingiurie, ha subìto un perdurante stato ansioso e ha temuto per la sua incolumità, al punto da cambiare le sue abitudini di vita. De Luise, che dopo l’ennesima violazione dell’ordine restrittivo è ora ai domiciliari, è fratello di Ottavia, la bambina di Montemurro comparsa il 12 maggio 1975, a 12 anni e senza lasciare traccia, ma non vi è alcun legame tra la vicenda che pochi giorni fa ha compiuto 37 anni di mancate risposte e l’accusa di stalking.

PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.

La domanda a Giusy Cavallo sorge spontanea: che ne pensa della giustizia in Italia? «La famosa frase "avere fiducia nella magistratura" non è universalmente valida. – risponde sul suo giornale web - Non se vivi in Basilicata e magari denunci che un lago è inquinato. E' da un po' di tempo che mi occupo di storie giudiziarie, a mio avviso, al limite del paradossale. Indagati, senza reato, o reati senza indagati. Procedure applicate a piacimento. Codici e leggi usate ad personam. O peggio ancora assassini lasciati liberi d'uccidere una seconda, terza volta. In Basilicata, più che altrove, potrebbe capitare che se commetti un reato la passi liscia, se stai dalla parte della giustizia ti fanno vedere i sorci verdi. E' il caso di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, e di Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia Provinciale. Domani, mercoledì 6 giugno, entrambi sono attesi dinanzi al gup di Potenza che, rinvii permettendo, dovrà decidere se mandarli a processo o no. Rei di aver rivelato, analisi alla mano, la presenza di inquinamento nel Lago del Pertusillo. Se i due finiranno alla sbarra si dovranno difendere per aver denunciato che l'invaso valdagrino è inquinato. Paradossale se si tiene conto del fatto che, intanto che le indagini hanno fatto il loro corso, nel lago si sono verificate diverse e consistenti morìe di pesci, sono emerse (da un'inchiesta di Basilicata24) presunte pressioni della Regione Basilicata sull'Istituto superiore di Sanità che stava svolgendo analisi dell'invaso affinchè l'istituto romano "soprassedesse". A tutto ciò va aggiunta l'ammissione dell'Arpab che il lago oltre ad essere eutrofizzato presenta tracce di idrocarburi. Ma intanto Bolognetti e Di Bello domani vanno in tribunale. Nonostante tutto. E allora mi chiedo, ancora una volta, perchè dovrei avere fiducia in una magistratura che invece di indagare sull'inquinamento del Pertusillo, indaga due persone che denunciano l'inquinamento di un invaso la cui acqua serve per uso umano oltre che la Basilicata anche la Puglia? Io in questa magistratura, non posso avere fiducia. Non posso, se mi viene il dubbio che certi magistrati o non si leggono le carte, o non hanno mai letto, in vita loro, un libro di Diritto. E soprattutto non posso avere fiducia in una magistratura/giustizia che perseguita chi ha denunciato fatti certificati e provati. Per concludere, e perchè non mi si tacci d'essere eversiva o peggio ancora berlusconiana: di magistrati che fanno bene il loro lavoro per fortuna è piena l'Italia. Così come è piena la storia di magistrati che c'hanno rimesso la vita per amore della verità e della giustizia. Ma questa è un'altra storia. Dopo che Giuseppe Di Bello, tenente della polizia Provinciale di Potenza mi ha informato che il prefetto di Potenza gli ha revocato la qualifica di agente di pubblica sicurezza, ho provato attimi di smarrimento. – continua Giusi Cavallo - Si, perchè conosco Peppe, il tenente, che "ne ha fatte di tutti i colori". Eh già. La divisa che indossa l'ha riempita d'onore e di significato. Senza guardare in faccia a nessuno. E questo probabilmente non è piaciuto granchè. Ma andiamo con ordine. Prima di tutto ricordiamo chi è Giuseppe Di Bello. Tenente della Polizia Provinciale di Potenza. E' un vero rompi balle. Se ne va in giro a far sequestrare discariche piene di rifiuti pericolosi e illeciti; denuncia truffe in agricoltura, aria inquinata da un termovalorizzatore. E' uno che anche quando non è in servizio non si fa i cavoli suoi. Tant'è che un bel giorno gli viene in mente, mentre non è in servizio, e come componente di un'associazione ambientalista, di andare a fare delle analisi alle acque del Pertusillo. Il lago artificiale della Val d'Agri, in cui si specchia il grande Centro Oli di Viggiano. Siamo nel gennaio 2010. Di Bello, in compagnia di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, (che ha commissionato e pagato le analisi), apprende che le acque del Pertusillo sono inquinate. Sulla base della convenzione di Arhus quei dati vengono diffusi. Finiscono anche sulla stampa. Interviene la magistratura. Si, ma per indagare Di Bello e Bolognetti. Per la procura di Potenza i due hanno rivelato segreti d’ufficio. E cioè il “decadimento delle acque dell’invaso del Pertusillo". Insomma hanno fatto male ad informare i lucani e soprattutto i pugliesi che quell'acqua la bevono. Di Bello viene prima sospeso dal suo incarico e poi spostato ad altre mansioni. Viene mandato in servizio al museo provinciale di Potenza. Dove tutt'ora lavora. Il 6 giugno 2012, arriva la condanna per aver rivelato il cattivo stato delle acque del Pertusillo. Violazione di segreto d'ufficio. Per il tenente di Bello due mesi e venti giorni di reclusione sanciscono pubblicamente la sua colpa. Nonostante tutto Peppe, non si ferma nè si abbatte. Continua a rompere le scatole. Se ne va, in compagnia di un geologo nell'area dell'ex Liquichimica di Tito Scalo, dove insiste una vasca di fosfogessi, scarti di lavorazioni di concimi chimici e di fanghi industriali di cui non s'è mai capita la provenienza. Sono anni che il tenente Di Bello si occupa di quel cimitero industriale in cui è rimasto solo veleno. Prima se ne occupa da ufficiale della polizia provinciale, poi lo fa come libero cittadino membro dell'associazione Ehpa, che si occupa appunto di ambiente. Anche in questo caso la denuncia del cittadino Di Bello ha un effetto deflagrante. Almeno sui cittadini di quella zona. Nell'area è presente radioattività. Fermo, Di Bello non sa stare. E veniamo alla revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza notificata a Di Bello, giovedì 13 dicembre 2012. Ecco i passi più raccapriccianti: "Considerato il reiterato comportamento tenuto dal Di Bello che pur sottoposto al vaglio della magistratura"...Soffermiamoci sulla locuzione "reiterato comportamento". Ebbene, cosa avrebbe reiterato Di Bello? Da quasi tre anni è in servizio al Museo provinciale. Ah ma forse quel reiterato si riferisce al fatto che il cittadino Di Bello se ne va in giro a fare analisi, a denunciare inquinamento, radioattività e veleni vari? E leggete poi quest'altro passaggio della revoca: " ...la responsabilità di agente di p.s. della polizia provinciale richiede il possesso, in chi ne è investito, di requisiti di prestigio, generale stima in pubblico, trasparente condotta, anche allo scopo di mantenere inalterata la fiducia che i cittadini devono nutrire nei suoi confronti..." Ecco a questo proposito giova ricordare a sua eccellenza il prefetto Nunziante che lo stesso Di Bello è colui il quale ha denunciato il decadimento delle acque del Pertusillo; colui che ha denunciato presenza di radioattività a Tito Scalo, sempre per informare la gente. E' colui il quale nel 2005 trasmise la notizia di reato riguardante la presenza di fanghi tossici nell'area industriale di Tito Scalo all'ex pm di Potenza Woodcock. Ecco mi fermo qui per non rischiare di fare l'agiografia di una persona che mi ripete quasi come un mantra "io non ho fatto altro che il mio dovere di funzionario di polizia e di cittadino". Ecco chi è l'uomo che secondo il Prefetto di Potenza non è più degno di stima dei cittadini, perchè dalla condotta poco trasparente. Caro Prefetto, se lei vive nel mondo, deve sapere che il tenente Di Bello gode di enorme fiducia da parte dei cittadini. E dovrebbe anche sapere che sono le istituzioni a non godere ormai più della fiducia dei cittadini. Noi, giornalisti di questa testata, revochiamo la qualifica di rappresentanti delle istituzioni a tutti coloro che hanno contribuito a revocare la qualifica di agente di pubblica sicurezza a Giuseppe Di Bello.» E sulla libertà di stampa e le ritorsioni su chi racconta la verità il direttore di “Basilicata 24” dice: «“Relazioni troppo strette e poco trasparenti tra l’autorità politica e i giornalisti sono un pericolo per la società pluralista". E’ quanto ha dichiarato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, in occasione della Giornata mondiale per la Libertà di Stampa. La libertà di stampa non è un diritto che si esercita a gettoni. Questo lo dico io. E' un diritto che è tra i fondamentali di uno Stato democratico e civile. Ma è purtroppo un diritto calpestato, ancora oggi, in alcune aree del mondo. Sono ancora troppi i giornalisti uccisi o minacciati a causa del loro lavoro. Ci sono poi casi meno eclatanti, ma pur sempre gravi, di limitazione della libertà di espressione e di critica. La minaccia di "adire alle vie legali". Il modus operandi è sempre lo stesso. Ti telefonano, ti scrivono, ti diffidano. Metodo tipico di persone non abituate alla critica e che di fronte ad un giornalista che si permette di criticare, si fanno prendere dal "ci vediamo in tribunale". Ebbene con tutti i "ci vediamo in tribunale" sentiti negli ultimi tempi prevedo che la mia agenda nei prossimi mesi sarà fittissima. Vi racconto solo l'ultimo "ci vediamo nelle sedi competenti". Appena ieri. Un amministratore che non ha gradito quello che abbiamo scritto sul suo operato mi ha annunciato al telefono, di aver segnalato il caso all'ufficio legale del suo Comune. Passano meno di dieci minuti e alla telefonata del sindaco, che poi vi racconto, segue quella di un avvocato, il quale, convinto che il solo titolo legale mi farà mettere sull'attenti, "esige" di parlare con il giornalista che ha scritto quel pezzo. E "vuole" sapere chi è. "Perchè- tiene a sottolineare- quando chiama agli altri giornali parla con chi vuole". Dico che può dire a me, che sono il direttore, ma niente. Esige di parlare col fustigatore che intanto non è in redazione. Anche la telefonata con l'avvocato non si conclude bene. Seconda minaccia, nel giro di pochi minuti, di portarmi in tribunale e addirittura di farmi radiare dall'albo dei giornalisti. Lei, l'avvocato, conosce il presidente dell'ordine della Basilicata - mi dice - lo informerà di questo mio "illecito giornalistico" che senza dubbio verrà punito! Chissà perchè neanche questa minaccia mi spaventa. Ah l'oggetto del contendere qual era? Un pezzo scritto sulle lacrime di coccodrillo di un sindaco che non saprei se definire maschilista o maleducato. Il nostro infatti esordisce al telefono con un esagerato "dottoressa" per poi passare, quando gli dico che può parlare con me, ad un tono del tipo "si va bene squinzietta togliti dalle palle e passami il giornalista che ha scritto l'articolo". Inutile il mio tentativo di ricordare, anche al sindaco, che essendo io il direttore di Basilicata24 può dire a me. Mi liquida dicendomi che, stando così le cose lui non può parlare con un giornale non serio. E mi sbatte il telefono in faccia. Maleducato o banalmente maschilista? (stai a vedere che mi denuncia anche per questo! Me lo dirà il solito maresciallo dei carabinieri che ormai da qualche mese mi chiama per l'identificazione in caserma). Di sicuro c'è che il sindaco incazzato non è abituato alle critiche, ancor più se vengono da "sconosciuti giornalisti" poco interessati a far comunella (in gergo giornalistico si chiamano marchette) e così finisce che reagisce di pancia. Per tornare alle cose serie: noi di Basilicata24 festeggiamo la XIX Giornata per la libertà di stampa ricordando tutti quei colleghi che questa libertà l'hanno pagata a caro prezzo. Il resto, come diceva Totò, sono "bazzecole, quisquilie e pinzellacchere".»

Di ingiustizia a Potenza ne parla Massimo Brancati su “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Condannato a due mesi per aver denunciato gli inquinanti negli invasi. Sospeso due mesi dal servizio per poi essere «parcheggiato» al museo restando comunque in carico alla polizia provinciale. E, dulcis in fundo, la condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione, trattato come un comune delinquente. La colpa del tenente della polizia provinciale Giuseppe Di Bello? Aver reso noto dati coperti da «segreto d’ufficio» sulla qualità delle acque del Pertusillo, Montecotugno e Camastra, da cui emergeva la presenza di metalli pesanti e inquinanti. Sulla scia di quel monitoraggio che, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto «sottobanco» dall’Arpab, Di Bello - con l’aiuto di un chimico e di Maurizio Bolognetti, leader dei Radicali lucani e tra i finanziatori del progetto - decise di effettuare in proprio dei prelievi dagli invasi per verificarne lo stato di salute. Un’operazione che, sempre a parere dell’accusa, il tenente avrebbe fatto durante il proprio servizio e con mezzi e risorse dell’ente. È un teorema che ha determinato la sua condanna, ma Di Bello non ci sta e parla di un complotto.

Punto primo: le analisi - dice - non le ha ricevute dall’Arpab, ma direttamente dalla direzione generale del dipartimento Ambiente della Regione.

Può dimostrarlo?

«Certo. Il giudice ha in mano la copia di quei dati da cui si evince che sono stati inviati il 5 gennaio 2010 alle 18.10 dal numero di telefono 0971.669065 che corrisponde all’utenza del dipartimento».

Ma l’accusa continua a dire che lei ha ricevuto quei documenti dall’Arpab. Perché?

«Perché così sostengono l’incriminazione di aver rivelato dati coperti da segreto d’ufficio. Una volta giunti alla Regione l’ente ha il dovere di renderli di pubblico dominio. Ad ogni modo, come dice la convenzione di Aarhus, qualsiasi notizia che riguarda la salute e l’ambiente non può essere nascosta alla cittadinanza».

Lei dice che il dipartimento, consegnandole i risultati di quel monitoraggio, le avrebbe chiesto di divulgarli. Ma c’era bisogno della sua intermediazione per farlo? La Regione poteva benissimo pubblicarli autonomamente...

«È vero. Ma sinceramente non so perché sia stato chiamato in causa proprio io. Dopo sei giorni dalla ricezione del fax è partita la denuncia nei miei confronti da quegli stessi uffici. Col senno di poi devo pensare ad una trappola».

Ricapitoliamo i fatti. Il 5 gennaio 2010 riceve i dati, il 6 compie un primo giro tra gli invasi e il 21 effettua i prelievi. Ha fatto tutto durante l’orario di servizio?

«Macché. Sono andato a fare i campionamenti a bordo della mia auto e autofinanziando l’iniziativa. Non ero in servizio».

L’accusa, però, continua a sostenere il contrario...

«Sul foglio di presenza, accanto alla data, c’è una «r» che sta per riposo e non per reperibilità come dice il giudice. Il mio cartellino orologio conferma quanto dico».

Insomma, sta dicendo che ingiustizia è fatta...

«Ingiustizia cominciata quando mi hanno sospeso dal servizio per due mesi. È stato un abuso di autorità nei miei confronti. E poi penso alla vicenda giudiziaria che riguarda Fenice. Sono coinvolti dirigenti della mia stessa amministrazione e della Regione ai quali non è stato fatto un provvedimento disciplinare, né sono stati sospesi. Chi divulga informazioni sull’inquinamento viene bastonato e perseguitato, chi «copre» e mette in cassaforte dati sulla presenza di sostanze pericolose per l’ambiente e la salute la passa franca. E, per di più, viene difeso in tribunale con i soldi pubblici».

Perché si sarebbero accaniti contro di lei?

«Sono il capro espiatorio di uno scontro politico sulla qualità delle acque, ma anche la vittima di un sistema che sull’ambiente preferisce il silenzio alla verità».

Passi il Basento, scali a ottocentodiciannove metri sul livello del mare Potenza, da due secoli il capoluogo regionale più alto d'Italia, dove come dice il proverbio "a Santa Caterina la neve sova a spina", e pensi di trovarti nel "reality show" più appassionante dell'anno. Belle "gnocche" come qui non si sono mai viste - così dice il barista che serve il caffè a giudici, avvocati e giornalisti vicino al palazzo di Giustizia - Lele Mora che sgambetta in passerella al comando di una coorte di ragazze squittenti e prorompenti. E poi il ciglioso piemme biondo che fa impazzire il mondo e tanti "Vipps", che Mina, signora un po' snob, su "La Stampa" ha ribattezzato "Pipps". E invece altro che "vallettopoli" e "puttan tour". Appena arrivi in cima alle scale di Potenza, che il sindaco Vito Santarsiero chiama la "città verticale", ti senti risucchiato in un cupo romanzo gotico: potere, politica, soldi, speculazioni, sesso e assassinii. Altro che veline. Sì, perché in questo ex borgo montanaro, voluto capoluogo regionale da Giuseppe Bonaparte nel 1806, che vide tra i suoi cittadini Giustino Fortunato, vagheggiatore della nascita di una moderna borghesia imprenditoriale nel Mezzogiorno, in questa capitalina di 69 mila abitanti, tra monti bellissimi, ma di una bruttezza palazzinara che fa male all'anima, c'è un tasso di omicidi irrisolti che dev'essere proporzionalmente il più cospicuo d'Italia. Non tanto gli omicidi di camorra, di mafia, di 'ndrangheta, che pure qui arrivano ma che altrove non si contano neanche più. Ma casi in cui s'intrecciano potere, politica, massonerie, magistratura, corruzioni, abusi, sesso e droga. Tanti misteri alla Montesi. Chi non ricorda il caso di Wilma Montesi? La ragazza fu trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, litorale di Roma, dopo una notte di festini. Quella morte aprì una partita all'ultimo sangue nella Democrazia cristiana, con le dimissioni del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, per i sospetti sul figlio Piero, musicista e viveur, che in realtà quando Wilma fu uccisa si trovava in Costiera Amalfitana con Alida Valli, sua amante del momento, come poi testimoniò l'ex ministro Paolo Emilio Taviani. Lo scandalo favorì l'ascesa nel partito di Amintore Fanfani. Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, ex ministro in decine di governi, tuttora venerata icona cittadina e nume tutelare di Potenza, era giovane, ma di quell'epoca ha sicura memoria. Qui, oggi come allora, la partita incrocia i partiti, ma non è solo politica, coinvolge pezzi rilevanti di magistratura e di società, la nuova borghesia locale fatta soprattutto di burocrati, non quella sognata da Giustino Fortunato, né quella contadina dell'Ottocento e del Novecento dei Ricciuti, dei Lioy, dei Santangelo, dei d'Errico, dei Lacava. A incrementare le inchieste incrociate c'è un Robin Hood locale "antimagistratura corrotta". Si chiama Nicola Picenna e non ha requie da quando nel marzo 2003 il Tribunale civile di Matera, presieduto da Iside Granese, dichiarò il fallimento del consorzio Anthill, di cui era presidente, fondato dal banchiere Attilio Caruso per partecipare alla gara per la concessione delle licenze telefoniche Umts. Sali a Potenza, sulla scala mobile più lunga d'Europa, piccolo ma rivendicato orgoglio cittadino che ti porta al centro della città, e subito ti raccontano dell'omicidio dei coniugi Gianfredi, Giuseppe e Patrizia, ammazzati a fucilate anni fa davanti ai figlioletti. Un mistero irrisolto, uno dei tanti. Prendi il caffè in via Pretoria, vicino a Palazzo Biscotti, dove abitò Giovannino Russo, gloria giornalistica cittadina, e ti intrattengono sul giallo di Elisa Claps. Sedicenne, mora, carina, alta un metro e cinquantacinque, scomparve una domenica, il 12 settembre 1993. Fu sospettato Danilo Restivo, il ragazzo che aveva appuntamento con lei. Ma tutto finì nel nulla. Salvo che, trasferitosi in Inghilterra, il giovanotto di ottime relazioni familiari a Potenza, manifestò lo stesso vizietto che, a quel che disse la polizia, coltivava a casa: tagliare ciocche di capelli a signore e signorine, per strada, in autobus, ovunque gli capitasse. Scotland Yard, passati gli anni, è ancora lì a studiare il profilo psicologico dell'uomo sospettato per l'assassinio britannico di Heather Barnett, vicina di casa del sospetto potentino, trovata morta con una ciocca in mano. A Potenza si narra che il cadavere di Elisa, mai più ritrovato, fu sciolto nell'acido o incorporato nella colonna di cemento di un palazzo di undici piani. Ma soprattutto si strologa sulle connivenze, di cui "Chi l'ha visto", i giornali locali e i capannelli di via Pretoria parlano con ridondanza di nomi e cognomi. Il "parrucchiere" sarebbe stato protetto da Michele Cannizzaro, attuale direttore dell'ospedale San Carlo e marito di Felicia Genovese, magistrato di Potenza, ora trasferita dal Csm e indagata per aver archiviato una denuncia contro esponenti dei Ds e della Margherita, in cambio - questa l'accusa - della nomina del marito all'ospedale. Il pentito Gennaro Cappiello sostenne che il marito della Genovese fu anche il mandante del duplice omicidio Gianfredi. Ma l'inchiesta è stata archiviata e il pentito, considerato inattendibile dalla procura di Salerno, denunciato per calunnia. Tanti anni dopo, innescato dalle inchieste a raffica del pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, che agiscono come una sorta di moltiplicatore d'interesse per le antiche vicende, in cima alla città delle scale, che ancora dibatte su un antico stemma raffigurante un "leone gradiente su di una scala" (ma i leoni salgono le scale? ) torna l'incubo degli omicidi insoluti. Non solo Elisa e i Gianfredi, anche i "fidanzatini di Policoro" uccisi nel 1988. Policoro, sulla costa jonica, è oggi in qualche modo l'epicentro, il luogo epitomico, dell'inestricabile "Basilicata connection", che copre come una nevicata di Santa Caterina l'intera regione e fa lacrimare nel Duomo San Gerardo, patrono di Potenza, e l'arcivescovo Agostino Superbo, indignato non solo per le vergogne locali, ma per i "modelli di vita" dell'Italia televisionara scoperchiati da Henry John. E' lì, a Policoro, che carabinieri e Guardia di Finanza hanno messo i sigilli al villaggio turistico "Marinagri", un complesso di alberghi, ville, marina, del valore di 200 milioni di euro, costruito su terreno demaniale, per il quale è indagata, anche in inchieste connesse su un "gruppo di potere" trasversale, un bel pezzo di giustizia e di politica regionale. Non solo Felicia Genovese, col marito direttore dell'ospedale, ma anche, tra gli altri, i procuratori potentini Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese, l'ex presidente della Regione e sottosegretario diessino nel governo Prodi Filippo Bubbico, il presidente della Regione Vito De Filippo, della Margherita, il senatore Emilio Nicola Buccico, di An, ex componente del Consiglio superiore della Magistratura e candidato a sindaco di Matera, la responsabile dell'Agenzia del Demanio Elisabetta Spiz, all'anagrafe moglie di Marco Follini, ex leader dell'Udc "scisso" dal socio Pierferdinando Casini, il cui nome ha aleggiato nei pettegolezzi fioriti ai margini delle inchieste televisionarie di Woodcock. Almeno tre, per quel che ne sappiamo, i tronconi dell'inchiesta "Basilicata connection" che pericolosamente s'intersecano: filone sanità, incentrato sulla coppia Cannizzaro - Genovese, filone banche per finanziamenti della Banca Popolare del Materano, Gruppo Popolare dell'Emilia, al presidente del tribunale di Matera, filone speculazione edilizia per "Marinagri" di Policoro. Ma, tra i tanti filoni, torna cupo dal passato, con un'inchiesta riaperta dalla procura di Catanzaro, l'assassinio dei "fidanzatini di Policoro", Luca e Mariarosa, che Carlo Vulpio ha dettagliatamente ricostruito sul "Corriere della Sera". Ventun'anni di età entrambi, trovati morti nella vasca da bagno, si disse che i due ragazzi furono folgorati per il cattivo funzionamento dello scaldabagno. Nessuno fece l'autopsia. Ma, riesumati i corpi otto anni dopo, si ebbe la quasi certezza che i fidanzati in realtà siano stati prima uccisi e poi gettati nella vasca da bagno. "La vicenda - disse in Parlamento l'allora ministro della Giustizia Piero Fassino - ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati". Perché furono così insufficienti gli accertamenti espletati? Perché la ragazza, Mariarosa, aveva confessato in una lettera al fidanzato Luca: "Amore mio, spero che resterai accanto a me anche quando ti confesserò una piccola parte di me, che voglio cancellare per sempre". La parte da cancellare erano festini con personaggi potenti, serate allegre di sesso e droga, ben retribuite, che facevano tremare mezza Basilicata. Quelle serate, secondo la pentita Maria Teresa Biasini, sarebbero state frequentate, tra gli altri - come hanno riferito le cronache - dal giudice del Csm Nicola Buccico, dall'avvocato Giuseppe Labriola, segretario provinciale di An, e da un giudice "dai capelli bianchi e dagli occhi di ghiaccio", l'unico di cui il nome non viene fatto esplicitamente. Chi era? Per saperlo basterebbe ascoltare le chiacchiere da bar di via Pretoria. Ma la vicenda è stata archiviata a Potenza perché priva di riscontri. Buccico, magistrato del Csm e senatore di An, per parte sua, prima difende come avvocato la famiglia dell'assassinato, poi diventa avvocato del pubblico ministero Vincenzo Autera, quello che per l'omicidio dei due ragazzi aveva chiesto l'archiviazione. Strilla il segretario diesse della Basilicata Piero Lacorazza: si complotta contro la dignità di un'intera Regione. Gli risponde sul "Riformista" Emanuele Macaluso: finiamola con la retorica, l'intreccio tra "nuova classe" e poteri locali è politico e coinvolge anche Diesse e Margherita. Il sindaco di Potenza è della Margherita ed è il più "preferenziato" d'Italia, con il 75 per cento dei voti. Lui, Vito Santarsiero, estimatore dell'antico leader Emilio Colombo, non parla di complotti. Enumera appassionatamente i lavori "cantierizzati", le mostre straordinarie aperte in città, come quella di De Chirico, perché "la cultura viene prima di tutto" in una città che ha sofferto dell'immensa "incultura urbanistica" prima e anche dopo il terremoto del 1980, che pure tanti fondi condusse qui per una ricostruzione dissennata. Ci parla dell'area industriale, della Pittini Siderurgica, delle aziende di prefabbricati, del debito che ha ereditato, 150 milioni di euro che solo di interessi gli costa 10 milioni all'anno, del "piano metropolitano" messo a punto con nove comuni vicini per lo sviluppo economico dell'area. Ma qualcosa ha da dire anche su "vallettopoli": "Sei milioni di euro di costo per le intercettazioni telefoniche a Potenza mi sembrano francamente un'enormità, basta fare il confronto con la cifra infinitesimale che si spende a Matera. Io rispetto il magistrato Woodcock, ma credo anche che la giustizia abbia delle priorità, che ci debba essere una gerarchia nel perseguimento dei reati. Allora mi piacerebbe finalmente sapere non solo quale Vip in mutande ha fotografato Corona, chi c'era sulla barca in navigazione nei pressi di Capri col transessuale, quale ragazza amministrava Lele Mora. Mi piacerebbe anche sapere che cosa si fa contro la droga, che qui dilaga, che cosa contro l'usura, contro la mafia, che incede dalle regioni limitrofe. E possibilmente che fine ha fatto Elisa Claps, perché, diciamolo, questa città è ancora scossa da quello e dagli altri omicidi impuniti. Potenza ha bisogno di serenità per poter fare ciò che le serve: lavoro, tutela dell'ambiente, qualità della vita, riqualificazione urbana". Sessantamila miliardi di vecchie lire piovvero dopo il terremoto del 1980 e 18 mila si fermarono qui in Basilicata. Il 60 per cento per un'industria mai nata o fallita, il 40 per recuperare abitazioni che hanno perpetuato uno scempio urbanistico che viene da lontano, da quando nella prima parte del secolo scorso approdarono qui invano gli architetti Piacentini e Quaroni a progettare il manicomio. E manicomio urbanistico fu. Tanto che la "riqualificazione" sembra oggi una missione impossibile anche per gli architetti Giuseppe Campos Venuti e Federico Oliva, chiamati in città dal sindaco Santarsiero. Quanto all'industria, se si tolgono la Fiat di Melfi e il polo dei salotti nel materano, ce ne sono scarse tracce in una terra strappata alla pastorizia con un profluvio di incentivi. Nonostante il fiume di denaro pubblico, il valore aggiunto per abitante è di poco più di 16 mila euro, l'ottantaduesimo posto nella classifica italiana, la disoccupazione è pari a circa un terzo della popolazione attiva residente. C'è il petrolio della Val d'Agri, ma sembra che l'oro nero lucano, che copre più o meno il dieci per cento del fabbisogno energetico nazionale, qui sia vissuto più che come un'occasione, soprattutto come un fastidio. Ne sa qualcosa l'ex presidente della Regione e sottosegretario allo Sviluppo economico Filippo Bubbico che ha dovuto difendersi anche dall'accusa di aver consentito l'estrazione nella Val d'Agri: "Le ricerche - ha spiegato - avvenivano da molto tempo, c'erano concessioni minerarie risalenti agli anni Cinquanta. Ma solo nel 1996 il governo nazionale ha autorizzato l'Eni a sfruttare i giacimenti petroliferi della Val d'Agri. In quella situazione nessuno avrebbe potuto fermare l'attività petrolifera. Noi abbiamo scelto di non perderci nella disputa nominalistica petrolio sì, petrolio no e abbiamo faticosamente trovato il modo di portare l'Eni e il governo al tavolo delle trattative per tutelare l'ambiente e creare opportunità per la Basilicata". Ciò di cui oggi la Basilicata non difetta sono i sottosegretari: oltre a Bubbico, dispone di Mario Lettieri all'Economia e di Gianpaolo D'Andrea alle Riforme, entrambi della Margherita. Altri tempi rispetto a quelli di Colombo e di Angelo Sanza, quando Potenza, borgo montanaro a ottocento e più metri sul livello del mare, comandava a Roma. Altri tempi, di pastorizia, clientele sì, quasi una patria. Ma non c'era "Potenza noir".

Il caso di Elisa Claps non è l’unico e nemmeno il più recente. La storia di Potenza è costellata di delitti misteriosi e soprattutto irrisolti. Alcuni poi portano al delitto della sedicenne scomparsa nel 1993. Uno di questi ha come vittima Pinuccio Gianfredi, malavitoso e confidente dei servizi segreti ucciso con una fucilata in bocca il 29 aprile 1997. All’inizio si parlò di regolamento di conti ma qualcuno di recente ha collegato questo delitto con la vicenda Claps: pare che Pinuccio sapesse qualcosa. Un’altra morte misteriosa riguarda una poliziotta, anche lei coinvolta in qualche modo con Elisa Claps. Anna Esposito è stata ritrovata morta in casa nel marzo 2001: un suicidio strano e anche misterioso. Avvenuto mentre conduceva indagini solitarie e parallele sulla morte di Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. Parla chiaro Don Marcello Cozzi, sacerdote di Libera da sempre al fianco della famiglia Claps: “Sono convito che l’omicidio Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa e alla morte del funzionario della Digos Anna Esposito”.

«Lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d'Italia sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano a un morto. In apparenza un delitto di mafia, in realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire». Comincia così l'inchiesta che "La Repubblica" dedica al capoluogo a tutta pagina. Attilio Bolzoni, uno delle più influenti e prestigiose firme del giornalismo italiano, da anni alle prese con cronaca nera, storie di mafia, importanti casi giudiziari, ha deciso di raccontare «la città dei 21 delitti irrisolti». Quello su cui concentra l'attenzione è il caso Gianfredi. Un delitto che descrive come «uno dei tanti in questa Potenza incastrata fra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto». Parte dal delitto Gianfredi per innestare quelli di Elisa Claps, la scomparsa di Nicola Bevilacqua (Lauria), il giallo dei fidanzatini di Policoro, Luca e Marirosa. Ancora, l'assassinio di Tiziano Fusilli nel capoluogo e la scomparsa, 35 anni fa, della piccola Ottavia De Luise a Montemurro. Tra tutti questi delitti, a guardare bene - emerge nell'impietoso ritratto - un filo c'è: è Potenza questo filo, è la città «bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti». Potenza ne esce a pezzi.

Potenza, lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d’Italia, sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano ad un morto. In apparenza un delitto di mafia. In realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire. Uno dei tanti in questa Potenza incastrata tra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto. Morti senza un movente, morti senza un colpevole, morti senza una tomba. Dall’alto dei suoi 819 metri sul livello del mare che le danno il primato di capoluogo di regione più in quota, Potenza – che in un'altra epoca era il reame di Emilio Colombo, per una volta capo del Governo e per altre ventuno Ministro della Repubblica – è bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti. Un altro record, dopo quello dell’altitudine, nella Basilicata degli almeno 21 casi insoluti degli ultimi trent’anni, come un noir senza fine con un cadavere dietro l’altro e con indagini immancabilmente destinate all’archivio. Là in cima, chiusa ed isolata come una fortezza, Potenza protegge se stessa occultando tutto. L’ultimo “cold case” ripescato è un regolamento di conti che ha troppe verità. Una fucilata in bocca a Pinuccio Gianfredi per farlo tacere. Pinuccio, malavitoso e confidente dei servizi segreti, ucciso il 29 aprile del 1997 insieme alla moglie Patrizia e sotto gli occhi di due dei tre loro bimbi. Liquidato da frettolose investigazioni come vittima di uno scontro tra bande nemiche, la sua vicenda è raccontata con quattro differenti versioni da quattro pentiti che accusano o si autoaccusano, ma che vengono reputati tutti abbastanza credibili. Due, come Gianfredi, erano anche loro informatori degli apparati di sicurezza. Pasticcio o intrigo? Comunque siano andate le cose, nella città dove niente è mai quello che sembra, qualcuno adesso dice che Pinuccio Gianfredi è stato ammazzato perché sapeva tanto sulla scomparsa di Elisa Claps, la ragazza riesumata diciassette anni dopo in un sottotetto della chiesa della Santissima Trinità. Qualcuno giura che c’entra anche con lo strano suicidio di una poliziotta, trovata soffocata nella sua casa nella primavera del 2001. «Sono convinto che l’omicidio di Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa Claps ed alla morte del funzionario della Digos, Anna Esposito», spiega Don Marcello Cozzi, il sacerdote di Libera che con la sua tenacia ed al fianco della famiglia Claps non ha mai mollato per avere la verità sulla sorte della ragazza. Don Marcello, che ogni tanto riceve minacciose buste con proiettili e visite di ladri che non rubano mai niente, parla di inchieste insabbiate, di informative sparite, di testimoni d’accusa pilotati. Intorno all’omicidio di Pinuccio Gianfredi è in subbuglio la Potenza delle consorterie, delle logge, dei circoli dove s’incontrano gli eredi dei “Basilischi” (l’organizzazione criminale della Basilicata legata alla “ndrangheta) con personaggi del sottobosco criminale della politica, avvocati marchiati dal famigerato “concorso esterno”, imprenditori da mucchio selvaggio. E poi ci sono le spie. Ce ne stanno dappertutto a Potenza. Chissà che ci faranno tutte queste spie fra le vette dell’Appennino? «Non l’abbiamo mai capito», risponde Fabio Amendolara, il cronista de “La Gazzetta del Mezzogiorno” che da anni segue le contorte vicende giudiziarie potentine e le ingarbugliate piste che costruiscono sopra ogni delitto. Da indagini che si rincorrono fra Potenza e Salerno dove sono approdate, le spie coprono, sviano, depistano. E’ capitato dopo la scomparsa di Elisa ed è capitato dopo l’omicidio di Pinuccio. E probabilmente anche con Anna Esposito, la poliziotta della Digos di Potenza e che un giorno di Marzo del 2001 “è stata rinvenuta impiccata” con una cintura alla maniglia di una porta. La poliziotta faceva indagini parallele e solitarie sul delitto Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. In quel gorgo sono scivolati perfino Felicia Genovese, il pubblico ministero che ha condotto le inchieste sulla morte di Pinuccio e sulla sparizione della Claps. E suo marito Michele Canizzaro, un ras della Sanità lucana, addirittura indicato da uno dei quattro pentiti come mandante dell’omicidio di Pinuccio. Prosciolti già in istruttoria da ogni accusa tutti e due, il pm ed il marito. Scagionati anche tutti i collaboratori di giustizia che li avevano accusati o si erano autoaccusati, scagionati i presunti mandanti. Come sempre, a Potenza, il colpevole è ignoto. E Pinuccio è morto per una guerra di mafia che non è mai scoppiata. E’ l’incubo dei casi irrisolti che ritorna sempre, qui a Potenza. Incubo che ha avuto inizio il 12 maggio del 1975 con la scomparsa a Montemurro di Ottavia De Luise, una bambina forse vittima di pedofili. Mai scoperto nulla. Come per i fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Marirosa Andreotta, due universitari trovati morti nel bagno di casa della ragazza il 23 marzo del 1988. Una scarica elettrica la causa ufficiale della loro morte, prima. Il monossido di carbonio, poi. Un incidente domestico dove sono state cancellate tracce di sangue e – come si legge nelle carte giudiziarie – «con lo stato dei luoghi modificato e i corpi manipolati». Mai scoperto nulla. Come per Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro, commercianti scomparsi nelle campagne di Filiano nel 1981. Come per Tiziano Fusilli, ucciso da due pallottole il 22 maggio del 1989. Tiziano era un ragazzo di 28 anni, qualche precedente per droga, ma intanto aveva cambiato vita. Mai scoperto nulla. Come per Vincenzo De Mare, un autotrasportatore ammazzato a fucilate il 26 luglio 1993. Come per Nicola Bevilacqua, scomparso a Lauria nel maggio del 1983. Due settimane dopo che il ragazzo era svanito nel nulla, a casa di Nicola è arrivata una lettera. Lui diceva che stava bene, rincuorava la sorella, annunciava che prima o poi sarebbe tornato. Non è più tornato. La lettera non l’aveva scritta Nicola. La Basilicata delle tenebre si è inghiottito pure lui.

Ottavia De Luise. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l'ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17, non vedendola figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese. Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All'epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c'era solo un carabiniere. Dopo venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani per agevolare le indagini: purtroppo non emerse nulla. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all'archiviazione del caso.

Dopo il caso di Elisa Claps, un nuovo «cold case» verificatosi sempre in Basilicata, sale alla ribalta delle cronache. Portando a nuovi, clamorosi, sviluppi. I vigili del fuoco, in collaborazione con gli agenti della polizia scientifica, hanno ritrovato il 4 maggio 2010 dei «reperti» all'interno di un pozzo-cisterna a Montemurro (Potenza), nell'ambito delle indagini sulla scomparsa di Ottavia De Luise, il 12 maggio 1975, quando la bambina aveva 12 anni: il ritrovamento è stato annunciato nel corso della trasmissione di Raitre di lunedì scorso «Chi l'ha visto?», che aveva «riaperto» il caso nelle puntate precedenti. Il pozzo-cisterna si trova all'esterno di una masseria ed è stato svuotato: all'interno oggetti e «reperti», forse resti umani, consegnati poi a un medico legale che dovrà analizzarli, come ha confermato all'Ansa la dirigente della squadra mobile di Potenza, Barbara Strappato. Le indagini sono cominciate con i rilievi planimetrici e la perlustrazione dei luoghi in cui Ottavia fu vista per l'ultima volta. Secondo la ricostruzione di «Chi l'ha visto?» il pozzo-cisterna, a pochi metri dal centro abitato, si trova in una delle zone indicate in alcune lettere anonime inviate alla famiglia De Luise, in cui si spiegava che la bambina «era stata violentata, uccisa, e poi nascosta». Le analisi successive condotte dal professor Franco Introna nell'Istituto di medicina legale di Bari avrebbero accertato che i reperti trovati sono resti animali. Dopo la scomparsa della De Luise, nel 1975, i primi rilievi furono effettuati dall'unico carabiniere in servizio all'epoca nel paese. Alcune settimane dopo furono inviati a Montemurro dei poliziotti con i cani. Il caso fu successivamente archiviato, per essere poi riportato alla ribalta da articoli di stampa e da «Chi l'ha visto?», nell'ambito dei servizi sull'omicidio di Elisa Claps. Nel corso degli ultimi anni ci sono state alcune lettere anonime che ipotizzano la pista del delitto ad opera di ignoti pedofili. Nel paese del resto c'è chi conosce la verità, dato che nelle lettere si afferma che la ragazza è stata violentata e uccisa. Nelle missive si dice anche che la bambina veniva abusata da anziani del paese in cambio di soldi. L'ultima persona a vedere viva la piccola Ottavia fu una signora che affermò di averla vista vicino alla parrocchia del Carmine, sulla strada per Armento, e che la piccola era diretta ad una masseria del luogo. Il caso è riaperto. Sulla scomparsa di Ottavia De Luise, 12 anni di Montemurro, avvenuta il 12 maggio del 1975, sono ripartiti gli accertamenti. E non solo sulla carta. A Montemurro c‘è stata la prima intensa giornata di lavoro su quel «mistero » che per 35 anni è rimasto nel silenzio, senza indagini e senza nemmeno gli onori della cronaca. Direttamente sui luoghi della scomparsa sono andati il pm Sergio Marotta che ha ripreso in mano quel fascicolo chiuso un anno dopo la scomparsa con dentro appena 55 pagine di accertamenti, il capo della Squadra Mobile, Barbara Strappato, e il commissario capo, Antonio Mennuti, questi ultimi reduci dai colloqui col fratello di Ottavia, Settimio De Luise. In pratica, sembra che sul caso De Luise si sia deciso di ripartire con il «metodo Claps» ossia analizzare tutto come se i fatti si fossero appena verificati. Così la folta squadra investigativa (c’erano altri sei uomini della Mobile e due della Scientifica) è arrivata di buon ora sulla «scena del delitto» per partire dalla ricognizione dei luoghi, poi si sono acquartierati nei locali del Comune di piazza Giacinto Albini dove hanno iniziato a sentire i racconti di alcuni dei testimoni dell’epoca, a partire dalle stesse persone i cui nomi compaiono negli atti di indagine datati 1975. Il magistrato e il capo della Mobile, in particolare, hanno voluto eseguire in prima persona un sopralluogo a poca distanza dagli uffici comunali, nei pressi di quella Chiesa del Carmine che da Montemurro porta verso Armento, e in particolare in un appezzamento di terreno nei pressi della chiesa. Un luogo ripreso e fotografato dagli uomini della scientifica, che sembra essere un luogo chiave del mistero di Ottavia. Lì, infatti, la ragazza è stata vista per l’ultima volta da Maria Cirigliano, una donna del paese che raccontò la cosa ai carabinieri. Pioveva e Maria le chiese dove andava. La ragazza rispose che doveva avvisare una famiglia residente in una vicina masseria che dall’abitazione che avevano in paese usciva acqua. La donna le consigliò di chiamarli gridando e avvisarli, per non bagnarsi a causa della pioggia, e la ragazza rispose che «era meglio andarci di persona». E si incamminò. Ma non è solo per questo che «la via del Carmine» è un luogo chiave della vicenda. «Ottavia - raccontò qualche giorno dopo la scomparsa sua madre - mi aveva confidato che il “viggianese” l’aveva invitata più volte ad “andare verso la strada del Carmine”». E gli stessi carabinieri, all’epoca, conclusero che la ragazzina si era avviata su quella strada «perchè doveva incontrare qualcuno». Così l’attività di ricognizione fatta dagli investigatori ha ripercorso i momenti della scomparsa, avvalendosi anche della presenza di alcuni testimoni. Si è partiti dalla piccola casa della famiglia De Luise, in paese, da dove il 12 maggio 1975 Ottavia uscì alle 16. Quel giorno niente dopo scuola, si poteva andare a giocare con gli amici in quella piazza Giacinto Albini che dista appena una settantina di metri da casa. Lì incontrò alcuni suoi coetanei, tra cui la cugina, Lucia Rotundo, che lasciò alle 16.30. «Ora io vado in campagna a trovare il “viggianese” - le avrebbe detto a quanto riportato in un verbale dell’epoca - non dire niente a papà e mamma». Così si diresse verso la strada del Carmine per non tornare più. E da lì, 35 anni dopo, ripartono le ricerche.

Luciano De Luise, fratello di Ottavia, la bambina scomparsa a Montemurro (Potenza) il 12 maggio 1975, quando aveva 12 anni, parlando durante la trasmissione di Raitre ‘Chi l’ha visto?’, ha espresso la speranza che la sorella sia “ancora viva”, anche se poco prima aveva criticato le affermazioni di una cugina sulle ultime ore conosciute della sorella, domandandosi “chi vuole ‘coprire’”. Durante la trasmissione si è parlato anche di Giuseppe Alberti, soprannominato “il viggianese”, che aveva definito Ottavia De Luise “una scostumata” e che fu interrogato e fatto visitare dall’allora pm di Potenza, Antonino De Marco. Alberti, che abitava in una casa forse meta della bambina il giorno che quest’ultima scomparve e che il 29 agosto 1975 si trasferì a Torino, aveva detto di essere stato colpito da una crisi epilettica e di essersi così procurato delle lesioni in varie parti del corpo. Il pm lo incriminò per atti di libidine ma, anche per la mancata denuncia da parte della famiglia di De Luise, allora richiesta dalla legge, non si arrivò mai al processo. ‘Chi l’ha visto?’ ha proposto anche il caso di Alfonso Bisogno, un commerciante di bestiame scomparso a Castel Lagopesole di Avigliano (Potenza) nel 1981, insieme a un suo collaboratore, Giuseppe Di Pietro. La loro automobile fu trovata bruciata il giorno dopo, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, e subito rottamata. L’uomo – ha raccontato il fratello, Salvatore – era andato a Lagopesole partendo da Giulianova (Teramo), dove aveva sede la sua azienda – per riscuotere 20 milioni per aver venduto capi di bestiame a una cooperativa. Alcuni dirigenti di quest’ultima raccontarono di avergli dato invece circa 75 milioni: due di loro furono arrestati per omicidio e occultamento di cadavere, ma poi, è stato detto durante la trasmissione televisiva, il processo non proseguì.

Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi?

Testimoni mai sentiti, qualche alibi mai controllato. Le falle dell’indagine giudiziaria sulla scomparsa di Ottavia De Luise, la ragazzina di Montemurro scomparsa nel 1975, sono state ricostruite nella sala del Cestrim a Potenza dai giornalisti Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara durante la “prima” del libro inchiesta "La colpa di Ottavia" edito dalla Edimavi. I giornalisti, rispondendo alle domande di don Marcello Cozzi (moderatore dell’incontro), hanno spiegato perchè le indagini nei confronti del “viggianese” e di Andrea Rotundo, i due sospettati per la scomparsa della ragazzina, non hanno dato alcun esito. “Il viggianese, forse, alla fine avrebbe confessato anche gli abusi su Ottavia – hanno spiegato – ma ha un alibi all’ora della scomparsa di Ottavia”. E Rotundo? Secondo i giornalisti “è stato un abbaglio“. Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono“, così era stata definita all’epoca nel rapporto giudiziario dei carabinieri, e quindi indegna di sforzi investigativi? “36 anni fa – hanno detto i giornalisti – è andata così. Il carabiniere che si occupò dell’indagine la definì una poco di buono. Ci sorprende che la magistratura molli ancora una volta adesso. E’ troppo facile dire “è stato il viggianese”. E’ morto e non può difendersi. Noi riteniamo, e le indichiamo nel libro, che ci siano altre piste che non sono state mai approfondite. E ci sono testimoni che non sono stati convocati. Testimoni importanti. Come il ragazzo con l’automobile sportiva che osservava con insistenza Ottavia nella piazza del paese pochi istanti prima che sparisse. Perchè quell’uomo non è mai stato chiamato dagli investigatori?“.

L’avevamo detto: il caso della scomparsa di Ottavia De Luise sembra il copione di un brutto film. Ottavia sparì il 12 maggio 1975 a Montemurro, un centinaio di chilometri da Potenza. Montemurro è un paesino di 1.500 abitanti. Ora che si sono mesi a cercare sul serio il corpo di Ottavia, sulla scia del caso di Elisa Claps, non è stato difficile ritrovare alcuni reperti in un pozzo proprio nel luogo dove la ragazzina, che aveva 12 anni, fu vista per l’ultima volta. Si è scoperto poi che in paese, Ottavia attirava allora “voci e pettegolezzi” perché, si diceva, si intratteneva con adulti. E cioè, in pratica, tradotto oggi, alcuno adulti si approfittavano di lei, la molestavano. In particolare un uomo, Giuseppe Alberti, detto il “viggianese”, era stato visto speso vicino a Ottavia. Tanto che la mamma della ragazzina gli aveva intimato di non avvicinarsi più a sua figlia. Quando Ottavia scomparve il “viggianese” fu interrogato e vennero riscontrati sul suo corpo ecchimosi e lividi e in particolare un graffio sul braccio destro della lunghezza di un centimetro e mezzo. Non solo, 35 anni fa, la cugina di Ottavia, Lucia Rotundo, che ancora oggi vive in paese, testimoniò che il viggianese pagava Ottavia per farla spogliare e toccarla nelle parti intime. Oggi ritratta tutto e dice che a indurla a fare quelle dichiarazioni furono i carabinieri. Ma i colpi di scena non finiscono. Si pensava che Giuseppe Alberti fosse morto da tanti anni. Non è così: vive a Torino, ha 87 anni. La polizia segue la pista legata al suo nome, ma conduce scavi anche nella proprietà dei Rotundo, dove si trova il pozzo nel quale sono stati individuati i reperti. Intanto, Settimio De Luise, fratello di Ottavia, ha denunciato per favoreggiamento Giuseppe Nitto, allora comandante della stazione dei carabinieri di Montemurro (la polizia l’ha interrogato in un luogo segreto). Secondo Settimio, Nitto fece di tutto per insabbiare una storia la cui soluzione era a portata di mano già 35 anni fa.

In Lucania si può venire uccisi, giovanissimi e restare occultati ed ignorati, per anni.

Come funziona la “giustizia” (g minuscola non a caso) a Potenza? Dire Potenza è come dire Italia. Bene lo spiega Walter Vecellio su Notizie Radicali ripreso da “Libero Quotidiano” e tema trattato anche da “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Sei anni di indagini per capire che la pistola era giocattolo. Clamoroso caso di malagiustizia in provincia di Potenza: più di un lustro per capire che l'arma non avrebbe potuto nemmeno sparare.

Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Secondo i carabinieri possedevano un’arma ad avancarica prodotta prima del 1890. Una pistola non denunciata e, per questo motivo, clandestina. Un capo d’imputazione di due righe dattiloscritte proprio sotto i loro nomi e sotto il simbolo della Repubblica italiana riassume l’accusa: «Detenzione illegale di arma». Ma era un giocattolo. Loro lo hanno detto, ribadito e dimostrato. Nonostante ciò hanno subìto un lungo ed estenuante processo che si è concluso dopo sei anni con l’assoluzione. È una disavventura giudiziaria quella che racconta la sentenza di «non luogo a procedere» scritta dal giudice di Melfi Amerigo Palma. Gli imputati erano due ragazzi di Ruvo del Monte: Domenico e Sebastiano Suozzi, classe 1973, gemelli. Sul faldone che contiene i numerosi documenti (informative, note inviate dai carabinieri al pubblico ministero, notifiche) finiti tra gli atti dell’inchiesta un cancelliere ha annotato: «Processo Suozzi più uno». Da qualche settimana quel raccoglitore di fascicoli è finito nell’archivio della Procura di Melfi. Conteneva anche la consulenza di un perito balistico che il difensore dei due ragazzi, l’avvocato Giustino Donofrio del foro di Melfi, è stato costretto a chiedere per evitare che la situazione diventasse ulteriormente rischiosa per i suoi assistiti. «Si vedeva a prima vista che era un giocattolo», conferma chi ha potuto vedere l’arma. Eppure nel 2006 ci fu un sequestro. E i due ragazzi rischiarono l’arresto. La riproduzione - che non è neanche di pregio - era ben esposta sul caminetto della loro abitazione di Ruvo del Monte. I carabinieri della locale stazione la scambiarono per un’arma vera e funzionante e gliela portarono via. Cominciò così per i due ragazzi il lungo calvario giudiziario. Prima l’avviso di garanzia. Poi la convocazione per l’interrogatorio. Poi l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. E nonostante l’interrogatorio e le memorie presentate la Procura chiese di rinviare a giudizio i due indagati. È stato allora che l’avvocato ha chiesto di sottoporre il giocattolo a perizia per stabilire la sua natura e la funzionalità. Scrive il giudice nella sua sentenza: «Il perito, verificato il reperto a lui consegnato nel corso dell’udienza, ha concluso che non si tratta di un’arma ma di un mero simulacro inerte». Un giocattolo. Che i due ragazzi potranno esporre di nuovo sul camino. Dopo sei anni di processo.

ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.

Dopo 18 anni Danilo Restivo è stato condannato a 30 anni per l'omicidio di Elisa Claps. I suoi legali annunciano che faranno appello, ma la mamma della giovane chiede ora a Restivo: "Dimmi chi ti ha coperto".

Danilo Restivo, che sta già scontando l'ergastolo in Inghilterra per l'omicidio della sarta Heather Barnet (trovata uccisa nel 2002 con modalità simili, si capirà in seguito, a quelle di Elisa Claps) è stato condannato a 30 anni, massimo della pena per un processo con rito abbreviato, per l'assassinio della giovane studentessa di 16 anni, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano, il 17 marzo 2010. Danilo Restivo ha avuto anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni dopo l'espiazione della pena, oltre all'obbligo di pagare 700mila euro di risarcimento provvisionale. Sollievo per i familiari di Elisa Claps, che finalmente, dopo tanti anni, ottengono "giustizia", come spiega la mamma della giovane Filomena, perché è da sempre che sono convinti della colpevolezza di Restivo. Anche per questo la mamma di Elisa Claps afferma che il magistrato "che ha condotto le prime indagini" si dovrebbe "fare un esame di coscienza". Danilo Restivo, infatti, era stato già condannato a poco più di due anni per falsa testimonianza riguardo al caso di Elisa Claps, ma circa 18 anni fa non si riuscì ad arrivare a questa verità accertata ora in ambito processuale. Per la famiglia Claps molti sono ancora i misteri che ruotano attorno alla morte di Elisa, a partire da quelli definiti come "complici morali". Mamma Filomena spiega infatti che ora non ci può essere "perdono", e si appella a Danilo Restivo: "Ora prendi carta e penna e scrivimi la verità, dimmi chi ti ha coperto". Perché la famiglia Claps è convita che qualcuno sapesse da tempo dell'omicidio della figlia, e di dove si trovasse il suo corpo. "E' la verità sulla Chiesa che voglio e che deve venire fuori a tutti i costi" precisa la mamma di Elisa Claps. La Diocesi di Potenza aveva anche chiesto di costituirsi parte civile nel processo, ma il loro legale, Antonello Cimadomo, ha spiegato che la richiesta è stata respinta "perché il giudice ha riscontrato una potenziale conflittualità con le nuove indagini in corso sul ritrovamento del cadavere". Sembra infatti che sia stato aperto un fascicolo "a latere" per capire se oltre a Danilo Restivo qualcun altro ha delle responsabilità in merito al delitto Claps. Il Mattino ricorda poi che ci sarebbero delle conferme riguardo un dossier scomparso sulla morte di Elisa Claps, dove un ex agente del Sisde, scrive il quotidiano che l'ha intervistato, afferma: "L'informativa sul delitto Claps c'era, la firmai io. E' dell'ottobre '97. C'era un prete che sapeva".

Dalla Gazzetta del mezzogiorno si scopre che sul delitto Elisa Claps spunta la massoneria.

Cercavano qualche elemento che potesse aiutarli a sbrogliare l’intricato giallo del ritrovamento dei resti di Elisa Claps nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza (avvenuto il 17 marzo del 2010, a 17 anni di distanza dal delitto), quando hanno scoperto che uno dei sacerdoti intercettati era in contatto con esponenti di una loggia massonica segreta. Dalle chiacchierate telefoniche di don Pierluigi Vignola gli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Salerno non sono riusciti a comprendere «quali siano con precisione i suoi reali interessi». 

Gli investigatori della Dia di Salerno segnalano alla Procura - è quanto trapela dall’inchiesta bis del caso Claps, quella che sta cercando di accertare cosa c’è dietro al ritrovamento dei resti di Elisa e quale sia il reale coinvolgimento di appartenenti alla curia potentina - i contatti con un personaggio di Nola, in provincia di Napoli, «con precedenti per la violazione della legge Anselmi», quella che vieta la costituzione di società segrete. Ma anche con altri «appartenenti alla massoneria italiana» o comunque «legati ad ambienti massonici».

E, nonostante fino a quel momento non siano emersi «elementi attinenti alle indagini», per «acquisire ulteriori elementi» il caposezione della Dia di Salerno, Claudio De Salvo, da qualche giorno passato alla Squadra mobile, chiede ai magistrati di poter continuare a intercettare il telefono del sacerdote potentino. È il 13 aprile del 2010. Nell’informativa l’ex capo della Dia scrive anche che «da interrogazione della banca dati Sdi (un sistema informatico a cui possono accedere le forze di polizia, ndr) si rileva a carico dell’interlocutore del sacerdote una segnalazione della Squadra mobile di Benevento, all’interno della quale viene deferito anche don Vignola. Non si conosce però l’esito che hanno avuto queste indagini». Ma quando i pm Rosa Volpe e Luigi D’Alessio inoltrano al gip la richiesta di proroga qualcosa s’inceppa. Il giudice Attilio Franco Orio rileva che l’atto inviato dalla Procura è arrivato in ritardo e le attività di captazione vengono disattivate. Per gli investigatori era «evidente - si legge in un documento dell’inchiesta bis sull’omicidio Claps - quanto sia rilevante e indispensabile per la corretta e completa ricostruzione dei fatti, che non sono solo quelli relativi al giorno dell’omicidio ma anche quelli inquietanti relativi al decorso di ben 17 anni durante i quali il cadavere della ragazza si è decomposto nel sottotetto, captare ogni possibile comunicazione che possa interessare sia gli appartenenti al clero coinvolti nel ritrovamento, sia altri collegati, come don Vignola, viceparroco allorché era in vita don Mimì Sabia». Ma ormai era troppo tardi.

Ma a Potenza sembra esserci un covo di serpenti. Le inchieste di Fabio Amendolara sul "La Gazzetta del Mezzogiorno” lo confermano.

Era sorto un contenzioso tra l’Arma dei carabinieri e la Procura di Potenza. Molti ufficiali erano finiti in inchieste giudiziarie che dal comando regionale giudicavano «troppo lunghe». Il generale Emanuele Garelli, ex comandante regionale, preparò un esposto. E il ministero della Giustizia incaricò la Procura generale di effettuare un’indagine conoscitiva. Il sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, indicato dai magistrati di Catanzaro che hanno coordinato l’inchiesta bis sulle toghe lucane - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - come il promotore di una società segreta che cercava di delegittimare il lavoro della Procura di Potenza, avrebbe «usato» quell’indagine amministrativa per «cagionare - si legge in uno dei capi d’imputazione contenuti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nei giorni scorsi ai 13 indagati - un danno ingiusto all’ex capo della Procura Giuseppe Galante».

Come? «Ha suggerito - si legge negli atti dell’inchiesta di Catanzaro - che il colonnello Nicola Improta gli richiedesse la copia di alcuni atti, facendo riferimento alla documentazione redatta dal procuratore Galante, in modo da consentire ai carabinieri di predisporre delle consapevoli ed efficaci controdeduzioni e di non “essere al buio”».

Ma Bonomi avrebbe «garantito» anche «di fornire al colonnello Improta copia della documentazione a lui giunta dal ministero della Giustizia e attinente alla relazione inviata al ministero da Galante, affinché i carabinieri potessero conoscere gli addebiti loro mossi dal procuratore di Potenza».

E ancora: «Ha garantito - scrivono i magistrati calabresi - al colonnello Improta che avrebbe ricevuto i verbali con le dichiarazioni rese da due ufficiali dei carabinieri che smentivano l’esposto del generale Emanuele Garelli».

Per «sistemare» l’indagine amministrativa, infine, Bonomi avrebbe «suggerito» al colonnello Improta «di irrobustire l’impianto accusatorio a fronte di quanto riferito dai due sottufficiali».

Secondo i magistrati di Catanzaro «suggerì» anche «le prove da preparare a sostegno delle loro accuse nei confronti di magistrati della Procura di Potenza e concordò con il comandante interregionale dei carabinieri le modalità di svolgimento degli accertamenti delegati alla Procura generale».

Il tutto per colpire l’ex capo della Procura Galante che, secondo i magistrati di Catanzaro, dopo poco si sarebbe lasciato decadere dall’incarico non presentandosi in ufficio (proprio a causa dei procedimenti disciplinari partiti con le segnalazioni della Procura generale). A quella poltrona pare mirasse proprio Bonomi.

E ancora dalla Gazzetta del Mezzogiorno si scopre che avevano «mappato» gli uffici investigativi della Questura di Potenza e spiato l’ex questore Vincenzo Mauro. «Attività di dossieraggio», la definiscono gli investigatori in un documento dell’inchiesta bis sulle toghe lucane che la Gazzetta ha potuto consultare. 

C’era un «disegno prestabilito - secondo gli investigatori - contro il sostituto commissario Antonio Mennuti e l’ispettore Pasquale Di Tolla». Il primo era in servizio alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile. Il secondo era il braccio destro del pm Henry John Woodcock e vittima anche dell’esposto anonimo firmato dal «dottor Sicofante». Secondo i magistrati di Catanzaro - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - anche nel dossier sugli assetti della Questura c’è la mano di Nicheo Cervone, l’ex 007 del Sisde che avrebbe passato l’esposto calunnioso ai danni di Woodcock a Leonardo Campagna, un poliziotto di Foggia che, poi, l’avrebbe materialmente spedito. Secondo gli investigatori è «emerso un disegno criminoso verosimilmente finalizzato a delegittimare e depotenziare il lavoro della polizia giudiziaria» delegata da Woodcock per indagini molto delicate.

La poliziotta al telefono  - Il vicequestore aggiunto Luisa Fasano, all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza, si lamenta al telefono del fatto che il sostituto commissario Mennuti sia stato, «dopo il suo iniziale allontanamento», completamente «riabilitato» proprio dal questore Mauro che, a suo dire, «prima l’aveva fatto fuori e poi tirandosi indietro l’aveva fatto rientrare nei giochi». Questo comportamento, secondo Luisa Fasano, «aveva molto contrariato il procuratore generale». Spionaggio - Nel dossier sequestrato a casa dell’ex 007 vengono descritte proprio queste dinamiche. «La Questura di Potenza - si legge nel documento - nei primi mesi dell’incarico del questore aveva subìto pochi ma importanti avvicendamenti. Il principale di questi aveva interessato il passaggio di Mennuti (considerato uomo vicino al pm Vincenzo Montemurro, ndr) da responsabile dell’ufficio anticrimine ad addetto all’ufficio di gabinetto del questore». Poi, in linea con i commenti telefonici della poliziotta - ma molto probabilmente si tratta solo di una coincidenza - chi ha scritto il dossier commenta: «Da alcuni mesi Mennuti è stato ricollocato in un ufficio operativo come responsabile di una sezione della Digos. Grazie a questo incarico si occupa di tutte le tematiche relative al mondo politico e di fenomeni delinquenziali destabilizzanti connessi ad associazioni o gruppi quali, ad esempio, la massoneria». 

È questo che preoccupava la società segreta che, secondo i magistrati di Catanzaro, era guidata dal sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi e alla quale aveva preso parte, sempre secondo l’accusa, anche Luisa Fasano? Oppure era l’ispettore Di Tolla il vero obiettivo del «dossieraggio»? Si legge nel documento sequestrato a casa dell’ex 007: «Contemporaneamente a questi accadimenti, l’ispettore principale della polizia stradale di Potenza, Di Tolla, ha chiesto e immediatamente ottenuto il passaggio alla Squadra mobile. Di Tolla è da sempre il principale fiduciario di un magistrato della Procura potentina (Woodcock, ndr). Così, oggi, di fatto, si è creato un canale diretto fra due magistrati e due uffici operativi della Questura». Nicrospie in questura - Ma chi fu a chiedere e ottenere i due trasferimenti? «Da notizie attinte da fonte inconsapevole prossima al questore - è scritto nel dossier - i due trasferimenti sono stati richiesti in modo pressante e perentorio dal procuratore Giuseppe Galante (che si lasciò decadere a seguito delle accuse di alcuni suoi colleghi. Nell’inchiesta bis sulle toghe lucane è parte offesa)». 

Anche il questore era stato spiato? E chi è quella fonte inconsapevole?

È probabile che l’ufficio del questore sia stato anche intercettato. Luisa Fasano, infatti, confida al suo interlocutore telefonico che il nuovo questore, Romolo Panìco, subentrato a Vincenzo Mauro, prima di insediarsi nella sua stanza ha dovuto fare «una bonifica ambientale». Erano state installate delle microspie? E da chi? È questo che dovranno accertare gli investigatori.

Dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 novembre 2011. Al sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi qualcuno aveva promesso un posto all’ispettorato del ministero della Giustizia. All’ex agente del Sisde Nicheo Cervone, invece, dissero che sarebbe diventato consulente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica diretto da Massimo D’Alema.

In cambio - secondo i magistrati della Procura di Catanzaro che ritengono di aver scoperto una società segreta che si riuniva al terzo piano del palazzo di giustizia di Potenza, sede della Procura generale - avrebbero dovuto delegittimare alcuni sostituti procuratori in servizio a Potenza: Henry John Woodcock, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni e Laura Triassi.

Perché? Curavano alcune indagini, sostengono il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi, che davano fastidio agli ambienti politici.

Nel caso di Woodcock fu preparato un esposto anonimo firmato con lo pseudonimo «Sicofante» e consegnato all’ispettore della polizia di Stato Leonardo Campagna che lo spedì - secondo gli investigatori - su ordine dell’ex 007 del Sisde. L’esposto - secondo la Procura - conteneva calunnie (per i giudici del Tribunale del Riesame di Catanzaro erano notizie diffamatorie) nei confronti del magistrato anglonapoletano e del suo braccio destro, l’ispettore della polizia di Stato Pasquale Di Tolla. I due erano accusati di aver passato atti dell’inchiesta «Totalgate» al principale indagato e di intrattenere rapporti telefonici con alcuni giornalisti. Ma Bonomi e Modestino Roca, l’altro sostituto procuratore generale indagato, avrebbero «agito» anche con i «poteri ispettivi» che la Procura generale può esercitare nei confronti della Procura della Repubblica.

«Un’intimidazione», secondo gli investigatori di Catanzaro. Perché da quel momento i pm Woodcock, Montemurro, Triassi e Piccininni, hanno lavorato sotto la costante minaccia di «sanzioni».

Le notizie contenute nell’esposto anonimo, ma anche altre «riservate» che circolavano negli uffici investigativi venivano rese pubbliche al fine di rendere vane le indagini. Per la rivelazione di notizie che dovevano rimanere segrete sono indagati i carabinieri Consolato Roma e Antonio Cristiano (ex militari in servizio all’aliquota di polizia giudiziaria, poi trasferiti). E un maresciallo della Guardia di finanza, Angelo Morello. Secondo i magistrati di Catanzaro sono stati loro a fornire le informazioni (contenute in indagini di cui si stavano occupando) all’ex agente segreto. Altre notizie venivano reperite, secondo l’accusa, dal vicequestore aggiunto Luisa Fasano (all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza) e dal colonnello Pietro Gentili (ex comandante dell’aliquota di Pg dei carabinieri di Potenza, poi responsabile della sicurezza di un villaggio turistico del Metapontino) e fornite direttamente a Bonomi e Roca.

Ma chi ha promesso a Bonomi un posto all’ispettorato del ministero? E chi disse a Cervone che sarebbe entrato al Copasir? Al centro del complotto pare ci sia un politico lucano. Gli investigatori l’hanno intercettato mentre parlava con Cervone e ritengono di aver accertato che avesse relazioni anche con Bonomi. È stato lui a promettere quelle importanti postazioni in cambio della delegittimazione dei magistrati scomodi? È quello che gli investigatori stanno cercando di accertare.

Su “Libero news” la risposta piccata di Bonomi. A Luigi De Magistris gliene hanno dette di tutti i colori, soprattutto durante la sua prima vita, quella di magistrato. Ma «viscido ectoplasma» è uno di quegli epiteti che difficilmente si dimenticano. Specie se a pronunciarlo è un altro magistrato, uno di peso, come il sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi. È lui l’uomo al centro dell’inchiesta Toghe Lucane bis, che avrebbe ordito - secondo la procura di Catanzaro - un complotto per screditare il pm Henry John Woodcock, organizzandosi addirittura in un’associazione segreta con altre toghe, con funzionari di polizia e servizi segreti deviati. Insomma, una riedizione (per quel che ne è dato di capire sinora) della vecchia indagine di De Magistris, l’unica che ha concluso ma non l’unica ad esser annegata nel nulla.

L’ex pm, more solito, ha visto in questa nuova inchiesta la prosecuzione del suo lavoro, parlandone pubblicamente e attaccando i suoi vecchi indagati. Chi non conosce la Toghe Lucane originale, immagina che si tratti di chissà cosa: naufragò platealmente per ragioni intrinseche all’indagine stessa, non certo per i cosiddetti «influssi esterni» per bloccare De Magistris. Ora Bonomi, in una esilarante lettera inviata al Quotidiano della Basilicata, ridicolizza sia De Magistris, sia Woodcock che l’intera indagine fotocopia partorita nelle stanze del procuratore aggiunto calabrese Borrelli. Con sprezzante ironia, affibbia alla loggia da lui creata, secondo le accuse, il nome di «PP», laddove si intenda «Propaganda Potenza». Ma è quando arriva il turno dell’ex pm che il piatto si fa forte: «Mi aspettavo da sempre che viscidi ectoplasmi di un recente passato pur raggiunti, a vario titolo, da sanzioni documentate e motivate, che oggi qualcuno tenta goffamente di far apparire come conseguenze di complotti, tentassero di rialzare la testa per riacquistare una dignità fondatamente perduta in modo irreversibile, ma sono certo che anche stavolta i loro convulsi ed agitati spasmi di avvoltoi non conseguiranno alcun risultato favorevole».

Qui c’è da giurare che finirà a carte bollate. Aspetto che non sembra preoccupare il sostituto procuratore generale di Potenza, tant’è che nella lettera al quotidiano ne ha per tutti, a partire proprio dal pm anglo-napoletano e dalla sua amica Federica Sciarelli. Eccone un passaggio significativo: «Non ho come parenti soggetti nobili (conti, principi etc), o eventualmente appartenenti alle alte gerarchie della chiesa (cardinali, vescovi) e tantomeno ho amici, più o meno intimi, nel clero locale o nella "intellighentia" lucana, disposti a cantare le mie lodi. Sono solo un magistrato che ha sempre operato e tutt’ora opera in silenzio, senza simpatie per il clamore mediatico, che, in quanto tale, non dispone di molti supporters neanche tra i giornalisti, tra i quali purtroppo non figura nessuna mia amica e nessun amico».

INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.

Ecco la Basilicata dei veleni e silenzi. Un libro dossier la cui recensione è stata fatta sul “La Gazzetta del mezzogiorno” del 6 agosto 2011.

Anni di denunce. E di silenzi imbarazzanti. Anni di proteste, di viaggi, di ricerche per portare alla luce una Basilicata nascosta, o meglio, che qualcuno vorrebbe tenere nascosta, celata dalla «copertina» patinata di una regione dall’aria buona, dall’acqua pulita, dall’atmosfera bucolica. Maurizio Bolognetti ha condensato in un libro-dossier tutto il suo lavoro d’indagine, corredato da articoli di stampa, su contraddizioni, verità nascoste e «veleni» che si annidano nel territorio lucano. Il titolo del volume è chiarificatore: «La peste italiana. Il caso Basilicata - Dossier sui veleni industriali e politici che stanno uccidendo la Lucania».

Il messaggio di fondo: siamo di fronte a uno status quo che ha l’imprimatur della politica, di quella che comanda, dirige, sentenzia. «Una regione con 131 comuni e nemmeno seicentomila abitanti, ricca di acqua, di gas, ora anche di petrolio, con le montagne innevate e il mare caldo, le campagne generose di grano, viti, ulivi e colture pregiate - scrive il giornalista Carlo Vulpio nella prefazione - è un luogo perfetto dove creare un feudo, in cui pochi signorotti comandano e tutti gli altri ubbidiscono, subiscono, o nel migliore dei casi si adeguano. Proprio quello che è accaduto in Basilicata».

LE «SPINE» - Il quadro generale che emerge dal lavoro di Bolognetti è devastante, crudo, non «addomesticato», senza edulcoranti: discariche al collasso, discariche che rilasciano nel terreno il percolato, l’inceneritore Fenice che ha inquinato la falda acquifera del fiume Ofanto, controlli ambientali carenti e dati nascosti di monitoraggi, sorgenti inquinate e siti di bonifica di interesse nazionale (Tito scalo e Ferrandina) non bonificati. E ancora: inchieste su reati ambientali che vanno in prescrizione o che scompaiono tra i faldoni in qualche Procura, società che agiscono in autocontrollo. Sullo sfondo di questo campionario di accuse l’inquietante aumento di malattie tumorali in Basilicata.

IMMONDIZIA - Occhi puntati sul ciclo di rifiuti solidi urbani. «Mentre si continua a viaggiare sul binario discariche/ inceneritori e la raccolta differenziata langue - scrive Bolognetti nel suo libro - i costi di smaltimento dei rifiuti sono passati da 103 a 170 euro a tonnellata. Chi, dunque, fa affari con la monnezzopoli lucana? Chi ne trae profitto? Perché una regione come la Basilicata, scarsamente popolata, non è riuscita in tanti anni a innescare un ciclo dei rifiuti virtuoso? Chi guadagna con la costruzione e la gestione dele discariche, con gli inceneritori e il trasporto della monnezza e con inceneritori camuffati da centrali a biomassa? ».

ACQUE - La recente denuncia di Goletta Verde sull’inquinamento a Nova Siri, in località Torre Bollita, del Canale dove sfocia il depuratore, e della foce del fiume Basento, a Bernalda, conferma che il sistema di depurazione in Basilicata è inadeguato. Un fatto storico. Acclarato. Bolognetti avrebbe senz’altro inserito questa vicenda nel suo libro, finito di stampare a giugno scorso. Così come avrebbe evidenziato la smentita, da copione, di Acquedotto Lucano che parla di valori inquinanti sotto la soglia d’allarme. È una storia che si ripete e che si inserisce nel contesto di quello che Bolognetti definisce «la politica del tutt’a posto» in cui l’assessore, il dirigente o il presidente di turno gli appioppa l’etichetta del mistificatore, del mitomane. Lo dissero quando Bolognetti denunciò l’inquinamento degli invasi lucani, sottolineando i dati di analisi effettuate da una ditta privata alla Camastra. Quella «rivelazione» ispirò un’inchiesta giudiziaria. Ma non quella che Bolognetti si augurava: fu lui stesso oggetto di una perquisizione (gli inquirenti cercarono le «carte» che avrebbero ispirato la sua denuncia) finendo iscritto nel registro degli indagati in compagnia del suo «complice», Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia provinciale di Potenza, sospeso dal servizio. L’accusa: rivelazione del segreto d’ufficio. Chi è il criminale? Chi denuncia casi di devastazione ambientale o chi inquina?

LE COPERTURE - Interrogativo che alimenta la teoria «vulpiana » del feudo in cui tutto deve restare com’è. Compreso i veleni. Compreso i silenzi che ignorano la «Convenzione di Aarhus», applicata ovunque in Europa, che impone la trasparenza e la massima divulgazione di atti, dati e documenti su questioni ambientali. I cittadini, insomma, hanno il diritto di essere informati. Ma l’esperienza fatta sul campo da Bolognetti (i casi Fenice e Pertusillo, i siti inquinati di Tito e Val Basento, l’estrazione di petrolio in Val d’Agri) testimoniano che non è così. «La Basilicata - scrive Bolognetti - viene presentata sui depliant turistici come un Paradiso naturale. In realtà è deturpata e sventrata da crimini contro il territorio e l’ambiente di ogni tipo. Sullo sfondo, un quadro terrificante di connivenza tra chi commette i crimini e chi dovrebbe sorvegliare».

Per gli insabbiamenti giudiziari e la censura a Potenza sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 9 gennaio 2011 è uscito un editoriale del direttore Carlo Bollino.

"Dopo che per mesi il mondo dell’informazione aveva protestato, urlato e manifestato contro i rischi della legge bavaglio, riuscendo infine nell’intento di congelare in parlamento la bozza liberticida, scopriamo che la libertà di stampa rimane a rischio anche senza quella legge. Basta toccare i poteri forti o anche meno: perché se scrivi e lavori in Basilicata basta sfiorare la storia di Danilo Restivo per cacciarti nei guai. Questo giovanotto, a dispetto del numero di omicidi dei quali è accusato o anche solo sospettato, continua evidentemente a godere di ampie tutele se è stato sufficiente scandagliare un po’ nei retroscena della sua personalità deviata, per mobilitare procura di Salerno e squadra mobile e far finire sotto inchiesta il giornalista che ha osato scrivere di lui. È come se contro il desiderio collettivo di giustizia continuasse a infrangersi l’onda lunga dell’immunità che al di là di ogni ragionevole decenza ha consentito a Danilo Restivo di farla franca dal 1993 al 2010, quando finalmente l’evidenza degli indizi a suo carico (alcuni risalenti addirittura a tredici anni prima) si è trasformata in un mandato di arresto internazionale. Ecco, il nostro collega Fabio Amendolara, travolto da un impeto investigativo che in 17 anni non si era mai visto manifestarsi con altrettanta urgenza contro gli assassini di Elisa Claps, si era limitato a scrivere questo: a ricostruire, dettaglio dopo dettaglio, tutte le prove raccolte dal 1993 ad oggi nei confronti del giovane rampollo lucano. E con la logica trasparente che deve sempre ispirare il lavoro di un cronista, a chiedersi in un breve editoriale pubblicato ieri in edizione di Basilicata «cos’altro servisse per arrestare prima Danilo Restivo». Tutte le prove erano raccolte in un’informativa redatta dalla squadra mobile di Potenza nel 2008, ma che la procura di Salerno aveva ritenuto insufficienti ad incriminare Restivo, chiedendone così l’archiviazione. Salvo poi ripescare lo stesso documento due anni dopo, in seguito al ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa di Potenza, e in base a quelle stesse prove chiedere e ottenere l’arresto. Strano oltre che imbarazzante. La procura di Salerno ha così ordinato alla polizia di Potenza di rintracciare Fabio Amendolara che è stato raggiunto dagli agenti mentre come ogni giorno faceva i suoi giri in città a caccia di notizie, e insieme con lui hanno perquisito giornale, casa e auto, sequestrandogli le carte sulle quali lavorava, incluso l’intero archivio sul caso Claps, e accompagnandolo infine in questura dove per altre 4 ore lo hanno sottoposto ad interrogatorio. Senza che nel frattempo gli fosse concessa la possibilità (anzi: il diritto) di mettersi in contatto con i suoi colleghi, né con la sua giovane moglie. Ora, che un giornalista possa finire nel mirino della giustizia per una qualunque rivelazione di segreto istruttorio ci sta pure: diciamo che è un infortunio del mestiere, per nulla imbarazzante giacchè semmai è la prova-provata che stava scrivendo la verità. Ma è sul metodo che dissentiamo. Su questa sproporzionata esibizione di forza che in 17 anni – e ricordarlo oggi appare grottesco – non è mai stata usata nei confronti del presunto assassino. Al quale, tanto per dire, rientrato a casa dal suo ultimo incontro con Elisa della quale si erano appena perse le tracce, procura e polizia dell’epoca consentirono di far sparire la giacca forse macchiata proprio dal sangue della ragazzina. Ed era solo l’inizio di una imbarazzante inchiesta che infatti non approdò a nulla. Ecco, è paradossale che una vicenda giudiziaria condizionata per 17 anni da depistaggi e omertà nella quale anche il silenzio dell’informazione ha avuto un pesante ruolo colpevole, debba giungere al suo epilogo con l’incriminazione di chi invece sta tentando di contribuire alla chiarezza, e se non è sospetto è certamente inopportuno che tanto accanimento nei confronti di un giornalista si sia manifestato adesso, e proprio intorno a questo caso. Sulla tragica fine di Elisa Claps e sulle lacunose indagini che ne sono seguite sembrava finalmente strappato il bavaglio, ed è per questo che suscita stupore e indignazione scoprire che oggi qualcuno ritrovi invece il coraggio di impugnarlo. Con il corpo della disgraziata 16enne di Potenza che attende tuttora di essere sepolto. E mentre chi indaga deve ancora dar prova di saperle restituire, fino in fondo, la Giustizia che merita."

Omicidio Claps. Gildo scrive ad Elisa: «Mia cara sorellina...»

«Stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene»: lo ha scritto Gildo Claps il 9 aprile 2010 in una lettera alla sorella, Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993, quando aveva 16 anni, il cui cadavere è stato trovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della canonica della chiesa della Santissima Trinità, a Potenza.

La lettera, affidata da Gildo Claps all’ANSA e riportata da tutta la stampa, comincia con un commovente «mia cara sorellina» e prosegue con un tono delicato: «Stavolta un rimprovero devo proprio fartelo...», ha aggiunto il fratello di Elisa, chiedendole «come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta». Subito dopo, però, la lettera assume un tono ironico e polemico, se non di aperta accusa, nei confronti di chi indagò sulla scomparsa di Elisa: «Pensa – scrive Gildo – a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare». Non mancano riferimenti a Danilo Restivo, unico indagato nell’inchiesta, al padre, «un notabile amico di notabili», al questore che a Natale del 1993 «mise alla porta» la madre di Elisa («Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla»), ai depistaggi: «E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo», ha scritto Gildo alla sorella, facendo considerazioni critiche sul vescovo e sui sacerdoti della Santissima Trinità sul ritrovamento ufficiale del cadavere e sul fatto che, invece, era già stato trovato quasi due mesi prima.

IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA

«Mia cara sorellina, stavolta un rimprovero devo proprio fartelo: ma come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta; e come se non bastasse te ne sei stata lì per 17 anni invece di prendere le tue poche cose e allontanarti con garbo ed in silenzio fino farti inghiottire per sempre dalle nebbie del tempo. Ti rendi conto che così facendo hai messo in imbarazzo tutti? Capisco che ti hanno toccato il cuore le lacrime di mamma e di papà, posso comprendere che hai voluto dare a me e Luciano (altro fratello) un segno tangibile che questi anni non sono trascorsi invano, ma potevi farlo in modo diverso e soprattutto evitando di mettere tante persone che contano nelle condizioni di dover spiegare i loro comportamenti davanti ad un paese intero.

Pensa adesso a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare; come faranno a far capire alla gente che non sono mai entrati in quella chiesa a cercarti se non dopo tanti anni e peraltro senza trovarti. Hai messo in difficoltà anche noi che dobbiamo chiarire come mai a poche ore dalla tua scomparsa, ci precipitammo in chiesa ma non riuscimmo a salire fin sopra perchè le chiavi di quella porta le aveva solo il parroco che in quel momento non era presente.

Capisci, adesso dovremo spiegare come mai due ragazzi e pochi amici avevano avuto l'intuizione di andare a guardare lì, e investigatori di provata esperienza se ne sono semplicemente dimenticati. E poi sorellina mia, dovevi incontrarti proprio con Danilo (Restivo, indagato per la morte di Elisa) quel giorno? Hai messo di nuovo in difficoltà quel bravo magistrato e ancora una volta noi stessi. Ti rendi conto che abbiamo dovuto scavare nel passato di quel povero ragazzo, far venir fuori tutta una serie di episodi spiacevoli che lo riguardavano? Ci hai costretto ad accusarlo fin dal primo giorno, ma con l’intuizione dei grandi investigatori ci diedero dei pazzi, NOI. E poi era pur sempre il figlio del direttore della Biblioteca Nazionale, un notabile amico di notabili, dico io, non potevi incontrarti con il figlio di un operaio in cassa integrazione? Sarebbe stato tutto più semplice.

Ti rendi conto sorellina – prosegue la lettera di Gildo Claps alla sorella – che ora dovranno spiegare il motivo per cui non andarono ad interrogarlo quel giorno stesso, non sequestrarono i suoi vestiti, non acquisirono i tabulati telefonici? Quale imbarazzo per persone che negli anni hanno continuato a fare il loro 'dovere' mentre noi ci si consumava piano nel vuoto della tua assenza.

E ricordi quando mamma fu messa alla porta dal questore poco prima di quel Natale del 1993, il primo senza di te, ricordi le sue parole esatte: 'signora basta, non può venire ogni giorno qui con i suoi figli a disturbare, sua figlia è scappata di casa, lo vuole capire o no?' Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla. E quando gli avvocati di uno degli indagati, attingendo a fonti confidenziali, ci dissero che eri in Albania? Noi pensammo subito ad un ennesimo depistaggio, ma da lassù sono certo che avrai visto per un attimo una scintilla negli occhi di mamma, era il riflesso sepolto della segreta speranza di saperti ancora in vita.

Pensa adesso se a qualcuno venisse in mente di andare a chiedere loro quali erano queste fonti confidenziali, capisci sorellina quale imbarazzo sarebbe per due stimati professionisti dover dare spiegazioni su questa vicenda? E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo. Il vescovo, il parroco, il vice e giù fino all’ultimo anello della catena sono ora costretti a spiegare come, quando, chi? E già, sarebbe stato tutto così semplice, lineare, se fosse stato vero che un’impresa edile, nell’effettuare lavori di riparazione, avesse casualmente scoperto il tuo corpo. Invece no, tutto complicato in questa maledetta faccenda e ancora una volta tutto così imbarazzante. Forse sono state prima le donne delle pulizie, no scusa, il viceparroco, no lui non ne sapeva niente, era gennaio, no febbraio, sì, ma di quale anno? Il vescovo dice di non sapere, non ammette oggi di aver saputo ma non pensava che fossi tu (come se ciò facesse la differenza), però il giorno dopo il ritrovamento, con il suo avvocato si affretta a rassicurare i fedeli che la chiesa riaprirà presto al culto (era sicuramente questa la cosa che la città sconvolta voleva sapere per prima); il parroco sfida chiunque a dimostrare che lui sapesse, il vice sapeva ma se n'era dimenticato.

Da ultimo proprio ieri ho saputo sorellina, che qualcuno circa un anno fa, nei bagni del Gran Caffè aveva scritto più volte con un pennarello, Elisa Claps è nella Trinità, un altro matto certamente. Sai sorellina, sembra quasi che nessuno volesse trovarti ma che tanti sapessero dov'eri, forse devono aver fatto un pensiero profondamente cristiano, è stata buttata lì per tanti anni, anno più anno meno che cosa cambia? Oggi sorellina rischi di mettere in imbarazzo la parte buona di questa città, quella che non si è mai arresa, quella che si è stretta intorno a te e ha pianto con noi, quella che gridava verità e giustizia, quella che ripudia i compromessi, il quieto vivere, le consorterie e gli intrallazzi, quella che ha il coraggio di chiedere conto a tutti, che siano uomini di chiesa o di potere. Ti lascio, ma solo per il momento, e stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene».

INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.

Dalla stampa sono pubblicati gli atti processuali divenuti pubblici, da cui si rileva che Luigi De Magistris, ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV, è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno.

De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro in udienza camerale ex art. 409 CPP celebratasi il 16-10-2007 e disposta a seguito della sua richiesta di archiviazione del 12-3-2007, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissato dal GIP. In Catanzaro dall'aprile 2008 in poi".

Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini che gli erano state ordinate da un GIP su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento. Le indagini erano state ordinate dal GIP di Catanzaro al P.M. De Magistris a seguito di camera di consiglio disposta in virtù di opposizione alla richiesta di archiviazione.

In quella opposizione si profilavano ipotesi delittuose gravi a carico di alcuni magistrati di Lecce e di Potenza ed era del seguente tenore: "… Al cospetto di notitia criminis di siffatta evidenza, l’ill.mo Giudice dovrebbe imporre, a sommesso parere dell’umile deducente, l’imputazione coatta per i reati di favoreggiamento, di associazione per delinquere o, quanto meno, di omissione di atti d’ufficio. Il deducente non può non chiedere, infine, in alternativa, le investigazioni a tutto campo per stroncare una volta per tutte quella che il deducente ritiene che sia una vera associazione per delinquere fra quei magistrati del Tribunale di Lecce che archiviano tutti i procedimenti penali a carico di……e quei magistrati della Corte di Appello di Potenza che archiviano, senza svolgere dovute ed approfondite indagini, procedimenti penali a carico dei suddetti magistrati che hanno un siffatto comportamento che il deducente ritiene “contra jus”. La legge penale dovrebbe essere uguale per tutti:….e per i magistrati. Se numerosi magistrati della Procura della Repubblica di Lecce hanno questo comportamento, che al deducente sembra criminoso, non vuol dire che i numerosi magistrati della Procura non debbano essere processati se essi non applicano la legge: un’intera Procura non forma un parlamento; un’intera Procura ha l’obbligo della tutela della legge. Sui fatti di sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di procedimenti penali a carico di …e dell’altrettanto sistematica archiviazione dei procedimenti penali a carico di quei magistrati che hanno consentito tali “facili” archiviazioni possono riferire".

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.

Toghe lucane: spezzatino giudiziario.

Il gup di Catanzaro, Maria Rosaria Di Girolamo, accogliendo la richiesta della Procura, il 18 marzo 2011 ha archiviato la posizione di 30 persone indagate nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane su un presunto comitato d’affari che avrebbe agito in Basilicata con la complicità di politici, magistrati, professionisti, imprenditori e rappresentanti delle forze dell’ordine. «Tutti gli elementi evidenziati consentono quindi di ritenere l’impianto accusatorio lacunoso e di affermare l’insussistenza della fattispecie penale ipotizzata». È quanto scrive il gup di Catanzaro, Maria Rosaria di Girolamo, nell’ordinanza di archiviazione di Toghe lucane, in relazione all’accusa di associazione a delinquere finalizzata ad una serie di reati fine ipotizzata nei confronti di 16 indagati, tra i quali magistrati, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Gli elementi, scrive il gup, «non consentono di sostenere adeguatamente, nei confronti di tutti gli indagati, una fattispecie associativa quale quella ipotizzata, essendo del tutto carente la prova in ordine all’esistenza di un sodalizio».«Non basta – scrive tra l’altro il gup – la prova in ordine all’esistenza di rapporti di amicizia o di frequentazione, nell’adozione di comportamenti che riflettono, al massimo, una posizione di adesione alle diverse ed opposte posizioni ed orientamenti che, durante la gestione delle attività giudiziarie, si erano venuti a creare, determinando una contrapposizione tra coloro che operavano all’interno del palazzo di giustizia». Tra gli indagati la cui posizione è stata archiviata ci sono alcuni magistrati lucani; il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo; l’ex sottosegretario del governo Prodi e ora senatore del Pd, Filippo Bubbico, ed alcuni ufficiali dei carabinieri.

Ma su questa archiviazione cala un ombra. Ecco il titolo della Gazzetta del Mezzogiorno : Inchiesta toghe lucane Agente Sisde a indagato «Sarà tutto archiviato».

«Dino, a me hanno detto che lì archiviano, se non hanno già archiviato, è chiaro! Se non hanno già archiviato! Io in questo periodo non è che me ne sono stato con le mani in mano, chiaro?». A dirlo è stato l’ex agente del Sisde Nicola Cervone, arrestato il 30 2010 dalla squadra mobile di Potenza su disposizione del gip di Catanzaro nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane-bis su una presunta calunnia ai danni dell’ex pm di Potenza Henry John Woodcock, attualmente in servizio alla Procura di Napoli. Cervone è stato poi scarcerato dal Tribunale del riesame di Catanzaro. Cervone parla con Leonardo Campagna, agente di polizia in servizio nel commissariato di Cerignola (Foggia), indagato nella stessa inchiesta della Procura catanzarese, che registra la conversazione dopo essere stato chiamato per essere sentito. Campagna ha ammesso di avere spedito alcune lettere anonime a giornali e uffici giudiziari per delegittimare Woodcock. Lettere, ha riferito, che gli furono date da Cervone, al quale era legato da rapporti di amicizia, e di cui lui – ha detto - non conosceva il contenuto. La registrazione, che non è recente, è contenuta nelle motivazioni con cui il tribunale del riesame ha scarcerato Cervone, che sono state depositate nelle scorse settimane (e di cui si è avuta notizia solo ora) sostenendo che il reato ipotizzato nei suoi confronti, la calunnia, non è configurabile, mentre si tratterebbe di diffamazione. Con quella frase Cervone risponde all’affermazione di Campagna che gli dice: «Mi hai detto che il problema me l'avrebbero risolto con quelli lì, mi avrebbero archiviato, intanto la comunicazione al ministero è arrivata, se avessero archiviato tutto, io non sarei stato chiamato dal Questore e trattato di me..., come un delinquente». Interrogato dalla squadra mobile di Potenza, che conduce le indagini, Campagna ha raccontato che Cervone, durante un altro colloquio gli disse: «non preoccuparti perchè la tua situazione verrà archiviata, ci sarà un’intercessione tra i vertici delle due Procure. Tra le Procure di Potenza e di Catanzaro». Campagna ha anche raccontato che, in merito alle lettere, Cervone gli disse che «siccome stanno succedendo problemi all’interno della Procura di Potenza, ci sono dei miei amici magistrati che avevano bisogno, dovevano far sì che queste cose venissero fuori, bisognava indagare su quest’attività». Le lettere furono spedite nel febbraio 2009, un periodo in cui, a Potenza, erano in corso forti contrasti tra magistrati dell’ufficio di Procura. L'inchiesta a carico di Cervone è una delle due inchieste che sono ancora aperte a Catanzaro dopo che il gup ha archiviato l’inchiesta Toghe Lucane a carico di trenta persone tra magistrati, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. L'altra inchiesta tutt'ora aperta riguarda due magistrati della Procura generale di Potenza, Gaetano Bonomi e Modestino Roca, un autista dello stesso ufficio giudiziario ed un imprenditore.

Ma i dubbi e le ombre non mancano. Omicidio Claps. Perito: quella maglia ignorata da Pascali. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una «diabolica» coincidenza di negligenze o i tasselli di un complotto? Tutto è cominciato con il mancato sequestro degli abiti sporchi di sangue di Danilo Restivo; si è proseguito lasciandosi deviare da depistaggi (tutt’altro che innocenti), fino al giallo del ritrovamento del cadavere, scoperto ufficialmente il 17 marzo del 2010, tra visioni di un «ucraino» (così inteso, in verità il prete brasiliano al suo superiore parlava di cranio ndr) nel sottotetto e ricostruzioni contraddittorie delle donne delle pulizie. L’ultima puntata del caso Claps: la scoperta dei Ris del Dna riconducibile a Restivo sulla maglia indossata da Elisa svela l’ennesimo «buco nero» dell’inchiesta. Perché il prof. Vincenzo Pascali, autore della prima perizia, ha ignorato la maglia tra i reperti da esaminare? Chiunque, anche chi non mastica «medicina legale», avrebbe preso in considerazione quell’indumento per cercare tracce biologiche. Il lavoro del genetista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo ricordiamo, aveva riscontrato profili genetici isolati che non corrispondevano col Dna di Restivo, consegnando alla Procura di Salerno un dossier «impalpabile» ai fini delle indagini. La magistratura campana ha avuto il merito di non accontentarsi di quei risultati, sfiduciando, di fatto, Pascali e affidando ai Ris il compito di una nuova perizia. Ma se oggi, con la scoperta del Dna riconducibile a Restivo, si è arrivati ad una svolta dell’inchiesta lo si deve soprattutto a Patrizia Stefanoni, dirigente della sezione di genetica forense del servizio di Polizia scientifica e consulente del pubblico ministero. È lei che ha evidenziato le carenze della perizia di Pascali. 

Un ex agente del Sisde, il vecchio servizio segreto civile, si occupò dell’omicidio di Elisa Claps, commesso a Potenza il 12 settembre del 1993. E firmò un dossier che nel 1997 svelava la verità sul delitto. «La ragazza era stata uccisa dalla persona verso cui venivano condotte le indagini». Questo era più o meno il contenuto di quel documento investigativo. La «Gazzetta del Mezzogiorno» - che all’epoca (il 31 ottobre del 1997) pubblicò in esclusiva alcune indiscrezioni contenute nel dossier del Sisde - è riuscita a rintracciare l’ex agente segreto in una località che, per ragioni di sicurezza, verrà omessa. L’ex «barba finta» ora svela: «Un prete sapeva dell’omicidio». Lo definisce «un personaggio a latere » dell’inchiesta. Uno che non aveva preso parte al delitto ma che, probabilmente, «sapeva». Un «prete». Giacca di pelle e lunghi baffi bianchi, l’ex agente segreto ha l’aria di uno di quei detective da serial tv americano (all’incontro era presente un inviato del Tg5). Seppure senza mai scriverne il nome, gli 007 nel 1997 puntarono il dito contro Danilo Restivo (in quel momento indagato per il reato di «false informazioni rese al Pubblico ministero»), condannato recentemente all’ergastolo in Inghilterra per il delitto della sarta Heather Barnett e da sempre il sospettato numero uno per l’omicidio Claps. Ma nel trovare conferme gli agenti del Sisde appresero anche altro. Da altri informatori e molto probabilmente all’interno della Chiesa.

Perché i servizi segreti si sono occupati della scomparsa di una ragazza? E con quali risultati? «Il succo dell’informativa è che la scomparsa della ragazza era dovuta al fatto che la Claps era stata uccisa a Potenza. E che il presunto autore era la persona sempre considerata tale. L’informativa diceva che Elisa era stata uccisa il giorno stesso della scomparsa, il 12 settembre del 1993. Ce ne occupammo perché avevamo un informatore e per dare degli input agli investigatori».

E all’epoca c’era già un’altra ipotesi: qualcuno sapeva che il delitto era avvenuto in chiesa. «Noi parlammo di un personaggio a latere. Una persona che doveva sapere dell’uccisione».

Un personaggio a latere? «Ma sì, diciamo che era un prete».

Il vecchio parroco della chiesa della Trinità (luogo del delitto, in cui 17 anni dopo la scomparsa sono stati trovati i resti di Elisa) don Mimì Sabia? «Questo non lo so».

Il suo nome comunque non era nell’informativa? «No, non c’era».

C’era qualche altro nome? «Di solito quelle note informative non contengono nomi».

In quel dossier c’era comunque quanto bastava per risolvere il mistero di Elisa e per attirare l’attenzione sulla chiesa della Trinità. Quell’informativa, però, non arrivò mai agli investigatori dell’epoca. Ed Elisa è stata ritrovata ufficialmente solo il 17 marzo del 2010. Ben 17 anni dopo il giorno dell’omicidio.

E sempre dalla Gazzetta del Mezzogiorno. «Se il rapporto sul caso Claps è stato scritto non può essere sparito». Nicheo Cervone è l’ex agente del Sisde che entrò in contatto con Gildo Claps, fratello di Elisa, qualche anno dopo la scomparsa. Dice di non aver mai lavorato al caso Claps per il vecchio servizio segreto civile ma di aver parlato con Gildo solo «per amicizia». E sostiene che il suo ex collega - che ha svelato in esclusiva alla Gazzetta e al Tg5 l’esistenza di un’informativa che nel 1997 dava indicazioni precise sul delitto (la Gazzetta ne anticipò in esclusiva alcuni contenuti) - è l’unico a poter ricostruire i contenuti di quel dossier. «Che comunque non può essere scomparso».

Agente Nicheo, lei si è mai occupato dell’omicidio Claps?

«Voglio precisare che Nicheo è il nome con cui mi chiamano parenti e amici, non quello di copertura. E non mi sono mai occupato del caso Claps».

Il delitto più intricato commesso a Potenza non l’appassionava?

«I servizi segreti di solito non si occupano di queste cose».

Lei, però, a Gildo alcune domande sulla scomparsa della sorella le ha fatte.

«Ho conosciuto Gildo in modo casuale e diventammo amici. Mi dispiace che pensi che io possa aver tradito la sua amicizia».

Glielo presentò qualcuno?

«Ricordo che fu un maresciallo dei carabinieri in servizio al Reparto operativo di Potenza».

Fu il maresciallo Vincenzo Anobile (l’unico, tra i carabinieri, che si occupò del caso Claps)?

«Francamente non ricordo se fu lui oppure un altro maresciallo che conoscevo».

E s’informò sul caso Claps?

«Gli chiesi della scomparsa della sorella e, aggiungo, non avrei perso occasione per avere anche una sola notizia sul caso Claps. E questo per l’amicizia che mi lega a lui. Purtroppo non è così. Non me ne occupai. Per il Sisde seguivo esclusivamente faccende di criminalità organizzata».

Però fu lei a dire a Gildo che quel dossier non esisteva.

«Quando uscirono le notizie sul giornale mi chiamò perché voleva incontrarmi. Lo invitai a casa dei miei genitori e lì gli dissi la verità, ovvero che per quanto ne sapevo io non c’era nessun dossier».

Quindi dell’informativa del 1997, mi pare di capire, non sa nulla?

«Io sono stato a Potenza fino al 1996, poi ho lavorato in Puglia. Con l’ufficio di Potenza in quegli anni non ho avuto contatti».

E prima del 1997 nessuno le ha mai chiesto di occuparsi del caso?

«Anche prima del 1997 mi occupavo di criminalità organizzata».

E di quel dossier non ha mai neanche sentito parlare?

«Ripeto: per quanto ne so non c’è nessun dossier».

A noi risulta il contrario.

«Se hanno scritto un rapporto quando io non c’ero non posso saperlo. Dalle foto che ho visto sulla Gazzetta mi sembra di riconoscere la persona che è stata intervistata. Non ne faccio il nome per non incorrere in una rivelazione del segreto di Stato. Per la posizione che ricopriva all’epoca nel Sisde, la persona fotografata è l’unica a sapere se era stato fatto un rapporto. Mi sembra strano, conoscendo i meccanismi del Sisde, che sia sparito».

Allora cosa è accaduto?

«Cosa è accaduto non lo so. Ma posso dire che se per uno strano caso informatico il rapporto fosse sparito, il suo contenuto non sarebbe difficile da ricostruire».

L’impressione è che qualcuno abbia voluto che non arrivasse in Procura.

«Io so solo che la persona che riconosco in foto è la stessa che dopo gli articoli della Gazzetta andò in Procura per dire che non c’era nessun rapporto dei servizi segreti. Oggi la cosa più importante sarebbe sapere chi è o chi sono gli informatori alla base di quella nota informativa. Solo così si potrebbe arrivare a capire se ci fu una reale o una eventuale volontà di depistaggio».

Qualcuno sapeva la verità su Elisa Claps, in Questura a Potenza, molto prima della terribile scoperta nel sottotetto della chiesa della città?

Così sembrerebbe, da quanto emerso da una rivelazione fatta dalla mamma di una poliziotta appunto di Potenza, morta nel 2001 in circostanze mai chiarite secondo i familiari. Proprio questo disse infatti la donna, Anna Esposito, all'epoca commissario di polizia nel capoluogo della Basilicata, poco prima di morire, parlando con sua madre, come è stato raccontato in tv alla trasmissione di Rai3 "Chi l'ha visto?". 

Anna Esposito avrebbe detto che qualcuno in Questura sapeva la verità su quella ragazzina scomparsa. Le avrebbe confidato che qualcuno già sapeva che Elisa era stata uccisa e sapeva anche dove si trovava il corpo. Solo adesso però quel racconto di Anna è stato rivelato dalla mamma a Gildo Claps, fratello di Elisa, che lo ha raccontato a Rai3. 

Anna Esposito morì poco dopo aver fatto questa confidenza scottante alla mamma, nel 2001. Sembrò un suicidio, ma il papà della donna, Vincenzo, è convinto che non fu Anna a togliersi la vita. Si trattò di mobbing? Un procedimento giudiziario dice che Anna aveva confidato a don Pierluigi Vignola, cappellano della Questura, di aver tentato il suicidio in passato. Perché don Pierluigi non lo disse a nessuno?, si chiede il papà di Anna, che ha incontrato più volte quel prete subito dopo la morte della figlia. 

Sarebbe stato proprio don Vignola a raccontare a papà Vincenzo di atteggiamenti strani da parte dei colleghi nei confronti della commissaria, di lettere anonime, di pagine strappate dalle sue agende. E, sempre stando alle parole di Vincenzo Esposito, lo stesso prete avrebbe consigliato al padre della commissaria di mandare un esposto anonimo alla magistratura per denunciare i colleghi di Anna. A che scopo? Un nuovo tassello che si aggiunge alla già intricata vicenda di Elisa Claps, che si fa sempre più complessa.

Anna Esposito era un commissario della polizia di Stato. Lavorava a Potenza e coordinava l’ufficio della Digos. È morta in circostanze misteriose il 12 marzo del 2001. «Fu suicidio», secondo la Procura. Ma suo padre Vincenzo, da sempre, sostiene che sia stata uccisa. E ora che sono emersi sinistri collegamenti con il caso di Elisa Claps - la ragazza scomparsa il 12 settembre del 1993 a Potenza e uccisa, secondo i magistrati della Procura di Salerno, da Danilo Restivo, condannato a 30 anni di carcere per il delitto - vuole vederci chiaro. La sua ex moglie, la mamma di Anna, inoltre, ricorda che sua figlia le confidò che in Questura a Potenza c’erano poliziotti che conoscevano il luogo in cui era nascosto il corpo di Elisa (i resti della ragazza sono stati trovati il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della chiesa della Trinità a Potenza da alcuni operai mandati lì a riparare un’infiltrazione d’acqua. Ma quella, per la famiglia Claps, è stata solo una «messinscena »).

Gildo Claps si è ricordato che qualche giorno prima di morire quella poliziotta lo chiamò chiedendogli un appuntamento. «Non ho fatto in tempo a incontrarla», dice alla Gazzetta del Mezzogiorno. E non immaginava che la triste storia di quella poliziotta potesse incrociarsi con quella di sua sorella. Poi ha saputo che uno dei sacerdoti intercettati dalla Procura di Salerno per l’inchiesta bis sul caso Claps - quella sulle coperture e i depistaggi che, secondo la Procura, avrebbero aiutato l’assassino di Elisa a eludere le indagini per 17 anni - don Pierluigi Vignola, cappellano della polizia di Stato segnalato per sinistri contatti con appartenenti a una società segreta, aveva avuto un strano ruolo anche nel caso del commissario Esposito. E si è insospettito. Don Vignola racconta al magistrato che indagava per «induzione al suicidio» che il commissario Esposito, in confessione, gli aveva detto che qualche settimana prima aveva tentato di uccidersi stringendosi una cintura al collo. Proprio la stessa modalità che avrebbe usato poi per togliersi la vita.

Ma perché don Vignola non avvisò la famiglia (con cui intratteneva anche buoni rapporti di amicizia)? Non le aveva creduto? Ecco cosa annota il magistrato: «Stupisce non poco il fatto che il cappellano, deputato alla cura spirituale del personale della polizia di Stato, non abbia manifestato, se non a un superiore, almeno alla famiglia o a qualche collega o amica della Esposito di starle vicino, di non perderla di vista in quel particolare grave momento di sofferenza».

Il sacerdote, invece, consiglia al padre di Anna di scrivere un esposto anonimo (le indagini, quando don Vignola incontra Vincenzo Esposito, erano ormai chiuse e il caso era stato archiviato come suicidio). È una strana strategia quella suggerita dal sacerdote. Chi avrebbe dovuto accusare il padre della poliziotta? Don Vignola, sentito in Procura, nega. Poi, davanti all’evidenza - e dopo le contestazioni degli investigatori che sospendono l’interrogatorio per permettere al sacerdote di consultarsi con un legale - confessa: «Rettificando quanto da me detto in precedenza - si legge nel verbale che ha firmato in Procura don Vignola – voglio rappresentare che potrei essere stato io stesso a suggerire a Vincenzo Esposito di scrivere una lettera anonima alla Procura contenente richieste che a mio avviso servivano più a confortare il mio interlocutore che a consentire di scoprire nuovi scenari».

Quegli scenari, però, subito dopo li descrive al pm: «C’erano persone (don Vignola fa anche i nomi di alcuni poliziotti) che manovravano in qualche modo la vita di questa ragazza». Era vero? Cosa aveva appreso il cappellano della polizia sul conto di queste persone? Oppure era stata Anna a riferirgli di quei minacciosi messaggi anonimi che spesso trovava sulla sua scrivania in Questura? E quanto hanno influito sulla decisione di farla finita? Sempre che sia andata davvero così. Il papà di Anna è convinto che il caso vada riaperto. E ora anche Gildo Claps sospetta che scavando in questa storia possa uscire qualche altra verità sull’omicidio di sua sorella: «In quanti sapevano che era in quel sottotetto?»”. È quello che dovranno accertare gli investigatori.

E’ una vita apparentemente felice e realizzata quella di Anna Esposito. Una donna forte, determinata e decisa. Anna era capo della Digos di Potenza e aveva due splendide figlie che vivevano con i nonni a Cava de’ Tirreni. Improvvisamente il 12 marzo del 2001 i genitori ricevettero una chiamata che li avvisa che la donna si era suicidata, impiccandosi con una cintura alla maniglia della porta del bagno della sua casa a Potenza. La famiglia però non crede assolutamente a questa versione. Il commissario di polizia intervenuto in casa di Anna aveva subito slegato la donna con “la speranza di trovarla viva”, ha riferito il padre di Anna, che però era morta ben 10 ore prima. Secondo i periti però questo sarebbe un “suicidio anomalo, ma possibile”, contrariamente alla versione di Enzo Esposito (papà di Anna) che sostiene invece che la cinghia della cintura si dovrebbe trovare nella nuca e non all’altezza della mandibola, come invece era successo per Anna. Un altro aspetto su cui è necessario fare chiarezza è il disordine che è stato trovato nella casa dell’ispettore Esposito, come se qualcuno cercasse qualcosa di preciso. Nei mesi precedenti la morte, Anna riceveva costantemente biglietti anonimi di minaccia. Anna potrebbe essere stata indotta al suicidio? C’è inoltre un’altra stranissima coincidenza che lega la vicenda di Anna alla morte di Elisa Claps. La famiglia Esposito era molto amica di Don Vignola, il parroco che forse saprebbe molte cose sull’omicidio di Elisa. Don Vignola avrebbe dichiarato di aver visto segni di una cinghia sul collo di Anna qualche mese prima della sua morte, come se la donna avesse già tentato il suicidio, senza però riuscirci. Il padre di Anna è molto contrariato dal comportamento del parroco che avrebbe notati segni del genere senza manifestare le sue preoccupazioni alla famiglia Esposito o alle amiche di Anna. Don Vignola in un incontro con Enzo Esposito ha suggerito al padre di Anna di scrivere alla Procura una lettera anonima sulla morte della figlia, e si propone pure per aiutarlo. La mamma di Anna ha nei giorni scorsi contattato Gildo Claps, il fratello di Elisa, raccontandogli le confidenze fatte dalla figlia qualche giorno prima di morire. Anna aveva detto alla mamma che in Questura qualcuno sapeva che fine avesse fatto Elisa Claps, chi l’aveva uccisa e dove si trovava il suo corpo.

Chi ha potuto vederla la descrive come una cintura di cuoio lunga poco meno di un metro. «Quasi nuova». O, comunque, che non «presentava i segni che un nodo, dopo dieci ore di tensione con un peso rilevante, avrebbe dovuto lasciare». Sulle cause del decesso, «asfissia da strozzamento», sembra che non ci siano dubbi. È la dinamica, così come ricostruita all’epoca dagli investigatori, che rende ancor più misteriosa la morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito, la poliziotta che forse aveva appreso dove era stato nascosto il corpo di Elisa Claps e che è morta nel 2001 in circostanze mai del tutto chiarite (l’inchiesta è stata archiviata un anno dopo). Il corpo, senza vita - stando alle ricostruzioni contenute nelle informative degli investigatori che per primi entrarono nell’alloggio del commissario - era seduto sul pavimento. La cinghia di cuoio, con la fibbia di metallo stretta alla gola della poliziotta, era attaccata, dall’altro capo, alla maniglia della porta del bagno. Sia il dottor Rocco Maglietta, sia il professor Luigi Strada, che hanno effettuato l’autopsia, definiscono l’impiccamento «atipico». Perché l’ansa di scorrimento era posta «anteriormente, sul lato destro». Un impiccamento tipico, messo in atto in modo certo dal suicida, «avrebbe portato - spiegano i medici - automaticamente l’ansa di scorrimento a disporsi nella parte posteriore del collo». Nonostante la trazione sia durata per più di dieci ore (i medici fanno risalire la morte alle 23 del 11 marzo 2001. La cintura è stata slacciata alle 9.30 del 12 marzo), e con un peso di circa 65 chilogrammi, chi ha visto la cintura ricorda che «non presentava i segni del nodo». Anche la lunghezza - poco meno di un metro - appare incompatibile con le modalità del suicidio.

«Lo sviluppo minimo del nodo (ovvero la parte della cintura impegnata dal nodo). - si legge negli atti dell’inchiesta, di cui la Gazzetta del Mezzogiorno è in possesso - doveva essere di circa 24 centimetri». La circonferenza intorno al collo «era di 41». La poliziotta si sarebbe uccisa, quindi, con meno di 30 centimetri di corda, da un’altezza - quella della maniglia - di 103 centimetri da terra. Se le cose sono davvero andate così i piedi del commissario toccavano il pavimento e, solo per pochi centimetri, non toccavano a terra anche i glutei. Ecco come i poliziotti intervenuti sul posto descrivono la posizione: «Le gambe - scrivono nella relazione di servizio - sono leggermente piegate all’altezza delle ginocchia verso sinistra, tanto che i piedi poggiano sul pavimento, rispettivamente quello destro con la parte interna del tallone, quello sinistro con la faccia esterna». La causa della morte «È dovuta a un’asfissia acuta e meccanica». Che poteva essere stata procurata solo ed esclusivamente dalla cintura? Scrive il dottor Maglietta: «Si è parlato di impiccamento incompleto in quanto il corpo non era totalmente sospeso, bensì in posizione semiseduto, con le natiche sospese». Nella casistica medico-legale, precisa il dottor Maglietta, «è chiaramente indicativa di una volontà suicida». Nonostante le mani libere e i piedi che toccano il pavimento? È un aspetto che le indagini dell’epoca non hanno chiarito completamente.

Il collega ha sentito dire che aveva tentato il suicidio; il sottoposto ha raccontato che gli aveva confidato «di aver fatto una cosa brutta di cui però si era pentita»; il sacerdote ha svelato di aver già visto sul collo della ragazza «i segni della fibbia della cintura». Testimonianze che hanno involontariamente portato gli investigatori verso un’unica conclusione: Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato che forse sapeva di Elisa Claps e che è morta in circostanze mai chiarite - si è suicidata.

Nonostante ci fossero dubbi e aspetti oscuri. Nonostante una consulenza dei medici che effettuarono l’autopsia descrisse il suicidio - Anna Esposito fu trovata impiccata con una cintura di cuoio attaccata alla maniglia di una porta - come «atipico», perché i piedi della donna toccavano il pavimento. E nonostante quanto dichiarò in Procura il dottor Rocco Maglieta, medico-legale, che definì la possibilità che la poliziotta avesse già tentato il suicidio «inverosimile». L’inchiesta è finita in archivio.

L’ispettore Mario Paradiso lavorava all’ufficio del personale. Il 12 marzo del 2001 entrò nell’alloggio del commissario Esposito. Dice agli investigatori: «Non mi spiego questo gesto, anche perché la Esposito era sempre gentile e disponibile. Solo successivamente sono venuto a conoscenza di problemi familiari, sentimentali ed economici e ho appreso dal cappellano della Questura che la Esposito gli aveva confessato di aver tentato il suicidio già in precedenza». Ma questo particolare l’ispettore quando lo apprende? Prima del suicidio? Oppure dopo il 12 marzo? L’ispettore Paradiso verbalizza quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del commissario. E nessuno gli pone questa domanda.

L’ispettore Antonio Cella lavorava nell’ufficio diretto dal commissario Esposito: la Digos. L’ispettore conferma agli investigatori che il suo dirigente gli riferiva «particolari della sua famiglia» e anche delle sue relazioni amorose. E il precedente tentativo di suicidio? Dice l’ispettore: «Non mi ha detto espressamente di aver tentato il suicidio, ma mi ha riferito di aver fatto una cosa brutta di cui però si era liberata».

Don Pierluigi Vignola all’epoca era il cappellano della Questura di Potenza. Riferisce al magistrato di aver saputo che il commissario Esposito aveva confidato anche ad altre persone quello che aveva detto a lui in confessione: la poliziotta aveva già tentato il suicidio. Ma con chi si era confidata Anna Esposito? Dice il sacerdote: «Erano delle giocatrici di pallavolo di Potenza». Che, però, non risultano tra i testimoni dell’inchiesta. Poi il sacerdote aggiunge: «Il mese prima avevo io stesso visto sul collo di Anna i segni della fibbia della cintura che indossava e che aveva utilizzato per il tentativo di suicidio. Non mi riferì però perché avesse scelto quelle modalità». E lui non glielo chiese?

Il dottor Maglietta, con argomenti scientifici, smentisce al magistrato la «teoria» del precedente tentativo di suicidio. Dice: «Secondo me è inverosimile. Avrebbe dovuto avere segni di ecchimosi per almeno cinque o sei giorni abbastanza evidenti, trattandosi di una cintura larga. Segni che qualcuno avrebbe dovuto notare». Qualcuno oltre al sacerdote.

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.

Olimpia e Filomena sono due donne toste. Anzi, sono due mamme toste. Nessuno le ha mai viste piangere. Il loro è infatti un dolore che ha superato il territorio di confine delle lacrime. Una frontiera dell'anima inesplorabile per chi non ha vissuto la stessa tragedia di Olimpia e Filomena: perdere un figlio in situazioni drammatiche. E misteriose. Un sentiero disperato lungo il quale queste due madri coraggio si sono incontrate spesso. Diventando amiche. Filomena è l'ormai «famosa» mamma di Elisa Claps; Olimpia è invece la «sconosciuta» madre di Luca Orioli. La storia di Elisa Claps la conoscono tutti. Quella di Luca pochi «addetti ai lavori». Il 23 marzo 1988 Luca Orioli e la sua fidanzata Marirosa Andreotta furono trovati morti in circostanze mai chiarite. Tra depistaggi e amnesie (che ricordano sinistramente il caso Claps) mamma Olimpia - da oltre 20 anni, quasi 30 - combatte in nome di una verità negata. Nei motori di ricerca del web questo ennesimo mistero lucano è archiviato come il «giallo dei fidanzati di Policoro».

I cadaveri di Luca e Marirosa erano nella vasca da bagno di casa. «Morti folgorati in acqua». Anzi, no, «morti per inalazione di ossido di carbonio». E se invece fosse stato un omicidio? La mamma di Luca ne è sempre stata convinta.

Ora, dalla risepoltura della salma di Luca Orioli nel cimitero di Policoro ad opera della Procura della Repubblica di Matera, la signora Olimpia chiede formalmente l'intervento dei Ris a mezzo di una lettera inviata al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli, per chiarire gli ulteriori punti oscuri emersi in questi ultimissimi giorni, compreso il terrificante sospetto che la salma alla quale è riferita l'autopsia condotta dal professor Introna non sia quella di Luca Orioli.

Il Giornale è venuto in possesso del testo della lettera. Che pubblichiamo integralmente:

«Esimio Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Gen. Leonardo Gallitelli, è con grande fiducia e speranza che rivolgo a Lei questo mio appello. Sono Olimpia Fuina, madre di Luca Orioli, morto nell'88 a Policoro, in situazione tuttora volutamente misteriosa. L'anno scorso sono state riesumate per la seconda volta le salme di Luca e Marirosa (cosiddetti Fidanzatini di Policoro). Oltre ai numerosissimi depistaggi e insabbiamenti che costellano il caso, ci sono perizie truccate, riconosciute reati e fatti prescrivere. Al tutto si aggiunge l'inquietante mistero della sparizione degli organi interni (visceri, fegato, polmoni, cuore, lingua, trachea, osso ioide) e dei vestiti che Luca indossava al momento della morte, conservati nel cimitero di Policoro e misteriosamente ricomparsi, non si sa quando, presso l'Istituto di Medicina Legale dell'Università La Sapienza di Roma, peraltro mai incaricato di procedere a perizia su tali reperti. Gli stessi, nel tentativo ultimo di prelevarli da Roma e consegnarli direttamente ai familiari, come se non si trattasse di preziosi elementi di indagine per una definizione certa di morte, sono risultati persino privi di un elenco. Agli atti non esiste nessun verbale che certifichi né la presa in consegna di tali reperti, né i relativi esiti. Dopo la permanenza di quasi un anno presso l'Istituto di Medicina Legale di Bari, e, con le indagini ancora in corso, la Procura di Matera decide di ritumulare frettolosamente le salme senza spiegare le ragioni di una tale scelta, noncurante della contro-perizia redatta da tre autorevoli Professori dell'Università di Siena che smontano radicalmente quella di Ufficio, argomentandola adeguatamente e documentandola con una ricca letteratura scientifico-medico-legale. Un mio timore è che in quella bara possa non esserci il corpo di mio figlio, ragione per cui non posso accettare l'invito pressante e minaccioso di prenderlo in consegna. Me lo fa pensare il fatto che dagli atti relativi all'ultima perizia di ufficio non risulta l'analisi del DNA con i confronti dei familiari che ne possano determinare l'assoluta certezza. Me lo fa pensare, inoltre, il fatto che il corpo radiografato presenta agglomerati, non meglio definiti, che sarebbero propri di un corpo di anziano. Luca aveva 20 anni. Chiedo e mi auguro, alla presenza di un'Italia intera, che con me chiede e aspetta giustizia, che Lei voglia coinvolgere gli esperti dell'Arma dei RIS, per far piena luce sui troppi punti oscuri mai affrontati seriamente, spesso banalizzati, ignorati o, alcuni, addirittura, mai presi in considerazione. Lei rappresenta la mia ultima fondata speranza. Confido nel Suo noto impegno a difesa del diritto di tutti e di ciascuno. Non è possibile accettare una perizia, dimostrata scientificamente falsa, inutile sotto il profilo tecnico, decisamente dannosa per la verità. Indubbiamente è una verità che scomoda molte poltrone. Non è possibile pensare che un PM, non volendo approfondire la parte scientifica, con la scusa di non averne la competenza, rifiuti totalmente il confronto e il riscontro oggettivo delle due perizie, così fortemente contrastanti, facendo serio riferimento alla letteratura scientifica di relativo supporto da cui invece far scaturire la dovuta competenza come io stessa, misera mortale, ho potuto maturare. Occorre solo intelligenza e volontà a farlo. E' ciò a cui io ho dovuto fare ricorso per combattere un sistema avverso alla difesa del diritto giusto. Non è possibile accettare a "scatola chiusa" una verità che avrebbe tutti i requisiti per essere considerata preconfezionata. Lo dice il fatto che la porta dichiarata grandemente aperta dalla madre della ragazza, venga poi considerata chiusa dall'ultima perizia. Lo dice inoltre il fatto che persino l'ipotesi fantasiosa della morte, avanzata dal Prof. Introna, è fallace anche sotto il profilo logico. Secondo quest'ultima ricostruzione, i due ragazzi sarebbero entrati nel bagno, avrebbero chiuso la porta per fare l'amore (un gesto superfluo poichè in casa non c'era nessuno), la ragazza si sarebbe sentita male e sarebbe caduta, Luca avrebbe cercato di aiutarla, cadendo anche lui, e, stranamente, questa volta la porta è socchiusa. Chi l'avrebbe socchiusa? Luca mentre moriva? E poteva Luca morire di monossido di carbonio con la porta semiaperta? Avrebbe potuto prima di morire, socchiudere la porta e distendersi in maniera composta millimetrando l'esiguo spazio disponibile? E' possibile che una caduta bassissima, dolce, come quella che si sarebbe verificata, a loro dire, a brevissima distanza dal rubinetto e dalla mensola, entrambi ritenuti probabili oggetti contundenti, possa aver procurato una ferita lacero-contusa di 14 cm, all'epoca? E come mai non c'è traccia di sangue? E come mai una caduta così lacerante non avrebbe fatto cadere i flaconcini sistemati sulla mensola accanto al rubinetto? Può un PM ignorare cose così gravi e giustificare quanto accaduto quella notte, e durante il corso di 24 anni, continuando ad addurre le irresponsabilità (tante) alla superficialità, alla non professionalità, all'età giovane degli inquirenti avvicendatisi nel gioco al massacro della verità? Qualora ciò fosse possibile, credo, come cittadina che paga le tasse, di poter pretendere che tali professionalità non possano continuare ad occupare quei posti. La cosa grave è che lo Stato possa continuare anch'Esso ad ignorare una vicenda così scabrosa, che calpesta il diritto del cittadino, annienta la dignità della persona oltre che del dolore, e offende pesantemente la sua stessa Costituzione. Lo Stato ha il dovere di assicurare piena efficienza ai suoi cittadini. Lo esigo. Lo pretendo. Gli italiani hanno diritto e bisogno di sapere "perché". .....Si difendono i poteri forti?.... Vorrei poterlo non pensare. Ma Qualcuno mi aiuti a farlo. E' l'Italia, quella che segue con attenzione e con forte coinvolgimento emotivo le vicende dei suoi connazionali, che vuole saperlo, con me. E' dovuto. La verità che, così convenientemente si vorrebbe difendere esclusivamente nelle aule di tribunali, se tale, non può temere la piazza né i mass media, che grande mano invece stanno dando alla ricerca della verità. La scienza non è un'opinione, ed io non posso accettare la chiusura del caso, ancora una volta, per approssimazioni gratuite e infondate non solo scientificamente ma anche oggettivamente secondo i fatti presenti agli atti. Solo chi teme il confronto e un probabile affronto alla propria professionalità, preferisce le aule di tribunale e rinuncia ad informare le folle che attendono da anni una tesi attendibile, sotto il profilo scientifico, e, condivisibile sotto il profilo logico. A chiusura del caso serve infatti una "tesi" scientifica che è ancora possibile cercare sui miseri resti (se sono quelli) sbranati finora dal potere onnipotente indiscriminato e inoppugnato dell'Istituzione preposta ad accertarne invece la verità. Confidando in un Suo intervento La saluto cordialmente».

È un giallo che dura da quasi un trentennio e che ora è diventato anche uno scontro fra periti. Fa ancora discutere il caso dei «fidanzatini di Policoro», Luca Orioli e Marirosa Andreotta, trovati morti nel marzo del 1998. Dopo due riesumazioni, dopo l'ultima autopsia che indica nel monossido di carbonio la morte dei due giovani, la madre di Luca Orioli, Olimpia Fuina, continua a non credere alle ragioni accidentali ed insiste nell'indicare agli inquirenti un'ipotesi di morte violenta. Una vicenda giudiziaria nata con un peccato originale: quando i corpi furono trovati l'autopsia non fu fatta. Da quel momento è stato tutto un susseguirsi di indagini ed accertamenti che non hanno mai placato la sete di verità della signora Fuina. L'esito dell'autopsia del professor Francesco Introna, della Medicina legale di Bari, è contrastato dalle contro-perizie di altri consulenti secondo i quali il monossido riscontrato non è in quantità letali. La mamma di Luca Orioli ha messo in atto azioni clamorose. Prima si è incatenata al cimitero di Policoro per evitare la ri-tumulazione dei resti del figlio. E adesso arriva a chiedere di verificare che quel corpo appartenga realmente al suo Luca. Non erano più ragazzini e probabilmente la loro relazione si era interrotta, ma sono diventati per tutti i ''fidanzatini di Policoro''. Luca Orioli e Marirosa Andreotta erano due ragazzi che si volevano bene, frequentavano la parrocchia e gli amici, andavano all'Università e guardavano alla vita con fiducia. Vennero trovati morti il 23 marzo 1988 in casa di Marirosa Andreotta, nudi: la ragazza giaceva nella vasca da bagno, il ragazzo era disteso per terra. A trovarli fu la madre della ragazza, la signora Giannotti, di ritorno a casa da un concerto a Matera. Il caso dei due ragazzi prende la piega che non avrebbe dovuto prendere. Si fa strada l'ipotesi del fatto accidentale. Nella stanza c'è una stufetta caldobagno. Si pensa ad un malfunzionamento dell'apparecchio da cui è partita una scarica elettrica. L'elettrocuzione - si pensò - ha dunque causato un arresto cardiocircolatorio. Il caso viene chiuso subito. Questa frettolosità indusse a non compiere l'autopsia. E' questo il punto che ha lasciato una serie di interrogativi. I mancati accertamenti post-mortem hanno infatti tolto dei punti fermi alla vicenda, facendo venir meno gli elementi di certezza sulle cause e alimentando i dubbi. Anche il governo nel 2000 lo ha confermato. Rispondendo ad un'interrogazione parlamentare del deputato Vincenzo Sica, l'allora Guardasigilli Piero Fassino dichiarava che ''la complessa vicenda ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati nel corso dell'esame esterno dei cadaveri''.

Così successivamente, quando l'esame della stufetta non ha dato particolari riscontri, si è fatta strada l'ipotesi di un avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una caldaia. Si pensò anche ad uno scherzo finito in tragedia.

L'autopsia viene fatta a distanza di anni, con la prima riesumazione. Sui cadaveri dei due giovani ci sono dei segni che invece avrebbero dovuto far propendere per l'annegamento, anche segni di fratture. Inoltre Luca Orioli ha un testicolo lesionato. Ma anche in questo caso qualcosa non va: non funziona la tac per esami radiologici. I dubbi rimangono.

I primi sospettati escono dall'indagine e vengono prosciolti tutti coloro (medici, periti, magistrati) che sono stati indagati per negligenze o per errori nell'attività di indagine o di consulenza. E ci sono poi gli altri elementi del giallo.

Una lettera di Marirosa Andreotta alimenta altri scenari. Si parla di un segreto («una piccola parte di me che voglio cancellare per sempre») che tale resterà. Poi le foto: alcune fanno pensare ad una manomissione del luogo del ritrovamento che in effetti è stato alterato. Ma troppo tempo è trascorso.

Un'inchiesta nata male, già archiviata, poi riaperta e di nuovo destinata all'archiviazione. Così aveva deciso la Procura, che si stava orientando sull'ipotesi del soffocamento, ma su richiesta di Olimpia Fuina, che si è opposta, l'indagine non è stata chiusa ed anzi il giudice ha coattivamente stabilito di riesumare i corpi. Fatto avvenuto il 17 dicembre scorso. Poi l'autopsia. Ma la battaglia legale continua. «Non mi sento sola - afferma Olimpia Fuina - sento aumentare l'affetto delle persone. Io continuo questa battaglia perchè le contro-perizie hanno stabilito che la quantità di monossido riscontrata nell'autopsia è assolutamente non letale. Lo dicono i periti e la letteratura scientifica. Per questo mi sono opposta alla ri-tumulazione perchè voglio altri accertamenti. Ho chiesto al comandante dei carabinieri, Gallitelli, l'intervento dei Ris».

Per la madre di Luca i misteri intorno a questa vicenda non si dipanano, tutt'altro. A cominciare dall'inquietante denuncia della mancanza degli organi interni del ragazzo, tra cui l'osso ioide, forse scomparsi nella precedente riesumazione ma anche su questo non c'è certezza. E tutto questo non aiuta la ricerca della verità, anzi alimenta i sospetti. Olimpia Fuina nella lettera a Gallitelli avanza un'ipotesi ancora più inquietante. «Quel corpo - dice - potrebbe non essere quello di Luca perchè non è documentato negli atti l'esame del dna. Sembra essere quello di un anziano».

Per tenacia la signora Fuina somiglia molto ad un'altra mamma coraggio della Basilicata, Filomena Claps, che attende da 20 anni di conoscere tutta la verità sull'omicidio della figlia Elisa e non solo la condanna del responsabile, Danilo Restivo, condannato a Salerno a 30 anni. Ma, se nel caso Claps l'autopsia di Introna è stata «vangelo», nel caso-Policoro invece viene messa in dubbio. Sulle inquietanti ipotesi avanzate, il professor Introna, contattato, ha detto: «Non rispondo, perchè su questi fatti il confronto può avvenire solo nelle aule di giustizia, altrimenti si creano confusione e illazioni». «Abbiamo fatto l'autopsia sulla salma di Luca e restituito la salma di Luca. È tutto documentato. Ci sono i filmati dei carabinieri». Sono parole del prof. Franco Introna, direttore dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Bari e perito della Procura di Matera nell'indagine sulla morte dei “fidanzatini di Policoro”. Due morti, quelle di Luca Orioli e di Marirosa Andreotta, al centro, dal 23 marzo 1988, di perizie contrapposte. Da qui l'ennesima inchiesta e le risultanze del docente barese. Risultanze oggetto di critiche cui Introna non aveva risposto. La “goccia” è stata la lettera di Olimpia Fuina, madre di Luca, inviata al comandante generale dell'Arma dei carabinieri: temo che nella bara tumulata nei giorni scorsi a Policoro possa non esserci il corpo di mio figlio, ha scritto la donna che da 23 anni insegue la verità sulla morte del suo Luca.

«Quando la salma è stata stumulata c'erano i carabinieri, i consulenti di parte - risponde ora alla Gazzetta il prof. Introna - nella bara c'era il corpo di un ragazzo che aveva già subito una riesumazione. Abbiamo fatto le indagini e conservato la salma. Attese le controdeduzioni, abbiamo risposto per cui il pm ci ha chiesto di riconsegnare i corpi. I carabinieri hanno filmato tutto».

In questa vicenda, però, le cose inverosimili sono state tante. Ad esempio, i vestiti, i visceri, l'osso ioide fratturato, non sono stati trovati alla seconda riesumazione. Un mistero.
«Nessun mistero. Il prof. Giancarlo Umani Ronchi ha scritto che l'osso ioide era sano prima della prima riesumazione e che lo ha rotto lui nel corso delle operazioni. I vestiti, poi, sono stati ritrovati».

La famiglia Orioli chiede di analizzarli per verificare tracce di dna. «Sono inservibili. Sono stati conservati malissimo. Troveremmo miriadi di dna. Ma non vi ho trovato lesioni da arma da taglio o da fuoco».

La sua perizia, che riconduce le due morti al monossido di carbonio (CO), è stata contestata dai nuovi periti di Olimpia Fuina. «Non so se chi ha fatto quelle critiche ha interesse a farlo. Se fossero persone preparate saprebbero che il monossido di carbonio si attacca al sangue nell’80 per cento e nel 20 per cento alle globine muscolari. Abbiamo cercato il monossido nei muscoli. E l'abbiamo trovato. Poi, nella putrefazione si forma tutto tranne il monossido. E la tecnica da noi usata è l'unica che libera il monossido distruggendo le mioglobine. Sono stupefatto dalla critiche».

Ma la porta del bagno era aperta. Come poteva concentrarsi il monossido? «La porta del bagno aperta è in una seconda testimonianza. In una prima è chiusa. I due ragazzi portano una stufetta elettrica nel bagno poiché i riscaldamenti sono chiusi. Si spogliano nudi. Perchè devono tenere la porta aperta? Poi aprono l’acqua calda. E quello scaldacqua non era a norma. Fanno scorrere l’acqua calda e si sviluppa vapore, ma anche verosimilmente monossido di carbonio».

Quella caldaia ha funzionato per altri 2-3 anni senza intossicare nessuno. «Io non faccio l’ingegnere. Può essere che tirando l’acqua calda al massimo sia andata in sovrafunzione».

E la concentrazione di CO differente in Luca e Marirosa? «Lei è morta annegata dopo aver battuto la testa. Lui ha cercato di tirarla fuori, ma non ce l’ha fatta ed è morto per avvelenamento».

Perché non fare i nuovi esami a Foggia come chiesto da Olimpia? «Non sono necessari. I dati sono chiari».

Prof. Introna, come finirà? «Non ne ho la più pallida idea. Ma non creiamo castelli in aria. Tranquillizziamo la povera madre che ha tutta la nostra comprensione, ma diciamole la verità».

I dubbi di Olimpia Fuina-Orioli e la perizia dell'anatomopatologo, Francesco Introna. Su questi due elementi si è intrecciata la disputa più recente sulla morte dei Fidanzatini di Policoro, Luca Orioli (figlio di Olimpia) e Marirosa Andreotta, trovati morti a Policoro il 23 marzo del 1988 nel bagno della casa della ragazza. La mamma di Luca, con un nuovo pool di periti, ha avanzato sospetti sulla perizia di Introna, la donna, tra gli altri aspetti, ha messo in discussione che la salma analizzata fosse quella del figlio (ipotesi respinta da Introna che ha fatto riferimento all'esistenza dei filmati dei Carabinieri che hanno documentato tutto). Nella sua perizia, l'anatomopatologo ha ricostruito i fatti, fatte le puntualizzazioni del caso, evidenziato alcune riserve e cautele, spiegate le modalità con cui è stato ricercato il monossido di carbonio, il gas killer che avrebbe ucciso Luca e indotto in Marirosa un malessere tale da determinare la caduta della ragazza, durante la quale si sarebbe verificato l'urto nucale contro la manopola del rubinetto, e l'annegamento terminale avvenuto nella vasca. Luca, stando alla perizia, avrebbe tentato di soccorrere la fidanzata, ma era astenico, anche lui aveva inalato il gas killer. Ha provato a prendere Marirosa da una gamba ma è sopravvenuto il coma: si accascia a terra fino alla morte.

LA RICOSTRUZIONE

- La madre di Marirosa quando entrò in casa trovò il riscaldamento centralizzato in funzione. Circostanza che “meravigliò” la signora: Marirosa, in casa, avrebbe dovuto spegnerlo. Nel corridoio vide il riflesso della luce proveniente dal bagno, sentì distintamente il rumore del caldobagno in funzione e, aperta la porta, notò il corpo della figlia all'interno della vasca con la testa sommersa. Istintivamente azionò la manopola per il deflusso dell'acqua dalla vasca. (Rapporto 142/2 CC Policoro, deposizione acquisita alle ore 00,30 del 24.3.1988). In altri documenti processuali (missiva del 19.5.1995 inviata al P.M.) la porta del bagno parrebbe essere stata descritta come socchiusa.

- La temperatura ambientale in casa era elevata al momento dell'arrivo di Luca Orioli e Marirosa Andreotta perché l'impianto autonomo di riscaldamento, posto in “manuale”, era in funzione.

- L'impianto autonomo di riscaldamento presentava caldaia e bruciatore in un vano tecnico esterno alla casa (Perizia Strada).

- La temperatura nel bagno al momento del rinvenimento delle salme era elevata (stimata sui 30°C perizia Lattarulo Sansotta + perizia Giordano). Al momento del rinvenimento delle salme, nel bagno vi era un termosifone in attività (connesso con l'impianto centralizzato della casa cfr perizia Lattarulo Sansotta) ed un termoventilatore elettrico (caldobagno) in funzione con l'interruttore del termostato inserito sul “Manual” a 1000 Watt e regolazione della temperatura fissata sul valore massimo possibile (valore 6) (CFR verbale dei CC, perizia Strada).

- L'impianto elettrico era funzionante e non vi era stato alcun cortocircuito.

- Le indagini successive evidenziarono una perfetta funzionalità sia dell'impianto elettrico che del Caldobagno che non mostrò alcuna potenzialità di dispersione elettrica, neanche in seguito a test esasperati. (Cfr Perizia Valecce, ctp Pugliese)

- Anche gli accertamenti sull'impianto elettrico parrebbero aver la normalità dello stesso.

- La caldaia per il solo riscaldamento dell'acqua era posizionata nel bagno, al di sopra della vasca e presentava oggettivi segni di affumicatura (documentati iconograficamente) in corrispondenza della ispezione della fiammella pilota (cfr documentazione iconografica perizia Strada, consulenza UACV 2009).

- L'impianto per il riscaldamento dell'acqua non era a norma per l'assenza nel vano ove era locata la caldaia (bagno), di alcun sistema di ventilazione esterna (cfr Consulenza Strada-Mastrantonio)

- Nessuna perizia tecnica fu mai disposta sullo stato e sul funzionamento della caldaia a gas presente nel bagno per il riscaldamento dell'acqua nell'immediatezza degli avvenimenti ovvero prima che la stessa fosse spostata.

- La giacca di Luca Orioli era appesa ad una sedia in cucina

- Non è chiaro chi posizionò i jeans di Luca sul bacino per occultare i genitali, né ci è dato sapere dove fossero locati i Jeans prima di essere posti sui genitali dell'Orioli.

- Dalla documentazione iconografica parrebbe che almeno la scarpa destra ed uno o due calzini dell'Orioli fossero nel bagno.

- Non ci è dato sapere dove fossero i vestiti di Marirosa indossati all'arrivo a casa.

- Il pigiama celeste a tuta, uno slip bianco, un paia di collant, la maglietta intima di Marirosa, le ciabatte, l'orologio, il reggiseno ed un bracciale erano variamente disposti in sostanziale ordine, nell'interno del bagno.

- Al pari del bagno oltre alla scarpa destra e a un calzino era presente la camicia e la maglietta intima dell'Orioli.

Sulla base di questi dati circostanziali e alla “luce dei seguenti paletti di riferimento medico legale: “il fungo mucoso per la salme rinvenute può essere considerato un segno fortemente indicativo per un annegamento […] Nella intossicazione da monossido di carbonio il fungo schiumoso è di raro riscontro e ove presente è connesso con l'edema polmonare dovuto, in parte, anche all'azione tossica del CO sugli alveoli polmonari; nell'intossicazione mortale da CO, il lasso di tempo intercorrente fra l'esposizione al gas e la perdita di conoscenza dipende dalla concentrazione di CO nell'aria inalata […] Dalla perizia Fedele-Mastrantonio si evince che in presenza di una caldaia a gas contraddistinta da un malfunzionamento ipotizzato lieve, sarebbero stati sufficienti 50 minuti di esposizione continuativa per indurre una sintomatologia significativa nei due giovani in assenza di particolare attività fisica. La concentrazione ambientale di CO, direttamente proporzionale ai di tempi di funzionamento de all'entità del malfunzionamento della caldaia, il tempo di esposizione e l'attività fisica espletata, rappresentano le tre principali variabili dipendenti interconnesse ne determinismo degli eventi […]. Tutto ciò supponendo comunque che la porta del bagno era chiusa o socchiusa.

Da queste premesse, Introna ha scritto che: "Luca e Marirosa si recano insieme in casa Andreatta e decidono di fare la doccia insieme. La casa è già calda, ma Marirosa non spegne il riscaldamento verosimilmente per creare una condizione confortevole anche dopo il bagno. Luca inizia a spogliarsi in cucina e sposta il caldobagno nel bagno dove lo accende a mezza potenza in posizione manual. Verosimilmente viene aperto il rubinetto dell'acqua calda e chiusa la porta sì da favorire nell'interno del bagno un piacevole ambiente caldo-umido. Marirosa verosimilmente si spoglia in camera sua ed entra nel bagno con il pigiama a mò di tuta. Entrambi i ragazzi chiudono o socchiudono la porta e iniziano a spogliarsi mentre la vasca si sta riempendo. Marirosa entra nella vasca con acqua calda e mentre sta in piedi, apre il doccino ed inizia a docciarsi. La caldaia continua ad essere in attività. Luca non entra nella vasca e dopo essersi spogliato aiuta Marirosa. Non è dato sapere né quanto tempo i due ragazzi trascorrono nel bagno con la caldaia in attività, né cosa fanno nel frattempo certo è che abbondanti schizzi d'acqua finiscono sul pavimento del bagno. La vasca continua a riempirsi. Non ci è dato sapere quando la caldaia smette di funzionare per la chiusura del rubinetto dell'acqua calda. Del tutto attendibilmente ad un certo punto Marirosa inizia a sentirsi male, verosimilmente con la doccia ancora in funzione, perde conoscenza e cade nella vasca, verosimilmente offrendo le spalle al muro su cui è locata la caldaia. In fase di caduta impatta il capo contro la manopola del rubinetto procurandosi la ferita lacera a livello occipitale. Luca cerca di aiutarla, chiude il rubinetto dell'acqua, cerca di estrarla dalla vasca tirandola per la gamba destra, altra acqua cade sul pavimento ma Luca è astenico, fiacco a causa del CO inalato e si accascia al suolo ove, in coma continua ad inalare CO fino alla morte, mentre Marirosa muore annegata nella vasca da bagno. La porta, verosimilmente socchiusa consente quindi di disperdere la concentrazione ambientale di CO negli ambienti circostanti".

LA RICERCA DEL GAS KILLER. Le salme di Luca e Marirosa presentavano strutture muscolari ancora riconoscibili sebbene mummificate. (Deciso viraggio peggiorativo con evoluzione verso la prescheletrizzazione e mummificazione dei tessuti molli residui). Per questo motivo il sistema di indagine scelto da Introna è stato quello di cercare il CO legato alla mioglobina mediante metodi di microdiffusione e fissazione. La tecnica è diversa da quella scelta da Umani Ronchi e De Zorzi nel 1996 quando fu eseguita la prima autopsia. Anche gli esiti sono diversi. Si legge nella perizia: “Alla luce della negatività delle indagini condotte dal prof Umani Ronchi e dei campioni biologici disponibili si è effettuata un'indagine mediante ricerca elettiva del CO inglobato nei tessuti muscolari profondi mediante reazione chimica con cloruro di palladio in soluzione acida. L'indagine così condotta, su ileopsoas e sul muscolo femorale, ha costantemente evidenziato nella salma di Luca Orioli la presenza di di CO in misura media di 0,702 per cento grammi di tessuto muscolare testato”. Valori più modesti sono stati ritrovati nel corpo di Marirosa: 0.06 g%. Quanto basta per “supporre concretamente che anche Andreotta Marirosa inalò monossido di carbonio prima di morire”.

Toghe lucane: Il racconto di un boss a de Magistris e il giallo sulla morte dei «fidanzatini». Da “Il Corriere della Sera”: «Policoro, il pm incontrò l' indagato».

L' inchiesta Toghe lucane, quella che non si è riusciti a togliere al pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, è come una palla di gomma. Più si cerca di spingerla sott' acqua, più l'acqua la respinge verso l'alto con la stessa forza. L' ultima clamorosa rivelazione, che riporta in primo piano il caso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta (i «fidanzatini di Policoro» uccisi il 23 marzo 1988), è il racconto di Salvatore Scarcia, tra i più noti capiclan della mafia del Metapontino. Scarcia è stato interrogato da De Magistris nel carcere di Melfi, in cui sta scontando una condanna per associazione mafiosa. Ma non è un «pentito», quindi ciò che ha detto - e che secondo il pm ha trovato già parecchi riscontri - non gli procurerà alcuno sconto di pena. Scarcia, in rapporti molto confidenziali con il patron di Marinagri, Vincenzo Vitale (indagato a Catanzaro come tutti gli altri protagonisti del racconto di Scarcia), ha detto tante cose inquietanti. Tra queste, ha parlato dettagliatamente, descrivendo persino tipo e colore delle auto, e fotografando tutto e tutti, di un «summit» tenuto nell'estate del 2000 nell'azienda di piscicoltura Ittica Valdagri, nella foce del fiume Agri, dove poi sarebbe sorto il villaggio vacanze Marinagri, assegnatario di un contributo di 26 milioni di euro di fondi europei. Racconta Scarcia: «Era una domenica mattina. Avevo saputo che ci sarebbe stata una riunione importante. E intorno alle 10 circa mi appostai nei pressi dell'Ittica Valdagri... Vidi arrivare una Fiat Croma bianca con quattro persone a bordo: l'autista, il pm di Potenza, Felicia Genovese, suo marito Michele Cannizzaro e il colonnello dei carabinieri Pietro Gentili. Poi, con una Mercedes scura, arrivarono il pm di Matera, Vincenzo Autera, e il dottor Giuseppe Galante (capo della procura di Potenza) e una terza persona che non ho riconosciuto. Da un'altra Mercedes, di colore chiaro, scesero l'imprenditore Gino Lavieri e Walter Mazziotta, banchiere (in realtà, bancario) di Policoro. Infine, arrivarono altre due auto, una Golf bianca e una Thema Ferrari amaranto, ciascuna con due persone a bordo. Tutti entrarono nell'ufficio di Vitale». A questo punto, Scarcia esce allo scoperto e bussa alla porta dell'ufficio. Va ad aprirgli Vitale. «Gli chiesi di farmi entrare - racconta - e lui diventò pallido. Gli dissi che già sapevo chi c'era dentro, lo forzai ed entrai. Così mi feci vedere da tutti. Intuii che stavano progettando qualcosa di grosso a livello economico. Autera è socio di Marinagri attraverso un prestanome ed era tra quelli che aveva partecipato ai festini a luci rosse che si facevano da quelle parti. Lui, Galante e Genovese cercarono di calmarmi e mi dissero che mi avrebbero aiutato economicamente, se io in zona non mettevo bombe e non facevo attentati. Poi con discorsi un po' strani mi dissero se potevo far qualcosa a Mario Altieri (ex sindaco di Scanzano Jonico), perché dove ci trovavamo doveva venire un "paradiso terrestre", così mi dissero, e invece per colpa di Mario Altieri il tutto era stato bloccato». Scarcia a questo punto non ci sta, arretra, teme di poter essere prima usato e poi incastrato. E così viene anche minacciato. «Guarda che ti facciamo arrestare quando vogliamo, mi dicono». Scarcia abbozza e se ne va. Ma lì, quella domenica mattina, aveva visto, seduti intorno allo stesso tavolo, Vincenzo Autera, il pm che senza aver nemmeno disposto l'autopsia dei cadaveri dei fidanzatini chiese l'archiviazione del caso, e Walter Mazziotta, che nel 1994 finisce indagato proprio per l'omicidio di Luca e Marirosa. Negli anni successivi, Autera, imputato di aver affermato il falso sulla morte dei fidanzatini, verrà prosciolto a Salerno. Mentre il vicepretore Ferdinando Izzo, delegato di Autera, e accusato come lui, verrà assolto a Matera: grazie alla bravura di Nicola Buccico, ex sindaco di Matera ed ex membro laico del Csm, che dopo essere stato il legale della famiglia di Luca Orioli diventa il difensore del vicepretore Izzo. L' inchiesta «Toghe lucane», condotta dal pm Luigi de Magistris, ipotizza un «comitato d'affari» composto da magistrati, politici e imprenditori Le accuse L'ipotesi è il condizionamento di investimenti e nomine pubbliche. Coinvolti anche cinque magistrati.

ESCLUSIVO - IL CASO ELISA CLAPS IN TOGHE LUCANE di Rita Pennarola [29/03/2010] su La  Voce delle Voci La Voce lo scriveva già a settembre 2008.

“Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps riapre una fra le pagine più incandescenti ed inedite dell'inchiesta Toghe Lucane, condotta dall'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. A settembre 2008 la Voce aveva dedicato in esclusiva un articolo di copertina alle minuziose ricostruzioni della Procura di Salerno, cui si erano rivolti De Magistris ed i magistrati oggetto delle sue indagini.

Ripubblichiamo i brani da cui emerge il collegamento fra Toghe Lucane e la scomparsa della ragazza. Con l'ombra della massoneria.

* * * * *

Una pagina inquietante si apre, nell'inchiesta Toghe Lucane, sulla misteriosa scomparsa della giovane Elisa Claps, avvenuta a Potenza il 12 settembre 1993. Il caso torna infatti alla luce su iniziativa dei pm Luigi Apicella e Gabriella Nuzzi che, per riscontrare ulteriormente la correttezza delle attività investigative condotte da Luigi De Magistris, assumono importanti riscontri in merito alle indagini condotte da quest'ultimo a carico di Felicia Genovese e del marito Michele Cannizzaro, iscritto alla Massoneria, coinvolti - secondo quanto emerge dall'inchiesta Toghe Lucane - nel caso Elisa Claps. Seguiamo la ricostruzione dei pubblici ministeri salernitani. Nel 1999 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello rivela come un fiume in piena particolari sulla scomparsa della ragazza, verbalizzando dinanzi al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello (il quale dichiarava di aver appreso le notizie sul caso Elisa Claps da un mercante d'arte di Potenza, Luigi Memoli), a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. Il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile in costruzione a quell'epoca. Sempre stando alla versione fornita dal pentito, Maurizio Restivo, padre di Danilo, «implicato nell'indagine e poi condannato per false informazioni al pubblico ministero, aveva, per il tramite del Memoli, contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinchè intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps». In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno, competente ad indagare sulle presunte omissioni o violazioni della Genovese. Veniva accertato che quel 12 settembre 1993 Danilo Restivo era stato effettivamente in compagnia della giovane poco prima della scomparsa. Cosa fece il pm Genovese, che era all'epoca titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Elisa? «Le articolate indagini esperite dalla Procura di Salerno consentivano di ricondurre la scomparsa della giovane Elisa Claps ad una morte violenta, ma non anche ad individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso. Invero, si acclarava che il giorno 12 settembre 1993, Restivo Danilo, effettivamente, era stato in compagnia della giovane poco prima della scomparsa; che quel giorno stesso era stato medicato presso il locale nosocomio per alcune lesioni, prodotte, a suo dire, per un'accidentale caduta, ma, verosimilmente, frutto di una colluttazione. L'esame dell'attività investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese, evidenziava, tuttavia, che nella immediatezza della notizia della scomparsa, alcuna perquisizione era stata disposta né sulla persona del Restivo Danilo, né presso l'abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilità». Il 27 gennaio 2000 depone dinanzi al pm di Salerno l'avvocato Giuseppe Cristiani, legale della famiglia Claps, il quale fra l'altro fornisce elementi circa la comune appartenenza alla massoneria di Cannizzaro e di Maurizio Restivo, padre di Danilo. Le indagini avviate all'epoca dalla Procura salernitana su questa vicenda non consentirono di «individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso» ed anche l'operato della Genovese venne considerato corretto. Strettamente collegato alla scomparsa di Elisa Claps era però quanto il pentito Cappiello verbalizzò in seguito sul duplice omicidio di stampo mafioso dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, avvenuto a Potenza il 29 aprile ‘97. Cappiello sosteneva di avere appreso quelle notizie da Saverio Riviezzi, un pregiudicato di Potenza che era stato contattato da alcuni calabresi, fra cui un certo Aldo Tripodi, uno degli esecutori dell'omicidio, per quella duplice esecuzione. Secondo il racconto del collaboratore di giustizia ai pm della Direzione Antimafia, «mandante dell'omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero era - seguiamo ancora la ricostruzione di Cappiello, così come riportata dal documento di Apicella e Nuzzi - Cannizzaro Michele, marito del sostituto procuratore dottoressa Genovese, che aveva inizialmente curato le indagini relative al duplice omicidio in questione». Quanto al movente, «il Cappiello lo riconduceva ai rapporti che il Gianfredi aveva avuto con il Cannizzaro Michele aventi natura finanziaria, assumendo che tale ultimo era un grosso giocatore d'azzardo, rapporti bilanciati da favori giudiziari di cui il Gianfredi godeva per il tramite della moglie del Cannizzaro». Comincia dunque una lunga serie di indagini che la Procura di Salerno avvia per riscontrare le dichiarazioni di Cappiello. «Gli esiti - spiegano oggi nell'ordinanza Apicella e Nuzzi - non consentivano di ritenere acquisite fonti di prova idonee a ricondurre agli indagati i gravi fatti delittuosi iscritti a loro carico. Emergevano, tuttavia, dalle investigazioni svolte alcune significative circostanze atte a delineare il particolare contesto ambientale di consumazione dei fatti delittuosi, la condotta tenuta dalla dottoressa Genovese nelle prime investigazioni, la personalità del marito dottor Cannizzaro, le frequentazioni ed i suoi legami con ambienti criminosi - in particolare, con Gianfredi Giuseppe, vittima del duplice omicidio - i contatti con esponenti della criminalità organizzata calabrese, i suoi interessi economici che, allora, come oggi, non potevano, comunque, non apparire “inquietanti” in relazione alla natura dell'attività svolta dalla moglie dottoressa Genovese, designata all'incarico di sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, nell'ambito, cioè, del medesimo luogo di consumazione degli accadimenti delittuosi». Dopo lunghe indagini, il pentito Cappiello sarà considerato dall'autorità giudiziaria di Salerno “inattendibile”. Eppure, ad offrire uno scenario sorprendentemente simile delle due vicende (Claps e Gianfredi), era arrivata la testimonianza di un prete-coraggio della diocesi di Potenza: don Marcello Cozzi. La giovane, quel fatale giorno del 1993, aveva battuto mortalmente la testa per sottrarsi ad un tentativo di violenza messo in atto da Danilo Restivo, il cui padre, per coprire le responsabilità del ragazzo, avrebbe contattato il dottor Cannizzaro; questi a sua volta si sarebbe rivolto a Giuseppe Gianfredi, che avrebbe fatto sparire il cadavere con l'aiuto dei fratelli Notargiacomo, titolari di un'officina meccanica, che avevano pertanto la disponibilità di acido in grado di dissolvere il cadavere. Anche stavolta le indagini furono archiviate. Si segnala intanto ancora un particolare: da alcuni accertamenti della Guardia di Finanza di Catanzaro era emerso che Luigi Grimaldi, dirigente della Squadra Mobile di Potenza all'epoca delle indagini sulla scomparsa di Elisa Claps, dopo aver ricoperto l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Università di Salerno, svolgeva l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, dove Michele Cannizzaro era direttore generale. Per concludere questa vicenda va segnalato che, sentito come teste a ottobre 2007 nel corso delle indagini sull'operato di De Magistris, ai colleghi Nuzzi ed Apicella il pubblico ministero di Potenza John Woodcock ha raccontato d'aver chiesto a marzo 2007 di astenersi in un procedimento a carico, fra gli altri, di Michele Cannizzaro in ragione del contenuto di una intercettazione telefonica fra la moglie di Cannizzaro Felicia Genovese ed il procuratore generale Vincenzo Tufano, «nella quale venivano usate espressioni particolarmente volgari sulla giornalista (Federica Sciarelli, che più volte nel corso della trasmissione “Chi l'ha visto” si è occupata del caso Elisa Claps, ndr) e sul suo rapporto di amicizia con il magistrato (Woodcock, ndr)». Quest'ultimo riferiva inoltre «di altri emblematici tentativi di indebita strumentalizzazione del suo rapporto personale con la giornalista Federica Sciarelli, riconducibili al medesimo gruppo di soggetti indagati dal pubblico ministero De Magistris nel procedimento Toghe Lucane». IL CSM “AMICO”. Il 4 marzo 2008 De Magistris chiede alla Procura salernitana che indaga sul suo conto (e che poi lo proscioglierà, aggiungendo ipotesi di gravi addebiti a carico dei suoi principali denuncianti), di rendere testimonianza spontanea. Dalla lunga verbalizzazione emerge, fra l'altro, l'allucinante spaccato sul ruolo del Csm così come si evince direttamente dalla lettura dell'intercettazione telefonica intercorsa il 28 febbraio 2007 tra Felicia Genovese ed un altro noto esponente di Magistratura Indipendente, Antonio Patrono, presidente della prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, deputata a verificare l'apertura di una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale di De Magistris. La conversazione avviene il giorno successivo all'esecuzione delle perquisizioni nell'ambito del procedimento Toghe Lucane. Nel commentare con Patrono le sue vicende giudiziarie, Genovese sollecita l'interessamento di altri componenti del Csm tra cui Giulio Romano, della sua stessa corrente, e Cosimo Ferri. «Tra i nominativi richiamati nella conversazione - tengono a sottolineare Apicella e Nuzzi - vi è quello del dottor Giulio Romano, componente della Sezione Disciplinare del Csm e relatore della sentenza emessa nei confronti del dottor De Magistris»."

Toghe Lucane, ma anche Calabresi, ma anche Salernitane, ma anche... Insomma toghe italiane. Qualcuno si meraviglia che il sostituto procuratore a Crotone applicato a Catanzaro per prendersi cura del procedimento penale “Toghe Lucane”, abbia chiesto l'archiviazione per la maggior parte degli indagati. Oggi, non quando fu chiamato ad assumere l'incarico, possiamo finalmente dirlo: sapevamo che sarebbe finita così; e non ci voleva la scienza infusa per arrivarci. Dopo che un paio di ministri (della cosiddetta Giustizia), un paio di Procuratori Generali presso la Suprema Corte di Cassazione, il Presidente della Repubblica, il vice-Presidente del CSM, ed una pletora di magistrati, avvocati, parlamentari, indagati, associati per delinquere ed anche per altro, avevano fatto carte false per trasferire Luigi de Magistris ad altra sede proprio quando stava per definire i rinvii a giudizio di “Toghe Lucane”, beh, era così difficile immaginare che il suo sostituto sarebbe stato scelto con cura affinché risolvesse il problema? A dirlo un anno fa ci avrebbero subissato di querele, oggi è un'evidente ovvietà. Un cittadino si è recato di buonora dal PM. Da Matera a Catanzaro (300Km) ci vogliono oltre quattr'ore, superando i limiti di velocità ogni volta che la strada lo permette. Il cancelliere preposto agli atti ha subito messo le mani avanti: “il fascicolo non è ancora pronto. Torni appena dopo il ricevimento dell'avviso”. Ma un avviso, con tanto di ampi stralci virgolettati era su tanti giornali. E così insistendo e sollecitando il Procuratore Capo (Dr. Lombardo) in qualche modo l'atto di archiviazione salta fuori. Ecco svelato l'arcano. Il PM ha spezzettato l'inchiesta in tanti piccoli e piccolissimi stralci, ciascuno con un pezzo delle 200 mila pagine originarie e delle decine di capi d'imputazione. Ed il pezzo che possiamo guardare, piccolo piccolo, è sufficiente per capire tutto il resto anche senza vederlo. Mancano le prove certe del reato, dice il PM, si chiede l'archiviazione. Per forza, signor PM, le prove che nel caso specifico sono le conversazioni fra un indagato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e una sospettata di far parte della medesima associazione) si trovano (forse) in qualche altro pezzettino o stralcio che dir si voglia. Ammesso che, in cotanto spezzatino, non siano andate “smarrite”. Forse sarà sfortunato il PM oppure è semplicemente disattento. Dovrebbe aver letto, fra gli atti recenti, che alcune delle parti offese avevano potuto accedere a tutto il fascicolo (quando era ancora un blocco granitico) e quindi saranno in grado di produrre le “prove” mancanti in sede di opposizione alla richiesta archiviazione. Certo è che una associazione per delinquere, quale era quella fra magistrati, politici ed imprenditori ipotizzata in “Toghe Lucane”, può continuare tranquillamente a delinquere proprio perché tanti magistrati di Matera, Potenza, Catanzaro e, perché no, Salerno, continuano ad ignorare persino le denunce formalmente presentate e documentate. Ma anche...

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

Quando la legge non è uguale per tutti.

Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto: nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia da parte dei denuncianti !!!!

Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.

L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia.

Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.

L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari verso alcuni organi di stampa".

IL LEGALE DEL MAGISTRATO: DENUNCIA INFONDATA.

L'avvocato Gorini riferisce che il Gip di Potenza, su richiesta del pm e nonostante l’opposizione della difesa del ministro, “ha ritenuto quest’ultimo non legittimato a proporre opposizione non essendo persona offesa dal reato e, nel merito, ha escluso la sussistenza del reato di violazione del segreto di ufficio, in quanto quasi tutte le notizie oggetto di pubblicazione non erano coperte da alcun segreto e, limitatamente ad un’unica notizia illecitamente divulgata, ha escluso ogni e qualsiasi coinvolgimento di Dinapoli e degli altri pm denunziati rigettando le richieste di ulteriori indagini sollecitate dal denunciante”. L'avvocato Gorini riferisce, inoltre,che Fitto “aveva presentato molteplici esposti diretti a varie autorità, nei confronti dei magistrati in servizio presso la Procura di Bari, tra cui il dott. Dinapoli, che lo avevano inquisito”. “Nel marzo 2009 aveva anche ottenuto dal ministro della giustizia l’apertura di una inchiesta amministrativa sull'operato dei predetti magistrati con l’invio a Bari di un gruppo di ispettori, fra cui il vicecapo dell’ispettorato generale”. Gorini rileva, inoltre, che nessun rilievo formale è stato mai fatto dal ministro della giustizia in seguito a quella ispezione nè nei confronti di Dinapoli nè degli altri magistrati. Nel maggio 2009 il tribunale civile di Lecce aveva rigettato una richiesta di risarcimento danni (per un milione di euro) proposta da Fitto sempre nei confronti di Dinapoli, per il contenuto dell’intervista rilasciata dal magistrato al quotidiano 'la Repubblica'. Il Tribunale aveva ritenuto “del tutto infondata” la richiesta e condannato Fitto al pagamento delle spese processuali.

LEGALE MINISTRO: MURO GOMMA.

"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”. “In merito poi alla richiesta di risarcimento danni avanzata da Raffaele Fitto al Tribunale di Lecce per l’intervista al dott. Marco Dinapoli pubblicata il 22 giugno 2006 da 'Repubblica' - prosegue Sisto – va precisato che, singolarmente, nel corso dell’istruttoria di quel processo, il giornale non fu in grado di provare la genuinità dell’intervista, assumendosene conseguentemente tutta la responsabilità e liberando il dott. Dinapoli da ogni onere; il Tribunale di Lecce, quindi, non solo non ha rigettato la richiesta di Raffaele Fitto, ma, piuttosto, il 16 maggio 2009, l’ha accolta, condannando 'La Repubblica', a risarcire a Raffaele Fitto 63 mila euro, ritenendo diffamatorio il contenuto dell’intervista stessa”.

Lecce come Potenza.

La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.

“Roba nostra. Storia di soldi, politica, giustizia nel sistema del malaffare” (Il Saggiatore), libro di Carlo Vulpio.

"Bisogna far sistema". Questa ricetta, con cui in genere le economie decollano e i paesi si sviluppano, trova da noi un'applicazione tipicamente all'italiana. Consiste nella capacità inesauribile di stabilire reti di complicità e connivenze tra politici, esponenti professionali e istituzionali, faccendieri e malavitosi, con un unico scopo: saccheggiare i beni e le risorse pubbliche. Anche grazie alle rivelazioni emerse dalle inchieste del pm Luigi de Magistris e alle vicende del giudice Clementina Forleo, Carlo Vulpio punta l'attenzione sul sistema meridionale del malaffare, dove i partiti-famiglia sono macchine oleatissime con cui si smistano i fondi nazionali ed europei, si assegnano gli appalti, si decide la fortuna o la sfortuna nelle carriere pubbliche, a cominciare dalla magistratura. E mette in primo piano le vere forze che "fanno girare" il paese, condannandolo all'inefficienza dei servizi, agli scempi ambientali e al declino inarrestabile della sua economia. Di queste forze, dopo le scoperte pionieristiche del pool di Milano, "Roba Nostra" offre la radiografia più aggiornata. Nuovi capibastone politici, tangentisti della prima e della seconda Repubblica, massoni riuniti in fantasiose logge, affaristi devoti della Compagnia delle Opere, clan familiari che sperimentano le tecniche più spietate per garantirsi il controllo di tutto ciò che è pubblico in intere regioni: dalla sanità all'istruzione, ai cosiddetti incentivi per lo sviluppo.

Il libro di Carlo Vulpio, “Roba Nostra” edito da “Il Saggiatore” è un vaccino, molto forte, invasivo. Come ogni medicinale ha i suoi effetti collaterali. Che nel caso di questo libro si manifestano nel 99% dei casi. Nausea, forte e inarrestabile.

Vulpio, inviato del Corriere della Sera è uno tra quelli che ha seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale. Capi d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Ma torniamo al libro.

Vulpio parte da una premessa che poi è l’intuizione dalla quale partono le inchieste Why Not e Poseidon, le due sottratte a De Magistris: dimenticate Tangentopoli, o almeno quella delle mazzette, quelle dei soldi sporchi che passano di mano in mano, e che magari alla fine finiscono in un cesso. Storia vecchia. Oggi la nuova Tangentopoli si basa su fondi pubblici, soprattutto europei, che non arrivano in Italia e poi vengono spartiti, ma hanno già il timbro di appartenenza quando partono da Bruxelles.

Chi prova a scoperchiare questo sistema politicamente tacito e trasversale è proprio il Pm campano, che con perfetta coscienza va incontro alla “profezia Chiaravalloti” (ex presidente della regione Calabria, premiato con la presidenza dell’Authority) intercettato mentre parla con la segretaria: “Lo dobbiamo ammazzare… no… gli facciamo le cause civili per il risarcimento danni e affidiamo la gestione alla camorra… Vedrai, passerà i suoi anni a difendersi”. Chiaravalloti, lungimirante, voto 9.

Il libro è un’ottima chiave di lettura per capire su cosa davvero stava indagando De Magistris prima di essere esautorato d’ufficio, e soprattutto perché fosse fisiologica una simile fine per quelle inchieste: fare luce su questi traffici di denaro pubblico avrebbe significato far saltare i piani alti della politica e della magistratura.

Vulpio ricompone pazientemente ogni singolo tassello di un puzzle che alla fine sviluppa uno scenario da golpe: magistrati che fanno parte di comitati d’affari e acquistano proprietà da costruttori che nel frattempo stanno indagando, tecnici e funzionari che collaborano con il Pm (Gioacchino Genchi, il mago delle tecnologie investigative, il maresciallo Pasquale Zacheo, insostituibile archivio vivente, il prototipo del Bellodi di Sciascia) vengono trasferiti e viene loro revocato l’incarico, il tutto in un habitat in cui la massoneria ha gli uomini giusti nei posti strategici.

Grande spazio, naturalmente, all’inchiesta regina, Why not, che ruota attorno all’uomo del destino, Antonino Saladino, amico di tutti, di tutti quelli che stanno al potere, si intende. Vulpio non dimentica di occuparsi di Toghe Lucane, l’unica inchiesta rimasta in mano a De Magistris (ma c’è tempo anche per quella), che indaga su un comitato d'affari di politici, magistrati, avvocati, imprenditorie funzionari che avrebbe gestito grosse operazioni economiche in Basilicata.

Nel libro vengono raccontati degli episodi che a prima vista non c’entrano nulla con la storia giudiziaria che si dipana tra Lucania, una volta Felix oggi Appetix, e la Calabria. Come quella dei “fidanzatini di Policoro”, in Basilicata, apparentemente morti in un incidente poi diventato duplice omicidio, causato forse dalla paura che la ragazza raccontasse di festini hard a base di coca ai quali partecipavano magistrati e politici. Anzi, ormai è piùche un sospetto. Pagine e pagine dedicate alla “collega ideale” di Luigi DeMagistris, Clementina Forleo, l’unica scesa veramente in campo per difendere il collega dalla canea che lo stava delegittimando. E l’unica, che assieme a DeMagistris sta difendendo l’autonomia della magistratura, mentre altri colleghi sono sazi e soddisfatti del tacito accordo Mastelliano che accontenta tutti con posti al Ministero e favori amichevoli.

Carlo Vulpio racconta i fatti inediti delle devastazioni alle proprietà della famiglia Forleo in Puglia mentre Clementina si occupava di scalate a Milano: la villa demolita, il raccolto dato alle fiamme, e ultimo, lo strano incidente in cui morirono i suoi genitori. Cose che il giudice, che secondo il Csm soffre di vittimismo, non ha mai raccontato.

E’ un libro pieno di circostanze, di date e di fatti, che si leggecome un romanzo ma ha la struttura della migliore inchiesta giornalistica.

Cosa rimane alla fine? Carlo Vulpio dice che il pessimismo del libro è superato da alcuni casi di speranza concreta. E’ difficile credergli, ma lui è sincero. Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”.

E’ un libro da comprare, leggere e regalare. Perché il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.

Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.

La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.

I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.

Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.

Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.

La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.

Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.

Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.

Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo.

Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.

DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?

L’ex fidanzato di Amanda Knox, Raffaele Sollecito, racconta in un libro la sua storia con la studentessa americana accusata, insieme a lui, di aver ucciso la studentessa britannica Meredith Kercher. Raffaele Sollecito, che insieme ad Amanda Knox è stato accusato e condannato in primo grado per l'omicidio di Meredith Kercher prima di essere assolto in secondo grado, ha scritto un libro, Honor bound. Sulla notte dell'omicidio Sollecito ammette di ricordarsi poco poiché lui e Amanda avevano fumato marijuana. Vi si raccontano le incomprensioni tra i due, l'effetto che gli fecero i ritratti confezionati dai tabloid. E poi Amanda che diventa 'Knoxy Foxy' dopo aver acquistato biancheria intima dopo l'uccisione dell'amica. Ricorda Sollecito di quando l'accarezzò e si baciarono, ignari che le telecamere dei notiziari televisivi li stessero riprendendo dall'altra parte della strada. Anche Amanda Knox sta scrivendo un libro, che uscirà successivamente. Ha firmato un accordo con Harper Collins per 4 milioni di dollari. Sollecito critica spesso la polizia per la gestione del caso, e secondo lui la vicenda si spiega con un furto andato male commesso da Rudy Guede, il terzo imputato condannato dopo aver patteggiato. Sollecito ricostruisce anche com'è nato il rapporto con Amanda, conosciuta dopo aver finito i suoi studi universitari in informatica ad un concerto di musica classica il 25 ottobre 2007, una settimana prima della morte della Kercher. Raffaele le ha chiese il numero di telefono e lei gli disse di tornare al bar dove lavorava più tardi, quella stessa notte. Alla fine del turno, scrive, fecero una passeggiata, si tennero per mano e ad un certo punto la baciò. Accettò l'invito a recarsi a casa sua e trascorse lì la notte. La coppia divenne inseparabile. Sollecito descrive anche la sua prima notte in carcere, dicendo che oscillava tra "grandi ondate di indignazione e un fastidioso senso di colpa". Era arrabbiato con se stesso per avere un ricordo fumoso della notte dell'uccisione, colpa della marijuana. Dopo l'assoluzione in secondo grado Sollecito ricorda di aver sentito "una gioia indescrivibile". Amanda quel giorno gli strinse la mano e gli disse che non vedeva l'ora di vedere la sua casa e gli amici. Ma la Knox, com'è noto, è subito tornata a Seattle. La coppia è stata imprigionata per la morte nel novembre 2007 ed in primo grado i due sono stati condannati rispettivamente a 26 anni e 25 anni. La corte d'appello li ha assolti il 3 ottobre 2011, data in cui sono tornati liberi. Nel libro, continua a sostenere la sua innocenza e quella della ex e cerca di ricostruire i malintesi che hanno provocato il coinvolgimento della coppia nel caso. Ma, per la prima volta, ammette di essersi comportato stranamente durante le indagini. Raffaele e Amanda, infatti, erano stati visti per le strade di Perugia mentre si scambiavano effusioni, con l’indagine della Polizia ancora in corso. La loro indifferenza aveva portato gli inquirenti sulle loro tracce. Maurizio Molinari sul “La Stampa” rendiconta da New York su un vicenda che mai in Italia si sarebbe potuta analizzare. Durante il processo di Perugia sull’assassinio di Meredith Kercher vi fu una trattativa segreta che vide il pubblico ministero Giuliano Mignini far conoscere, attraverso intermediari, alla famiglia di Raffaele Sollecito l’offerta di una pena più mite se il coimputato avesse avvalorato le accuse di omicidio nei confronti di Amanda Knox. A rivelarlo è lo stesso Sollecito nel libro «Honor Bound» che esce negli Stati Uniti per i tipi di Gallery Book, scritto assieme al giornalista inglese Andrew Gumbel, ex corrispondente dall’Italia per «Reuters» e «The Independent». Con le 270 di pagine «Honor Bound» Sollecito anticipa Amanda nella pubblicazione di un libro-verità sul processo e la maggiore novità si incontra quando racconta che dopo la conclusione del processo di primo grado «la mia famiglia venne a contatto con il mondo della giustizia di Perugia pieno di buchi e fughe di notizie» riuscendo a sapere «dietro le quinte» di «discussioni all’interno dell’ufficio del procuratore». Si resero conto che la determinazione di Mignini a far condannare Raffaele era solo tattica per tentare di far crollare Amanda Knox. Fu in tale contesto che «venne detto alla mia famiglia che Mignini non era interessato a me se non come canale per arrivare ad Amanda» fino al punto che «Mignini sarebbe stato disposto anche a riconoscere che ero innocente se gli avessi dato qualcosa in cambio, incriminando direttamente Amanda oppure semplicemente non sostenendola più» nella ricostruzione di quanto avvenuto. Si trattò di «discussioni» delle quali Sollecito, che si trovava in prigione, non venne messo al corrente mentre il protagonista fu lo zio, Giuseppe, che «venne contattato dall’avvocato di uno studio privato di Perugia a cui chiese cosa avrei potuto fare per mitigare la sentenza. L’avvocato gli disse che avrei dovuto accettare un accordo, confessando di aver avuto un ruolo minore, come ad esempio aver aiutato a ripulire la scena del delitto pur non avendovi avuto alcun ruolo» si legge a pagina 220. «Raffaele potrebbe ricevere una condanna da 6 a 12 anni - disse l'avvocato allo zio - ma poiché non ha precedenti penali avrebbe la condizionale e dunque uscirebbe senza fare altra prigione». La sorella di Raffaele, Vanessa, affermò che «non era moralmente possibile» accettare di confessare reati mai commessi ma la trattativa dietro le quinte andò avanti ed ebbe una seconda fase grazie a «un altro avvocato, che aveva rapporti stretti con Mignini che lo aveva perfino invitato al battesimo del figlio più piccolo in estate». Fu questo secondo legale che disse con franchezza alla famiglia Sollecito: «Credo che Raffaele sia innocente e Amanda colpevole». Il risultato fu di dare alla famiglia Sollecito l’impressione che il procuratore la pensava nella stessa maniera anche perché il legale si offrì di «intercedere con Mignini» pur «senza fare alcuna promessa». L’accelerazione della trattativa avvenne nell’estate del 2010 quando il padre di Raffaele sfruttò il canale informale fino al punto da ritenere possibile un incontro di Mignini e la vice Manuela Comodi con Giulia Bongiorno, difensore di Raffaele, per verificare la possibilità di un accordo. Ma quando la Bongiorno comprese di cosa si trattava «fu inorridita e minacciò di lasciare l’incarico perché una trattativa segreta costituiva la violazione della procedura legale». Fu allora che il padre di Sollecito fece marcia indietro e «si mostrò mortificato» pregando la Bongiorno di non lasciare la difesa e spiegando che non si era reso conto di cosa stava facendo. Raffaele Sollecito seppe tutto a posteriori ma la vicenda lo ha segnato molto perché, come confessa nel libro, «mi chiedo come sia possibile per un pm credere nell’innocenza dell'imputato e al tempo stesso tentare di convincere la giuria a condannarlo alla pena dell’ergastolo». La trattativa dietro le quinte viene indicata da Sollecito per dimostrare quali e quante furono le pressioni da lui ricevute per spingerlo a far crollare l’alibi di Amanda, come ad esempio avvenne durante i primi interrogatori subiti quando «mi chiesero in continuazione di ricordare i tempi della notte del delitto fino a farmi cadere in contraddizione con Amanda» o allorché l’arresto venne minacciato, schiaffeggiato e denudato. Oppure il tentativo della polizia di provare che la madre nel 2005 era morta «non di cuore ma per suicidio» per dimostrare «insanità mentale nella storia di famiglia» con l’intento di fiaccare la sua credibilità e dunque l’alibi di Amanda. Nelle ultime pagine Raffaele si sofferma sulla vacanza in America dopo l’assoluzione con l'incontro con Amanda a Seattle. «Mi sembrò di essere nella tana del Leone» scrive, facendo capire di aver preso atto che la storia d’amore era finita. Come dire, entrambi guardiamo avanti senza però dimenticare Perugia.

Intanto da Giuseppe Caporale su “La Repubblica” una denuncia: Che spreco quel video su Meredith e la Corte dei conti chiede i danni ai pm.

A Perugia, 182mila euro per la ricostruzione del delitto da mostrare in udienza. I magistrati contabili aprono un fascicolo per verificare se la spesa per il filmato sia stata congrua. I magistrati che al processo per l'omicidio Meredith Kercher avevano chiesto l'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, sono ora sotto inchiesta contabile. E rischiano una condanna per danno erariale. Così, mentre i due giovani imputati - assolti in appello con formula piena "per non aver commesso il fatto" - attendono il definitivo pronunciamento della Cassazione, i loro accusatori, il sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini e il pubblico ministero, Manuela Comodi, si trovano al centro di un'indagine della Corte dei conti dell'Umbria. Sotto la lente d'ingrandimento della procura contabile c'è una fattura da 182mila euro. Si tratta di una consulenza richiesta, nel corso del processo di primo grado, dai due magistrati perugini a una società specializzata nella video-grafica (la Nventa Id srl). Il risultato è stato un'animazione in 4D della dinamica del delitto, costruita in base alle tesi dell'accusa. Il filmato fu proiettato in aula durante la requisitoria della procura, ma non fu mai reso disponibile come copia agli avvocati della difesa. La scelta fu motivata dagli inquirenti che precisarono di voler "evitare le speculazioni dei media e l'utilizzo televisivo del filmato". Il video - rimasto dal primo grado in poi nei cassetti della procura di Perugia - dura circa venti minuti e ricostruisce il delitto partendo dal pomeriggio del primo novembre 2007. Il filmato inizia con alcune immagini tratte da Google Maps per poi, con il passare dei secondi, arrivare a inquadrare la casa del delitto. Mez, Amanda, Raffaele e Rudy Guede (l'ivoriano processato con rito abbreviato e, dopo l'assoluzione di Knox e Sollecito, unico condannato per l'omicidio) nel video sono mostrati in forma stilizzata, quasi da cartone animato. Meredith indossa una felpa Adidas (che sarà poi ritrovata in terra insanguinata) e un paio di jeans. Amanda compare invece con jeans e maglia a collo alto, Raffaele con una giacca sportiva. La scena dell'aggressione è stata riprodotta al rallentatore e per realizzarla sono state utilizzate anche diverse foto scattate sul luogo del delitto. Nel video si vede Mez sbattuta contro il muro e che cerca di reagire, compressa tra Amanda con il coltello in mano e Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Nel filmino dell'orrore Mez, una volta aggredita, crolla sul fianco destro, subito dopo Amanda e Raffaele prendono i telefonini e fuggono, mentre resta in casa solo Rudy che, dopo la scena dell'aggressione, si porta le mani alla testa. Ed è sempre Rudy - secondo la ricostruzione - che prova ad aiutare Mez a rialzarsi e poi se ne va. Il filmato termina la mattina del 2 novembre con l'arrivo di Sollecito e Knox nella casa di via della Pergola, con le telefonate - fasulle, secondo l'accusa - di Sollecito al 112: l'audio integrale chiude il video del delitto. Ora il procuratore della Corte dei conti, Agostino Chiappiniello, con questa istruttoria sui costi del processo Meredith vuole capire se la fattura da 182mila euro per il video in 4D sia stata una spesa "congrua" e necessaria per le casse pubbliche, o se si sia trattato di spreco di denaro pubblico. Certo è che se la Cassazione dovesse confermare la sentenza d'appello il costo del video (182 mila euro) resterà a carico dello Stato, quindi dei cittadini.

Lunedì 3 ottobre 2011 Amanda e Raffaele: innocenti!!!

Da “Il Giornale”. Non ci sono vincitori, ma un solo sconfitto: la giustizia italiana. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti dalla Corte d’assise d’appello di Perugia dall’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher nel 2007 a Perugia. La gioia e le lacrime degli imputati, arrivati in aula visibilmente tesi. In primo grado i due erano stati condannati a 26 e 25 anni di reclusione. Ora sono stati scarcerati, dopo quattro anni di detenzione. Amanda Knox ha lasciato il carcere perugino di Capanne a bordo di una Mercedes di colore nero. La giovane americana ha passato la notte con la famiglia in un agriturismo e farà ritorno a casa a Seattle. Partirà stamani per gli Stati Uniti con un volo della British Airways. Raffaele Sollecito invece è tornato in Puglia, protetto da amici e parenti. "Rispettiamo la decisione dei giudici ma non comprendiamo come sia stato possibile modificare completamente la decisione di primo grado". Così la famiglia di Meredith Kercher, in una nota diffusa subito dopo la sentenza. "Restiamo comunque fiduciosi nel sistema giudiziario italiano sperando che la verità possa finalmente essere accertata". In carcere per il delitto, avvenuto quasi quattro anni fa, rimane quindi solo Rudy Guede, l’ivoriano che sta scontando 16 anni di reclusione. L’assoluzione degli ex "fidanzatini" era, in un certo senso, attesa, tanto che nel pomeriggio la famiglia Kercher ha tenuto una conferenza stampa in cui, pur ribadendo la propria fiducia nella magistratura italiana, ha lamentato il fatto che Meredith fosse stata "dimenticata" dai mass media. La studentessa inglese era stata uccisa nel capoluogo umbro la notte del 1 novembre 2007. In primo grado Amanda e Raffale erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni. Nel dibattimento in appello, le prove fornite dall’accusa erano state giudicate in più occasioni imprecise e non decisive. La Knox (condannata a tre anni già scontati per il reato di calunnia) e Sollecito hanno assistito in aula alla lettura della sentenza. La decisione dei giudici della corte d’Appello del tribunale di Perugia è arrivata dopo oltre 10 ore di camera di consiglio. Il presidente della Corte, Claudio Pratillo Hellmann aveva chiesto, prima di entrare in camera di consiglio, di evitare "fazioni" e "tifo da stadio". Amanda, già tesissima all’inizio della lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime. Alla lettura della sentenza l’aula è esplosa in un boato. Amanda ha pianto e ha abbracciato la sorella, presente in aula con gli altri familiari. Grande la gioia anche di Raffaele. Entrambi si svegliano da un incubo durato 1.448 giorni. "Torniamo a casa, è finalmente finita...". Così Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, alla domanda dell’Agi su quale sarà la prima cosa che la famiglia farà dopo questa sentenza assolutoria. "Lo ripeto, torniamo a casa. Raffaele è stato assolto per non aver commesso il fatto, non so se questo lo abbiate capito o meno. Voglio che sia chiaro, deve essere chiaro per tutti". "Amanda ha sofferto per 3 anni per un crimine che non ha commesso. Siamo grati ai legali per la loro assistenza. Loro non hanno solo difeso Amanda, ma le hanno voluto bene. Grazie a tutte le persone che si sono prese del tempo per analizzare il caso. Li ringraziamo per avere avuto il coraggio di portare alla luce la verità. Ora chiediamo che ci venga concessa la privacy per riprenderci da questo periodo che per noi è stato un incubo", ha dichiarato la sorella di Amanda Knox, Deanna, all'uscita dal tribunale di Perugia. "E' il verdetto che ci aspettavano, se la perizia fosse stata disposta anni fa non ci sarebbero stati anni di sofferenza e dolore". Così Giulia Bongiorno, avvocato di Raffaele Sollecito commenta la sentenza che ha assolto con formula piena il suo assistito e Amanda Knox. "Voglio porre l’accento sul risultato estremamente positivo- ha aggiunto - Un sentenza che non si è fermata all’apparenza e ha tolto ogni dubbio. C’è stato in questo caso un pieno e assoluto riconoscimento dell’estraneità di Raffaele Sollecito". "Gli Stati Uniti apprezzano lo scrupoloso riguardo con cui il caso (di Amanda Knox) è stato trattato dal sistema giudiziario italiano". Così il portavoce del dipartimento di Stato, Victoria Nuland ha commentato la notizia dell’assoluzione in appello di Amanda dall’accusa di omicidio della britannica Meredith Kercher. Nuland ha aggiunto che l’ambasciata a Roma continuerà a fornire assistenza consolare ad Amanda e alla sua famiglia. Il resoconto da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 ottobre 2011. Non sono stati Raffaele Sollecito e Amanda Knox a uccidere Meredith Kercheril 1° novembre di quattro anni fa. Lo ha stabilito la Corte di assise di appello di Perugia che ha assolto il 27enne ingegnere di Giovinazzo e la 24enne studentessa di Seattle (Stati Uniti), che invece furono condannati rispettivamente a 25 e 26 anni in primo grado dalla Corte di assise dello stesso capoluogo umbro. Sollecito e Knox sono stati assolti per non aver commesso il fatto loro addebitato (omicidio aggravato, violenza sessuale, furto e simulazione di reato) mentre la sola Amanda è stata condannata a 3 anni di reclusione, già ampiamente scontati, per aver calunniato Patrick Lumumba, il gestore di un pub che fu arrestato, e poi rilasciato, a causa delle dichiarazioni della ragazza. La sentenza è stata letta dal presidente della Corte in un’aula nella quale il silenzio la faceva da padrone. Quando il presidente ha pronunciato la parola «assolve», Amanda è scoppiata in un pianto a dirotto mentre all'esterno del palazzo di giustizia scoppiavano liti e tafferugli tra innocentisti e colpevolisti. Quello di Perugia è stato un processo che si è giocato soprattutto sulla prova chimica legata alle tracce di Dna rilevate sui vari oggetto repertati dagli agenti della Polizia Scientifica sul luogo del delitto e in quelli frequentati dagli imputati. La Corte d'assise d'appello, accogliendo la richiesta formulata dai difensori dei due giovani, ha disposto la perizia sollecitata già in primo grado ma rifiutata allora dai giudici. Il nuovo esame, depositato lo scorso 29 giugno, ha ritenuto «non attendibili» gli accertamenti tecnici della Scientifica, per il Dna attribuito alla Kercher sul coltello considerato l'arma del delitto e a Sollecito sul gancetto di reggiseno indossato dalla studentessa inglese quando venne uccisa, su cui ci sono tracce genetiche «di più individui di sesso maschile»; ed inoltre «non si può escludere» che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione. Dopo aver stabilito di non poter ripetere le analisi sulle tracce, Stefano Conti e Carla Vecchiotti dell'Istituto di Medicina legale dell'Università La Sapienza di Roma hanno riassunto in 145 pagine le loro valutazioni sul lavoro della Polizia Scientifica. A loro avviso nelle indagini chimiche in via della Pergola «non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo ed i protocolli di raccolta e campionamento». Riguardo al coltello i periti hanno sottolineato che «il reperto 36 è stato inserito, anche per le analisi, in un contesto ove erano già stati analizzati un numero rilevanti di campioni appartenenti alla vittima e pertanto non si può escludere che possa essersi verificata una contaminazione». Dopo avere esaminato i tracciati elettroforetici, Conti e Vecchiotti hanno concordato con la Scientifica nell'attribuire alla Knox la traccia di Dna sull'impugnatura del coltello (sequestrato in casa di Sollecito, allora suo fidanzato con il quale talvolta viveva) ma non alla Kercher quella sulla lama ritenuta indicativa di un campione «Low copy number» (rilevabile da pochissima quantità di «materia prima»). Per il gancetto di reggiseno, 165B, i periti non hanno invece condiviso la conclusione su un profilo genetico compatibile con l'ipotesi di una mistura di sostanze biologiche «solo» di Sollecito e della Kercher, parlando di «non corretta interpretazione degli elettroferogrammi ». Per gli esperti la componente maggiore è rappresentata da Dna della vittima, quella minore dal codice genetico «proveniente da più individui di sesso maschile». Conti e Vecchiotti hanno sottolineato quindi che il gancetto venne recuperato 46 giorni dopo l'omicidio. «Sul pavimento - hanno scritto -, ove era prevedibilmente a contatto con polvere ambientale composta in larga misura da cellule, peli, capelli di origine umana ». Che «in ambienti chiusi può contenere decine di microgrammi di Dna per grammo». «Un colpo secco alla prova scientifica» lo aveva definito Luciano Ghirga, uno dei difensori della Knox, ricordando che nelle 427 pagine della sentenza di primo grado, invece, si fa esplicito riferimento alla prova scientifica quando si sostiene che «i due fidanzati ferirono al collo Mez: prima Sollecito, dopo avere tagliato il reggiseno, provocando la ferita più piccola con un coltello che portava sempre con sé e quindi la Knox, che provocò la lesione maggiore con quello da cucina poi sequestrato in casa del giovane pugliese dopo un ultimo grido fortissimo di dolore». Ai difensori aveva risposto, in aula, il Pm Manuela Comodi chiedendo, senza successo, una nuova perizia, istanza poi riproposta in sede di conclusioni al termine della requisitoria (per una valutazione biostatistica del lavoro svolto dalla scientifica e per l'esame di una nuova traccia individuata sulla lama del coltello). Per il magistrato c'erano «dati oggettivi che rendono irrimediabilmente lacunosa» la perizia di Conti e Vecchiotti. E questo perché gli esperti avrebbero «omesso di riferire alla Corte» di macchinari in grado di leggere tracce anche minime di Dna sul coltello. «I periti - aveva sottolineato il magistrato - non hanno risposto ai quesiti ma lanciato dubbi».

Il processo di Perugia è un problema serio, al di là delle stesse vicende drammatiche, che hanno investito la vittima, i due giovani condannati ed un colpevole riconosciuto, che si proclama innocente.

Arriva fino a Hillary Clinton il caso di Amanda Knox, la ragazza americana giudicata “colpevole”, insieme a Raffaele Sollecito, dell’omicidio della studentessa britannica Meredith Kercher. La sentenza del tribunale di Perugia ha fatto il giro del mondo in poche ore: del caso si sono occupate testate come il Washington Post e il New York Times. L’America grida allo scandalo e proclama l’innocenza della studentessa di Seattle. La senatrice democratica Maria Cantwell cavalca l’onda: “È una sentenza oltraggiosa” dice, sostenendo che “non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere, oltre ogni ragionevole dubbio, che Amanda fosse colpevole”. E interessa il Segretario di Stato Hillary Clinton. Che prima ammette: “Non ho un’opinione sul caso” perché “impegnata ad occuparmi di Afghanistan”. Poi apre. In una intervista al programma domenicale della rete televisiva Abc, This Week, assicura che sarà disposta a incontrare chiunque abbia dei timori riguardo al modo in cui è stato gestito il processo: “Ascolterò il senatore Cantwell, o chiunque altro abbia preoccupazioni” sulla gestione del processo.

Al di là di ogni ragionevole dubbio è chiaro come il pessimo lavoro fatto dai mezzi di informazione abbia nutrito la confusione di indagini approssimative, non solo nel caso Kercher, ma anche per quanto riguarda la signora Franzoni o Alberto Stasi.

Per tutti e tre quei processi, amatissimi dai salotti tv, dai cronisti di giornali in crisi di vendite e dagli assetati di gossip si è assistito ad un balletto di presunte prove scientifiche che cambiavano dalla mattina alla sera, di armi del delitto mai trovate, di computer analizzati in modo non sempre avveduto, di contaminazioni della scena del crimine, di plastici, biciclette e zoccoli negli studi televisivi, di ‘opinionisti’ all’oscuro dei fatti, ma messi a cercare colpevoli quasi fossero l’ispettore Derrick. Tre casi celebri, accomunati da elementi simili. Innanzitutto la confusione delle indagini: prove che vengono raccolte, poi cambiate, e mentre il processo è in corso. Coltelli, reggiseni, pigiami, biciclette, zoccoli e computer che entrano ed escono di scena come fondali intercambiabili invece che elementi certi di accusa. Oggetti totemici per il pubblico che, alla fine, mai si sono rivelati prove indiscutibili.

Anna Maria Franzoni, Amanda Konx, Raffaele Sollecito sono i casi noti di un universo molto più vasto di processi nei quali la certezza assoluta della colpevolezza non c’è. Decine di cittadini in carcere in attesa di giudizio, condannati per errore, assolti in secondo grado o in cassazione.

Invece di cercare le prove e le confessioni, le televisioni e le aule dei tribunali si sono riempite di discussioni su profili psicologici, comportamenti, preferenze sessuali, persino analisi sulle espressioni del volto o sul tipo di abbigliamento.

In mancanza di certezze, il processo italiano si è spesso rifugiato nella costruzione di teoremi: il colpevole non è colui che ha indiscutibilmente fatto il male, ma colui che avrebbe potuto o voluto farlo. Nasce qui l’uso e l’abuso dei «profili» psicologici, la depressione non ammessa di Annamaria a Cogne, le ossessioni nascoste di Alberto Stasi, e la violenza da baccanale fatta esplodere da Amanda. Tutti colpevoli in quanto «inclini ad esserlo», invece che indiscutibilmente provati tali dai fatti.

Anna Maria Franzoni doveva piangere al funerale del piccolo figlio assassinato, Alberto Stasi essere più discorsivo, Amanda Knox “morigerata” e Raffaele Sollecito “pentirsi”, secondo le bislacche valutazioni di non pochi ‘esperti’.

La sentenza del processo di Perugia per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, che ha visto condannare la coinquilina Amanda Knox e il suo ex-fidanzato Raffaele Sollecito rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, non solo ha suscitato grande scalpore nel mondo anglosassone, ma ha anche acceso un dibattito su quanto i giudici italiani siano stati influenzati da fattori esterni nel trarre le proprie conclusioni e nell’esprimere il verdetto di colpevolezza.

Ne parla esplicitamente il giornale britannico della domenica “The Observer”, in un articolo di John Hooper, che scandaglia l’iter delle indagini e del dibattimento per dimostrare come la sentenza di primo grado sia, in realtà, poco risolutiva e, soprattutto, non chiarisca fino in fondo come siano andati i fatti.

Il dubbio di fondo insinuato da Hooper è che per «salvare la faccia» di chi ha condotto le indagini e, più in generale, dell’Italia come Paese in cui i delitti vengono risolti e puniti, i giudici e la giuria abbiano ignorato la sostanziale mancanza di prove decisive contro la Knox, influenzati dai racconti dei media che spesso l’hanno dipinta come una spietata assassina.

Macchie di sangue e dna, contraddizioni e omissioni sospette, non sarebbero stati, insomma, gli unici elementi a condizionare l’esame della corte e, forse, una loro analisi più approfondita sarebbe stata rimandata al processo d’appello, sempre, secondo Hooper, per salvare la reputazione del sistema di giustizia italiano. Se, infatti, la sentenza venisse rovesciata in appello, sostiene il giornalista, l’opinione pubblica non imputerebbe il fatto agli errori commessi durante le indagini o il processo, bensì alle «pressioni internazionali» che sono arrivate dagli Stati Uniti.

Del resto, l’accusa ha sì ricostruito minuziosamente le modalità dell’aggressione a Meredith Kercher (con l’ivoriano Rudy Guede che tentava di violentarla, mentre Sollecito la pungolava con un coltello con cui Amanda le avrebbe dato il colpo di grazia), ma non avrebbe accertato con precisione il movente, legato a un imprecisato odio della Knox nei confronti della coinquilina, forse scatenato dai differenti stili di vita (Meredith si sarebbe scocciata delle frequentazioni maschili dell’amica, che spesso portava uomini a casa) o da questioni economiche (dalla camera di Meredith potrebbero essere spariti dei soldi, un “furto” di cui avrebbe accusato la compagna).

Comunque sia, anche in questo caso, non sarebbe chiaro come mai Guede (peraltro giudicato con rito abbreviato, che avrebbe dovuto assicurargli uno sconto di pena) sia stato condannato a 30 anni di carcere, pur non essendo considerato il killer materiale, mentre Amanda (ritenuta la mano assassina e calunniatrice) soltanto a 26 anni.

Resta inoltre da capire come sia possibile, nel caso Sollecito e Knox siano davvero colpevoli, che nella camera dove la vittima è stata uccisa non ci siano impronte digitali dei due ragazzi, mentre abbondino quelle di Guede. Se i due ex-fidanzati avessero cancellato le proprie, infatti, inevitabilmente avrebbero fatto sparire anche quelle dell’ivoriano, mentre così non è stato. «Solo una libellula avrebbe potuto entrare in quella stanza senza lasciare impronte – ha sottolineato Giulia Bongiorno, avvocato difensore di Sollecito – e siccome i due ragazzi non sono certo libellule, bisogna concludere che siano innocenti».

In un caso ancora pieno di ombre e misteri, insomma, anche all’indomani della sentenza di primo grado, l’unica certezza che rimane è che ci sia ancora molto da scavare.

Esemplare è la presa di posizione di Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere della Sera, che sul caso ha scritto un libro”Amanda e gli altri” di stampo colpevolista. “Per Amanda e Raffaele l'effetto della sentenza è stato comunque devastante. Il loro appello finale per proclamarsi ancora una volta innocenti ha commosso i giurati, però non è servito a convincerli. E questo nonostante i punti oscuri che il processo ha contribuito a evidenziare. Perché la maggior parte dei testimoni sono apparsi confusi, contraddittori. E perché gli elementi offerti dalle prove scientifiche non hanno fornito la certezza sulla presenza dei due giovani nella casa, come invece era accaduto per Rudy. Certamente hanno pesato le contraddizioni emerse nelle versioni fornite da tutti e due subito dopo l'omicidio, la mancanza di un alibi, la personalità complessa che entrambi hanno. Ora sperano nell' appello. Ma sanno bene che la strada per uscire dal carcere diventa sempre più impervia”.

«Ritengo che le cose siano andate in maniera prevedibile. Hanno avuto uno sconto della pena, la Knox è stata condannata a 26 anni, Sollecito a 25, invece che all'ergastolo. L'opinione pubblica li ha già condannati, ma spero che in appello la ragionevolezza consenta di condannare le persone che sono realmente colpevoli. Credo che la sentenza vada rispettata, ma non c'è una certezza delle prove sulle quali si basa, non c'è nulla». Lo ha detto il criminologo Francesco Bruno, commentando la sentenza. «Gli indizi che ci sono, sono dubbi. Indicano la loro presenza in quella casa, ma non indicano con certezza la loro partecipazione all'omicidio».

«Non abbandonerò mai mio figlio in carcere e lo difenderò finchè avrò forza». Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, ha il piglio deciso e il cuore in subbuglio. «La Corte – dice il medico pugliese – ha sposato in toto la tesi dell’accusa, non si è spostata di una virgola. Come difese potevamo anche non esserci. E questo è davvero scandaloso. Hanno ragione certe posizioni americane ». Il padre di Raffale si chiede perchè i giudici non abbiano disposto le perizie alle quali avevano fatto riferimento i legali del figlio. «Sarebbero state dirimenti – afferma – perchè in questa vicenda ci sono ancora aspetti non spiegati. Perchè non abbiamo diritto a sapere cosa è successo?». Riguardo alla pena che è stata inferiore alle richieste dei pm (ergastolo con isolamento per Sollecito e per Amanda Knox), secondo Francesco Sollecito «la Corte dopo avere sposato le tesi dell’accusa ha dovuto almeno concedere le attenuanti generiche».

Quali sarebbero quindi i vostri «diritti negati»?

«L’analisi sul computer di Raffaele è stata compiuta dalla polizia postale con un software che rileva solamente l’ultima operazione effettuata. Ci è stata negata l’analisi del pc con un programma che leggesse l’intera memoria. Noi sosteniamo che all’ora del delitto Raffaele stava utilizzando il computer in casa sua. E c’è un altro computer di Raffaele, che la Corte ci ha negato di far ispezionare. Quindi ci sono stati negati esami più approfonditi sul dna trovato sulla scena del delitto, sul gancetto del reggiseno della vittima, sull’impronta e sulla compatibilità del coltello sequestrato con la ferita mortale». 

OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO

L'arrivo di Rudra Bianzino al Congresso dei radicali italiani a Chianciano ha fatto riaprire un caso, almeno nella coscienza della società civile, che non ha ancora una verità giudiziaria. Rudra è il figlio più piccolo del falegname “morto di carcere” a Perugia in circostanze misteriose nell'autunno 2007, quando Aldo Bianzino fu trovato morto dopo la notte passata in carcere: presentava lesioni e un fegato “strappato”, come se avesse ricevuto un calcio. Ma dopo diversi mesi il tribunale di Perugia presentò richiesta di archiviazione: non c'era stato nessun omicidio per i magistrati e Aldo era morto per un aneurisma al cervello che i referti medici indicherebbero con chiarezza.

La prima volta però la richiesta di archiviazione – è l'ottobre del 2008 – viene respinta. Alla seconda ha fatto opposizione, con una articolata memoria, la famiglia che non si è arresa alla tesi incidentale. La famiglia di Aldo (la sua compagna Roberta è mancata qualche mese fa) non si dà per vinta e vuole che il caso continui a restare aperto anche alla luce di quanto continua ad emergere dopo la morte di Stefano Cucchi. I due casi sono infatti assai simili con la differenza che allora la vicenda di Aldo fu oscurata a Perugia dal caso di Meredith Kercher e la sua storia “minore” non registrò l'attenzione che, fortunatamente, si è ora riversata sull'oscura serie di fatti che circondano la morte di Stefano.

Tutti i media hanno parlato della terribile vicenda accorsa a Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti e deceduto dopo una settimana in circostanze non ancora chiarite. Altrettanto scalpore hanno destato le immagini - diffuse dai mezzi d'informazione - del suo corpo e del suo volto, in cui erano ben visibili lesioni e traumi di grave entità. Mauro Casciari delle “Iene” di Italia 1 decide di occuparsi di un caso di cronaca analogo, quello di Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto il 14 ottobre 2007 in circostanze ancora sconosciute. Due giorni prima del decesso, Aldo e la compagna Roberta, residenti a Capanne - nell'Appennino umbro marchigiano - vengono arrestati e portati presso il carcere di Capanne perché, in seguito ad una perquisizione, vengono trovate nella loro tenuta alcune piante di marijuana. La mattina del 14 ottobre Roberta viene scarcerata e solo in quel momento apprende della morte del marito. Tuttora non si sa niente sulle cause del decesso, quel che è certo è che al momento dell'ingresso in carcere il certificato medico dimostra che entrambi godevano di perfette condizioni di salute. Il medico legale nominato dalla famiglia assiste alla prima autopsia dichiarando che il corpo dell'uomo presentava lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Dell'argomento si era già interessato Michele Pietrelli, un collaboratore attivo sul blog di Beppe Grillo il quale aveva raccolto la testimonianza della moglie della vittima, scomparsa nel 2009, di cui le Iene mostrano il filmato. Un servizio di denuncia ma non solo; la coppia aveva un figlio che , dopo la morte della madre, vive con lo zio, tornato dalla Germania apposta per accudire il nipote e che, per questo, ha perso il suo posto di lavoro.

«In limine vitae» è scritto nella relazione finale dei due medici legali Luca Lalli e Anna Aprile. Le «evidenti lesioni viscerali di indubbia natura traumatica» che Aldo Bianzino riportava la mattina del 14 ottobre 2007, il giorno del suo oscuro decesso nel carcere di Capanne a Perugia, erano da collocarsi «in limine vitae». Letteralmente sulla soglia della vita, l’attimo tra la vita e la morte. Quelle lesioni, cioè il completo distacco del fegato, per la perizia ordinata dalla procura di Perugia sarebbero frutto di un disperato tentativo di rianimare Aldo in seguito a un aneurisma cerebrale. Per la famiglia la prova evidente di un pestaggio mortale. Nel limbo del «limine vitae» Aldo, che aveva quarantaquattro anni, pesava non più di 50 chili e faceva il falegname, è rimasto 22 minuti. Suo figlio Rudra, invece, due anni interi. Passati a combattere la morte che si è portata via, oltre al padre, anche la madre e la nonna, e a cercare la vita, la verità su Aldo.

Quando scende dall’autobus che lo riporta a casa, Rudra, per gli induisti «colui che allontana i dolori», ha una felpa bianca, un giaccone nero al braccio e due occhi che riflettono il colore del cielo. A Pietralunga sono otto gradi e piove leggero. Il paese è adagiato sopra il fianco di una collina. Dietro l’Appennino e le Marche, davanti l’Alta valle del Tevere e, sessanta chilometri più giù, Perugia. Lontana. Rudra ha sedici anni, frequenta con profitto il liceo scientifico di Umbertide ed è magro come un chiodo. Possiede un Ape 50 con il quale da casa raggiunge il paese e poi con l’autobus, dopo un’ora, la scuola. «Quel giorno ce l’ho scolpito nella mia testa» ricorda. Quel giorno, il 12 ottobre del 2007, un venerdì, arrivarono in cinque a casa dei Bianzino, un rudere ristrutturato in mezzo al nulla. Quattro poliziotti (tre uomini e una donna), un finanziere e un cane anti droga. Bussarono alle porta alle 6,30 del mattino. Cercavano 100 piante di marijuana che Aldo coltivava non distante dall’abitazione. Tra una fitta vegetazione andarono a colpo sicuro. «Mio padre si accusò subito». La polizia se lo portò via, assieme alla compagna Roberta Radici, la mamma di Rudra. Lui restò solo per tre giorni con la nonna novantenne. «La domenica sera mia madre tornò». Senza il compagno. Aldo era già morto, la mattina. Lo trovarono agonizzante nella sua cella di isolamento solo con una t-shirt bianca addosso. Colpito da un aneurisma due, forse nove, ore prima. «In verità quando lo soccorsero era già deceduto» dice l’avvocato Massimo Zaganelli, «il tentativo di rianimazione è una farsa».

Al cimitero di Pagialla, tra le querce dell’Appennino, Aldo è sepolto vicino a Roberta. L’uno di fianco all’altra, a terra, in fila. Sopra la tomba di Aldo una croce di legno, su quella di Roberta dei fiori gialli. Nonostante la venerazione per Sai Baba e l’India entrambi hanno avuto il rito cristiano per la sepoltura. «Mia madre è morta a giugno» dice Rudra. Di epatite «C». Era in lista per un trapianto. «Se non avessero ammazzato mio padre sarebbe ancora viva, di questo sono sicuro». È lei che si rivolse per la prima volta a Zaganelli, uno degli avvocati più in vista di Città di Castello, e quest’ultimo al professore Giuseppe Fortuni, docente di medicina legale all’Università di Bologna. Il quale eseguì, dopo molti giorni dalla morte, una perizia sul corpo di Aldo. Non l’unica per la verità. Aldo venne anche visionato, oltre che da Lalli e dalla Aprile, anche dal medico legale Walter Patumi incaricato dalla prima moglie Gioia Toniolo. Fu Patumi a parlare per primo di un pestaggio esperto. La perizia di Fortuni, famoso per aver seguito il caso Pantani, evidenziò un distacco totale del fegato in seguito a «pressione violenta». Dovuto a che cosa? Ai 22 minuti di massaggio cardiaco, decretò il rapporto ufficiale. Talmente violento da strappare il fegato, ma non abbastanza forte da incrinare neanche una costola. In 30mila autopsie, spiegò Fortuni, «mai visto un fegato devastato così da un massaggio cardiaco, sebbene la letteratura medica citi qualche caso». Rarissimo, tra l'altro, e riferito a persone ancora in vita.

Ma Aldo era vivo? Secondo il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, lo stesso che firmò gli atti di custodia cautelare proprio per Aldo e Roberta, era «in limine vitae». Tra la vita e la morte. Per questo ha avanzato ben due richieste di archiviazione. La prima è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari Claudia Matteini nel febbraio del 2008, la seconda l’11 dicembre 2009 davanti al gip Massimo Ricciarelli. Rudra ora abita nel rudere in mezzo al nulla con lo zio materno Ernesto tornato dalla Germania. Ernesto è in cerca di un lavoro e sta per prendere la patente. «Del civile non mi importa nulla» dice Rudra, «anche se ho bisogno di soldi» (Beppe Grillo ha raccolto 68mila euro vincolati in un conto corrente). «Però mi devono spiegare perché mio padre era nudo, perché hanno coperto le altre celle per non farlo vedere al momento del suo passaggio, perché non è stata fatta una perizia all'interno della sua cella. Lo Stato mi deve dire come ha fatto mio padre a morire». E farlo finalmente uscire dal suo limbo, dal suo «limine vitae».

Una lettera aperta del padre di Aldo Bianzino, ucciso nel carcere di Capanne, a Perugia nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per chiedere ancora una volta verità e giustizia e ribadire che la morte di Aldo, come quella di Stefano Cucchi, ricade sullo stato.

“Il caso recente di Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a Parma, hanno richiamato l’attenzione sui casi di Marcello Lanzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi morti in carcere in circostanze tutte da chiarire (chissà quando e sopratutto se). Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna precisare alcune cose.

Il pubblico ministero dott. Giuseppe Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel carcere Capanne di Perugia. Era stato visto da un medico, che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente, né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata, né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto, durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la guardia carceraria poi indagata. Fatto sta che verso le 8 del mattino di domenica le due dottoresse di turno, arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di Aldo, con indosso solo un indumento intimo (e siamo a metà ottobre, non ad agosto). I suoi vestiti si trovavano nella cella, accuratamente ripiegati (cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto mai). Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml. al fegato. Segni esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come si fa, C.I.A. insegna).

Ora, l’emorragia cerebrale è stata imputata ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani delle «forze dell’ordine», lo abbiamo purtroppo visto in molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio recentemente intercettato nel carcere di Teramo (i detenuti non si massacrano in reparto, ma sotto!). L’emorragia cerebrale potrebbe benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni, invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione del caso.

Ma i veri assassini sono coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle «droghe» come l’attuale, persone che nella loro profonda ignoranza, considerano in modo globale, senza distinzioni. Una legge fascista e clericale, da stato etico e peggio, da stato che manda in galera (con le conseguenze che si sono viste) il poveraccio che coltiva per uso personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga (quella pesante, cocaina o altre sostanze) circola nei festini dei potenti, non succede nulla. Vorrei dire comunque che un paese che considera delitto la detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o l’essere «clandestino», pur non avendo colpe e quasi sempre per sfuggire a condizioni di vita impossibili, uno stato che avendo preso in custodia delle persone, è responsabile a tutti gli effetti delle loro vite e della loro salute, uno stato che non riconosce come reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i forti e i potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e non può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria patria." In fede Giuseppe Bianzino 

OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.

Varese, il caso di Giuseppe Uva "Massacrato di botte in caserma".

L'uomo fu picchiato per ore da poliziotti e carabinieri e morì: la denuncia di Manconi. Era stato fermato ubriaco alle tre del mattino del 14 giugno 2008.

Un altro dramma inquietante dopo quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Un ragazzo che chiama il 118 per chiedere un'ambulanza mentre sente le urla del suo amico nella stanza accanto, all'interno della caserma dei carabinieri di Varese. "Lo stanno massacrando" dice a bassa voce. Una "anomala presenza di carabinieri e poliziotti in quella caserma di via Saffi, dove per tre ore il fermato subisce violenze sistematiche e ininterrotte". Gli indumenti sporchi di sangue, le ecchimosi sul volto e su altre parti del corpo, le macchie rosse tra pube e ano. Il ricovero in ospedale alle 5 del mattino con la "somministrazione di medicinali incompatibili con lo stato di ubriachezza dell'uomo".

Dopo aver reso pubblico il caso di Stefano Cucchi, la denuncia di Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto" ed ex sottosegretario alla Giustizia, tenta di far luce sulla storia di Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, a Varese. Lui e un suo amico, Alberto B., vengono portati in caserma. Qui Uva, ha ricostruito Manconi, "resta in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all'interno della caserma di via Saffi". Il suo amico, nella stanza accanto, sente due ore di urla incessanti, chiama il 118 per far arrivare un'ambulanza. "Stanno massacrando un ragazzo" sussurra all'operatore del 118, che chiama subito dopo in caserma e chiede se deve inviare davvero l'autoambulanza. "No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui - risponde un militare - ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi".

Ma è invece alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte.

"Un caso limpido di diritti violati nell'indifferenza più totale - denuncia ora Luigi Manconi - . Infatti, per quanto accaduto all'interno della caserma si sta procedendo ancora contro ignoti". "Al di là dei primi interrogatori nei giorni successivi di poliziotti e carabinieri, non è stato più sentito nessuno" denuncia l'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha squarciato il velo di omertà nelle istituzioni su altri casi di violenze di appartenenti alle forze dell'ordine, come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.

Anche nella storia di Giuseppe Uva e nella sua ultima notte di vita, c'è ancora molto da chiarire. Gli interrogativi dei suoi parenti sono ancora tanti: perché in una caserma si riuniscono carabinieri e poliziotti? Come si spiegano le ferite e i lividi sul volto, il sangue sui vestiti, la macchia rossa tra pube e regione anale? Perché l'autopsia non ha previsto esami radiologici per evidenziare eventuali fratture? "Sono passati quasi due anni e non abbiamo avuto ancora giustizia - dice in lacrime Lucia Uva, sorella di Giuseppe - . Non sappiamo ancora perché nostro fratello è morto: se per le botte o per i farmaci somministrati in ospedale. Aspettiamo che un giorno qualcuno dica la verità".

OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.

Mai dimenticare la saggezza dei proverbi! Come quello che dice «scherza coi fanti ma lascia stare i santi» e che dovrebbe mettere in guardia dalla difficoltà di raccontare (e rappresentare) adeguatamente la verità storica sui fatti di cronaca che diventeranno storia. Da piccolo mia madre mi ripeteva spesso questa massima popolare “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi” e come tutte le massime anche questa contiene una filosofia spicciola, ma vitale; ciò che è “Santo” deve essere rispettato.

Vuoi fare satira sul Presidente del Consiglio o sui parlamentari o sui politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.

Vuoi offendere a piacimento il Presidente del Consiglio ed i parlamentari o i politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.

Puoi criticare l'operato del magistrato, che palesa pecche ed illogicità, foriero di errori giudiziari, ingiuste detenzioni, omessa giustizia e comunque evidente ingiustizia, esercitato nella veste di funzionario pubblico che ha vinto un concorso all'italiana? No. E' lesa maestà!!

Per questo chi santifica i magistrati e pende dalle loro labbra o dalle loro veline, vigendo l’impunità per loro riguardo la violazione del segreto di ufficio, è immune da qualsivoglia ritorsione.

Non è così per chi, invece, decide di raccontare i fatti al di là della verità giudiziaria e della cultura ideologica imperante. Esercitare in Italia il diritto di critica e di cronaca è pericoloso.

Antonio Giangrande, scrittore ed autore della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” è subissato di denunce per diffamazione a mezzo stampa e qualcuna, anche, per calunnia da parte di quei magistrati un po’ permalosi e megalomani che si sentono lesi nella loro maestà. Diffamazione attribuita al Giangrande per articoli scritti da altri e pubblicati autonomamente anche da giornali esteri (fino in Sud Africa) riferiti all'orinaria malagiustizia italiana o a risibili motivazioni di archiviazioni di denunce penali. Molti di questi magistrati sono gli stessi che hanno insabbiato le denunce di Giangrande contro i loro colleghi magistrati che insabbiano in terra di mafia. Peccato però che nessuna condanna sia conseguita, in quanto i medesimi denuncianti mai si sono presentati in udienza, causando il naturale proscioglimento.

Ma questo non è un fatto isolato e riferibile esclusivamente a chi è emarginato per il sol fatto che racconta ciò che vede e per questo accusato di mitomania o pazzia.

In giro ci sono altri mitomani o pazzi.

Dal “La Stampa”: Rinviata a giudizio per aver criticato il primo pm che indagò sulla morte violenta del figlio. Eppure, non fosse stato per la sua ostinazione di madre, forse le indagini sulla fine di Federico Aldrovandi si sarebbero impantanate in quell’incredibile versione ufficiale per cui il ragazzo era deceduto in seguito all’assunzione di droghe, durante un controllo di polizia particolarmente movimentato. Invece Patrizia Moretti non si arrese, aprì un blog che attirò l’attenzione di tutta l’Italia sulla vicenda e di fatto riuscì a imprimere una svolta decisiva all’inchiesta: quattro poliziotti furono poi condannati in primo grado per eccesso colposo in omicidio colposo del giovane 18enne, morto per le botte prese mentre era ammanettato a terra. Non solo, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento danni da due milioni di euro in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile.

Ma ora, il gup del tribunale di Mantova ha deciso di processare la madre di Federico per diffamazione a mezzo stampa. Insieme a lei sono stati rinviati a giudizio due giornalisti e il direttore del quotidiano La Nuova Ferrara. E così, con una capriola che ha il sapore del paradosso giudiziario la donna che era riuscita a ottenere giustizia per suo figlio ora si ritrova lei a subire un processo. La frase che le è costata l’incriminazione, pronunciata nel gennaio 2006 quattro mesi dopo la morte di Federico, quando le indagini ancora languivano, è questa: «È un fascicolo ancora vuoto». Patrizia Moretti si prepara a una nuova battaglia in tribunale: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata per aver criticato chi non aveva fatto le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo e noi lo faremo, e così come lo avevano fatto a Ferrara a Federico ora lo faremo noi al magistrato che mi ha denunciata». Si chiama Maria Emanuela Guerra la pm che condusse la prima parte dell’inchiesta prima di rinunciare all’incarico e che ha ritenuto lesive quelle dichiarazioni. La Moretti da parte sua non si aspettava né che il magistrato andasse a fondo nella querela né, tantomeno, che ieri il gup decidesse per il rinvio a giudizio: «Abbiamo prodotto documenti che dimostrano che le mie parole sono state dette in tribunale, durante due dei processi per l’omicidio di Federico, e che sono sancite in due sentenze. Eppure il Gup ha disposto il rinvio a giudizio». E’ addolorata ma non ha perde la sua determinazione: «Non mi tiro indietro. Io della dottoressa Guerra non volevo più sentir parlare, ma se mi tira per i capelli ci sarò, e allora dovrà dire lei perché ha aperto il fascicolo solo il 16 gennaio, perché non è andata sul posto e perché non ha sequestrato i manganelli». Il legale della Moretti, Fabio Anselmo, aggiunge che la pm «sarà il nostro principale teste a discarico” e ricorda come, stranamente, il docufilm del giornalista Rai Filippo Vendemmiati – «E’ stato morto un ragazzo», che a maggio sarà anche premiato dal presidente Napolitano -, pur riportando le stesse parole non sia stato oggetto di alcuna denuncia. «Tutto ciò è pazzesco ma a questo punto non vedo l’ora di andare a processo, così verrà fuori tutto quanto – aggiunge la madre di Federico – La cosa che mi dispiace è che l’udienza è stata fissata per il 1˚ marzo 2012…».

Aldrovandi, stampa alla sbarra. Ricordate il ragazzo di 18 anni ucciso da tre poliziotti a Ferrara nel 2005? Il giornale della città aveva sostenuto quella che poi è emersa come la verità, criticando il giudice che aveva fatto le prime, inconcludenti, indagini. E ora il suo direttore è sotto processo. Ecco che cosa scrive al “L’Espresso”.

Dal direttore del quotidiano “La Nuova Ferrara” riceviamo e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore, è sempre bello tornare nella propria città. Non sarà così, però, il primo marzo: in Tribunale a Mantova, con alcuni colleghi, sono imputato in un processo per diffamazione. Dove sta la notizia? Il fatto è che siamo alla sbarra per aver dato voce a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. Una donna coraggiosa che, grazie al suo blog, ha fatto emergere la verità sulla morte del figlio di 18 anni: non per un'overdose, ma per le conseguenze di un fermo di polizia. Quattro poliziotti sono stati condannati in primo e secondo grado. Ma questa è una guerra che non finisce mai, perché dall'altra parte della barricata c'è una pm, Maria Emanuela Guerra, che ci ha mitragliato di querele ogni volta che la Moretti parlava dell'inchiesta e dei suoi lati oscuri. Ne ho collezionato un pacco, che conservo sulla scrivania. Alla Guerra, prima titolare delle indagini, è stato rimproverato da più parti di non essere andata sul luogo in cui morì Federico il 25 settembre 2005 fidandosi della versione dei poliziotti. Poi abbandonò l'inchiesta, che in mano ad un altro pm, Nicola Proto, subì un'accelerazione decisiva. Nella motivazione della sentenza d'appello di Bologna, il giudice Luca Ghedini scrive tra l'altro:«...Le indagini preliminari? Iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo pm (la Guerra)». Ma gli aspetti oscuri sono tanti. Tanti giornali e televisioni hanno raccolto le stesse testimonianze, sul caso Aldrovandi è uscito un documentario ("E' stato morto un ragazzo", di Filippo Vendemmiati) che ha vinto il David di Donatello. Ma la Guerra ha querelato sempre e solo noi. Inoltre, in vista dell'udienza penale del primo marzo a Mantova, si è costituita parte civile chiedendo al nostro giornale almeno 300 mila euro per i gravi danni al suo onore e al suo prestigio. Somma che si aggiunge al milione e mezzo di euro che chiede nel processo civile in calendario il 21 marzo al Tribunale di Ancona. Non manca la beffa: oltre al sottoscritto sono imputati il collega Daniele Predieri e un nostro ex collaboratore, Marco Zavagli, che non è l'autore dell'articolo contestato, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura. Un grossolano errore che abbiamo fatto notare nell'udienza preliminare a Mantova, senza successo. Per la Procura è uno pseudonimo. Ma nel mio giornale nessuno ne fa uso, semplicemente hanno scambiato gli autori di due articoli. Il legale della Guerra ha chiesto un rinvio dell'udienza: il primo marzo l'avvocato Flora ha una lezione all'Università di Firenze. Non sappiamo ancora se sarà accolta. Mi chiedo cosa succederebbe in caso di condanna: quello che per due Tribunali (Ferrara e Bologna) è verità, per un altro (Mantova) sarebbe diffamazione. Per la giustizia e la libertà d'espressione sarebbe la fine. Paolo Boldrini, direttore della 'Nuova Ferrara'.

DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SIAMO IN ITALIA, TERRA DI POETI, NAVIGATORI E TIRANNI!!

Omicidi di Stato: Caso Aldrovandi. La mamma: «Io imputata dopo la morte di mio figlio».

Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore.

Questa è la storia che scrive Andrea Scanzi su “La Stampa”.

Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.

Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.

Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.

Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione.

E' dunque oltremodo consigliabile "Zona del silenzio", di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito per Minimum Fax. Racconta l'omicidio di Federico Aldrovandi. E' tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E' un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.

"Zona del silenzio" era il cartello in Via dell'Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte.

Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni. 

Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l'esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E' un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. E' vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, considerando che l'eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo. La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po'. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.

Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato. La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C'è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono. La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L'abbiamo bastonato di brutto".

Il Giudice di Ferrara ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo. La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c'è l'indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti.

In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l'eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio. Da lì tutto è nato. Altri blog, l'interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l'ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio. E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato. E un senso crescente di democrazia sospesa.

E' una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. “Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull'asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata).

I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l'auto. Il testicolo squarciato? E' saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja.

La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l'autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l'ennesimo colpo ricevuto.

E' una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell'ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.

E' una storia che fa molto Italia. Ma non è tutto. Patrizia Moretti sarà processata dal 1 marzo 2012 con l’accusa di diffamazione verso la pm Mariaemanuela Guerra per le critiche che fece alle prime indagini condotte dal magistrato sulla morte del figlio. A giudizio anche giornalisti e direttore della “Nuova Ferrara”, così come è riportato dallo stesso quotidiano.

Il dolore ce l'ha dentro, e se lo tiene stretto. La rabbia invece la getta fuori con le lacrime che si asciuga, uscendo dal tribunale, e con parole misurate che non vuol più tenere a freno: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata dopo la morte di mio figlio».

«Ma come hanno voluto fare il processo a Federico indagando su di lui solo sulla droga, ora lo faremo al magistrato che mi ha denunciato, la dottoressa Guerra». A 6 anni dalla morte del figlio, dopo processi, sentenze e veleni come vittima di una delle tragedie umane e giudiziarie più impensabili, Patrizia Moretti da ieri è imputata di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del pm Mariaemanuela Guerra. E' stato il gup Villani del tribunale di Mantova a decidere, con una udienza lampo, che lei, il direttore della Nuova Ferrara e due giornalisti (uno di loro a processo nonostante non abbia scritto nessuno degli articoli incriminati e chiamato in causa dalla procura perchè comunque avrebbe collaborato alla stesura o il suo nome potrebbe essere uno pseudonimo) dovranno presentarsi in tribunale il 1 marzo 2012.

«Sono da oggi imputata - ha spiegato la Moretti - per aver criticato il modo con cui vennero fatte le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo, lo faremo, andando fino in fondo, senza scorciatoie e nemmeno remissioni di querele». All'udienza velocissima, il pm Fabrizio Celenza aveva rinnovato la richiesta di rinvio a giudizio, nonostante le difese della Moretti e del giornale avessero prodotto copiosa documentazione su tutte le sentenze del caso Aldrovandi, Aldrovandi bis che contengono le dichiarazioni di altri magistrati ferraresi che si sono occupati di questi casi e di atti del Csm che aveva valutato l'operato della pm Guerra sul mancato sopralluogo il giorno della morte di Federico in via Ippodromo, il 25 settembre 2005. «Il processo non ci spaventa, sarà la stessa dottoressa Guerra il nostro principale teste a discarico» ha detto l'avvocato Fabio Anselmo, difensore della Moretti.

Il legale nella sua arringa ha fatto anche un accostamento singolare: le stesse affermazioni critiche sulle indagini della pm Guerra per cui ora è a processo la Moretti - ha riferito - sono le stesse, e più dirette, riproposte nel docu-film sul caso Aldrovandi di Filippo Vendemmiati, giornalista pluri-premiato in tutta Italia e che l'8 maggio prossimo sarà premiato dal presidente della Repubblica Napolitano, per la sua opera di denuncia. «Un filmato che non è stato querelato», ha spiegato al giudice il legale: «Perchè allora la Nuova Ferrara sì e altri no?».

Il difensore della Nuova Ferrara, Arrigo Gianolio ha sottolineato al giudice «che un magistrato dovrebbe avere sempre equilibrio e che in questa vicenda purtroppo mi pare sia mancato».

«E' assurdo tutto questo - ha commentato Patrizia Moretti -. A pensarci bene non ho ancora capito per quale motivo debba sostenere un processo come imputata. Solo per aver criticato come mio diritto l'operato del magistrato che si occupò della prima parte dell'inchiesta sulla morte di mio figlio: si è trattato di critiche che ho potuto fare solo dopo aver appreso nuovi fatti da inchieste e processi condotti da altri magistrati a Ferrara». «Voglio ricordare - conclude - che questa inchiesta era stata condotta da un altro magistrato, il pm Nicola Proto che ha portato a processo e fatto condannare i quattro poliziotti per la morte di mio figlio».

IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.

UNA STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA:

Le vittime dell'omicidio Simonetta Cesaroni.

Raniero Busco è innocente. Oggi, venerdì 27 aprile 2012, la prima Corte d’assise d’appello di Roma lo ha assolto dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni, la sua ex fidanzata. Lacrime in aula. Applausi fuori dal tribunale. È stata così ribaltata la sentenza di corte d’assise che soltanto il 26 gennaio 2011 aveva condannato l’imputato a 24 anni di reclusione per omicidio volontario. Questa è la giustizia italiana: aspetta 22 anni (il delitto di via Poma risale al 7 agosto 1990) per accusare e condannare un presunto colpevole, ma poi è capace di assolverlo appena 13 mesi dopo. E meno male!! Merito dei media e degli avvocati di chiara fama e elevata stima giudiziaria. Oneri ed onori che però non valgono per tutti. In mezzo, il sospettato ha trascorso oltre 8 mila giorni d’inferno, spesso alla gogna. E ora si vedrà se ci sarà un terzo grado di giudizio, e a che cosa mai potrà portare.

Questa incoerenza è una caratteristica purtroppo sempre più frequente della cronaca nera italiana. Perché, insieme a quella di Simonetta Cesaroni, troppe altre vicende giudiziarie restano senza un colpevole certificato. Per media e magistratura basta trovare un colpevole, non il colpevole. Fa niente se sono persone, quelle da triturare, e non semplici fascicoli giudiziaria. Troppi omicidi restano senza nemmeno un indagato. Il caso di Yara Gambirasio è aperto dal 26 novembre 2010, quando la ragazza è scomparsa per poi essere ritrovata cadavere in un campo, e da allora lo stillicidio di notizie spesso contraddittorie è insopportabile: ora si sarebbe scoperto (?) del liquido seminale sugli slip della povera ragazza. Chissà. Ma restano senza alcuna giustizia anche Chiara Poggi e, in parte, Meredith Kercher. Colpa di inquirenti inadeguati? E di chi, sennò?

La mia lunga odissea nel pianeta ingiustizia. L’intervista a Raniero Busco rilasciata il 29 aprile 2012 a Maurizio Gallo e pubblicata su “Il Tempo” di Roma: l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni racconta la tortura di un innocente.

C'è voglia di normalità in casa Busco. Dopo due anni da sospettato, quasi due da indagato, uno da imputato, quattordici mesi da condannato e ventiquattr'ore da innocente, il desiderio più grande è tornare alle piccole incombenze quotidiane. Un bacio ai gemellini Riccardo e Valerio, trascurati a lungo per la tensione e l'angoscia, una carezza a Mia, la gatta nera di famiglia e, soprattutto, la ritrovata spensieratezza coniugale con Roberta Milletarì, la moglie-tigre che l'ha protetto, difeso e consolato per tutto questo tempo e che dopodomani festeggerà il suo quarantatreesimo compleanno senza l'incubo di doversi separare dal marito per vederlo finire in una cella. La prima notte dopo il verdetto d'appello che l'ha fatto esplodere in un pianto liberatorio non è stata tranquilla. «Avevo un'insopportabile acidità di stomaco ed ero teso come una corda, tanto che ho dovuto prendere due Maalox e un analgesico, il Brufen. E ancora sono così frastornato che non riesco neanche ad essere felice», spiega Raniero nella sua villetta di vicolo Anagnino 35, una casetta color senape semplice e dignitosa che sorge accanto ad altre simili in una stradina stretta al centro di Morena. Il quartiere dov'è cresciuto e vissuto e dove gli abitanti lo hanno sempre protetto con un affettuoso e solidale cordone «sanitario». E il pellegrinaggio di amici e parenti è continuato anche ieri, quando lo abbiamo incontrato.

Qual è stata la cosa che l'ha fatta soffrire di più in questi anni? «A farmi più male sono state le affermazioni del pubblico ministero nel processo di primo grado, quando ha detto che non c'era un colpevole alternativo a Busco. Mi ha ferito il senso di impotenza che provavo. Tu stai lì e, per anni, ti dicono che sei un pazzo criminale. Mi hanno descritto come un assassino freddo e brutale, una persona assetata di sangue e di sesso. Ma non sapevano e non sanno nulla di me. Io non sono così...».

Il momento peggiore? «La cosa che mi è rimasta più impressa è stata il campanello che annunciava il ritorno dei giudici dalla camera di consiglio, sempre nel primo processo. Non perché pensavo di essere condannato, ma per l'angoscia tremenda che provavo in quel momento».

Uno degli elementi che ha contribuito a far addensare su di lei i sospetti, al di là delle prove scientifiche poi smentite dalla perizia superpartes nel processo d'appello, è stata la sua apparente amnesia sul giorno del delitto. Non ricordava l'alibi fornito alla polizia. Eppure avevano massacrato la sua fidanzata. Come ha potuto dimenticare? «A Fiumicino, dove lavoro come meccanico, facevo i turni. Quello di notte comincia alle 23 e finisce alle sette. Alle otto tornavo a casa e mi mettevo a dormire. Mi svegliavo verso le due di pomeriggio e facevo piccoli lavoretti, riparavo motorini e macchine agricole nel mio garage. Il venerdì smontavo la mattina e riprendevo il lunedì. Quindi vedevo Simonetta nel fine settimana. Gli altri giorni ci incontravamo con gli amici verso le 18 al bar portici per giocare a biliardino e chiacchierare. Era una routine. Quando ho detto che il 7 agosto ero stato con Simone Palombi a fare riparazioni in garage mi sono affidato alle mie abitudini, perché erano passati quindici anni e ho pensato che anche quella volta avessi fatto le stesse cose. Sarei un cretino se avessi cercato di crearmi un alibi falso con Simone sapendo che era stato ascoltato anche lui dagli investigatori».

Ma l'alibi era fondamentale per il riconoscimento della sua innocenza. Lei non ricordava neppure se glielo avevano chiesto o meno... «Mi hanno fatto pesare che quel giorno non avevano trascritto l'alibi nel verbale d'interrogatorio. Ma che è colpa mia? Sicuramente me l'hanno chiesto. Una volta che gliel'ho detto, mi sono messo l'anima in pace. Pensavo: mi hai sospettato subito, mi hai perquisito casa, mi hai torchiato e quindi hai avuto i riscontri. Poi non ho una grande memoria, tante cose non le ricordo. Forse anche perché sono innocente. E solo i colpevoli ricordano bene tutti i dettagli».

Come avete dato la notizia ai vostri figli? (Nel frattempo sono arrivati Roberta, la madre Giuseppina e il fratello Paolo. Ed è la moglie di Busco a rispondere mentre i gemellini di dieci anni giocano tra salotto e camera da letto). «Saputo dell'assoluzione, la maestra ha abbracciato Riccardo in silenzio. E lui le ha detto: ho capito. Quando sono tornata a casa e mi ha raccontato l'episodio gli ho chiesto: cosa hai capito? E lui: che è finita. Quindi non abbiamo avuto bisogno di aggiungere altro».

Questi anni sono stati un incubo, come li avete vissuti in famiglia? (A queste parole Giuseppina Busco piange. E si scusa: "Sono lacrime di gioia, stavolta", spiega). «Noi siamo lontanissimi da queste cose, non siamo come voi, non sappiamo niente di giustizia, di processi - continua Roberta - Non leggiamo gialli e neanche la cronaca nera. Lei capisce, il danno non è solo economico, è anche esistenziale. Questi anni di vita adesso chi ce li potrà restituire?».

Cosa farete adesso, come vedete il futuro? «Vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima - risponde Busco - Una vita fatta di piccole cose, di viaggi programmati e magari mai fatti, di sogni. Sentirsi addosso gli occhi di tutti che ti riconoscono per strada è stato pesante. Ora è come fare riabilitazione. Sono stato cinque anni fermo, immobilizzato. Non posso mettermi a correre subito. Devo ricominciare lentamente. E fare un passo dopo l'altro...». 

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.

La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare. Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione. Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso". Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi. Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo». È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente». Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore. Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo. Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.

Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea. L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo. «È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ». Vanacore scrisse quella lettera dopo l'ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.

All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa». Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale». «In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.

Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.

Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

IL FALLIMENTO DELLO STATO DI DIRITTO

Cose allucinanti. Una condanna, che per i più va al di qua del ragionevole dubbio. Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere: nell'aula bunker di Rebibbia la sentenza di I grado sul delitto di via Poma. Dopo due decenni, la morte di Simonetta Cesaroni trova “un colpevole”, che per molti non è “il colpevole”. Nel processo per la morte della ragazza uccisa il 7 agosto 1990 con 29 coltellate, Busco, ex fidanzato della Cesaroni, era l'unico imputato. Il pm Ilaria Calò aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà. Questo dopo la morte di Pietrino Vanacore, additato dalla stampa ed accusato dai magistrati di essere coinvolto nell’omicidio. Colpevole. Dopo più di 20 anni. Ma la condanna va al sistema giudiziario. E’ il fallimento di uno stato di diritto. Quale rito si è rispettato se dopo venti anni sono venuti meno tutte le prove e tutti gli strumenti difensivi. LA PENA. E’ la sanzione prevista che lo Stato, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria affligge all’autore di un fatto illecito. La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di punire il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha funzione rieducativa che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, terzo comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Dopo più di venti anni quale prevenzione a vantaggio della società ci può essere e quale rieducazione si può prevedere per il reo. Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni prima la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione. Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» il 26 gennaio 2011 alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione». Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo. Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta. Il processo era iniziato il 3 febbraio 2010. L'accusa, il pm Ilaria Calò, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. I giudici della terza corte d'assise, dopo una riunione in camera di consiglio, ha concesso all'imputato le attenuanti generiche. Per venti anni si è cercato la verità su quell’efferato delitto compiuto nell'ufficio dell'Associazione alberghi della gioventù dove Simonetta lavorava. Il 7 agosto 1990 Simonetta a 21 anni venne massacrata con un tagliacarte. Il suo carnefice la colpì 29 volte in tutto il corpo, ferite profonde circa 11 centimetri. Ad ucciderla però, fu un trauma alla testa. L'ipotesi degli investigatori fu che le coltellate erano state inferte sul cadavere solo per depistare le indagini. Il corpo seminudo e senza vita della ventunenne venne scoperto alle 11 di sera. L'autopsia accertò che non aveva subito violenza carnale e che la sua morte era avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. Il Busco, all'epoca aveva 26 anni ed era il fidanzato della vittima. Il primo ad essere stato sospettato del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore che scoprì il delitto. Poi gli inquirenti puntarono i loro sospetti su Federico Valle che era il nipote di un architetto che abitava in quel palazzo, Cesare Valle. Per il primo alcuni giorni dopo il delitto arrivò il fermo, mentre per il secondo nel 1992 un avviso di garanzia. Successivamente prima nel 1993, il Gup prosciolse dall’accusa di favoreggiamento Vanacore e Valle da quella di omicidio, e poi nel 1995 la Cassazione definitivamente emise la decisione di non rinviarli a giudizio. Le indagini ripartivano da zero. Gli inquirenti sospettarono che l’assassino fosse nella cerchia dei contatti della ragazza. Tra gli altri indagati finì anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, anche per lui il fascicolo venne archiviato. La svolta nelle indagini nel 2006. I risultati delle analisi di tracce di saliva rinvenuta sul reggiseno di Simonetta, ritrovato, dopo anni, dimenticato, e rimasto incustodito, in un armadietto del laboratorio di medicina legale, portarono al Dna dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario nel settembre del 2007. Gli investigatori, inoltre, prelevano anche l'impronta dell'arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla, attraverso le foto autoptiche del 1990, con il morso riscontrato sul seno di Simonetta. Il 9 novembre 2009 venne poi rinviato a giudizio e il 3 febbraio 2010 iniziò il processo. Nel corso del quale, il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione come teste, Vanacore si tolse la vita. Scompariva di scena un personaggio importante, e forse detentore di qualche segreto, di questa intricata vicenda. il 26 gennaio 2011 poi, la sentenza di primo grado. Il mistero che ha avvolto per tanti anni la morte di Simonetta Cesaroni è davvero svelato? Il difensore di Busco, Paolo Loria, ha affermato: “Non è stata fatta giustizia, andremo in appello”. “Non c'è prova alcuna che Raniero Busco abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Non si sa nemmeno con certezza che sia mai entrato in quell'ufficio”. Sono le parole del criminologo Francesco Bruno che si è detto profondamente stupefatto della condanna a 24 anni dell'ex fidanzato della Cesaroni. “Ancora una volta si dimostra come i giudici di primo grado risentano delle ipotesi accusatorie”, ha spiegato Bruno aggiungendo che: “Busco sarà certamente assolto in appello, ma sarà ben difficile cancellare quel marchio che gli hanno appiccicato addosso. Speravo che infine si tenesse in maggiore considerazione la fragilità accusatoria e che nel dubbio si arrivasse ad una soluzione più' ragionevole. Così non è stato, tuttavia nella condanna a 24 anni c’è tutto il senso di una non certezza della sua colpevolezza”. “La sentenza di condanna a 24 anni per Raniero Busco non risolve il caso di Via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni”. Ad affermarlo il criminologo Carmelo Lavorino, autore tra l’altro di un libro sul delitto di via Poma. Comunque sia per ora Busco non andrà in carcere. Nonostante la condanna a 24 anni di reclusione infatti, la corte non ha disposto alcuna misura in merito. Un fatto questo dovuto allo stato della sentenza. Quella emessa è infatti una sentenza non definitiva emessa in primo grado di giudizio. In Italia una sentenza diviene 'definitiva' solo al terzo grado, con il pronunciamento della Corte di Cassazione. Il caso in cui un condannato finisce in carcere dopo il primo grado si verifica solo se ci sono i presupposti per la custodia cautelare, che sono tre: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e possibile reiterazione del reato commesso. In questo caso il provvedimento restrittivo potrebbe essere applicato solo se ci fosse un reale pericolo di fuga. Cosa questa che sembra poco probabile che possa verificarsi. Busco ricorrerà in appello nella certezza dell’assoluzione in secondo grado di giudizio come ha anticipato il suo legale. Un ricorso in appello che invece, se non ci fosse porterebbe Busco in carcere. L’ordinamento infatti, prevedere che decorsi i 45 giorni dal deposito delle motivazioni di primo grado, la sentenza diverrebbe definitiva e il pm come 'giudice dell'esecuzione' potrebbe disporre la carcerazione del condannato.

Inaspettata dopo il 1° grado, ma attesa secondo la super perizia arriva il 27 aprile 2012 intorno alle 13 la sentenza d’appello: Raniero Busco è innocente, «assolto per non aver commesso il fatto».

Raniero Busco è stato assolto dalla prima corte d’assise d’appello di Roma per non aver commesso il fatto. L’uomo era accusato di aver ucciso Simonetta Cesaroni, assassinata il 7 agosto del 1990 in via Poma, che all’epoca era la sua fidanzata. Decisiva per l’assoluzione la perizia disposta dai giudici in appello: il segno su un seno di Simonetta non sarebbe riconducibile ad un morso di Busco e sul reggiseno della ragazza oltre al Dna dell’ex fidanzato comparirebbero altri due Dna. La sentenza di primo grado l’aveva condannato a 24 anni di reclusione per omicidio. Busco dopo la sentenza è stato colpito da un lieve malore: è stato sorretto dal fratello e dalla moglie, poi ha pianto abbracciato ai familiari. Arriva dopo 22 anni la sentenza che rivela la verità giudiziaria sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. La Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma, che venerdì 27 aprile si era ritirata in camera di Consiglio intorno alle 11, ha impiegato circa due ore e mezza per decidere la conclusione del nuovo processo per il caso di via Poma. Intorno alle 13.30 la pronuncia: Busco è stato dichiarato non colpevole. E' stata così annullata la sentenza di primo grado che aveva condannato l'ex fidanzato di Simonetta a 24 anni di reclusione. La sentenza è stata accolta da un urlo di sollievo. «Da oggi ricomincio a vivere - ha detto Busco -. Quando è uscita la Corte, in un attimo, ho rivisto tutta la mia vita». La verità, l'identità del «mostro» che assassinò la giovane romana, resta un giallo. La Corte d'Assise e d'Appello ha ritenuto dunque fondati i rilievi sollevati dai consulenti nominati dalla corte stessa, gli autori della superperizia secondo la quale il segno sul seno sinistro della ragazza uccisa - considerato in primo grado la «firma» dell’assassino, ovvero il segno perfetto della dentatura anomala di Busco - non era un morso. La conferma della condanna era stata sollecitata dal procuratore generale Alberto Cozzella, insieme con gli avvocati di parte civile. Mentre la tesi dei difensori Franco Coppi e Paolo Loria era che Busco dovesse avere la piena assoluzione «per non aver commesso il fatto», così come prevede l'art. 530 del codice di procedura penale al primo comma. E così è stato. Assenti i familiari di Simonetta, l'imputato Raniero Busco era presente in aula assieme alla moglie Roberta Milletari. «Non so come sarebbe finita la nostra storia ma non ho mai pensato di farle del male - aveva detto Busco durante l'udienza del 23 aprile -. Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho provato quando ho perso mio padre». E aveva concluso rivolto alla corte: «Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza». Busco è stato colto da malore dopo la pronuncia di assoluzione. Sorretto dal fratello e attorniato da una gran ressa di telecamere e fotoreporter l'ex fidanzato di Simonetta è stato portato in una stanza dai carabinieri che svolgono l'ordine pubblico in Corte d'appello. Alla lettura della sentenza, Busco avrebbe prima esultato abbracciando la moglie, poi secondo alcune testimonianze sarebbe stato colto da un lieve malore. Ma uno degli avvocati ha smentito: «No, è stato composto. Ha solo pianto di gioia». Abbracci e commozione tra gli amici dell'imputato per la vittoria della linea difensiva. Il primo a parlare di morso era stato la notte dell’autopsia di Simonetta Cesaroni il medico legale Ozrem Carella Prada, proprio uno degli esperti nominati per la superperizia dal procuratore generale della Corte d’assise d’appello. L’avvocato storico della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro, ricorda a memoria le parole della perizia: «Si nota una deviazione del capezzolo del seno sinistro e la formazione di una crosticina che potrebbe essere stata causata da un probabile morso». «Scrisse probabile o eventuale morso» precisa Molinaro, «usò una formula dubitativa. Il pm Cavallone, una volta ritrovato il corpetto e il reggiseno di Simonetta, si rilesse per l’ennesima volta gli atti e puntò su quelle parole, su quella pista, sui Dna, su quel segno e la dentatura unica di Busco per via di un sovradente». ”E’ una sentenza emessa dall’unico organo deputato ad emettere una pronuncia in appello. Va accettata e rispettata” commenta alla stampa il procuratore generale, Alberto Cozzella. “All’esito del deposito delle motivazioni (la corte d’assise si è presa almeno 90 giorni) - ha aggiunto Cozzella – decideremo il da farsi. Non è escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. I giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria sono entrati in Camera di Consiglio poco dopo le 11. La riunione in camera di Consiglio è stata preceduta dalle repliche delle parti che, a sostegno delle rispettive tesi accusatorie e assolutorie hanno ripercorso le tappe fondamentali della vicenda esaminando punto per punto anche gli esiti peritali che da una parte portano a scagionare l’imputato e dall’altra come sostiene la Procura generale a confermare le responsabilità di Busco. E si accende la polemica sul dna, diventato prova regina in questo processo. “L’assoluzione di Raniero Busco era attesa, perchè nel condannarlo non sono state tenute in considerazione tutte le prove ma si è data un’importanza esagerata al solo Dna” afferma alla stampa il medico legale Angelo Fiori, uno dei periti all’epoca del delitto. “Questa sentenza sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove” afferma Fiori. ”Già all’epoca – prosegue – era emerso che il sangue trovato sulla porta era incompatibile con il gruppo di Busco, e questo secondo me già bastava a non includerlo nei sospettati. Ci si è basati invece solo sul Dna trovata sul presunto morso sul seno, ma senza tenere conto del fatto che c’erano quelli di tre persone, e non solo di Busco”. D’accordo con l’analisi anche Vincenzo Pascali, uno dei consulenti della Procura di Roma: “C’è stata una mancanza di lucidità nella valutazione delle prove – dice – la sentenza è dovuta al fatto che si sono considerate conclusive delle evidenze che invece non lo erano”. Da considerare una cosa: se non ci fosse stata la super perizia, perché non ammessa, o perché non necessaria, cosa sarebbe successo?

MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.

Innocente in cella per 11 mesi. Tre colpi al supermarket in un mese, ma il colpevole non era Manolo Zioni. Il vero rapinatore ha già confessato da mesi, eppure il giovane è stato assolto, con formula piena, dopo mesi. Da “La Repubblica”.

Quasi un anno dietro le sbarre, urlando la propria innocenza. Undici mesi di galera, ma non era lui il rapinatore. Quello dei tre colpi al supermarket in un solo mese, protagonista di un video ribattezzato dal web "Tre rapine con affetto". Non era Manolo Zioni, il ragazzo con il casco, immortalato dalle telecamere a circuito chiuso della Sma intorno a via Mattia Battistini, mentre saluta con una pacca affettuosa il cassiere che gli ha appena consegnato i soldi. Il vero colpevole ha già confessato da mesi, eppure il giovane, un 23enne di Primavalle, è stato assolto, con formula piena, soltanto il 26 settembre 2011. Finito a processo per colpa di una perizia sbagliata e finalmente scagionato grazie a una seconda relazione dei carabinieri del Ris. Questi gli ingredienti di una follia giudiziaria che ha tenuto in cella per 350 giorni un innocente. Ad inchiodare il ragazzo, finito in manette il 21 settembre del 2010 e tornato libero il 6 settembre 2011, le immagini video girate nel supermercato dove una semplice ombra sarebbe stata scambiata con il tatuaggio che il giovane ha sul collo. A nulla sono valse le testimonianze rese dalle vittime che lo hanno indicato come innocente. Contro di lui anche le analisi dei tabulati telefonici nei tre giorni delle rapine: il suo telefonino si agganciava proprio alla cella che serve la zona del supermercato. "Il nostro assistito abita in quel quartiere", hanno chiarito gli avvocati Alberto De Luca e Fabio Menichetti. "Siamo contenti per l'esito del processo - hanno dichiarato http://oas.repubblica.it/0/default/empty.gif- ma siamo rimasti meravigliati da una certa superficialità della Scientifica".

OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.

Omicidi di Stato e di Stampa.

La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.

IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.

"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.

''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.

''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.

Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.

Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.

"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell' autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l' assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l' esito dell' autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell' uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell' autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un' emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."

Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.

LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.

Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.

Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.

NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.

Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.

Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.

Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.

A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.

A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.

Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.

Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.

Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.

A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.

SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA , E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.

Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.

Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.

Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.

Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»

OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.

«C'è in noi enorme tensione per quello che ci aspetta» ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi «Da oggi in avanti sarà ancora una sofferenza, perchè tutto ci riporterà alla mente quanto accaduto». È iniziato giovedì 24 marzo 2011 il processo davanti alla terza Corte d'assise del Tribunale di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni arrestato il 16 ottobre del 2009 e poi deceduto il 22 ottobre nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Sul palco degli imputati tre agenti carcerari, 6 medici dell'ospedale Sandro Pertini in servizio presso il reparto detenuti e tre infermieri dello stesso reparto. In tutto dodici persone. «Ci sono diversi coni d'ombra in questa vicenda - ha detto l'avvocato di parte civile Fabio Anselmo - Ricostruiremo l'ultimo mese di vita di Stefano». Tra le richieste preliminari all'inizio del dibattimento c'è stata quella che ha sollecitato una delle difese, relativa all'effettuazione di un sopralluogo nella cella del tribunale di Roma dove fu tenuto il giovane in attesa dell'interrogatorio successivo al suo arresto.

LE ACCUSE - I tre agenti di Polizia penitenziaria - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici - devono rispondere del reato di lesioni personali aggravate per aver abusato dei loro poteri. In pratica avrebbero picchiato Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, quando questo era in attesa dell'udienza di convalida dell'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Ma l'accusa più grave è quella contestata ai quattro medici ed ai tre infermieri che prestavano all'epoca dei fatti servizio al Sandro Pertini. Il reato è quello di abbandono di persona incapace, aggravato dalla morte, la condanna prevista dal Codice va dai tre agli otto anni. Ne devono rispondere i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi, Luigi Preite e Silvia Di Carlo; e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Un altro dottore, Rosita Caponetti, è accusata di falso e abuso d'ufficio in relazione alle condizioni di Cucchi ed al suo ricovero. È già stato condannato a due anni il dirigente del Prap - Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria -, Claudio Marchiandi, a cui è stata data una pena di due anni.

Il padre: rivendicava i suoi diritti "Stefano prima di morire rivendicava solo i suoi diritti. E' vero, ha fatto il digiuno ma solo perché voleva che venissero rispettati i suoi diritti come quello di nominare un suo avvocato. E' morto in maniera civile, e' stato ammazzato in maniera incivile". Così Giovanni, padre di Cucchi, ripercorre gli ultimi momenti di vita del figlio.

La storia Cucchi fu arrestato il 15 ottobre di due anni fa alle 23.30. Una pattuglia di carabinieri lo trovò in possesso di stupefacenti. Fu portato in carcere e, il giorno dopo, fu portato davanti al giudice monocratico per la convalida dell’arresto. Alle 13.30, dopo la convalida, Cucchi fu affidato alla polizia penitenziaria e qualche tempo dopo il medico del tribunale si accorse che aveva alcune ecchimosi sulle palpebre e altre contusioni. Alle 15.45 arrivò a Regina Coeli ma, tre ore più tardi, fu trasportato al Fatebenefratelli dove furono riscontrate ulteriori lesioni. Alle 23 venne riportato in carcere ma il giorno successivo, il 17 ottobre, fu portato all'ospedale al Pertini. La mattina del 22 ottobre Stefano morì e da lì è iniziò il procedimento penale che ha portato al rinvio a giudizio di chi, tra guardie carcerarie, medici e infermieri, era stato coinvolto.

Ferite che assomigliano a bruciature di sigarette. Croste sulle mani. Un doppio livido trasversale all’altezza dell’osso sacro, forse dovuto a un calcio. Volto tumefatto. Sono «terribili», dicono gli avvocati Fabio Anselmo e Dario Piccioni, le foto dell’autopsia di Stefano Cucchi conservate nel fascicolo della procura. Le prime due mostrano il giovane vestito «come nel giorno dell’arresto, non gli hanno mai dato un cambio».

Nelle altre il geometra è spogliato e allora saltano agli occhi «le tremende condizioni di deperimento» del suo corpo esile. E non possono non notarsi «le escoriazioni profonde, ovali o circolari», come se qualcuno gli avesse spento dei mozziconi addosso: «Su un pollice, sui gomiti, sul dorso delle mani e all’attaccatura dei capelli». Le foto avvalorano l’ipotesi del pestaggio formulata dai pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy. Una «pista» basata sulla deposizione del supertestimone che, sabato, sarà sottoposto a incidente probatorio davanti al gip Luigi Fiasconaro. Il suo racconto è contenuto in un verbale di 30 pagine piuttosto confuso, in cui i magistrati sono costretti a chiedere più volte di che colore fossero le divise dei «picchiatori ».

«L’hanno colpito a calci», ha riferito il giovane ai pm descrivendo la scena che sarebbe avvenuta nel corridoio delle celle di sicurezza del tribunale. Finita l’udienza di convalida Cucchi sarebbe stato rinchiuso con lui: «Dopo che l’hanno messo in cella — ha detto il supertestimone — ho visto che lo spingevano». E Cucchi si sarebbe confidato: «M’hanno menato quegli stronzi». Il Dap, senza aver ancora concluso l’inchiesta interna, ha spostato i tre agenti della penitenziaria indagati a Fiumicino, a Rebibbia e al carcere minorile di Casal del Marmo.

OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI.

Poliziotti indagati: Sconfitta l'omertà. Il caso Aldrovandi di Milano si chiama Michele Ferrulli, morto durante un controllo di polizia il 30 giugno 2011. La figlia di Ferrulli a Simone Bianchini su “La Repubblica” : “Non mi sono mai arresa, mio papà avrà giustizia”.

Michele è stato ammazzato, racconta “MilanoX” in quel quadrilatero di case popolari a ridosso dell’Ortomercato di Milano, tra via del Turchino e via Varsavia. “Hanno paura della polizia” ci aveva detto la figlia di Michele, Domenica Ferrulli. E infatti da quel giorno il quartiere piombò nella più totale omertà, quando non addirittura ostilità nei confronti di Domenica. “Gente che prima dell’uccisione di mio padre mi salutava, dopo si girava dall’altra parte facendo finta di non conoscermi” aveva raccontato Domenica. Il pm della Procura Gaetano Ruta, nella chiusura delle indagini, ha usato parole impietose: Michele Ferrulli venne percosso “ripetutamente” anche “con l’uso di corpi contundenti” quando era già “immobilizzato a terra, non era in grado di reagire e invocava aiuto”. Gli agenti indagati sono quattro, due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli: Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. E’ stato un anno di indagini difficili, rese ancor più complicate da Prefettura e Questura che hanno fino all’ultimo cercato di coprire gli agenti, gettando fango su Michele (le solite cose, era ubriaco, aggressivo, aveva precedenti penali…). Non solo, questa è anche una vicenda di indagati non intercettati e testimoni chiave spariti.

Indagati non intercettati e un testimone chiave sparito dice "E-Il Mensile". Domenica Ferrulli ha potuto leggere nei fascicoli d’indagine sulla morte di suo padre Michele soltanto le parole che lei stessa ha pronunciato al telefono, oltre quelle dei due testimoni rumeni, dei quali, tra l’altro, uno ha fatto perdere le proprie tracce. Nessun accenno, dunque, a quello che si sono detti i quattro agenti intervenuti la sera del 30 giugno scorso in via Varsavia, a Milano, quando il 51enne è morto davanti agli uomini in divisa. Niente di niente. Cosa insolita: di solito le intercettazioni telefoniche e ambientali degli indagati abbondano nei fascicoli d’inchiesta dei casi di omicidio. Basti pensare alle principali storie di cronaca nera degli ultimi anni: giornali, televisioni, radio e siti internet hanno pubblicato e ripubblicato le frasi dei vari coinvolti, spesso buttando via inchiostro per conversazioni che nulla hanno a che fare con le varie vicende. Questa volta non è andata così, le parole dei poliziotti sono ormai disperse nell’etere. Oltre all’assenza di intercettazioni tra le divise, però, c’è un altro particolare che getta un – inquietante – alone di mistero sulla vicenda: la scomparsa di un amico rumeno di Ferrulli, presente anche lui in via Varsavia quella maledetta serata di fine giugno. “Lo hanno picchiato in tanti, e alla fine Michele è caduto a terra…”, con queste parole Emilan Nicolae, 45 anni, anche lui testimone dei fatti, ha descritto gli eventi al pm, aggiungendo di aver sentito il suo amico gridare aiuto. La testimonianza, però, non arrivò immediatamente, ci volle qualche giorno perché l’uomo si recasse in procura per parlare di quello che aveva visto. Perché non lo disse subito? “Mi sentivo confuso”, così rispose agli investigatori l’amico della vittima. L’altro testimone, però, ha fatto perdere le sue tracce. Pare sia tornato in Romania, non vuole sapere più nulla di questa storia. Ma le sue parole potrebbero rivelarsi fondamentali per risolvere il mistero. Al momento, né il pm né la famiglia Ferrulli (le cui istanze sono portate avanti dall’avvocato Fabio Anselmo) hanno sue notizie. Ad ogni modo, i fascicoli dell’indagine aiutano a ricostruire la vicenda, grazie alla combinazione delle immagini fornite da un telefonino e da una telecamera di sorveglianza della farmacia. Sono le 22 e 07 quando in via Varsavia arriva una volante: un residente della zona aveva chiamato il 113, lamentandosi per alcuni rumori molesti. Ferrulli è lì, “si pone davanti al poliziotto”, l’agente sembra non scomporsi e “si allontana dalla zona di contatto, Ferrulli lo segue e una volta fermato si mette davanti a lui”. Si avvicina un altro uomo in divisa e colpisce l’uomo con uno schiaffo. A questo punto arriva una seconda volante. Alle 23 e 30, Ferrulli è immobilizzato a terra, chiede aiuto. I poliziotti, però, non sembrano preoccupati: lo colpiscono “ripetutamente” infatti, mentre lui non aveva più alcuna possibilità di opporre resistenza. Non ci sarà più nulla da fare, l’uomo cede, inutili i tentativi di rianimazione. Quel 30 giugno, Michele Ferrulli era uscito con gli amici, ha bevuto qualche birra, ha incontrato la polizia ed è morto. L’indagine – al solito complicatissima, quando ci si imbatte in casi del genere – è condotta dal pm Gaetano Ruta che ha indagato quattro agenti (due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli); Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo, per omicidio colposo e falso ideologico, per aver artefatto il rapporto su quanto accaduto. Secondo l’accusa, gli agenti avrebbero ecceduto “i limiti del legittimo intervento”. Ma non sono solo i filmati a puntare il dito contro i poliziotti, c’è anche una perizia – eseguita da Gaetano Thiene dell’Università di Padova – che parla di un decesso improvviso, avvenuto “durante un’azione di contenimento e accompagnato da percosse di agenti della polizia”. A causare la morte, per Thiene, è stato “un violento attacco ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento, dall’eccitazione da intossicazione da alcool e dalle percosse con tempesta emotiva e iperattivazione adrenergica”. Ferrulli era alto un metro e ottanta, pesava 147 chili e aveva un cuore piccolo per la sua mole, appena 700 grammi. Particolari che hanno concorso ad ucciderlo.

«Per me è un grande giorno, le indagini sulla morte di mio papà sono terminate e ci sono quattro agenti di polizia indagati per omicidio colposo e falsità ideologica». La linea del pm Gaetano Ruta premia la volontà della figlia di Michele Ferrulli - Domenica, 26 anni, un marito e 2 figli - che dalla sera del 30 giugno dell' anno scorso, quando è morto suo padre, ha cominciato e portato avanti, caparbiamente con speranza e fiducia, una lotta serrata perché si stabilisca e si accerti la verità di quanto avvenuto quella sera. Il pm ha comunicato la chiusura delle indagini formalizzando le accuse ai quattro agenti. «Un passo davvero grande che arriva al termine di un percorso lungo e difficile - racconta Domenica - se io mi fossi arresa non saremmo arrivati a questo. Mi sono scontrata con l'omertà, la paura delle persone. Tanto silenzio, c' erano dei testimoni oculari che sono scappati, erano persone che pensavamo fossero nostri amici e che quella sera ci avevano sostenuto». Invece poi è successo qualcosa: «Hanno minacciato me e la mia famiglia dicendoci che loro non volevano essere interrogati, non volevano dire la verità, avevano paura della polizia e mi chiesero di tenerli fuori da questa vicenda. Io non mi sono fermata, ho raccontato al pm tutto quello che loro mi avevano raccontato. E poi sono arrivate le minacce a mio fratello: gli stessi testimoni, forse a loro volta minacciati da qualcuno, gli dicevano di riferirmi che col tempo l' avrei pagata e che non avrei dovuto dire nulla». I familiari di Ferrulli non si sono fermati, sono andati avanti, Domenica ha trovato l'aiuto della mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e della sorella di Giuseppe Uva, Lucia. Parenti di supposte vittime delle forze dell' ordine: «Mie compagne di battaglia. A loro, che devono combattere anche contro i pm, va un grazie speciale perché mi hanno indirizzato verso la strada giusta». «Fondamentale» l'arrivo dell' avvocato Fabio Anselmo, già difensore proprio dei parenti di Cucchi e Uva: «Ci era stato detto, dalla procura, che stavamo andando incontro ad una archiviazione sicura del caso - spiega Domenica Ferrulli - . Il rischio era che non si parlasse più di mio padre, che tutto venisse sepolto con lui. Ma dentro di me gli avevo fatto una promessa, ancora accesa: che avrei fatto luce su quel che gli è successo. Era un padre, un marito e un grandissimo nonno che mi manca moltissimo». Le indagini difensive hanno portato alla luce nuove prove: «Le testimonianze, i video, tutto quello che siamo riusciti a raccogliere ha convinto il pubblico ministero a non archiviare ma a studiare i fatti. Così è stata rintracciata e interrogata l' autrice del video girato quella sera in via Varsavia, in cui si vedono i poliziotti che picchiano mio padre a terra, ammanettato e mentre chiede aiuto. Facendo questo ne hanno provocato la morte: io sono convinta che se loro non lo avessero picchiato, mio padre quella sera sarebbe tornato a casa. Non sarebbe morto». Per l' avvocato Anselmo, «indagare gli agenti è una decisione molto importante. Significa riuscire a portare il caso in un processo e rendere giustizia a un uomo che non era violento ma ha subito violenza dagli agenti». Quello che resta, nel cuore di Domenica e di sua mamma Caterina, è un altro dispiacere: «Il fango su mio papà. Dissero che mio padre era un pregiudicato aggressivo, un delinquente. Bugie e cattiverie, adesso avrà giustizia».

Alle 9.30 del 20 luglio 2012 - scrive Claudia su “Abuso di Polizia” - si è tenuta l'udienza preliminare per il processo di Michele Ferrulli. Di fronte al tribunale di Milano in via Manara erano presenti la figlia della vittima, Domenica Ferrulli, il fratello Francesco e la Signora Ferrulli; nei loro volti era assolutamente palpabile la tensione, occhi lucidi, ma con il cuore fermo e deciso a volere e gridare giustizia. Al loro fianco, come una vera grande famiglia allargata Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva pestato a morte in caserma; Massimo Uccheddu, figlio di Carrus Maria Rosanna, Luigi Vittorino Morneghini l'uomo di 63 anni aggredito il 20 maggio 2011 nella periferia di Milano da due poliziotti in borghese e Luciano isidro Diaz, massacrato di botte da degli agenti di polizia. A pochi metri di distanza dal tribunale un presidio di persone ha manifestato per chiedere giustizia per Michele, un vero atto di solidarietà civile da parte dei vicini di Michele, gli amici, ma anche gente normale, sensibile alla vicenda, scesa in piazza perchè sdegnata dall'ingiustizia subita da Michele Ferrulli; molte persone hanno parlato, ricordando che oggi è anche l'anniversario della morte di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso dall'agente di polizia Mario Placanica nei tragici giorni del G8 di Genova nel 2001. Prima di entrare in aula riusciamo a cogliere una battuta carica di speranza dell'avvocato della famiglia Ferrulli, Fabio Anselmo, noto per aver assistito altri familiari di vittime dello stato come Aldrovandi e Cucchi; l'avvocato ha dichiarato "oggi è un giorno importante", e lo è stato. Gli avvocati dell'accusa e della difesa hanno parlato davanti ai microfoni del tribunale di Milano. L'accusa ha chiesto e ottenuto dal Gip il rinvio a giudizio dei i quattro agenti per "omicidio colposo" e "falso ideologico". E' stato anche presentato il video che mostra con sconcertante evidenza il pestaggio dell'uomo, che subisce almeno nove manganellate sul corpo, ormai riverso a terra; il video è stato rielaborato dalla procura di Milano rendendolo ancora più chiaro e nitido rispetto alla versione originale, anche se pure in quella era comunque cristallino l'abuso realizzato dagli agenti e perpetrato nei confronti di Michele Ferrulli. La difesa di tutta risposta controbatte che il video in realtà non mostra niente di assolutamente evidente, che i familiari della vittima si sono lasciati suggestionare dalle immagini, vedendo cose che non in realtà non c'erano. Il video parla chiaro: "Hai visto il cazzotto in bocca che gli danno?", dice la voce fuori campo, mentre a pochi metri Michelle Ferrulli giace sotto i colpi delle forze dell'ordine. Il video era noto, ora si conosce anche il proprietario. La figlia di Michele, Domenica Ferrulli, ha fatto tradurre le parole dei testimoni rom.

Ed alla fine la caparbietà ed il coraggio delle vittime ha trovato riscontro e ristoro, quindi corrispondenza, nel buon cuore ed illibata coscienza di un magistrato fuori dal coro. “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica” raccontano che Il gup milanese Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i quattro poliziotti che avrebbero percosso nel corso di un arresto Michele Ferrulli, il 30 giugno 2011 a Milano, quando era già "immobilizzato a terra". I poliziotti sono Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. Secondo la Procura, quando l'uomo "si trovava a terra in posizione prona, era immobilizzato e invocava aiuto", i quattro lo avrebbero colpito "ripetutamente anche con l'uso di corpi contundenti". L'uomo, un facchino, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla Corte d'assise. Il processo per loro inizierà il prossimo 4 dicembre 2012. "E' un ottimo inizio", ha commentato Domenica Ferrulli, figlia di Michele. "Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno". Già però il PM ha tentato di affibbiare un reato meno grave di quello che in effetti il GUP ha disposto. Magagne giudiziarie per rendere l’impunità? A richiedere il processo per gli agenti era stato il pubblico ministero Gaetano Ruta, che da un'iniziale ipotesi di omicidio preterintenzionale aveva poi chiuso le indagini nei confronti dei quattro con l'ipotesi di cooperazione in omicidio colposo. Secondo l'accusa, gli agenti avrebbero "ecceduto i limiti del legittimo intervento", concorrendo "a determinare il decesso" dell'uomo, dovuto fra le altre cose "alle percosse". Ferrulli si trovava in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, vicino a un bar, dove una volante della polizia intervenne perché da una casa vicina erano arrivate lamentele per i continui schiamazzi in strada. L'uomo, con precedenti penali per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, stando a quanto era stato riferito in questura, quella sera era ubriaco, "aggressivo e ostile". I poliziotti, secondo il pm, avrebbero agito "con negligenza, imprudenza e imperizia, consistite nell'ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo (pur essendo in evidente superiorità numerica) e continuando a colpirlo anche attraverso l'uso di corpi contundenti". Il gup di Milano Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i 4 poliziotti che avrebbero percosso «ripetutamente» nel corso di un arresto a Milano il 30 giugno 2011 Michele Ferrulli, quando era già «immobilizzato a terra». L'uomo, manovale, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo ad omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla corte d'assise. Il processo per loro inizierà il 4 dicembre 2012. «È un ottimo inizio. Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno». Così Domenica Ferrulli, la figlia del 51enne morto durante un controllo di polizia in via Ferraro, ha commentato la decisione del giudice per l’udienza preliminare non solo di rinviare a giudizio i 4 poliziotti accusati di aver pestato a morte Michele Ferrulli, ma di riqualificare l’imputazione da «cooperazione in omicidio colposo per eccesso colposo dell’adempimento del dovere» nella più grave di «omicidio preterintenzionale». Luigi Manconi, presidente dell'associazione A Buon Diritto, giudica «estremamente importante» la notizia della riqualificazione del reato: « Più volte abbiamo denunciato la scarsa corrispondenza tra un atto di fermo che avviene con modalità evidentemente abnormi, tali da non escludere conseguenze mortali, e un titolo di reato palesemente inadeguato. La verità è che, anche di recente, tra Milano e Roma, si sono verificati numerosi casi di "omicidio preterintenzionale" nel corso di fermi. Nella maggior parte di queste vicende - conclude Manconi - il nesso di causalità tra violenza dell'azione di fermo e morte del fermato è stato ignorato. Questa volta, grazie alla tenacia di Domenica Ferrulli, figlia della vittima, e dell'avvocato Fabio Anselmo, si è aperto uno spiraglio di verità».

Michele il gigante e quegli scontri per le cosa occupate, scrive Gianni Santucci su "Il Corriere della Sera". Lotte e denunce per aggressione. La rabbia. La scritta Ferrulli "un mese fa aveva aggredito il prete di zona per strada accusandolo di aiutare solo gli extracomunitari". Aveva occupato un appartamento vent'anni prima. Ora lì resta una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». «Ci hanno chiamato dal bar e siamo scesi di corsa, è proprio dietro casa». Domenica Ferrulli parla dall'ospedale, è la mezzanotte di giovedì, ha seguito l'ambulanza che dopo l'arresto ha portato il padre Michele al pronto soccorso, l'uomo è già morto. La ragazza, 25 anni, dice che farà «denuncia». È scossa, la voce rotta, passa il cellulare a un familiare che racconta: «Ci siamo avvicinati e Michele era a terra. Abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. I poliziotti ci hanno detto che aveva cercato di aggredirli e avevano dovuto immobilizzarlo». Continua la ragazza: «Ma non è andata così, l'hanno picchiato. Una donna è uscita dal bar e ha urlato "raccontate la verità"». E ancora: «Ci sono i testimoni e il video. Mio padre ha segni sui polsi a causa delle manette e altri lividi dietro l'orecchio» (nei referti dell' ospedale di San Donato, di questi segni vicino alla testa non c'è traccia). Inizia così, con questa telefonata al Corriere, la storia di una serata balorda fuori da un bar alla periferia sud-est di Milano, di fronte ai mercati generali della città. È qui che Michele Ferrulli aveva occupato un appartamento, vent'anni fa. Sul caseggiato ora campeggia una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». Lo striscione, lassù all'ingresso, l'aveva appeso lui. È firmato: «Comitato Turchino». Turchino è la via, e il comitato è uno tra i più attivi, in difesa degli abusivi storici delle case popolari milanesi. Di quel gruppo Ferrulli era un pezzo storico, un sostenitore. «Era un figlio del popolo», dicono qui. E una sorta di avvocato difensore un po' per tutti, in questo quartiere complicato. Aggiungono due particolari, i conoscenti, che sono forse utili per capire cosa è accaduto l'altra notte durante l'arresto. «Appena c'era una discussione, lui si metteva comunque in mezzo. Per aiutare, per difendere». La domanda è: difendere da chi? Da una pattuglia che sta facendo un controllo? Per qualcuno, in queste strade, il poliziotto o il carabiniere sono sempre e comunque intrusi, «rompiballe», anche se a chiamare il 113 per schiamazzi è un altro abitante. Qui molti ragazzotti dicono sbirro, e lo fanno con disprezzo. L'uomo morto dopo l'arresto di mercoledì sera era una montagna, molti chili di troppo accumulati negli ultimi anni, gli occhi chiari, origini pugliesi. Aveva avuto una piccola impresa di idraulica e riparazioni di caldaie, chiusa l'anno scorso. Teneva però ancora il furgone, con cui si arrangiava per piccoli lavoretti, edilizia e traslochi. Ma chi voleva «difendere» Ferrulli l'altra sera? E soprattutto, da cosa? In realtà gli agenti della Volante, chiamati per schiamazzi, stavano solo identificando i due uomini romeni che erano in strada vicino a lui, con la birra in mano e la musica dell'autoradio troppo alta. Di certo, non c'era niente da cui «difendersi». Era un controllo di routine, una cosa da niente, un intervento che di solito si risolve con quattro parole e nessuna conseguenza. Un controllo che però, adesso, qualcosa rivela: con uno dei due romeni, Ferrulli era stato controllato nell'ottobre dell'anno prima. Erano insieme in un bar, non volevano pagare, erano molesti e la titolare chiamò la polizia. Non è il solo precedente che aveva, negli archivi delle forze dell'ordine ce ne sono per lesioni, danneggiamento, «insolvenza fraudolenta». L'ultimo episodio è del 18 maggio: un parroco della zona ha chiamato i carabinieri denunciando di essere stato aggredito. Ai militari del Nucleo radiomobile il sacerdote ha raccontato che, mentre camminava per strada, ha incrociato Ferrulli che passava col furgone e l'ha salutato. Lui però si è fermato e, ha denunciato il parroco, «mi si è avvicinato e mi ha tirato uno schiaffo, poi mi ha detto una frase del tipo "voi preti siete delle merde, aiutate solo gli extracomunitari", alla fine mi ha colpito altre due volte». L' uomo e la sua famiglia erano entrati da anni in una sorta di spirale abbastanza comune nelle case popolari di Milano: una vecchia occupazione (auto)giustificata «per necessità»; la denuncia che pregiudica una successiva assegnazione regolare; una sorta di limbo per cui si rimane nell'appartamento anche per decenni, ma sempre col rischio di uno sgombero. In quella casa di via del Turchino, Ferrulli era entrato nel 1991 con la moglie e la figlia piccola, poi era arrivato un altro figlio, infine cinque anni fa anche un nipote. Aveva ristrutturato l'appartamento e pagava una sorta di «indennità d'occupazione». Nel 2007 aveva resistito a uno sgombero. Si era rivolto al Comitato inquilini «Molise-Calvairate-Ponti», storica associazione di cittadini che da decenni aiuta questa parte dolente di città, spesso dimenticata dalle istituzioni. Prima e dopo quello sgombero, Ferrulli aveva però difeso tante altre famiglie, come la sua «occupanti per necessità». L'aveva fatto con le manifestazioni e le mobilitazioni. Quella era la sua «battaglia giusta».

CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.

La condizione di “Condannati preventivi”. Le manette facili di uno stato fuorilegge.

Quando in uno Stato, che si definisce “Culla del Diritto”, la metà dei suoi detenuti in carcere sono innocenti e nessuno dei ben pensanti liberi e criminali impuniti se ne “fotte”, allora è uno Stato che non merita rispetto. Non meritano rispetto nemmeno la massa che lo abita e che si accapiglia solo sui soldi e non sui valori civili e sulla la dignità umana.

Parlar con il popolino non conviene, questo sa più della laurea che tieni. Su questi argomenti è sempre negazione, perché?!? Perché l’ha detto la televisione!!!” (parte di una poesia di Antonio Giangrande). Si scrive per i posteri affinchè si ridia onore a chi oggi onore non ha.

E SE UN DOMANI IL DANNATO FOSSI TU !!!

Quasi un detenuto su due è recluso nelle galere italiane in regime di custodia cautelare. In altre parole, carcere preventivo. La detenzione dietro le sbarre in assenza di una sentenza di condanna ha assunto dimensioni abnormi, che sono valse al nostro Paese la maglia nera in Europa. Se oggi in Italia è più facile andare in carcere in assenza che non a seguito di una condanna; se i processi hanno una durata elefantiaca e spesso un’estinzione quasi certa; se quintali di carcere preventivo in celle dove può succedere di tutto, e di tutto infatti vi succede, vengono dispensati senza che vi sia un meccanismo efficace per ottenere riparazione in caso di ingiusta detenzione; se oggi un magistrato può spedirti dietro le sbarre con una formuletta di rito senza che tu abbia alcun mezzo per difenderti (anzi spesso la detenzione ostacola l’articolazione di una vera difesa); se tutto questo è vero, allora esiste un problema.

Esiste un Caso Italia. Le manette strette ai polsi di presunti colpevoli ci paiono la norma. Ma di normale non c’è nulla.

ConDANNATI preventivi”: Se il carcere preventivo è abuso.

Questo è libro di Annalisa Chirico.

Adriana è la badante romena accusata dell’omicidio di un’anziana: 3 anni di carcere e poi l’assoluzione perché il fatto non sussiste, la vecchia è morta d’infarto. Elizabeth è considerata la referente italiana di un cartello internazionale di droghe: quattro anni di galera seguiti da altri sei con obbligo di dimora, poi l’assoluzione e il ricongiungimento con la figlia salutata dieci anni prima in Colombia.

Sono alcune delle storie che racconto in “ConDANNATI preventivi”, che non è un libro sul carcere ma sulla giustizia in Italia. Attraverso casi più o meno noti (da Alfonso Papa a Raffaele Sollecito, da Lele Mora a Silvio Scaglia) si accende una luce sui nodi irrisolti della giustizia italiana, un vero manicomio dove è più facile finire in galera prima della condanna e poi uscire una volta condannati. Da strumento di cautela processuale la custodia cautelare dietro le sbarre è diventata anticipazione della pena e mezzo per estorcere confessioni. E’ l’antidoto alla irragionevole durata dei processi. Il 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio, la metà di questi sarà dichiarata innocente. Nel 2011 lo Stato italiano ha versato 46 milioni di euro per ingiusta detenzione, 235 euro è il prezzo di un giorno di libertà negato. Dal 1988, anno dell’entrata in vigore della legge Vassalli, ad oggi le condanne irrogate nei confronti di magistrati per dolo o colpa grave sono state quattro in tutto. Avete capito bene. Condannati preventivi – Le manette facili di uno Stato fuorilegge” di Annalisa Chirico è un pamphlet di denuncia, scritto con linguaggio battagliero e polemico, spesso esuberante, scrive Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali”. L’autrice, del comitato nazionale di Radicali Italiani, scrive su “Panorama” e “Il Giornale”; ha affidato la prefazione del suo lavoro a Vittorio Feltri e la postfazione di Giorgio Mulè, attuale direttore di “Panorama”. Nella sue due paginette, Feltri si pronuncia per l’amnistia come condizione per rientrare nella legalità, definisce le carceri un “museo degli orrori” ed elogia i Radicali. Anche Annalisa Chirico utilizza l’intero armamentario lessicale tipicamente pannelliano: tortura legalizzata, Stato criminale, Corte costituzionale come “suprema cupola della mafiosità partitocratica” e via dicendo; cita di continuo Pannella, D’Elia, Bernardini, Arena, “Radio Carcere” e “Radio Radicale”. La prima parte del libro è sicuramente la più interessante e istruttiva: 70 pagine in cui scorrono molti protagonisti, noti e meno noti, delle cronache e degli orrori giudiziari italiani. Si comincia con il deputato Alfonso Papa, che sottolinea le “scorrettezze” sia del Parlamento, sia dei magistrati (a partire dagli interrogatori) per finire con le condizioni di vita nell’inferno di Poggioreale. Poi via via tutti gli altri, ognuno dei quali descrive un aspetto particolarmente scandaloso e tragico. Lele Mora che perde 35 chili e fa 400 giorni di carcere preventivo per bancarotta. I giornali si chiedono: “Quanto c’è di vero nella sua conversione morale?” invece di interrogarsi sul trattamento cui è stato sottoposto. Poi si parla di “Giancarlo” accusato di una scalata alla Lazio che non ha mai tentato, e di Silvio Scaglia, uno degli italiani più ricchi, che dalle Antille affitta un aereo privato per attraversare l’Atlantico e presentarsi al giudice e viene incarcerato per il “pericolo di fuga e inquinamento delle prove”. Si racconta di una sconosciuta Elisabeth accusata di narcotraffico, incontrata da Sergio D’Elia e difesa dagli avvocati radicali Caiazza e Rossodivita, completamente scagionata dopo 9 processi nel corso di 13 anni. Quando le dicono “Lei è libera” si chiede: “E adesso cosa faccio? Dove vado?”. Amanda Knox e Salvatore Sollecito (delitto Meredith, Perugia) totalizzano 1450 giorni di carcere in due, per poi essere assolti con grande ira popolare. Amanda accusa Patrice Lumumba (che per sua fortuna ha un alibi di ferro) ma ritratta subito: ha fatto il suo nome solo perché distrutta da un interrogatorio/tortura. In attesa di giudizio le vengono negati i domiciliari con la motivazione che non avrebbe dimostrato “rimorso” (!?!?). Adriana, badante rumena, viene accusata di avere ucciso la vecchia che assisteva: tre anni dentro, per poi scoprire che già l’autopsia aveva dimostrato la morte per infarto: il fatto non sussiste. Massimiliano Clerico si fa il carcere per calunnia (?!?!?!) mentre le lettere anonime calunniose le aveva mandate un altro: è assolto ma la sua ditta intanto fallisce. Renato Raimondi fa un giorno di carcere, il Gip non convalida l’arresto: rimborso minimo 235,82 euro. Lo Stato gliene versa 200 poi Equitalia gli chiede 136,05 euro di tassa per la registrazione della sentenza in Cassazione. Dopo l’assoluzione definitiva riceverà un rimborso di 3.000 euro. Daniela, prostituta sieropositiva, viene accusata di “tentate lesioni volontarie gravissime” per avere avuto rapporti non protetti. Ma negligenza e imprudenza non possono essere “tentate”, il reato può essere solo doloso e non colposo.

Assolta, chiede l’indennizzo ma le viene negato: la sua condotta è comunque “riprovevole”, il giudizio morale prevale sul diritto. P.O.

viene arrestato per droga, è pluri-pregiudicato ma questa volta non c’entra. Viene assolto, lo Stato è condannato a rimborsare entro 120 giorni ma inizia una guerra di carte bollate, riceve i soldi solo 6 anni e mezzo dopo. Salvatore Ferraro è un caso notissimo (delitto Marta Russo, Sapienza Roma). Chirico racconta l’interrogatorio scandaloso della testimone Alletto (tutta l’Italia lo ha visto nella videocassetta di Panorama) che dice: “Io in quell’aula non c’ero, mi prenderanno per pazza”, e il pm: “No, la prenderemo per omicida.

Lei entra in carcere e non esce più”. Così la Alletto accusa Scattone e Ferraro. Il Tribunale del riesame respinge l’istanza di scarcerazione scrivendo che “il movente sta nell’assenza di movente”. Anche Liparota, altro testimone, prima conferma la (estorta) testimonianza della Alletto, poi ritratta dicendo di essere stato costretto dalle eccessive pressioni. Ferraro sta in carcere fino alla condanna, poi appena condannato... esce: una giustizia folle, alla rovescia. Se avesse confessato il falso, accusando Scattone, sarebbe uscito subito. Dulcis in fundo, a Ferraro viene chiesto dall’Università un milione di euro di risarcimento danni. In realtà deve pagarli Scattone ma il giudice... si è sbagliato, ha confuso i due. Eh già, il giudice si è sbagliato, sorride amaro Ferraro. Aldo Scardella si impicca a 24 anni nel carcere di Cagliari nel 1986. Lo avevano sbattuto dentro perché sospettato di una rapina ma non c’entrava nulla, i veri colpevoli saranno trovati e condannati molti anni dopo. Il suo suicidio è un omicidio di Stato. Procuratore capo, giudice istruttore e Pm si rimpallano le responsabilità per la decisione dell’isolamento. Emergono i pessimi rapporti interni al Tribunale, le polemiche, le rivalità personali. A Scardella è intestata una piazza cittadina. Infine Giuliano Naria, il cui caso è notissimo, la più lunga custodia cautelare della storia d’Italia, morto di cancro a 50 anni.

La seconda parte del libro è meno interessante, più ripetitiva.

L’autrice ricorda Enzo Tortora, ma anche Clementina Forleo che nel ’94 assolve Melluso dalla querela per diffamazione perché, al di là di quanto stabilito dal processo, “i fatti potrebbero essere andati diversamente”. Si descrivono le carceri come “discarica sociale”, “fabbrica di mostri”, luoghi di pena corporale eccetera. Ci si dilunga sulle motivazioni che dovrebbero giustificare la carcerazione preventiva – gravi indizi di colpevolezza, pericolo di fuga, reiterazione e inquinamento delle prove – per dimostrarne il mancato rispetto e l’intima incongruenza con il dettato costituzionale. Si denuncia la non terzietà del giudice e la mancata separazione delle carriere, le ripetute condanne in sede europea. Si ricorda la vicenda giudiziaria di Corrado Carnevale, accusato di complicità con la mafia e poi assolto da tutto. Si denuncia la giustizia per campagne emergenziali: prima il terrorismo, poi la mafia, poi ancora la corruzione politica. Tangentopoli viene descritta come un golpe moralizzatore a opera del “partito dei magistrati” (Mellini) Un magistrato, Marcello Maddalena, parla di “momento magico” dopo l’arresto, quando “l’arrestato si preoccupa meno della solidarietà nei confronti dei correi e più della rapida conclusione della sua disavventura”.

Le ultime pagine parlano del reato di stupro e di una magistratura che opera con il fiato sul collo degli umori popolari, montati dalla televisione. Un paragrafo è dedicato al braccialetto elettronico, misura mai decollata nonostante le ingenti somme investite (100 milioni spesi, 10 braccialetti sperimentati in tutto) mentre in altri paesi funziona perfettamente: 100.000 in Usa, 60.000 nel Regno Unito. Nelle conclusioni, Chirico cita ancora Pannella: l’amnistia contro la “flagranza criminale”, le prescrizioni come amnistia strisciante e di classe. Secondo l’autrice, la carcerazione preventiva va impedita tout court, completamente e per tutti, le carriere separate, l’obbligatorietà dell’azione penale abolita, le leggi ex-Cirielli e Fini-Giovanardi abrogate (37% di detenuti in Italia per reati connessi alla droga, contro una media europea del 15%). Per contro, la legge Vassalli sulla responsabilità non è mai stata veramente applicata: dal 1988, 406 cause avviate, 34 dichiarate ammissibili e solo 4 concluse con una condanna. L’autrice propone l’istituto della sospensione della pena e messa in prova del detenuto e l’introduzione delle liste d’attesa per le carceri (come in Norvegia) con arresto domiciliare. Sicuramente l’attitudine della giovane autrice (classe 1986) di parlare in prima persona e di rivolgersi direttamente ai lettori (“Tendono le mani attraverso le sbarre, a te si aggrappano e tu ti senti così piccola, così impotente”; “Non prendetelo come un invito all’eversione ma come un monito: qui ci stanno fregando, ora lo sapete”; “Dovrebbe preoccuparci tutti. Io sono preoccupata, non so voi”) non contribuisce ad accrescerne l’autorevolezza. Piccoli peccati di presunzione che Annalisa Chirico saprà presto lasciarsi alle spalle, nel corso della brillante carriera giornalistica e politica che sicuramente l’aspetta.

«Il carcere preventivo? Una vergogna italiana», scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”.

«Lo Stato italiano sottrae pezzi di vita più o meno ampi a cittadini innocenti». Alfonso Papa, magistrato e deputato del Pdl, dopo essersi fatto nel 2011 ben 157 giorni di reclusione, 101 dei quali in carcere, per un presunto coinvolgimento nell'inchiesta sulla P4, si occupa a tempo pieno della condizione carceraria. E ha idee molto chiare su come la carcerazione preventiva rappresenti nel nostro Paese uno strumento di tortura.

Papa, davvero la carcerazione preventiva è una stortura tutta italiana?

«Guardi, in nessun Paese democratico vi si fa ricorso in modo così massiccio. Le statistiche ci dicono che il 43 per cento dei detenuti sono soggetti in attesa di giudizio e per cui vale quindi la presunzione di innocenza. E che di questi il 50 per cento è poi riconosciuto non colpevole già nel giudizio di primo grado. Per questo sostengo che lo Stato rubi pezzi di vita». Pezzi di vita trascorsi peraltro in condizioni disastrose. I detenuti italiani hanno a disposizione meno di 3 metri quadri l'uno, collocandosi a metà strada tra quanto la legge stabilisce per le salme (1 mq) e i maiali di allevamento (3 mq). Non a caso nelle carceri italiane c'è un morto ogni cinque giorni, quasi tutti suicidi. L'Italia ripudia la pena di morte ma non nelle proprie galere. Inoltre per chi subisce la carcerazione preventiva la tortura è doppia: difficilmente infatti esce di prigione migliore di quanto era prima».

La responsabilità di tutto ciò è soltanto della magistratura?

«Certo fa riflettere il modo in cui la magistratura metta in atto alcuni meccanismi di autodifesa. Ma anche la classe politica deve vergognarsi un po', Pdl compreso. Anche se la carcerazione preventiva può essere uno di quei temi di civiltà con il quale il Pdl potrebbe riempire un momento di vuoto politico. Sono convinto che non siano i Fiorito a uccidere la politica italiana, ma la mancanza di battaglie per gli ideali».

Lei ha costituito il comitato per la prepotente urgenza. Che cos'è?

«Intanto il nome: fu il Presidente della Repubblica a parlare un anno e mezzo fa di prepotente urgenza a proposito della situazione carceraria, salvo poi occuparsi di tutto in quest'ultimo anno e mezzo, compreso sostituire un governo scelto dal popolo con uno non eletto, tranne che di questa prepotente urgenza. Riuniamo diverse associazioni che vogliono costituire una fondazione per l'applicazione dell'articolo 27 della Costituzione. Con noi collaborano persone come Lele Mora. Personalmente ho presentato un progetto di legge contro l'abuso della carcerazione preventiva e visito un carcere all'incirca ogni dieci giorni. E sono sicuro che col tempo le coscienze si smuoveranno».

Anche il nostro (ex) direttore Alessandro Sallusti rischia di finire in galera.

«Il caso Sallusti è la punta dell'iceberg di questo gulag che è diventato l'Italia. In nessun Paese esiste il carcere per un reato intellettuale, di opinione, per di più non commesso personalmente ma in base al principio della responsabilità oggettiva. Lascia sbigottiti la volontà di emanare una condanna esemplare che va a colpire chissà perché Sallusti prevedendone niente di meno che la pericolosità sociale. Questa è una vicenda importante, che ci fa riflettere sull'assoluta mancanza di democrazia nel nostro Paese. E che soprattutto ci mostra in quale modo lugubre e medievale il carcere, la gattabuia, venga evocata come vera risposta per tutti quei comportamenti non condivisi. Anche se poi il problema vero non sono i Papa o i Sallusti, ma le migliaia di persone senza volto, senza dignità, che sono la vera carne al macero del sistema carcerario italiano».

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.

MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.

Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere.

A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la gelosia.

Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza. Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi.

Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la Bibbia. Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità».

«Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura giudicante gli va a ruota. Non è la prima volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

Basta ricordare i precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda».

Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa sorte, stesso muro di gomma.

Il 13 febbraio del 2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv. Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer.

La Vergogna di essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90. Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:

gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta;

8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;

13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;

24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;

30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;

15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;

5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;

1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;

9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;

14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;

28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella;

21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;

27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;

15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;

per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991;

per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;

per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali. Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Altra vergogna, altro precedente.

15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Altro precedente: Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocenti ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi. Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere?

Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere.

Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.”

Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»

Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa. Processo che dura da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.

SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.

Nel resto d’Italia c’è una sana contrapposizione tra la funzione accusatoria e quella difensiva. Interessi diversi che portano PER FORZA a posizioni diverse.

QUESTI SIGNORI GIURANO DI RISPETTARE E FAR RISPETTARE LA LEGGE

I MAGISTRATI HANNO L'OBBLIGO DI APPLICARE LA LEGGE NON DI EMANARLA

GLI AVVOCATI HANNO L’OBBLIGO DI DIFENDERE I CITTADINI INNOCENTI ACCUSATI INGIUSTAMENTE DAI MAGISTRATI, NON ESSERE LORO SCHIAVI.

INVECE A TARANTO TUTTI FANNO TUTT’ALTRO

Il decreto legge 207 sull'Ilva ha operato un «grave vulnus ai principi di obbligatorietà dell'azione e di indipendenza del pm» (articoli 112 e 107 della Costituzione) e questo «non appare tollerabile». Così scrive la Procura della Repubblica di Taranto nel ricorso inviato alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sul decreto legge salva-Ilva, convertito in legge il 20 dicembre 2012. Per i pubblici ministeri, il decreto ha fatto di peggio, ha cioè «legittimato la sicura commissione di ulteriori fatti integranti i medesimi reati» contestati, a partire ovviamente da quello di disastro ambientale. Per questi motivi la Procura chiede alla Consulta di dichiarare che «non spetta, nel caso di specie, al Governo della Repubblica autorizzare la prosecuzione dell'attività produttiva per periodo di tempo predeterminato», e che questa autorizzazione non può scavalcare gli eventuali provvedimenti di sequestro di beni dell'impresa adottati dalla magistratura. La vicenda Ilva, al di là degli aspetti processuali e penali, è di «enorme importanza da un punto di vista sociale ed etico» ha voluto chiarire il procuratore, Franco Sebastio, e per questo motivo è stato chiesto alla Corte costituzionale «un contributo di chiarezza», ma «non c'è nessuno scontro». Dubbi di costituzionalità della legge vengono affacciati anche dal presidente dell'Ordine degli avvocati di Taranto, Angelo Esposito, che parla di «problema serio di sospensione dei provvedimenti giudiziari». Per Esposito, se il provvedimento «fosse stato intrapreso da un governo di qualunque matrice politica, sarebbe scoppiata una rivoluzione», ma «è la prima volta che un governo sospende un reato a tempo» e che «assistiamo ad una intromissione così invasiva ed efficace del governo e del legislatore rispetto alla magistratura». Non solo, ma «non è serio dire che chi difende l'operato della magistratura è contro il lavoro», sottolinea Esposito, perchè «se la procura è intervenuta, è perchè aveva il dovere di farlo». Che ci sia o meno scontro istituzionale, sulla legge salva-Ilva si vanno definendo posizioni nette: da una parte magistrati e avvocati, dall'altra governo e, ovviamente, azienda.

L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI. 

Il sindacalista delle carceri: «Vi svelo le cifre dell'orrore». In 20 anni 1.097 suicidi (16.338 sventati) e 112.844 atti di autolesionismo che potevano sfociare in tragedie. "Se solo i giudici sveltissero i processi...", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Il primo fronte di guerra aperto da Roberto Martinelli è stato contro le fiction di Rai e Mediaset, Liberi di giocare, Un amore e una vendetta, e soprattutto Baciati dall'amore, «in cui un poliziotto penitenziario, rivolgendosi a un boss della malavita, manifestava sudditanza e disponibilità». Fino a ottenere, per Gente di mare, le scuse ufficiali di Carlo Degli Esposti, presidente della Palomar, che aveva prodotto lo sceneggiato per la Tv di Stato. Di lì a prendersela col dizionario Zingarelli il passo è stato breve: «Alla voce secondino riporta guardia carceraria. Definizioni entrambe sbagliate, così come agente di custodia, perché non tengono conto che il corpo degli agenti di custodia fu sciolto nel 1990. Abbiamo diritto a essere chiamati poliziotti penitenziari, oppure agenti penitenziari. Anche baschi azzurri, dal colore nei nostri copricapi, può andar bene». Se è così inflessibile sull'uso dei sinonimi, figurarsi la potenza di fuoco che Martinelli, segretario del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), è capace di dispiegare quando gli toccano i suoi colleghi: «Noi siamo costretti a tradurre i detenuti da una parte all'altra della penisola su Fiat Ducato che hanno già percorso mezzo milione di chilometri, privi di aria condizionata e con i sedili sfondati. Però al ministero della Giustizia gli scortati viaggiano su Maserati, Jaguar e Bmw, anzi viaggiavano, perché dopo la mia denuncia contro questa vergogna qualcosa è cambiato. L'Amministrazione penitenziaria ha anche comprato Land Rover da 100.000 euro per i collaboratori di giustizia, usate invece dai dirigenti». Il Sappe è il più importante dei sette sindacati - inclusi quelli di Cgil, Cisl e Uil - che tutelano i poliziotti penitenziari. Rappresenta circa un terzo dei 39.000 agenti in servizio: 12.000 iscritti. Martinelli, al suo terzo mandato da segretario, è in aspettativa fino al 2016. Se non dovesse essere rieletto, tornerà a fare il sovrintendente di polizia penitenziaria. Per otto anni ha lavorato nel carcere di Marassi, a Genova, la città dov'è nato nel 1968: «Ho potuto scegliere questa sede perché mi ero classificato primo al corso». Ragioniere, studi universitari in scienze politiche interrotti, sposato con una segretaria di banca, un figlio di 3 anni, s'è arruolato nel 1992, seguendo le orme del fratello maggiore Tommaso, oggi ispettore superiore dopo quasi tre lustri passati a sorvegliare i detenuti dello stesso penitenziario. Sulla vocazione di entrambi deve aver influito il fatto che la madre, sposata con un ferroviere, ha lavorato per 40 anni nell'ufficio del giudice di sorveglianza al tribunale di Genova. Che si tratti di una particolare vocazione, è fuori discussione. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, anziché diventare un investigatore impegnato nello scoprire i reati e nell'assicurare alla giustizia i malfattori, abbia preferito dedicarsi alla custodia dei medesimi dietro le sbarre, missione che talune menti deviate vorrebbero far coincidere col sadismo e che invece richiede un supplemento di umanità: «Siamo poliziotti due volte, perché dobbiamo far sì che il recluso non possa nuocere ancora alla società ma anche che diventi migliore. Non è un impegno facile e non è da tutti». Dario Mora, meglio noto come Lele, dopo i 408 giorni passati in isolamento nel carcere di Opera, vi ha persino dedicato un libro, "I miei angeli custodi". «Non siamo né angeli né diavoli. Rappresentiamo lo Stato, che è fatto di legalità, di regole e soprattutto di diritti». A Mora, che tentò di soffocarsi in cella, avete salvato la vita. «Non solo a Mora. Negli ultimi 20 anni sono stati 16.388 i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria. A fronte di 1.097 casi di detenuti che sono purtroppo riusciti a realizzare il loro insano proposito». In che modo, visto che gli sequestrate persino i lacci delle scarpe? «Inalando il gas della bomboletta da camping che gli viene consentito di tenere in cella per cucinare, per esempio. Oppure con le lenzuola annodate. O con l'accappatoio. Un solo agente deve controllare dagli 80 ai 100 detenuti sotto la doccia, non può farcela a tenerli d'occhio tutti». Si uccidono solo i reclusi? «Anche i baschi azzurri. In media una decina di colleghi l'anno. Da gennaio siamo a 8. In nessun carcere esiste uno psicologo del lavoro per il personale. L'impotenza quotidiana scava dentro. Gli agenti salvano i detenuti, ma nessuno salva gli agenti. Abbiamo strappato alla morte persino il boss dei boss, Totò Riina, colto da infarto nel supercarcere di Ascoli Piceno. Nessuno lo scrive, ma dal 1992 a oggi il nostro tempestivo intervento ha impedito che 112.844 atti di autolesionismo compiuti dai detenuti sfociassero in tragedie». Sono qui per scriverne. «Basti dire che nei 206 istituti penitenziari nel primo semestre del 2012 si sono registrati 2.322 colluttazioni e 541 ferimenti. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici: 66.685 reclusi per una capienza di 45.849 posti. Il nostro organico è sotto di 5.447 unità. La spending review ha bloccato le assunzioni per tre anni, nonostante vi siano 1.200 agenti già idonei che premono per entrare in ruolo. L'età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni.

Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgono, aggravato dai turni notturni, non meno di 6 al mese, e festivi. Dobbiamo confrontarci di continuo con realtà estreme: tossicomani, alcolisti, sieropositivi, transessuali, detenuti per reati infamanti. Sono forme di disagio che bruciano la funzione intellettiva degli agenti. Si torna a casa con le batterie scariche». Mi pareva d'aver letto che col governo Monti i detenuti fossero diminuiti.

«Di appena 1.236 unità e soltanto in sei regioni. Di fatto, per far entrare nelle celle i 20.836 prigionieri eccedenti, le brande vengono sovrapposte fino al soffitto. A Marassi un detenuto è morto cadendo nel sonno dal terzo piano, per così dire». Non ci sono i fondi per costruire nuove case circondariali. Allora come si risolve il problema del sovraffollamento? «I magistrati devono accelerare i processi. In questo momento vi sono dietro le sbarre 26.804 detenuti, il 40 per cento del totale, in attesa di giudizio definitivo, la metà dei quali saranno poi assolti. Significa che li stiamo privando della libertà senza motivo, e questo già è grave, solo per ingombrare le carceri. Un detenuto su 3 è tossicodipendente, ripete sempre gli stessi reati per procurarsi la droga. Se scontasse la pena in una comunità di recupero, dove lo curano, il problema sarebbe risolto alla radice.

Poi vi sono 23.789 stranieri che dovrebbero espiare nei loro Paesi d'origine. Infine il carcere non può essere un hotel con le porte girevoli». Che intende dire? «Si assiste quotidianamente a un'assurda girandola: arresto, traduzione in cella, registrazione, foto segnaletica, udienza di convalida, scarcerazione. Parliamo di 20.000 persone che intasano il sistema per tre giorni entrando in carcere e subito uscendone, con tutto il sovraccarico di lavoro che ciò comporta». I braccialetti elettronici per il controllo a distanza potrebbero rappresentare una soluzione? «Sì. Ma gli ex ministri dell'Interno, Enzo Bianco, e della Giustizia, Piero Fassino, che fecero gli accordi con la Telecom, dovrebbero spiegarci perché si sono spesi ben 110 milioni di euro per tenerli chiusi nei caveau del Viminale». L'amnistia è una via d'uscita? «No. Se non è collegata a una riforma strutturale, serve solo a sgravarsi la coscienza. Molto meglio istituire un'area penale esterna al carcere, dove i condannati fino a 2 anni possano dormire a casa propria ma di giorno siano impiegati in lavori socialmente utili». Il lavoro che redime. «Non puoi tenerli chiusi in una cella 20 ore al giorno. Escono più cattivi di quando sono entrati. È una presa in giro dell'articolo 27 della Costituzione, che prescrive la rieducazione del condannato. Chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell'1% di chi è inserito nel circuito produttivo. In Germania i detenuti lavorano tutti. Ho appena visitato alcuni penitenziari a Berlino e nel Brandeburgo e ho visto i prigionieri impegnati a fabbricare dai componenti elettrici per auto agli oggetti natalizi. Guadagnano 80 centesimi oppure 1 euro l'ora, cioè niente, altro che la paga sindacale che va corrisposta in Italia ai pochi fortunati ammessi a frequentare i laboratori interni. Del resto questo è il Paese in cui le Brigate rosse ammazzavano solo perché a Massa Carrara i detenuti producevano i plaid per la Lanerossi e a Genova gli interruttori per la Ticino». Lei visita molte prigioni? «In media 5-6 al mese». La peggiore? «Per sovraffollamento, topi e sporcizia, direi Poggioreale a Napoli. Ma certe sezioni di Regina Coeli a Roma non sono messe meglio. Capita persino che gli agenti penitenziari arrivino in mensa e non vi sia più cibo. I detenuti mangiano, loro no. Per non parlare dello scandalo delle madri tenute in cella con i figli di età inferiore ai 3 anni: ce ne sono 57 in queste condizioni. È giusto che 60 minori muovano i primi passi in un contesto così terribile?». Che cosa ricorda dei suoi anni passati a Marassi? «Un mondo a parte. Chi ha la fortuna di non averlo mai visto da dentro, non può capire. Bisognerebbe portarci in visita le scolaresche, soprattutto quando gli studenti sono nella fase del belinismo, come diciamo a Genova. Già solo dalla puzza capirebbero tante cose». Qual è la richiesta più urgente che viene dagli agenti iscritti al Sappe? «L'umanizzazione delle condizioni di lavoro, più che l'aumento degli stipendi. Alla fine dei turni hanno i piedi che fumano e la testa che scoppia». Quanto guadagnano al mese? «Intorno ai 1.300 euro netti. Gli ispettori possono arrivare a 2.200, ma solo aggiungendo straordinari, notturni e servizi esterni». Il dissociato Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo che reclutò Cesare Battisti, mi ha raccontato: «In tutte le prigioni c'erano squadrette di pestaggio, gruppi di agenti che venivano a picchiarti senza motivo. A Rebibbia ci svegliarono di notte, avevano i manganelli e i caschi con la visiera, sembravano robot. Ebbi 20 punti di sutura sulla testa. La mattina dopo il medico di turno mi cucì senza chiedermi nulla, come se fosse stata la cosa più normale di questo mondo». «Ciascun detenuto può conferire col magistrato di sorveglianza e riferirgli eventuali soprusi subiti. Siamo i primi ad allontanare le mele marce. Ma troppo spesso i racconti delle presunte vittime dei pestaggi si rivelano infondati». È un fatto che il primo a finire assassinato da Battisti fu il maresciallo Antonio Santoro, comandante del penitenziario di Udine. Non credo che fosse stato scelto per caso un bersaglio con moglie e tre figli. «Bisognerebbe interpellare Battisti, se non fosse latitante. I terroristi ci hanno sempre identificato come la mano nera dello Stato.

Santoro non fu l'unico caduto in servizio. Prima di lui le Br uccisero Lorenzo Cotugno, 31 anni, agente alle Nuove di Torino, e poi, sempre a Torino, Prima linea ammazzò Giuseppe Lorusso, 30 anni. Stessa sorte per la poliziotta penitenziaria Germana Stefanini, che lavorava a Rebibbia, sequestrata e "processata" dai Nuclei per il potere proletario». Favorevole o contrario all'ergastolo? «Per certi reati odiosi, compiuti con crudeltà o su bambini, a mio avviso va mantenuto». Il professor Umberto Veronesi sostiene che dal punto di vista scientifico non ha senso: anche l'omicida più efferato, trascorsi 20 anni, è completamente diverso dall'uomo che commise il crimine, per un semplice fatto di ricambio cellulare. «Veronesi provi a parlarne con i familiari delle vittime. Troppo facile fare i generosi sulla pelle degli altri».

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.

Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.

Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.

Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."

di Antonio Giangrande

*****

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera).

Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

La MALAGIUSTIZIA è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE

Possiamo anche passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in base alla qualità di giustizia amministrata ed alla misura di rieducazione e del recupero del reo concessa. Eppure la Costituzione prevede

Art. 101.

La giustizia è amministrata in nome del popolo (non per conto).

Art. 27.

La responsabilità penale è personale.

L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Non è ammessa la pena di morte.

L’associazione Ristretti Orizzonti passa al contrattacco e lancia l’allarme: dall’inizio del mese nelle carceri italiane sono morte ben sedici persone. L'ultimo in particolare, si è rivelato decisamente un mese nero per i decessi nelle prigioni, con guardie, detenuti e ufficiali di polizia coinvolti nello stesso atroce destino.

In Italia ad oggi si riscontra un alto grado di ingiustizia corrispondente al gran numero di cittadini detenuti illegittimamente perchè presunti innocenti ovvero non beneficianti delle pene alternative di rito. Magistrati troppo zelanti o troppo superficiali o abbastanza incapaci, ovvero diritto di difesa leso perché comunque dentro qualcuno ci deve andare e se non i più poveri ed indifesi che non possono permettersi l’adeguata difesa legale? Difesi da giovani avvocati d’ufficio che non conoscono le carte e che si attengono alla volontà del giudice!

Carcere e storie di ordinaria ingiustizia, così racconta Michele Minorita su “Notizie Radicali”. Thomas Hammarberg è un tranquillo e posato signore dall’inequivocabile aspetto nordico. E’ infatti nato a Ornskoldsvik, in Svezia, e dopo un passato di politico nel suo paese dal 5 ottobre di sei anni fa ricopre la carica di commissario europeo per i diritti umani del Consiglio d’Europa. L’altro giorno Hammarberg, con il tono amabile di chi sa dire con tranquilla serenità cose gravi ci ha ammonito che “il sovraffollamento delle carceri è un problema europeo da prendere molto sul serio e che si potrebbe alleviare riducendo la detenzione preventiva. Per esempio, in Italia il 42 per cento dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio o della sentenza d’appello. Quindi, non essendo ancora provata la loro colpevolezza, dovrebbero essere considerati innocenti. Se le carceri sono sovraffollate è perché troppe persone vi vengono rinchiuse in detenzione provvisoria”. Analisi impietosa, schiaffo sonoro, una vera e propria requisitoria: “La carcerazione in attesa di giudizio”, prosegue Hammarberg, “può essere giustificata solo dalla necessità di un approfondimento di indagine, dal timore di inquinamento delle prove o da un reale pericolo di fuga. La detenzione provvisoria deve essere considerata una misura straordinaria. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, raccomanda di ricorrervi solo in casi eccezionali e di riconsiderarne continuamente la necessità”. Accade invece che quella della detenzione preventiva sia diventata una è una pratica abituale e abusata. La media europea è del 25%: si va dall’11% nella Repubblica Ceca al 42% dell’Italia. L’eccessiva durata della carcerazione preventiva costituisce un altro gravissimo problema. “Più di una volta la Corte europea dei Diritti dell’Uomo”, dice Hammarberg, “ha esaminato ricorsi di persone rimaste in prigione per quattro, cinque e addirittura sei anni prima del giudizio e non sempre in condizioni umanamente accettabili”. Al di là degli irrisarcibili e incalcolabili costi umani, le conseguenze socio-economiche della detenzione preventiva sono a dir poco più disastrose: “Il più delle volte chi la subisce perde il posto di lavoro, è costretto a vendere i propri beni per il sostentamento della famiglia o viene sfrattato dall’alloggio che occupa. Anche se, poi, viene accertata la sua innocenza, il solo fatto di essere stato in carcere gli condiziona il resto della vita. È incredibile che i governi europei non prendano provvedimenti per prevenire questi inconvenienti e correggere un sistema carcerario che, per di più, è costosissimo, oltre che affollato. Perché non adottare soluzioni alternative più efficaci e convenienti, come arresti domiciliari o libertà sotto cauzione?”. Lo scandalo “generale” è costituito da tanti “piccole” quotidiane vicende emblematiche. Il problema del sovraffollamento delle carceri non è privilegio della sola Italia, è questione con cui devono fare i conti più o meno tutti i paesi europei. Altrove per chi si è macchiato di reati “lievi” fanno ricorso ad alternative alla cella; per esempio, il “braccialetto elettronico”. Ci abbiamo provato anche noi. Era ministro dell’Interno Enzo Bianco, governo di centro-sinistra, anno 2001. Lo Stato stipulò con la Telecom un contratto: 110 milioni per 400 braccialetti elettronici, fino al 2011. Abbiamo pagato per tutti questi anni. Quanti di questi “braccialetti” sono stati applicati? Appena una decina. Fatevi un po’ voi i conti: oltre un milione di euro a braccialetto per anno. Oggi forse non funzionano neppure quelli. La Gran Bretagna lo usa su 50mila adulti condannati o imputati, spendendo un quinto rispetto alla detenzione tradizionale. Alzi la mano chi sa spiegare perché quello che funziona a Londra, risulta inefficiente a Roma? Un’occhiata, ora alla questione dei “costi”. Per il vitto di ciascuno dei circa 70mila detenuti l’amministrazione penitenziaria spende tre euro e 70 centesimi: colazione, pranzo, cena. Non essendo la matematica un’opinione, i casi sono due: o la ditta appaltatrice ha trovato la ricetta miracolosa per sfamare con pochi centesimi e insieme ritagliarsi un margine di guadagno per il servizio che fornisce; oppure il guadagno deriva da altro. Buona la seconda, evidentemente. Non c’è infatti detenuto che, potendo, non faccia la sua “personale” spesa rivolgendosi agli “spacci” presenti in ogni carcere, per integrare il menù quotidiano che passa l’amministrazione. E qui arriva la mazzata, perché è nel servizio di "sopravvitto", fornito in regime di monopolio, che risiedono i veri utili, realizzati sulle tasche del detenuto, che ovviamente non può fare acquisti all’esterno del carcere. La vicenda è finita in Parlamento. La deputata Rita Bernardini, vera e propria pasionaria delle carceri ha denunciato la cosa, ottenendo che il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria disponesse un’indagine sui costi del sopravvitto, che, dice il capo del DAP Franco Ionta "non possono in alcun modo essere superiori a quelli che il detenuto sosterrebbe se stesse fuori dal carcere". Una circolare inoltre dispone la diversificazione dell’offerta e la costante verifica della congruità dei prezzi. Vedremo gli esiti concreti. E intanto quotidiane vicende di “ordinaria” ingiustizia. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni racconta il caso di un detenuto olandese, si chiama Winterdaal. Deve scontare quattro anni di carcere, condannato per traffico di droga. Winterdaal chiede di poter scontare la pena nel suo paese. Niente da fare: una ritardata notifica fino a questo momento ha reso inutile il parere favorevole della Corte d'Appello di Roma. Secondo quanto ricostruisce il Garante, l'uomo era stato arrestato tre anni prima, nel 2008, come corriere per l'importazione in Italia di cocaina. All'inizio del 2010 Winterdaal chiede alle autorità italiane di poter scontare la pena in un carcere olandese, diritto che gli viene riconosciuto, nel marzo 2011, dalla IV sezione della Corte di Appello di Roma. “Nonostante ciò, per colpa di una banale disattenzione”, racconta Marroni, “l'ordinanza della Corte d'Appello è stata notificata solo a giugno, perché un ufficiale giudiziario ha erroneamente certificato che l'uomo non era recluso a Regina Coeli ma in carcere calabrese”. Un ritardo che ha avuto gravi conseguenze: “la giustizia olandese”, dice Marroni, “non consente l'estradizione per pene inferiore ai sei mesi che, guarda caso, è il residuo della pena che deve ancora scontare Winterdaal. E fino a questo momento a nulla sono valsi i solleciti e le istanze presentate dal suo avvocato per tentare di far accertare l'errore commesso”. Una vicenda emblematica della situazione in cui si trova il sistema giudiziario italiano: “Di fronte ad uno stato di crisi causato da sovraffollamento e carenza di risorse” osserva Marroni, “anziché snellire le procedure il sistema sembra arrendersi fatalmente alla burocrazia. E' così, da mesi, lo Stato continua a pagare il mantenimento in carcere di un uomo che da tempo doveva stare in un istituto olandese”. Un’altra vicenda paradossale è quella che viene raccontata da una donna di Vicenza: “Sono una madre di 30 anni e il mio compagno si chiama Franco, ha 44 anni e nel 1997, quando ancora non ci conoscevamo ha commesso reati di riciclaggio e ricettazione finendo in galera. Ora dopo 14 anni, aveva un residuo di pena di 2 anni 4 mesi e 23 giorni e così il 13 gennaio 2011 è stato portato di nuovo in carcere. Le sofferenze che ho passato e che sto passando sono quotidiane, basti pensare che il suo Denis Santiago (è il nome del nostro primo bimbo) ha soffiato la sua prima candelina senza il papà, le spese da affrontare sono molteplici, spese legali, mantenimento mio e del bimbo e mantenimento di Franco in carcere. Ora la legge dice che sotto i 2 anni uno può chiedere misure alternative al carcere e così il 6 giugno Franco si trova con quei requisiti, tramite avvocato facciamo istanza per fissare la data in cui il magistrato può valutare la situazione e concedere la detenzione domiciliare”. Bene, quando è stata fissata l'udienza? Il 6 dicembre 2011. Così Franco si deve fare 11 mesi in carcere. Dice la donna: “C'è gente che ubriaca per strada ammazza e il magistrato la fa tornare a casa dalla propria famiglia mentre Franco per aver commesso reati di riciclaggio e ricettazione 14 anni fa si trova in carcere da sette mesi con una famiglia che a casa ha bisogno di lui e del suo sostegno, con un figlio che chiama sempre "papà, papà" e bacia la sua foto e con una compagna che all'ottavo mese di gravidanza non sa ancora se potrà partorire con il proprio compagno accanto. Io so di essere impotente di fronte a questa ingiustizia, ma il mio vuole essere un appello a chi potrebbe far qualcosa perché questa situazione cambi, poi si parla di sovraffollamento delle carceri e si continua a tenere dentro chi veramente non merita. Grazie per avermi ascoltato”.

Questa la situazione, questi i fatti.

Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia di Ilaria Cavo è uno dei tanti libri scritti per il pianeta giustizia. Un mondo volutamente inesplorato per interesse politico: l'arma del giustizialismo porta voti ed i forcaioli sono sempre di più, fino a che la forca non è dedicata a loro. La trama di Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia. Un professionista dalla vita tranquilla, Ennio Paolucci, ingegnere dell'Anas, vittima di innumerevoli e interminabili processi e additato come responsabile di incidenti dovuti invece a tragiche fatalità. Un pensionato dall'esistenza irregolare, Sandro Vecchiarelli, erroneamente incriminato per la scomparsa di una giovane amica, Chiara Bariffi, nelle acque del lago di Como. Un ragazzo irreprensibile, Melchiorre Maganuco, che vive in una realtà sociale dove forte è la presenza della malavita, coinvolto in un'inchiesta per traffico di droga soltanto perché, in assoluta buona fede, aveva conoscenze e numeri di telefono "sbagliati". Un carabiniere infiltrato, Gian Mario Doneddu, accusato di complicità con i criminali che era impegnato a sgominare. Un padre incarcerato per più di tre anni per violenze mai commesse sulla figlia e assolto con un processo di revisione solo dopo aver scontato l'intera pena. Ilaria Cavo ha sottratto all'anonimato una serie di vicende kafkiane in cui cittadini innocenti finiscono per sbaglio sul banco degli imputati con accuse talora gravissime, che sfociano di frequente, oltre che in un estenuante processo, anche in un'ingiusta detenzione. Un penoso e umiliante iter giudiziario, durato a volte moltissimi anni, prima di arrivare a una sentenza di assoluzione, ma spesso fuori tempo massimo e senza un adeguato risarcimento per il danno subito. Nelle diverse inchieste, sostiene l'autrice, si riscontrano "errori non voluti ed errori invece evitabili...

Naturalmente la stampa ha tutto l'interesse a minimizzare gli errori dei magistrati ed a sminuire le mancanze amministrative. Questione di lana caprina? Dipende....da chi è là dentro ad essere recluso.

Di seguito si riporta l'interrogazione a risposta scritta dell'On. Rita Bernardini del Partito Democratico (Radicale). E' per il Carcere di Taranto, ma è come se valesse per tutte le carceri d'Italia.

"Al Ministro della Giustizia,

Lunedì 20 agosto 2012 l’interrogante ha effettuato una visita di sindacato ispettivo alla Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto accompagnata dagli esponenti radicali Maurizio Bolognetti e Maria Antonietta Ciminelli; la visita, durata molte ore, è stata guidata dalla Direttrice Stefania Baldassarri e dal Comandante Giovanni Lamarca;

l’Istituto tarantino ha in carico 595 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 200 posti, sebbene sul sito internet del ministero della giustizia sia indicata una ricettività legale di 315 posti; i detenuti in attesa di primo giudizio sono 153 mentre coloro che scontano una sentenza definitiva di condanna sono 318; in Alta sicurezza sono ristretti in 103; ben presto, con la ripresa, dopo la pausa estiva, dell’attività giudiziaria, l’istituto tornerà alla media dei 700 detenuti presenti; il 40% degli ospiti sono tossicodipendenti e, fra questi, 20 sono in trattamento metadonico;

il carcere di Taranto, entrato in funzione a metà degli anni 80, presenta molte problematiche strutturali, date le scarse risorse destinate centralmente per la manutenzione sia ordinaria che straordinaria: alcune aree risultano transennate perché pericolanti; alcune sale colloqui hanno ancora il muretto divisorio: una di esse è definita “la pescheria” per il cattivo odore che emana l’ambiente sovraffollato all’inverosimile; il percorso per i familiari (bambini e persone anziane comprese) che si appresentano ad incontrare il congiunto detenuto, è sotto il solleone (o con la pioggia, d’inverno) o con coperture, come quella della pensilina prossima all’ingresso, che dovrebbero essere coibentate essendo “roventi” d’estate e con infiltrazioni d’acqua nella stagione delle piogge; per mancanza di spazi, l’ex campo sportivo è stato diviso in due e adattato a passeggio per le ore d’aria: un deserto polveroso privo di servizi e di approvvigionamento di acqua; la casa circondariale è destinataria del piano carceri per la costruzione di un padiglione da 200 posti i cui lavori sono ancora nella fase di aggiudicazione attraverso gara; all’interno dell’area c’è però un padiglione a 48 posti inutilizzato perché per metterlo in funzione - magari per una custodia attenuata come suggerisce la direttrice - oltre al personale, occorrerebbero modifiche strutturali essendo stato concepito per ospitare detenuti malati di aids; un’altra nota dolente, riguarda la caserma degli agenti dove c’è un piano intero transennato e dove le stanze per il pernottamento degli agenti sono addirittura peggiori delle celle di detenzione; nell’istituto non c’è l’area verde per gli incontri della popolazione detenuta con i figli minori; mancano del tutto spazi per attività sportive e ricreative e il teatro non viene utilizzato a causa della carenza di personale e della mancanza di fondi da destinare alle attività trattamentali; la biblioteca, invece, è ben fornita anche grazie ad una donazione di libri effettuata un anno e mezzo fa da parte della Presidenza del Consiglio;

fra le celle visitate ci sono quelle della sezione A, ubicata al primo piano: il sovraffollamento è evidente considerato che in celle di circa 10 metri quadrati sono ospitati tre detenuti e, a volte, anche quattro;

il corpo degli agenti di Polizia Penitenziaria ha un deficit di organico pari a 40 unità; dei 357 agenti previsti dal D.M. dell’8/2/2001, ne risultano effettivamente assegnati 317 di cui 53 impiegati presso il Nucleo traduzioni e piantonamenti;

la situazione degli automezzi del Nucleo Traduzioni è disastrosa a causa della sospensione della manutenzione ordinaria per mancanza di fondi; inoltre capita che le scorte siano sottodimensionate e che a volte non si possano nemmeno rimborsare i buoni-pasto; a proposito dei vari tipi di traduzione, risulta veramente uno spreco la scorta per accompagnare i detenuti ai domiciliari: tre uomini che fanno sostanzialmente i “tassisti” per un servizio che potrebbe essere semplicemente abolito visto che il detenuto, se decide di contravvenire a quanto prescritto dalla legge, può “evadere” da casa un momento dopo essere stato accompagnato ai domiciliari; spesso queste traduzioni prevedono viaggi lunghissimi anche di centinaia di chilometri per raggiungere comunità per tossicodipendenti o domicili situati nelle regioni settentrionali;

l’area educativa risulta sottodimensionata essendo costituita da un responsabile e da 4 educatori; anche l’assistenza psicologica è carente se consideriamo che è portata avanti da 2 psicologi ex art. 80 che fanno in tutto 78 ore mensili e da una psicologa ASL che fa 60 ore e che si occupa esclusivamente dei nuovi giunti;

la prima firmataria del presente atto intende sottolineare – perché non accade quasi mai nelle altre visite ad istituti penitenziari - l’ottimo rapporto del magistrato di sorveglianza sia con la direzione e il comando dell’istituto sia con la popolazione detenuta: non è un caso che sotto ferragosto siano stati concessi circa 80 permessi premio e che la legge 199/10 abbia riscontrato un esito positivo per oltre 200 detenuti che hanno avuto la possibilità di scontare gli ultimi mesi di pena ai domiciliari;

molti dei detenuti trascorrono 20 ore della giornata in cella; 100 in media sono infatti coloro che durante l’anno frequentano un corso scolastico (medie e superiori), 85 sono i posti di lavoro disponibili a rotazione ogni sei mesi e 5 coloro che sono ammessi al lavoro esterno; a differenza di altri istituti è molto positivo il fatto che le mercedi non siano solo simboliche e che i lavoranti riescano a guadagnare intorno ai 6/700 euro al mese; buono è il rapporto con il cappellano che, gestendo una casa famiglia, è disponibile a fornire l’alloggio a quei detenuti, soprattutto stranieri, che non hanno un domicilio per poter scontare a casa il residuo periodo di pena come previsto dalla legge 199/2010 e successive modificazioni; Il volontariato è presente con due associazioni mentre il rapporto con le istituzioni – Provincia e Comune – è connotato dall’assoluta mancanza di collaborazione quasi a significare che il carcere sia un corpo estraneo inserito nella città;

ai detenuti è consentito fare la doccia a giorni alterni per contenere i consumi idrici a causa dell’ingente debito che l’Amministrazione Penitenziaria ha con l’Acquedotto Pugliese S.p.A.;

Fra i casi particolari, si segnalano:

A.S. (Antonio Savonelli), proveniente dal reparto psichiatrico dell’Ospedale Moscati di Taranto, si trova in carcere a causa di un residuo pena di un mese e 20 giorni per poi tornare presso la Comunità Il Delfino dove è assegnato;

E.D.B. (Eva Di Benedetto), ha il fine pena fra sette anni e ha fatto richiesta di trasferimento a Rebibbia o a Civitavecchia per poter fare un valido percorso riabilitativo visto che ha due figli minori ospitati in istituti; non fa colloqui da dicembre, cioè da quando è venuta via da Teramo;

G.C. (Giovanna Cavaliere), ha presentato istanza di trasferimento al Carcere di Pozzuoli; suo marito è morto suicida;

M.B. (Marina Buzdugan) è una ragazza rumena di 22 anni che scoppia in lacrime non appena le chiediamo come stia; orfana di madre, è venuta in Italia prima di Pasqua con il suo ragazzo che l’ha coinvolta in una rapina nella città di Bari; è spaventata e afferma di non essere mai stata in carcere e di non conoscere nessuno nel nostro paese né di sapere alcunché della sua posizione processuale perché ha visto il suo avvocato d’ufficio una sola volta; direttrice e comandante si occuperanno della sua vicenda soprattutto sotto l’aspetto della difesa legale:-

quale sia effettivamente la capienza regolamentare del carcere di Taranto e cosa intenda fare per urgentemente riportare la popolazione detenuta ai livelli di ricettività legali, secondo quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo;

cosa intenda fare per rimuovere le illegalità strutturali degli edifici dell’intero complesso della casa circondariale di Taranto, tenuto presente che alcune criticità evidenziate in premessa rischiano di mettere in pericolo la salute e la vita del personale e dei detenuti;

a quando risalga e cosa vi sia scritto nell’ultima relazione della ASL di competenza in merito alle condizioni strutturali degli edifici anche sotto il profilo igienico-sanitario;

se intenda immediatamente provvedere a stanziare fondi per la manutenzione straordinaria così da fronteggiare i problemi più urgenti e se intenda ripristinare i fondi pressoché esauriti della manutenzione ordinaria;

cosa intenda fare per incrementare il budget destinato alle attività trattamentali e per ripianare il debito verso l’Acquedotto Pugliese S.p.A così che, fra l’altro, i detenuti possano farsi la doccia tutti i giorni;

quanto al Corpo degli Agenti di polizia penitenziaria, se intenda intervenire per ripristinare l’organico, per rimettere in funzione il parco macchine e furgoni del Nucleo traduzioni e per ristrutturare il piano oggi transennato e chiuso degli alloggi della caserma agenti;

se intenda raccogliere il suggerimento di evitare l’accompagnamento dei detenuti allo loro abitazione (o altro luogo specificato nei provvedimenti quale una comunità terapeutica o una casa-famiglia) quando accedano al beneficio della detenzione domiciliare;

se intenda incrementare il personale dell’area trattamentale e dell’assistenza psicologica;

se intenda valutare, per estenderle magari a livello nazionale, le buone pratiche della Magistratura di sorveglianza di Taranto;

se intenda in qualche modo intervenire per assicurare effettivamente l’assistenza legale ai detenuti, soprattutto stranieri, sprovvisti di avvocati di fiducia;

cosa intenda fare per i casi segnalati in premessa."

Naturalmente tutto questo è rimasta lettera morta.

Perché nessuno parla di carceri, si chiede Roberto Saviano su “L’Espresso. Le condizioni di vita dei detenuti e degli agenti di custodia sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Ma la questione viene ignorata da tutti. E viene il sospetto che creare una 'discarica della democrazia', in fondo, a qualcuno sia molto utile. Che fare per interrompere subito il crimine in corso?", vorrebbe domandarmelo la parlamentare radicale eletta nelle liste del PD Rita Bernardini. E vorrebbe farlo mentre insieme a lei – è un invito che accetto volentieri – visitiamo una delle tante carceri italiane in cui le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Cara Rita Bernardini ciò che scrive mi è noto, anzi, per quanto io possa forse essere inviso in alcuni penitenziari per le mie origini campane, per aver "tradito" scrivendo Gomorra la mia situazione di reclusione mi porta ad avere una certa empatia di fondo per chi la propria libertà l'ha persa e magari è ancora in attesa di un giudizio. LA CONSAPEVOLEZZA che 66.500 detenuti e molta parte del personale penitenziario (ogni due mesi, in Italia, un agente di custodia si toglie la vita) vivano condizioni inumane, che il carcere non riesca a essere rieducazione e reinserimento ma solo privazione, punizione e tortura, mi porta, appena possibile, a dare voce alla nostra indignazione. Ho approfittato di qualunque spazio a mia disposizione. Ho parlato di carceri in recensioni, sui social network, in televisione e la reazione più comune è stata "Saviano, smetti di occuparti dei delinquenti, pensa alle persone per bene". Scrivo di tossicodipendenza? Mi si risponde che farei meglio a parlare di disoccupazione che di drogati. Parlo di Laogai? Sbaglio, la Cina è lontana: dovrei pensare all'Italia. Mi permetto di dire che esiste una Israele che è anche altro rispetto alle politiche dei suoi governi? Che non è solo guerra, così come per venti lunghi anni l'Italia non è stata solo Berlusconi o mafie? Mi danno del sionista. Del tuttologo. "Parla di camorra, Saviano". Ma la vita non è a compartimenti stagni. Non dovrebbero esistere temi di cui non ci si possa o debba occupare. Allora una cosa l'ho capita. Una cosa semplice e dolorosamente vera nella sua semplicità. Una cosa che non deve scoraggiare, ma solo darci la dimensione del problema, che è molto più grave di quanto non appaia. In Italia necessitiamo di una discarica dove confinare tutto ciò che la nostra democrazia crede sia il peggio che abbia prodotto e da cui costantemente desidera distogliere l'attenzione: il carcere, per intenderci, ci è utile. In carcere mettiamo tutti i problemi che non vogliamo affrontare e risolvere. Mettiamo tutta la "spazzatura indifferenziata" (delinquenti comuni, assassini, tossicodipendenti, piccoli e grandi spacciatori, già condannati o in massima parte in attesa di giudizio) con la quale non vogliamo fare i conti. "Spazzatura" che se non trattata finirà per travolgerci. E io, da campano, di emergenze rifiuti incistate, trascurate, sfruttate, ne so abbastanza. Oggi la Campania è una terra che arde di rifiuti tossici, con falde acquifere e mare inquinati. Ci sono paesi dai quali le persone, pur amandoli, se possono fuggono per non ammalarsi. Ecco cosa sta diventando l'Italia, una terra dalla quale è meglio fuggire, una terra in cui l'unica occupazione del momento sembra essere quella di ridisegnare con ogni mezzo lo scenario elettorale, le alleanze o meglio le accozzaglie, con cui dovremo fare i conti da qui a qualche mese. Giornalisti e celebri giuristi, costantemente impegnati in questo, restano indifferenti al decesso del nostro sistema giudiziario, vero problema per noi che in Italia ci viviamo e per chi in Italia potrebbe decidere di investire. LO SPERIMENTIAMO ogni giorno sulla nostra pelle e ancor più lo vivono sulla loro, le migliaia di detenuti e operatori carcerari abbandonati da tutti. Ma è evidente che i problemi non si vogliono risolti: le carceri rimarranno la cloaca che sono e senza informazione le persone continueranno a pensare e a dirmi che dovrei "piuttosto" occuparmi d'altro. La giustizia non si riformerà, perché è più utile così com'è, e all'occorrenza utilizzarla per ridisegnare gli orizzonti politici, sempre troppo angusti, del nostro Paese. Allora per una volta, questo lusso decido di prendermelo io e vi domando: ma perché non vi occupate "piuttosto" un po' tutti di carceri? Per scoprire magari che risolvere il problema dei "rifiuti", in fondo, potrebbe anche convenirvi.

Già parlarne da intellettuali liberi è una cosa, essere trattati come pezza da piedi e non alzare il dito contro i magistrati per indicare la causa di palesi ingiustizie è un'altra cosa.

Una Storia di ordinaria follia. Si può essere incarcerati da persona per bene e con salute malferma per scontare una condanna attinente la “violazione degli obblighi di assistenza familiare” e nonostante la pena sia stata già scontata con una misura alternativa? E questo dovuto essenzialmente a leggerezza e disservizi?

«In Italia per reati bagatellari e pene infime come queste sì. Per colpe ben più gravi forse no risponde il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente che proprio in tema di giustizia ha scritto libri pertinenti questioni che nessuno osa affrontare e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) sodalizio nazionale . Innanzitutto, questa è la classica storia di una coppia che sposatasi in giovane età comincia a vivere una serie di conflitti e che “per amore dei figli”(due, un maschio e una femmina) continua a mantenere lo “status matrimoniale” pur ribadendosi che al raggiungimento della loro maggiore età la separazione sarebbe stata attuata. E così, anche su suggerimento dei figli che ormai non reggevano più la reciproca intolleranza fra i genitori, i due si separano consensualmente nel febbraio 2002 con i classici accordi che prevedevano il mantenimento “dei figli” (senza specifica in termini di limiti di tempo), di cui una all’epoca maggiorenne e lavoratrice, l’altro di 15 anni. Quando Luigi Mauro Navone (questo è il nome del malcapitato) non riesce più a pagare il mantenimento alla moglie separata, le lascia un patrimonio (quadri, lampadari i e mobili di valore, 2 auto, roulotte e veranda al mare in Liguria) tale da poterne ricavare subito con la vendita (cosa che ha fatto) un valore ben maggiore degli alimenti pattuiti. Da maggio 2003, però, iniziano ad arrivare atti di precetto per il mancato pagamento delle mensilità, pignoramenti, fino alla querela presso i CC per “violazione degli obblighi di assistenza familiare” nell’agosto del 2003. Dopo di che nel settembre del 2006 viene emessa una sentenza dal Tribunale di Torino (non viene proposto patteggiamento, né sospensione della pena e la sentenza, forse, non è opportunamente impugnata dal legale di Luigi, che viene riconfermata il 26 ottobre 2009 dalla Corte di Appello di Torino e che prevede 6 mesi di reclusione, recupero della pena pecuniaria ed euro 300 di multa. Si fa istanza per la concessione di misure alternative alla detenzione: ossia l’affidamento in prova da svolgere a Viterbo. Dunque, Luigi da “bravo ragazzo” segue tutte le prescrizioni, va ai colloqui previsti con l’assistente sociale e la psicologa e conclude il tutto pagando nei termini le pene pecuniarie e le spese di giustizia. A ciò seguono le relazioni positive della psicologa e dell’assistente sociale la quale, però, va fuori del seminato e cita il fatto che lui non ha risarcito integralmente la parte offesa, dimenticando di annotare che quanto stabilito dal Tribunale di Torino è stato pagato, comprese le spese di giudizio, e nessuna altra cifra è mai stata quantificata né richiesta sia dal Tribunale di Torino, sia dalla controparte nel frattempo ricontattata per forza di cose, in quanto nessuna azione civile era stata attivata. E su questo, come su altre discrasie ci si è appellati con il ricorso alla Corte di Cassazione depositato il 13 agosto 2012. Intanto il 2 agosto 2012 arriva una telefonata “sommessa” dalla Caserma dei CC di Valentano dove si invita il “Prof. Navone” gentilmente a presentarsi. Il Prof. Navone è noto presso la sua comunità per le innumerevoli attività e prestigiosi incarichi di carattere sociale e fondatore del periodico “Lazio Opinioni (www.lazioopinioni.it). Ed il tapino è ancora lì a scontare una pena illegittima, a prescindere dal reato se sia stato commesso o meno.  Ed al disgraziato è impedita, oltretutto, come racconta la sua nuova compagna, la somministrazione di medicine essenziali per la sua salute. Miserando con l’animo lesionato, più che nel fisico e nella reputazione. I motivi del ricorso in Cassazione contro il provvedimento di carcerazione del Tribunale di sorveglianza di Roma sono: non aver inteso come adempito l’obbligo del risarcimento stabilito dal Tribunale di Torino; non aver dichiarato estinta la pena all’esito della prova eseguita; aver ritenuto erroneamente la condotta omissiva in ordine all’adempimento degli obblighi e citando altri numerosi elementi sostanziali non ben definiti che inficiavano l’esito della prova; lesione del diritto di difesa per aver nominato un difensore d’ufficio, nonostante vi fosse già la nomina dell’avvocato di fiducia. La vicenda, si spera, avrà buon esito e un cospicuo risarcimento per ingiusta detenzione. Questione mai sopita quella della responsabilità dei magistrati che ricade a danno dei cittadini e non, però, di quei magistrati con delirio di onnipotenza, che trattano le persone sol come fascicoli muti e senz’anima.»

«Nella situazione di emergenza perenne che vivono le carcere italiane accade anche questo: che ad un uomo di 54 anni con gravi problemi di salute, venga revocata la misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali per scontare, in carcere, la pena di sei mesi. Il 54enne, affetto da diabete, cardiopatia, ipertensione e crisi respiratorie, dal 2 agosto è tornato in una cella del carcere “Mammagialla” di Viterbo a causa di una ordinanza, non conosciuta né notificata, che ha revocato la misura alternativa della messa in prova ai servizi sociali, per scontare una pena di 6 mesi. Una decisione che arriva in un momento in cui il sovraffollamento sembra essere una delle emergenze più gravi del pianeta carcere italiano: basti pensare che, alla fine di luglio, le presenze nelle carceri italiane erano di 65.860 unità, contro una capienza regolamentare di 45.590. Nel Lazio, in particolare, i detenuti presenti erano 6.960 contro una capienza di 4.839. “Casi come questo – ha commentato il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni – finiscono per mortificare sia l’umanità della pena per il detenuto, che il lavoro degli operatori sanitari, degli agenti di polizia penitenziaria e di tutti coloro che vivono e lavoro nel carcere alle prese, tutto l’anno, con le gravi lacune del sistema che, soprattutto nei mesi estivi, tendono ad acuirsi in maniera drammatica. Sarebbe il caso di individuare, per i casi come quello citato, con brevi fine pena e condizioni di salute precarie, soluzioni alternative al carcere nell’ottica di rendere più vivibile il carcere».

Un'altra storia di ordinaria follia. Il racconto di Concita Sannino su “La Repubblica”. Incensurato e disabile. in carcere per due birre. L'incredibile storia di un quarantenne nel Cilento, privo di una gamba, operatore sociale, che è finito in cella, dove ora è recluso, dopo essere stato denunciato tre anni prima per guida in stato di ebbrezza. Da allora un incubo di burocrazia e disattenzioni.

Mandato in carcere per due birre, bevute tre anni prima, prima di mettersi al volante. "Trenta giorni di pena" è il prezzo che gli ha inflitto la malagiustizia. Malgrado quell'uomo sia incensurato e abbia una protesi al posto della gamba sinistra. Anzi: quando è entrato in cella, gli hanno tolto l'arto finto. "Mi dispiace, qua dentro può essere un'arma". Una storia che fotografa la cupa inefficienza, oltreché il volto disumano, della giustizia avviene tra Vallo della Lucania e Salerno. Un vergognoso sberleffo nel Paese degli indulti e delle carceri sovraffollate. È la storia di Marco Penza, originario di Casalvelino (Salerno), onesto cittadino, operatore del sociale, quarant'anni, disabile. Lui è ancora in carcere. Si aspetta che il magistrato titolare del fascicolo "torni dalle ferie". Marco Penza è finito in carcere dieci giorni fa, prima nell'istituto di Vallo della Lucania, poi in quello di Fuorni, a Salerno, per l'incredibile evoluzione di una semplice e vecchia denuncia. Si tratta dell'alcool test a cui l'uomo è risultato positivo tre anni fa, un posto di blocco di una sera d'estate, 22 luglio del 2009. Può un semplice controllo trasformarsi in un incubo? I suoi amici, il tamtam di reazioni indignate che si è scatenato intorno alla sua vicenda, testimoniano di sì. Può diventare "una storia da paese incivile" se "alla burocratica gestione di un ufficio del pubblico ministero", si somma "la latitanza di un avvocato" e "l'indifferenza" che tanti pubblici uffici - compresi alcuni palazzi della giustizia - ostentano nel periodo delle vacanze. Marco è affetto dall'infanzia da una grave malattia che poco tempo fa, dopo pellegrinaggi sofferti in vari ospedali, non gli ha risparmiato l'amputazione della gamba. Tuttavia, ha la sua vita e le sue relazioni, si occupa di sociale e lavora nella Coop Marina Service di Casalvelino, nel cuore del Cilento, dove ha scelto di vivere. Questo giovane lavoratore, senza alcun precedente penale, viene dunque denunciato a piede libero per guida in stato di ebbrezza. È competente la Procura di Vallo della Lucania, ma sembra che il magistrato titolare del fascicolo - noto per i suoi eccessi di zelo - non conceda la "pena sospesa" a quel cittadino incensurato. E non basta: perché l'avvocato a cui si è rivolto Marco, per un caso, si dedica nello stesso periodo alla politica, si candida alle amministrative del Comune, finisce evidentemente per dimenticare la "pratica". Così quel fascicolo diventa il suo girone infernale. Tre anni dopo, ecco la vecchia denuncia diventa un ordine di carcerazione di 30 giorni. Marco se ne accorge troppo tardi, richiama quell'avvocato che ormai è un politico, il quale lo affida ad un civilista: che, a sua volta, non impugna il provvedimento, ma prova a chiedere un alleggerimento con la richiesta degli arresti domiciliari: è peggio perché così la pratica passa al Tribunale di sorveglianza. Che chiede i suoi tempi per l'esame della vicenda. Marco sta già scontando la galera da 10 giorni: prima arriva nel carcere prima di Vallo della Lucania e poi di Salerno. Intanto, lo portano in ospedale per accertarsi delle sue condizioni. Poi torna in cella, dove un operatore della penitenziaria è costretto, dalle norme, a privarlo della protesi alla gamba. "Mi dispiace, non è consentito". Dopo qualche giorno e dopo le proteste dei suoi amici, finalmente gli restituiscono non la libertà, ma almeno la sua "gamba" sinistra. La storia viene portata alla luce da Silvia Ricciardi dell'associazione Jonathan, che si occupa del recupero dei minori a rischio dell'area penale: "A volte lo sdegno non trova le parole per esprimersi - scrive -. Mi vergogno a vivere in questo paese dove la giustizia non è per i cittadini, ma per chi detiene soldi e potere. Un paese che tiene in galera una persona per un reato sanzionabile con una gradualità di risposte alternative al carcere. Un paese che non ha occhi per vedere né cervello, in alcuni casi, per amministrare pene e sanzioni".

Di questo bisogna parlare quando si parla di carceri. Sono persone spesso innocenti. E fa specie quando, nonostante le prigioni hanno ospiti illustri per lungo tempo, parlamentari e magistrati, questi nulla fanno per far cambiare le sorti ai tapini meno fortunati di loro. Teniamo in conto una cosa, non esistono due tipi di persone: la gente per bene ed i delinquenti. E noi a far parte delle persone per bene e gli altri a delinquere. Attenzione, spesso gli altri siamo noi e sì che allora non c'è nessuno che ci aiuta. 

Ingiustizia: quando non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Risarcimento per ingiusta detenzione, sì ma non per tutti. Della serie: così è se vi pare. Giusto! Basta saperlo e farlo sapere. A Calogero Mannino l’ultima ingiustizia: negato il risarcimento per 23 mesi di carcere ingiusto. Così come raccontato da Maurizio Tortorella su “Panorama”.

La Corte d'appello per le Misure di prevenzione di Palermo ha respinto la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione presentata dall'ex ministro Calogero Mannino. Il collegio composto dal presidente Salvatore Di Vitale e dai consiglieri Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco era chiamato a stabilire se i giudici che lo arrestarono avessero commesso, o meno, un errore. Il collegio ha passato in rassegna la storia processuale del deputato assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere. L' ex ministro, arrestato nel 1995 dai pubblici ministeri di Palermo è rimasto in custodia cautelare per 23 mesi. Il tribunale di Palermo lo assolse con la formula dubitativa. Poi, la Corte d'appello ribaltò la sentenza e lo condannò a 5 anni e 4 mesi di carcere. Dopo l'annullamento in Cassazione e la celebrazione di un nuovo processo, Mannino fu assolto. Calogero Mannino, all'indomani della sentenza di assoluzione in Cassazione commentò: «Hanno portato via un pezzo della mia vita».

Calogero Mannino non ha diritto a essere risarcito per 23 mesi trascorsi ingiustamente in prigione tra 1995 e 1996 perché, secondo la Corte d’appello di Palermo, «per un uomo politico di primo piano accettare consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (…) integra gli estremi di colpa grave e costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all’evento detenzione». Escono le motivazioni con le quali è stata respinta due settimane fa la richiesta dell’ex ministro agrigentino della Dc, assolto con sentenza definitiva da ogni accusa il 22 ottobre 2008. I giudici d’appello palermitani aggiungono che «l’unico aspetto valutabile in questa sede è costituito dai rapporti con il mafioso Antonio Vella per motivi elettorali e dall’avere in particolare accettato che costui diventasse un suo procacciatore di voti». Su questo punto, nel corso della lunghissima vicenda giudiziaria di Mannino (durata quasi 20 anni) i giudici di vario grado si sono pronunciati in modi molto diversi. I primi giudici ritennero che nei confronti di Vella non fosse dimostrata alcuna «controprestazione» di Mannino: «Non c’è la prova» scrissero «che l’accordo elettorale abbia avuto a oggetto la promessa di svolgere un’attività, anche lecita, anche sporadica, per il raggiungimento degli scopi di Cosa nostra». Nel primo processo d’appello, al contrario, i giudici ritennero che fosse provata pure la controprestazione. La Cassazione alla fine annullò la sentenza per difetto di motivazione, ma ritenne che esistessero gli elementi per un nuovo appello nel quale poi, quasi quattro anni fa, è arrivata l’assoluzione definitiva.

Il paradosso è evidente. Perché di sicuro Mannino fu arrestato il 13 febbraio 1995, e di sicuro restò per 23 lunghi mesi in carcere, tra l’Ucciardone di Palermo e Rebibbia a Roma. Altrettanto sicuro è che in cella l’uomo politico perse circa 40 chili di peso e che gli venne diagnosticato un cancro. Di quel periodo sopravvivono alcune terribili foto dell’imputato, trascinato in udienza accanto al suo avvocato di allora, Carlo Taormina: il collo di Mannino è talmente sottile che naviga letteralmente nel colletto della camicia.

Pare una cannuccia infilata nel collo di una bottiglia. Ma se tutto questo è certo, altrettanto sicuro è che Mannino alla fine del processo è stato assolto definitivamente e con formula piena da tutte le accuse, compresa quella di avere avuto un sodalizio «con il mafioso Vella».

E allora? Allora, parafrasando Luigi Pirandello (non per nulla nativo di Agrigento, come Mannino), cosi è se vi pare, ma anche se non vi pare. L’accusa nei confronti di Mannino, peraltro, non pare basarsi su grandi prove se è vero quel che aggiungono nella sentenza gli stessi giudici che gli negano il risarcimento: «Mannino aveva accettato che costui (Vella) diventasse suo procacciatore di voti, con l’effetto d’ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione, tanto che numerosi collaboratori di giustizia hanno riferito di avere appreso che costui (Mannino) fosse politico disponibile per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, pur non riferendo alcunché di specifico sull’argomento». Come a dire: in Cosa nostra sull’ex ministro democristiano giravano voci senza costrutto. Che non valgono né sono valse per una sua condanna.

Ma valgono per negargli un risarcimento dovuto.

CARA INGIUSTIZIA

Due processi, due assoluzioni. Due storie parallele, che accendono nuove luci sinistre sullo stato della giustizia in questo paese. Da una parte 39 “disobbedienti”, tra i quali il leader dei centri sociali veneti Luca Casarini, che erano imputati a Roma per una serie di espropri proletari compiuti nel novembre 2004. Dall’altra un ventenne di Taranto, Donato D. che nell’agosto 2004 aveva preso un ovetto Kinder in un chiosco ed era stato rinviato a giudizio. In entrambi i casi, l’accusa era furto aggravato.

Nel primo caso, le merci rubate dai disobbedienti assommavano a un totale di 54 mila euro di allora, nel secondo a meno di un euro. Nel primo caso, gli imputati erano non solo rei confessi (”È stata un’operazione mediatica” avevano dichiarato), ma erano stati immortalati da telecamere e riconosciuti dai commessi dell’ipermercato e dei negozi dove si erano svolti i furti.

Nel secondo caso, il reato era dubbio perché il ragazzo sosteneva che stava per pagare l’ovetto Kinder, mentre il proprietario al contrario lo accusava di averlo messo in tasca.

Sono stati tutti assolti.

Si sa il perché nel caso del ragazzo di Taranto: i carabinieri, accorsi al chiosco alle richieste del negoziante, avevano notato immediatamente che i jeans indossati dall’accusato erano così attillati da rendergli fisicamente impossibile il tentativo di nascondere alcunché, e che l’ovetto era perfettamente integro.

Nel secondo caso, invece, non si capisce proprio come il tribunale possa avere assolto gli imputati. Leggeremo le motivazioni della sentenza. Intanto va sottolineato che nel primo processo sono trascorsi 11 anni e 5 mesi dal fatto. Nel secondo, sono passati 2 anni e 8 mesi. E chissà quale è stata la spesa per lo Stato, per un ovetto che costava un euro!

Ha dovuto rimandare l'arruolamento in Marina perché ha subito un processo, durato tre anni, per il furto di un ovetto Kinder: reato per il quale è stato assolto dal tribunale di Taranto con la formula "perché il fatto non sussiste". Protagonista della storia, che fa riflettere sui costi e i tempi della giustizia, è un giovane di Taranto che, all'epoca dei fatti (il 4 agosto del 2009), aveva 18 anni. Il fatto avvenne a Montedarena, sulla litoranea ionico-salentina. Fu il gestore di un chiosco a chiedere l'intervento dei carabinieri e a denunciare il ragazzo sostenendo di averlo scoperto a rubare un uovo kinder, venduto al prezzo di un euro e dieci centesimi. “In caserma il padre del ragazzo propone al negoziante un risarcimento di ben 200 euro. Il negoziante accetta, ma il giorno dopo, al momento di rilasciare una liberatoria, rifiuta e qualche giorno dopo fa pervenire al ragazzo l’incredibile richiesta di 1600 euro di risarcimento”. La famiglia di Donato si oppone categoricamente e si va in tribunale. Fino all’assoluzione odierna, dove, secondo l’avvocato difensore “è stata determinante un’informativa dei carabinieri, in cui si legge che il ragazzo indossava dei jeans stretti, a vita bassa, quindi per lui sarebbe stato difficile, se non impossibile, nascondere in tasca l’ovetto”. Vicenda chiusa e tante scuse?

“Incontrerò i genitori del ragazzo, ma credo siano intenzionati a chiudere questa storia rapidamente. E’ stato un grave danno di immagine e ha fatto perdere importanti occasioni a Donato”. E, amaramente aggiunge: “A conti fatti, tra notifiche all’imputato, alla parte offesa, ognuna di 150 euro, le spese di cancelleria e i costi degli avvocati abbiamo fatto spendere allo Stato qualche migliaia di euro. Senza contare il tempo perso dai carabinieri, che avrebbero potuti essere impegnati in altre faccende, e del giudice”.

Tutto questo per un ovetto di cioccolato.

Secondo Luciana Cimino su “L’Unità” non tutti quelli che sono stati detenuti ingiustamente hanno diritto a un risarcimento dallo Stato che riconosca loro gli anni persi dietro le sbarre in attesa di giustizia. Non ne hanno diritto tutti quelli, e sono la maggior parte, a cui la sventura è capitata dal 45 al 1989, anno in cui è entrata in vigore la legge per la riparazione dell’ingiusta detenzione. Ma la legge, assurdamente, non è retroattiva. Da anni proposte di legge che vanno nella direzione di introdurre la retroattività (da ultimo quella di Rita Bernardini, dei radicali e di Pier Luigi Mantini, dell’Udc) giacciono in parlamento, senza essere mai calendarizzate. Eppure è una questione che riguarda milioni di persone. Sono infatti 4 milioni e mezzo, secondo i dati Eurispes forniti dall’Osservatorio Permanente sulle Carceri, gli errori giudiziari occorsi in Italia dal 45 al ’89. Almeno qualche centinaia di migliaia (cifra approssimata per difetto) sarebbero dunque le persone in attesa che lo Stato riconosca loro la pena inflitta erroneamente. Per questo diversi parlamentari del Pd (tra cui Paola Concia) Nicki Vendola, Rifondazione e dei Radicali assieme a giornalisti, professori universitari e al mondo dell’associazionismo delle carceri (come Patrizio Gonnella di “Antigone” e Luigi Manconi di “A Buon Diritto”) hanno firmato un appello per «introdurre il reato di retroattività nella legge sulla riparazione per l’ingiusta detenzione». «Molte vittime dell’errore giudiziario, contemplato dall’art.314 del codice di procedura penale, sono rimaste quindi prive della giusta riparazione – si legge nel testo dell’appello - e ciò è accaduto in aperta violazione degli articoli 2 e 24 della Costituzione, nonché delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Esistono tanti cittadini che hanno subito l’umiliazione del carcere, talvolta per anni e l’annichilimento del diritto inviolabile della libertà personale, consacrato dall’articolo 13 della Costituzione, ma non hanno ottenuto nessuna giusta riparazione e nemmeno quella somma di denaro che certo si direbbe meglio “conforto” che non “riparazione”. (…) E’ questa una situazione che offende la dignità del Paese e che contrasta con la concezione di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica ha posto a fondamento del suo ordinamento costituzionale». «C’è da dire - spiega Marcello Pesarini, membro dell’Osservatorio Permanente sulle carceri e assieme a Giulio Petrilli promotore dell’appello - che se negli anni 70 e 80 la questione riguardava soprattutto detenuti “politici”, incarcerati in attesa di giudizio a causa del clima speciale dovuto agli anni di piombo, oggi la querelle riguarda soprattutto i migranti, che messi tra le sbarre per non aver ottemperato alla Bossi – Fini, si scopre solo dopo duri mesi di detenzione senza quasi diritti che avrebbero avuto diritto al riconoscimento dello status di rifugiato». Petrilli, responsabile diritti e garanzie del Pd della Provincia dell’Aquila, ha vissuto sulla pelle l’esperienza per la quale ora si sta battendo: «Mi sono fatto 6 anni di carcere per banda armata a 20 anni e sono stato assolto perché un pentito mi ha scagionato. Ho perso tutta la mia giovinezza, è stata un’esperienza terribile che mi ha segnato per sempre ma non ho diritto al risarcimento perché il mio processo è avvenuto tre mesi prima dell’entrata in vigore della legge. E’ una follia». «Sono esperienze dolorosissime vissute da “pesci piccoli” che non sanno come difendersi e che dopo il carcere si trovano la vita devastata», aggiunge Pesarini. L’obiettivo della petizione è costringere la stampa a occuparsi della cosa, arrivare a forme di pressione istituzionale di modo che il parlamento si attivi per discutere le due proposte di legge. Un aiuto insperato è arrivato a luglio dal Presidente della Camera Gianfranco Fini che ha sollecitato le Camere e i membri della commissione giustizia a interessarsi della questione. «Noi insistiamo perché è assurdo che per leggi sacrosante la retroattività non si applichi e per quelle ad personam si. Non stride tutto questo con i diritti dei cittadini?», si chiede Pesarini. E conclude Petrilli «fanno un gran parlare di garantismo ma la legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere e la Bossi- Fini sono l’antitesi del garantismo; noi chiediamo un garantismo che sia per tutti i cittadini e non solo per il ceto politico: è una battaglia di civiltà con la quale vogliamo denunciare le gli errori giudiziari che avvengono con le logiche emergenziali, ieri con il terrorismo, oggi con l’immigrazione; bisogna mantenere lo stato di diritto anche nell’emergenza».

Quando sbagliano le toghe: in un libro due avvocati ricostruiscono i casi più clamorosi del dopoguerra.

Gli innocenti in galera: non solo Tortora dice Concetto Vecchio su “La Repubblica”.

Domenico Morrone fu riconosciuto innocente dopo 15 anni, due mesi e ventitré giorni passati ad ammuffire in carcere. Il più grave errore giudiziario nella storia della Repubblica. Aveva 27 anni il giorno dell'arresto, 30 gennaio 1991, accusato del duplice omicidio di due minorenni a Taranto, la sua città. Pescatore incensurato, famiglia onesta, una fidanzata. Era un uomo di 42 anni piegato dalla malasorte quando lo fecero uscire: i capelli ingrigiti dalla sofferenza, preda di gravi depressioni, un fisico appesantito di venti chili. Nella promiscuità aveva contratto alcune malattie, tra cui l'epatite b. Inutilmente aveva gridato al vento la sua innocenza. Nessuno gli aveva creduto. In Italia dal dopoguerra - ha calcolato l'Eurispes - 4 milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o di ingiusta detenzione. Fino al 1989. Ad oggi bisogna aggiungerne un altro milione. L'errore giudiziario si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio un condannato viene riconosciuto innocente solo in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.

Due avvocati, Claudio Defilippi e Debora Bosi, raccontano l'inferno delle ingiustizie in Toghe che sbagliano, Aliberti editore. Il caso più reclamizzato è quello di Enzo Tortora. Ma è solo il più noto. Un altro caso limite fu quello di Massimo Carlotto: sei anni di carcere, altrettanti di latitanza. Fu arrestato il 20 gennaio 1976. La grazia del presidente Scalfaro arrivò il 7 aprile 1993. Carlotto, forse non a caso, scrive fortunati noir. Daniele Barillà, condannato per traffico di droga perché con la sua auto si trovò sulla tangenziale sbagliata durante un inseguimento a un carico di 50 chili di cocaina: sette anni, cinque mesi e dieci giorni di galera. Arresto il 13 febbraio 1992. Il verdetto favorevole alla revisione del processo: il 23 luglio 1999. La sua storia è diventata un film. Ora vive all'estero. Lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di tre milioni di euro. Massimo Pisano nel '93 fu accusato per avere ucciso la moglie, Cinzia Bruno, a Riano, vicino Roma. Cadavere trovato sul greto del Tevere. A condannarlo fu la confessione dell'amante, Silvana Agresta. Movente: voleva liberarsi della moglie per potersi risposare. Il 18 aprile 1996 la Cassazione chiude il caso: ergastolo. Otto anni in carcere. Poi la revisione del processo. Cambia tutto. La mattina del delitto si trovava al catasto. Ci sono ventidue riscontri documentali e testimoniali. Ad uccidere la moglie fu l'amante. Motivo: il rapporto tra i due amanti era in crisi e la donna temeva che Pisano volesse rompere la relazione. Salvatore Gallo, accusato di aver ucciso il fratello Paolo nel 1954 ad Avola, fu scarcerato dopo sette anni perché Paolo invece che al camposanto viveva sotto mentite spoglie in un casale. Una messinscena tremenda, per far condannare il fratello all'ergastolo. Fu scarcerato, ma non ebbe una lira. All'epoca l'ingiusta detenzione non era contemplata dalla legge. Il caso Morrone è il più sconcertante di tutti. L'anziana madre è morta un anno dopo la sua liberazione, il 21 aprile 2006. Fa lo spazzino e ha chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro. La notte si sveglia di soprassalto, sente il rumore delle pesanti chiavi delle guardie carcerarie. Pensa di essere ancora in prigione. La sua storia mette inquietudine. Per due volte la Cassazione annullò le sentenze d'appello, ordinando nuovi processi e per altrettante volte la Corte d'assise di Bari confermò la condanna a 21 anni, una pena relativamente esigua per un delitto così efferato, segno, fanno notare gli autori, uno dei quali è il difensore del pescatore, che i giudici erano tormentati dai dubbi. La mattina del delitto aveva incontrato un amico appuntato, avevano conversato, poi aveva aggiustato l'acquario dei vicini. I vicini avevano confermato. Non bastava come alibi. I giudici trovarono il movente nel fatto che Morrone aveva denunciato i due ragazzini per un oscuro traffico di motorini, e perciò era stato vittima di un agguato. L'omicidio sarebbe stato una vendetta. Finì in cella accusato da due minorenni semianalfabeti che sostenevano di averlo riconosciuto sul teatro del delitto. Gli fecero l'esame sulla polvere da sparo: negativo. La giustizia fu celere: due anni dopo era già condannato in secondo grado. Fece lo sciopero della fame due volte. Scrisse ad Amnesty international. Interpellò il capo dello Stato. Presentò sei istanze di revisione del processo. Sette gradi di giudizio e quindici anni dopo (quindici!) due pentiti rivelarono che l'omicida era un tale Antonio Boccuni, che si era voluto vendicare dello scippo che i due minorenni avevano compiuto a danni della madre.

Sbagliare costa (allo Stato). Dal 2004 al 2007 213 milioni di risarcimenti.

I numeri della mala giustizia nel nostro Paese. Nell'ultimo decennio circa 8000 richieste di indennizzo all'anno per ingiusta detenzione. E per ogni giorno di carcere si spende 235 euro a persona. Nell'ultimo decennio sono state circa ottomila le richieste all'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. Chi paga? Lo Stato, che nel triennio 2004-2007 ha dovuto destinare 213 milioni di euro alle vittime di errori giudiziari, reclusi o condannati a causa di false rivelazioni, indagini sbagliate o scambi di persona. Questo secondo l’inchiesta di Francesco Viviano su  “La Repubblica”.

Da Enzo Tortora a Gigi Sabani. Quelle vittime della malagiustizia. False accuse, confessioni estorte e pentiti inattendibili. Così vip e cittadini comuni hanno pagato per colpe mai commesse. E solo per alcuni di loro, alla fine, sono arrivati i risarcimenti. Ecco alcune vicende tra milioni di casi.

·        I sette imputati della strage di Via D'Amelio del luglio '92 che ha ucciso Paolo Borsellino e cinque membri della sua scorta. Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Urso detto "Franco" e Salvatore Profeta, indicati come responsabili dell'attentato e condannati all'ergastolo e Vincenzo Scarantino,18 anni di condanna perché ritenuto pentito, sono stati scarcerati nel novembre scorso dopo avere trascorso in galera 15 anni in prigione, in seguito alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza cha hanno riaperto il caso. Per loro il risarcimento è ancora da quantificare.

·        Daniele Barillà, vittima di uno dei più famosi casi di mala giustizia. Viene arrestato l'11 febbraio 1992 nel comune di Nova Milanese per un grossolano scambio di persona: guidava una Fiat Tipo color amaranto con tre numeri di targa uguali a quelli di un narcotrafficante. Soprannominato l'Escobar della Brianza e condannato a 18 anni, ha passato 7 anni, 5 mesi e 25 giorni in carcere, nonostante fosse innocente. Ha ottenuto 4,6 milioni di euro di risarcimento, due già incassati in attesa del "saldo". Adesso vive in Francia.

·        Patrick Lumumba, inizialmente accusato dell'omicidio di Meredith Kercher, trascorre quattordici giorni in carcere e poi viene rilasciato e prosciolto da ogni accusa. Per l'ingiusta detenzione ha ottenuto un risarcimento di 8000 euro. Dovrà essere risarcito anche da Amanda Knox, condannata per calunnia nei confronti del barista congolese. Ma la stessa Amanda e Raffaele sollecito sono stati assolti per il delitto di Meredith Kercher dopo quasi due anni di carcere.

·        Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida e madre di 4 bambini. Viene arrestata nel 2005 con l'accusa di terrorismo. Su internet aveva pubblicato un volantino simile a quello delle Brigate Rosse di una fantomatica associazione con tanto di indirizzo e con il numero di telefono di casa e del cellulare di Maria Columbu. Un altro volantino spiegava come fare una bomba atomica: "procuratevi 110 chilogrammi di plutonio dal vostro "fornitore abituale" e contattare l'organizzazione terroristica del luogo". "E adesso che avete un ordigno nucleare, potete usarlo per spettacoli pirotecnici o per difesa nazionale". E poi ancora un altro volantino: " a morte lo Stato a morte Berlusconi". Condannata a 5 anni di reclusione. Nel 2010 viene assolta con formula piena. Per il giudice quelle "istruzioni" terroristiche erano "risibili" e "ridicole".

·        Il presentatore televisivo Enzo Tortora, protagonista della più drammatica vicenda di mala giustizia del nostro Paese. Il 17 giugno 1983 viene arrestato a Roma con l'accusa di traffico di stupefacenti e associazione per delinquere di stampo camorristico, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pregiudicati. Due anni più tardi viene condannato a dieci anni di carcere ma le accuse si rivelano completamente infondate nei seguenti gradi di giudizio, nei quali viene assolto. Torna in televisione nel 1987, duramente provato dalla sua vicenda giudiziaria. Morirà l'anno seguente a causa di un tumore.

·        Serena Grandi, arrestata nel 2003 nell'ambito di un'operazione legata al traffico di stupefacenti, trascorre cinque mesi agli arresti domiciliari. La sua posizione verrà poi archiviata nel 2009. L'attrice verrà risarcita nel 2011 con 60mila euro.

·        Il presentatore tv Gigi Sabani, arrestato nel giugno 1996 nell'ambito di un'inchiesta su presunti provini "a luci rosse". Trascorre quindici giorni in carcere poi nel luglio dello stesso anno viene rilasciato. L'anno successivo la sua posizione verrà archiviata. Nel 1999 viene risarcito con 24 milioni di lire per ingiusta detenzione.

·        Karol Racz, uno dei due romeni accusati dello stupro di una ragazzina di 14 anni avvenuto nel parco della Caffarella a Roma il 14 febbraio 2009. Racz era stato accusato da un altro uomo, Alexandru Izstoika Loyos, che aveva ammesso di aver compiuto la violenza con la sua complicità. Dopo 35 giorni di carcere, gli inquirenti scoprono che la confessione dell'uomo è falsa e grazie al test del dna individuano i veri responsabili, altri due cittadini romeni.

·        Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, trovata morta il 7 agosto 1990 in uno stabile di via Poma a Roma. Condannato il 26 gennaio 2011 in primo grado a 24 anni, ora, in appello, una superperizia ha smantellato le prove più pesanti a suo carico.

·        Domenico Morrone, protagonista di uno degli errori giudiziari più clamorosi che abbiano coinvolto cittadini comuni. Condannato a 21 anni di carcere per l'omicidio di due ragazzi, dopo averne scontati 16 viene assolto quando viene accertato che ad uccidere era stata un'altra persona. Per l'ingiusta detenzione Morrone ha ottenuto la cifra record di 4,5 milioni di euro.

·        Sandro Vecchiarelli, accusato dell'omicidio della giovane Chiara Bariffi, avvenuto nel il 1 dicembre 2002 sul lago di Como, trascorre 588 giorni in carcere poi viene assolto dalla Corte d'Appello. Viene risarcito con 170mila euro.

·        Giuseppe Gulotta, accusato e condannato anche in Cassazione per l'omicidio di due Carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani) nel 1976. Trent'anni dopo un ex brigadiere, testimone delle torture che avevano indotto alla sua confessione, si è deciso a raccontare com'erano stati condotti gli interrogatori, rivelando l'innocenza di Gulotta.

Quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati (e legali) che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. Ma qualcosa adesso dovrebbe cambiare. Lo ha detto anche il ministro Severino. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni. Nei prossimi mesi, se i giudici della Corte d'appello crederanno alla "verità" riscritta dalle perizie, sarà assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Se così dovesse accadere, il caso di Busco rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Parola di Guardasigilli, messa nero su bianco dal neoministro Paola Severino nella sua relazione sullo stato della Giustizia in Italia, presentata alla Camera a gennaio: "Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari".

I condannati della strage di via D'Amelio. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno scorso, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole".  Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà". Proprio questo aveva dichiarato, nel dicembre del 2010, l'allora l'avvocato e docente universitario Paola Severino, commentando la pista falsa che, durante le indagini sul rapimento della piccola Yara Gambirasio, aveva portato in carcere il cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza.

Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero quattro milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. "Nell'ultimo decennio ci sono state 8 mila richieste l'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro" afferma l'avvocato Gabriele Magno, bolognese, fondatore dell'Associazione nazionale vittime errori giudiziari. "Noi chiediamo l'abolizione di questo tetto, così come chiediamo che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall'assoluzione".

213 milioni di risarcimento nel triennio 2004-2007. Senza considerare che ogni detenuto costa allo Stato 235 euro al giorno (la metà se è ai domiciliari): quanto pesano in termini di soldi gli errori giudiziari? I dati per i periodo 2004- 2007, forniti dal ministero dell'Economia, in quanto ufficiale pagatore parlano di 213 milioni di euro. I risarciti sono 3.600, per il 90 per cento italiani, per il resto stranieri. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario, c'era il problema dell'ingiusta detenzione: cinque anni e mezzo, nel suo caso. "La vera novità è che per la prima volta, per lui, è stato accolto il concetto di risarcire il danno esistenziale" dice l'avvocato Magno. "Un danno che va ad aggiungersi a quello morale, biologico ed economico". Ma è sempre dei magistrati la colpa? No: l'avvocato Magno se la prende anche con i suoi colleghi: "In base alla mia esperienza, la responsabilità è dei giudici nella metà dei casi, per il resto è di noi avvocati: per i ricorsi presentati in ritardo, le scelte difensive sbagliate o gli errori procedurali. I magistrati possono sbagliare, come tutti: non ci interessa punirli, ma vogliamo venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. E di fronte al rischio indennizzo, il giudice si autolimiterebbe e farebbe molta attenzione nell'adottare certi provvedimenti. Senza nulla togliere alla sua autonomia". L'attuale normativa sull'ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari - secondo Magno - non sarebbe sufficiente per compensare chi ha subito danni quasi irreparabili. Così, la sua associazione ha già indicato alcune proposte di riforma: "La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione e proprio il fatto che la richiesta di indennizzo è sottoposta a un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima che incide sull'efficacia reale della tutela di chi ha subito una simile ingiustizia. Vogliamo che quel limite di due anni sia sostituito con la clausola in ogni tempo, per dare modo a chiunque di rivalersi. Altra proposta: creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro. Penso ai concorsi pubblici, dove la condizione di chi ha subito malagiustizia dovrebbe essere equiparata a quella dei portatori di handicap".

Le statistiche confermano che, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato. In base ai dati disponibili, non proprio recentissimi, però, errori giudiziari o ingiuste detenzioni si registrano soprattutto al Sud. La Corte d'appello di Napoli guida questa classifica avendo riconosciuto il maggior numero di casi: 449 risarcimenti concessi nel 1999 (e 152 nel 2000), pari al 9,53 per cento del totale nazionale. In seconda posizione, la Corte di Reggio Calabria che, sempre nel 1999, ha dato al via libera a 420 autorizzazioni. Seguono Catanzaro e Palermo, con 412 e 406 sentenze nello stesso anno. Fino al 1999, oltre la metà dei risarcimenti sono stati riconosciuti da giudici del Sud, un quarto al Nord e un quinto al Centro. Ma altri indennizzi milionari, ben più consistenti di quello di Barillà, sono in arrivo. Se infatti, per i suoi cinque anni di prigione, lo Stato ha risarcito 4,6 milioni di euro, quanto dovrà rifondere agli ex ergastolani della strage Borsellino?

Gaetano Murana ha 44 anni e ha trascorso un terzo della propria vita dietro le sbarre per le accuse di Vincenzo Scarantino, che lo indicava tra gli esecutori della strage di via D'Amelio. La nuova verità sul 19 luglio 1992 lo ha portato fuori dalla cella: "Un'esperienza che non dimenticherò mai".

"Diciotto anni da incubo in carcere. Ero giovane ora sono un vecchio". Il racconto di Gaetano Murana, 54 anni, un terzo della propria vita trascorsa dietro le sbarre con l'accusa di essere tra i responsabili della strage di via D'Amelio. Una detenzione dura, in regime di 41bis: "Non dimenticherò mai le violenze e le umiliazioni subite. Ho perso i migliori anni del mio matrimonio". E chiede: "Ora almeno ridatemi un lavoro". L'ultimo "errore giudiziario" della giustizia italiana, riconosciuto nell'ottobre scorso dalla Procura Generale di Caltanissetta, riguarda gli ex imputati della Strage di via D'Amelio del luglio del 1992. Tra di essi, c'è Gaetano Murana, 54 anni, che ne ha trascorsi 18 in cella, in regime di carcere duro (il cosiddetto "41 bis" previsto per i mafiosi). Quando, nell'ottobre scorso, ha saputo nel carcere di Voghera dov'era rinchiuso che era diventato un "liberante" (cioè scarcerato in attesa della revisione del processo che, fra alcuni anni, lo dichiarerà definitivamente innocente) ha pianto per ore ed ore. Con il "Venerdì di Repubblica" ha accettato di rievocare la sua odissea e l'inizio di quei 18 anni trascorsi in carcere, senza colpa. "Non smetto di pensarci e, in certi momenti, riesco persino a sorridere, ma con amarezza. Per capire, bisogna partire dal giorno precedente il mio arresto. Era il 17 luglio 1994 e stavo guardando in tv la finale di Italia-Brasile dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti, abbracciato a mia moglie. Ci eravamo sposati da poco. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo, giunse la notizia che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del telegiornale disse che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. La mattina seguente sono stato catturato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino (il falso pentito, anche lui scarcerato, che lo aveva accusato ingiustamente)"". E gran parte di questa ingiusta detenzione per un errore giudiziario incredibile, Murana l'ha trascorsa in uno dei carceri più duri d'Italia. "Pianosa, il luogo che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici gettati nella minestra, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto solo adesso, che negli anni, a tutte quelle botte mi ero quasi abituato. La sofferenza maggiore è stata la crescita di mio figlio. L'ho rivisto e l'ho potuto abbracciare solo dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Così, ho anche perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto rivedere. E non ho più un lavoro: adesso pretendo di nuovo il mio impiego in Comune". Murana, in realtà, quel lavoro non c'è l'ha ancora ricevuto e meno che mai il risarcimento per l'errore che gli ha rubato 18 anni di vita. Bisognerà infatti attendere che si concluda il processo di revisione: in primo grado, in appello e, infine, in Cassazione. Quanti anni dovranno ancora passare?

Da 20 anni latitante in Brasile in attesa che si facesse giustizia. È stato condannato per la strage di Alcamo. Ma adesso la Corte ha riaperto il processo. Al telefono racconta come è dovuto scappare nel 1992 e come vive da 21 anni lontano dall'Italia. Fino all'ultimo secondo, fino a poco prima che la Corte di Cassazione, nel 1992, pronunciasse la sentenza che lo condannava all'ergastolo, Gaetano Santangelo era rimasto in Italia aspettando fiducioso in una decisione positiva. Solo quando seppe che non c'era nulla da fare, lasciò il nostro Paese destinazione Rio De Janeiro ("Partii con un regolare passaporto direttamente per il Brasile. Nessuna avventura, nessun giro attraverso il Paraguay come scrissero i giornali dell'epoca"). In Brasile vive tutt'ora con la moglie (che lo raggiunse dopo un po') ed un figlio che adesso ha 21 anni. Fino all'ultimo fino a quella pronuncia definitiva della Cassazione che condannava all'ergastolo lui, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli per l'uccisione di due carabinieri nella caserma di Alcamo nel 1976, Santangelo, che all'epoca dell'omicidio aveva 17 anni e, oggi, ne ha 53, aveva sperato che la giustizia facesse giustizia. Adesso, dopo 36 anni dal suo primo arresto, la giustizia sta arrivando a mettere la parola fine a un calvario che, tecnicamente, si chiama "latitanza" ("ma il Brasile ha detto no all'estradizione e io sto qui del tutto in regola"). Perché adesso, dopo che Gulotta finalmente è stato riconosciuto innocente, per Santangelo e Ferrantelli è cominciato il processo di revisione a Catania, che non si svolge davanti ad una normale Corte d'appello, ma davanti al Tribunale dei Minori perché all'epoca entrambi erano ragazzini, ingiustamente arrestati, ingiustamente torturati ed ingiustamente condannati all'ergastolo. Abbiamo raggiunto Santangelo in Brasile dove lavora nell'edilizia ("ho la mia squadra di muratori") che ha accettato di parlare con "Repubblica it" precisando però di non volere entrare nel merito della vicenda giudiziaria perché il suo processo è appena iniziato. Ecco cosa ci ha raccontato, ecco come ha vissuto fino ad ora in Brasile, le sue speranze il desiderio di tornare in Italia, il desiderio di rivedere i suoi parenti i suoi vecchi amici. E ci ritornerà quando sarà dichiarato ufficialmente innocente, quando finalmente gli toglieranno di dosso l'accusa infamante di avere ucciso due carabinieri che furono uccisi da altri.

Ventuno anni all'ergastolo, era innocente. "Chi mi ridarà la mia vita perduta?". Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani. "Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto. Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione. La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto". Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?".

SI PARTE DALL’USURA E SI ARRIVA ALLA MAFIA, ATTRAVERSO I FALLIMENTI, LA GESTIONE DELLE ASTE, LE CARTOLARIZZAZIONI E LA GARANZIA SULLA SOLVIBILITÀ.

Chissà se c'è ancora qualcuno convinto che lo tsunami finanziario non lo riguardi. Roba per élite di ricconi. O per i cervelloni di Wall Street, ma per fortuna qui è tutta un'altra storia. Perché se ancora qualcuno lo pensa si sbaglia, e di grosso. Siamo noi che abbiamo subìto i danni del grande crac. E chissà per quanto andrà avanti. Banche, assicurazioni e finanza sono nell'occhio del ciclone. In Italia, le famiglie continuano a rimetterci un mucchio di quattrini. Ora si scava tra le macerie e si vuole correre ai ripari. Ma il rischio è che, scattata una trappola, se ne prepari una nuova. C'è tutto questo in queste pagine. Non solo la vecchietta che è andata in banca con tutti i risparmi e ne è uscita con le sue belle obbligazioni Parmalat o Lehman Brothers, carta straccia. Né la famigliola che ha chiesto il mutuo per comprare casa ed è rimasta strozzata dalle rate in continua crescita. Né il professionista che si domanda come sia possibile che i fondi vadano sempre più a fondo. O l'incredulità di chi scopre che le spese sul conto corrente superano gli interessi. Ci siamo tutti noi, proprio tutti, intrappolati in un valzer di scandali, risparmi andati in fumo e inganni. La "tempesta perfetta" di questi anni, sommata a risparmi che si assottigliano, economia in ginocchio, costo della vita in continua crescita e stipendi fermi, ha mostrato che il re è nudo e la pazienza dei sudditi al limite. Ma il fatto è che il sistema finanziario ha invaso la nostra vita. Con questo mondo si ha a che fare tutti i giorni: la casa, l'auto, i risparmi, la pensione, le polizze, i finanziamenti. Tutti i giorni si scoprono costi invisibili e inganni. Uno slalom che genera disillusione, rabbia, sfiducia. Ci sono storie vere in questo libro, e ognuna descrive un pezzo di vita, tra verità non dette e truffe vere e proprie. Esempi concreti, carnefici e vittime, persone e famiglie che illuminano la freddezza dei dati. Per smascherare le trappole e scoprirsi un po' meno vulnerabili. Siamo tutti consumatori e siamo, chi più chi meno, dei potenziali debitori. Con questo mondo si ha a che fare tutti i giorni: la casa, l'auto, i risparmi, la pensione, le polizze, i finanziamenti. I giornalisti Carmelo Abbate e Sandro Mangiaterra con il libro "La trappola - Come banche e finanza mettono le mani sui nostri soldi" ci svelano questa realtà tentando di far luce su finanziamenti e rateizzazioni. Ci sono storie vere in questo libro e ognuna descrive un pezzo di vita, tra verità non dette e truffe vere e proprie. Ma c'è soprattutto un atto d'accusa ben preciso contro le banche, le assicurazioni e il mondo della finanza in generale, colpevoli di ingannare sistematicamente i propri clienti pur di far profitto.

Massimo Vallorani di Sky.tg24 chiede a Carmelo Abbate, qual è la trappola di cui parla nel suo libro?

La trappola è quella che ogni giorno le banche mettono in pratica contro i risparmi dei propri clienti, cercando di ingannarli, magari vendendo loro dei titoli non sicuri. Un esempio per tutti: Lehman Brothers. Già il 15 settembre di quest'anno si era a conoscenza della fragilità di questi titoli, della possibilità concreta di un fallimento. Eppure, le nostre banche (come quelle di tutto il mondo, del resto) vendevano tranquillamente questi titoli, li certificano come a basso rischio. Da noi, addirittura rientravano nei cosiddetti "Patti Chiari". Alla luce di quest'ennesimo episodio, dopo i crack Cirio e Parlamat, dei bond argentini, si capisce che c'è qualcosa che realmente non va nelle banche. Un sistema che deve essere radicalmente cambiato a favore dei cittadini e dei consumatori.

Il suo libro è pieno di esempi di persone che si sono trovati in difficoltà con gli Istituti di credito. Ma anche con finanziamenti stipulati e non rispettati. Emerge quasi sempre una costante: la mancanza di trasparenza. Può darci dei consigli per districarci in quella che lei descrive come una vera e propria giungla?

I consigli sono essenzialmente tre. Il primo è valutare con ponderazione qualsiasi proposta fatta dalla nostra banca. Leggere attentamente qualsiasi tipo contratto ci venga sottoposto. Magari facendosi aiutare da persone più esperte da noi. Il secondo è quello che qualsiasi sottoscrizione di fondi, gestioni patrimoniali, sia sempre e solo a capitale garantito. Il terzo consiglio è che quando si accende un finanziamento rateizzato bisogna sempre controllare il T.A.E.G. (Tasso Annuo Effettivo Globale). Si tratta di un tasso puramente virtuale. Non viene infatti utilizzato per calcolare le rate. Piuttosto è un indicatore, una cifra in grado di dichiarare il costo globale del prestito.

Lei solleva anche la questione delle carte di credito revolving? Possiamo usarle tranquillamente o dobbiamo diffidarne?

Diffidarne assolutamente. Le carte di credito revolving sono normali carte di credito che consentono di rimborsare a rate il saldo di fine mese. Peccato che sono pagate a caro prezzo, soprattutto in fatto d'interessi.

In Italia gli acquisti a rate online non sono ancora diffusi come nel resto d'Europa. Si tratta comunque di un fenomeno in forte espansione anche nel nostro Paese. Ci si può fidare?

Anche nel caso di acquisti a rate fatta su Internet vale la medesima cosa che per i finanziamenti tradizionali. Conviene scegliere sempre una finanziaria in qualche modo legate alle banche più conosciute o quanto meno sempre certificate. Anche nel mondo della rete vale sempre l'imperativo di informarsi prima di ogni acquisto.

Tutta la stampa ne parla. Il 28 maggio 2011 i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano hanno condannato l’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, a 4 anni di reclusione e un milione e mezzo di multa per aggiotaggio nel processo sulla tentata scalata ad Antonveneta. La pena è maggiore rispetto ai tre anni che erano stati chiesti dalla Procura. E’ la prima volta che un governatore della Banca d’Italia viene condannato in un processo penale. Condanna anche per l'ex presidente di Unipol Giovanni Consorte a tre anni di reclusione, la stessa pena a cui è stato condannato il suo vice, Ivano Sacchetti, e il senatore del Pdl, Luigi Grillo (2 anni e 8 mesi). Per Giampiero Fiorani, l'ex numero uno della Banca Popolare italiana, condanna a un anno e otto mesi di reclusione in continuazione con i 3 anni e 3 mesi di carcere che aveva patteggiato nel marzo del 2008. Antonio Fazio, al telefono con i suoi legali, ha lapidariamente commentato la sentenza di condanna: "Ho operato sempre per il bene". Lo conforta sapere che, nella storia centenaria della Banca d'Italia, vi sono stati altri governatori che si sono ritrovati nei guai: alla fine però, sempre, ne sono usciti a testa alta. Nei giorni di massima tensione, per esempio, ricordava spesso le vicissitudini di Vincenzo Azzolini che, nell'Italia del fascismo e della guerra, viene "destituito e imprigionato ma senza dimettersi", con l'accusa di aver collaborato con i nazisti e consegnato loro parte dell'oro della Banca d'Italia. Sfugge per un soffio al plotone d'esecuzione, viene condannato, ma poi è assolto e completamente riabilitato. Non dimenticava di menzionare il caso di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, pure ingiustamente accusati. Fazio è stato chiamato in causa dopo una telefonata con Fiorani, intercettata dagli inquirenti milanesi nella notte tra l'11 e il 12 luglio 2005: in quell'occasione l'ex numero uno di Palazzo Koch aveva anticipato all'ad di Bpi il via libera di Bankitalia all'Opa lanciata su Antonveneta e da parte sua Fiorani aveva replicato con la celebre frase del «bacio in fronte». I mercati avrebbero saputo del via libera all'Opa di Bpl su Antonveneta, che metteva fuori dai giochi gli olandesi dell'Abn Amro, solo la mattina successiva alla telefonata. L'ex governatore è stato condannato anche a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, mentre per due anni non potrà contrattare con la pubblica amministrazione. Il processo avviato contro i cosiddetti "furbetti del quartierino" (molti di loro, come Stefano Ricucci e Emilio Gnutti, avevano patteggiato la pena in sede di udienza preliminare), arriva a sentenza con una sola assoluzione: quella di Francesco Frasca, ex capo della vigilanza di Bankitalia. Per lui la procura aveva chiesto una pena di 1 anno e 8 mesi, il tribunale ha deciso di assolverlo "per non aver commesso il fatto". "Mi aspettavo di essere assolto lo dico con franchezza", ha affermato al Tg1 l'ex presidente di Unipol, Giovanni Consorte. La fallita scalata della Bpl (poi diventata Bpi) ad Antonveneta nasce il 17 gennaio 2005 quando l'istituto lodigiano annuncia di aver superato la soglia del 2% del capitale della banca veneta, di cui gli olandesi di Abn Amro erano allora i maggiori azionisti. Successivamente, la Consob chiarirà che la Bpl aveva iniziato a rastrellare azioni sin dal novembre precedente. Nel febbraio del 2005 la Bpl riceve il permesso della Banca d'Italia per salire fino al 15% in Antonveneta e successivamente fino al 29,9%. Mentre gli olandesi restano fermi al 18%. Per questo Abn presenterà esposti alla Consob e un ricorso al Tar del Lazio contro il ritardo con cui Bankitalia ha autorizzato gli olandesi a salire al 20% e poi al 30% di Antonveneta, rispetto alle "celeri" autorizzazioni concesse alla Lodi. Ad aprile Abn lancia un'opa sulla banca veneta a 25 euro per azione, un mese dopo sarà il turno della Lodi con il lancio di un'offerta pubblica di scambio a 26 euro. Il 2 maggio la procura di Milano avvia le indagini e apre un fascicolo contro ignoti per aggiotaggio sulla scalata ad Antonveneta da parte di Bpl. Qualche giorno dopo la Consob delibera che Fiorani avrebbe stretto un patto occulto per superare la soglia del 30%, obbligandoli a lanciare un'opa sul 100% del capitale. Le indagini porteranno, nel luglio dello stesso anno, al sequestro dei titoli Antonveneta detenuti dalla Banca popolare italiana (che nel frattempo aveva cambiato nome da Bpl) e da Emilio Gnutti, Stefano Ricucci, Danilo Coppola. A luglio arriveranno lo stop alle offerte Bpi da parte di Consob e Bankitalia. Nel decreto di sequestro delle azioni si fa menzione ad alcune intercettazioni che coinvolgono Fiorani e Fazio. Quest'ultimo avrebbe fornito informazioni privilegiate a Fiorani. Il 2005 si chiude con l'arresto di Fiorani e le dimissioni di Fazio da governatore della Banca d'Italia.

Lazio, Calabria, Sardegna, Piemonte e Valle d’Aosta. E poi Marche, Umbria e Toscana. Quella degli imprenditori e delle famiglie alle prese con scoperti bancari, anticipazioni, sconti è un’onda lunga che arriva a Roma, dove il Forum Antiusura Bancaria, lancia l’ultima offensiva contro quegli istituti di credito che non rispettano le regole. Il messaggio che parte dalla sede del Forum ed è diretto a Palazzo Altieri, sede dell’Abi è chiaro. Secondo gli organizzatori, guidati dal deputato Idv, On. Domenico Scilipoti, le banche “avrebbero organizzato e posto in essere un accordo associativo per l’attuazione di programmi delittuosi, finalizzati ad eludere le norme bancarie che hanno reso nulle clausole contrattuali agli usi piazza per la determinazione dei tassi d’interesse”. Più chiaramente, il Forum denuncia la possibilità che la scelta delle banche di non restituire gli interessi calcolati sulla fluttuazione dei tassi, sia una decisione presa collettivamente. E dunque, il Forum si prepara a depositare presso tutte le Procure d’Italia una denuncia con la quale chiede alla magistratura di indagare e di verificare se esista un grande fratello bancario che abbia consigliato agli istituti di non uniformarsi alle disposizione del Testo Unico bancario che ha sancito la nullità degli interessi “uso piazza”. Già al fianco del Forum Antiusura, l’associazione difesa dei consumatori SoS Utenti, ha anche presentato una classifica delle Regioni in cui la rimodulazione dei tassi d’interesse ha superato la soglia di usura. Undici le regioni nella black list con la Toscana in testa con oltre 7 milioni di euro di finanziamenti erogati a tassi oltre la soglia, seguita da Puglia e Basilicata con quasi 6 milioni di euro e dal Lazio, dove gli imprenditori in difficoltà per la crisi hanno chiesto aiuto alle banche pagando l’8,46 per cento di interesse su un totale di 5 milioni e 358 mila euro erogati. Lo studio di SoS Utenti, elaborato sul Bollettino della Banca d’Italia evidenzia che a soffrire di queste criticità sono soprattutto le piccole e medie imprese, quelle aziende a conduzione familiare che più delle altre hanno fatto ricorso al sistema bancario per garantirsi la sopravvivenza.

“Un milione e mezzo di imprese sono al limite del fallimento – denuncia il presidente del Forum, Domenico Scilipoti – e un milione e 250 hanno problemi seri che li hanno portati alla chiusura. Il forum antiusura bancaria nasce dall’esigenza di molti cittadini che sono stati trattati male dalle banche, scorrette nell’applicare tassi di interesse fuori dalla norma”. “Noi denunciamo la violazione della legge sulla trasparenza bancaria – ha aggiunto Emidio Orsini, protagonista di una personale lotta decennale per difendere le sue proprietà dai decreti ingiuntivi delle banche – leggi che hanno sancito la nullità della clausole “uso piazza”, che le banche non hanno rispettato, perché hanno ritenuto più conveniente non rispettare i correntisti. Parliamo di cifre enormi, miliardi di euro per milioni di correntisti”. Ma c’è chi come il professor Francesco Petrino, presidente del Sindacato Nazionale Antiusura Riabilitazione Protestati (Snarp) è andato oltre le banche, sostenendo che “Paghiamo interessi alle banche per 76 miliardi di euro con un tasso pari al 5 per cento – contro un tasso ufficiale europeo dell’1 per cento. Come Stato subiamo un furto del 4 per cento sul prestito per il debito pubblico dalla Banca d’Italia che dovrebbe che dovrebbe essere la banca di Stato”. E ha concluso: “La nostra banca nazionale ruba agli italiani sul debito pubblico 73 miliardi di euro”.

«L'ufficio studi Cgia di Mestre, sulla base dei dati relativi alle denunce presentate alle procure dalle vittime delle organizzazioni criminali, trascurando completamente i dati riferiti all'usura bancaria rilevati presso i bollettini della Banca  d'Italia, ha elaborato e comunicato la classifica dell'usura in Italia, ponendo al primo posto la Campania ed all'ultimo posto il Trentino».

Così l'On. Scilipoti (IDV), presidente del Forum Nazionale Antiusura Bancaria, che fa invece riferimento alla classifica dell'usura ufficializzata dal Bollettino Statistico della Banca D'Italia, parte II del 2010. «Dai dati trimestralmente rilevati e pubblicati dalla Banca D'Italia si evince che a fine marzo 2010 - continua il deputato di Italia dei Valori - le famiglie produttrici italiane nell'utilizzare il credito per operazioni autoliquidanti (sconto portafoglio, anticipo fatture ecc.), hanno subìto usura in ben 11 Regioni, con tassi superiori a quello soglia. L'importo complessivamente usurato ammonta a ben 37,8 miliardi di €, coinvolgenti non meno di 302.000 famiglie svolgenti attività produttiva.

L'usura criminale a cui si riferisce il centro studi Cgia - continua l'On. Scilipoti - non rappresenta minimamente il fenomeno, e la dimensione è caratterizzata invece dall'usura bancaria che vede la stessa Campania al primo posto, con un tasso effettivo del 9,28% (ben superiore a quello soglia vigente nel primo trimestre 2010 pari al all'8,145%), ed il Trentino all'Ultimo posto con tasso effettivo al 5,07% e di molto inferiori a quello soglia. All'analisi del centro studi Cgia va aggiunto che è il fenomeno dell'Usura Bancaria che genera l'usura criminale. Quest'ultima non esisterebbe se non ci fosse la prima. I tassi usurari praticati dalle Banche per le operazioni autoliquidanti alle famiglie produttrici - precisa l'On. Scilipoti - superano di 7 volte l'inflazione che governa la dinamica dei prezzi praticabili nella produzione di beni e servizi. Inevitabilmente, prima o poi le famiglie che producono finiscono nella morsa della sospensione del credito bancario e buttate in pasto agli usurai criminali. In Campania, le famiglie che producono, pagano interessi quasi doppi, rispetto alle famiglie Trentine, per scontare portafoglio e anticipare crediti».

«Insomma - conclude l'On. Scilipoti (IDV), si vuole rendere meno efficace la "licenza di uccidere" le imprese che oggi l'Art.50 del Testo Unico Bancario mette a disposizione delle Banche».

Denunciato da una banca e assolto con formula piena Luigi di Napoli, che rinuncia anche alla prescrizione.

1988-2005: Ecco cosa è capitato a chi ha denunciato la mafia.

1988- Luigi Di Napoli, imprenditore leccese, contesta la legittimità di un appalto riconosciuto truccato. Viene minacciato e, poi, gambizzato. Dopo avere consegnato i nastri magnetici contenenti le minacce e persistendo gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, si prosciolgono questi ultimi sospettandosi la non genuinità dei nastri. Dopo avere subito l’attentato, lo si incrimina per frode processuale e calunnia ma si tenta di imporgli l’amnistia e la prescrizione. Ricorre in Cassazione per rinunciare a tali benefici e potere essere processato.

1996Assolto per insussistenza del fatto: i nastri non erano manipolati.

2005- Non sono mai state riaperte le indagini.

1990- Pretende che le forze dell’ordine impediscano l’installazione, da parte di operai di uno stabilimento balneare, di una rete metallica che impediva il libero accesso sulla battigia.

Viene instaurato un processo penale a suo carico per minacce a pubblico ufficiale. Deposita nella cancelleria del Tribunale istanza di ricusazione del giudice e, conseguentemente, viene instaurato a suo carico un processo per “oltraggio al magistrato in udienza” ed applicata la misura cautelare (pur essendo incensurato) dell’obbligo di dimora con obbligo di presentarsi, due volte al giorno, presso i Carabinieri. Il Tribunale del riesame conferma la misura. La Corte di Cassazione l’annulla. Condannato in primo grado, assolto in appello.

1995- Titolare di un patrimonio immobiliare del valore di oltre ventimiliardi di vecchie lire, contesta i rapporti bancari in cui appariva debitore essendo, essi, viziati per vari motivi.

1996- I rappresentanti di alcune banche minacciano il fallimento delle sue due società. Presenta denunce penali per estorsione ed usura e sollecita la Procura, fino al 2000, a richiedere il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche.

1999- Il Tribunale rigetta le istanze di fallimento e la Dinauto, società di Di Napoli, ottiene titoli giudiziari in suo favore e contro una delle tre banche.

2000- La Corte d’Appello, con il Presidente precedentemente ricusato e due membri con rapporti bancari con due delle tre banche reclamanti, ordina il fallimento delle società di Di Napoli.

Novembre 2000- Dopo quattro anni dalle denunce, la Procura chiede il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche solo alla vigilia del decreto della Corte d’Appello.

Il Gip dispone il sequestro. La Guardia di Finanza, recatasi in cancelleria ad eseguire il provvedimento, viene informata dell’emanazione delle sentenze di fallimento.

Il Gip dispone il sequestro anche delle sentenze di fallimento che vengono sequestrate e sigillate in busta chiusa.

2000-2003- I periti della Procura accertano la richiesta di tassi d’interesse fino al 292%. Viene richiesto il rinvio a giudizio per estorsione ed usura degli istanti il fallimento.

2003- Vari giudici delegati al fallimento vengono autorizzati ad astenersi.

12 Febbraio 2003, ore 8,30: Di Napoli, a mezzo ufficiale giudiziario, notifica al giudice delegato (privo di valida nomina) atto di citazione per danni da fatto reato.

12 Febbraio 2003- Il giudice tiene l’udienza per la formazione dello stato passivo minacciando “il fallito” di espellerlo dall’aula appena avrebbe parlato (la legge fallimentare impone di ascoltare il fallito) con l’ausilio di un poliziotto presente solo per quell’udienza. Di Napoli cerca di replicare, con tono pacato, ma viene espulso dall’aula.

Maggio 2003- Di Napoli entra in possesso di una cambiale emessa dal giudice che viene protestata. Il giudice è costretto a versare una cauzione e a proporre opposizione. Malgrado le cause pendenti, il magistrato tratta le udienze della sua stessa controparte. Dispone una consulenza per la formazione dello stato passivo dettando criteri contro legge col risultato, ovvio, di un credito infondato e contrario alle perizie della Procura della Repubblica (che hanno riscontrato tassi fino al 292%).Tutte le cause in cui è coinvolto Di Napoli vengono affidate al medesimo magistrato che viene nominato anche giudice relatore nella causa di opposizione alle sentenze di fallimento. La causa, decisa, fra l’altro, anche da altro giudice precedentemente astenutosi, viene rigettata e, dunque, attualmente pende in Corte d’Appello.

2001-2005- Varie cancellerie rilasciano attestazioni del vincolo del sequestro di cui sono gravate le sentenze a tutela della persona offesa. Di Napoli denuncia penalmente vari magistrati coinvolti nella scandalosa procedura ai suoi danni. Il curatore rinuncia all’incarico per gravi incomprensioni col giudice.

Di Napoli trascrive presso la Conservatoria dei registri immobiliari il provvedimento di sequestro della sentenza di fallimento.

5 Maggio 2005- Il giudice, con l’ausilio del nuovo curatore, dopo avere pubblicizzato suoli edificatori di indiscutibile pregio come “suoli ad uso seminativo”, li aggiudica a prezzo notevolmente inferiore. Gli offerenti, nel corso dell’udienza, vengono resi edotti del sequestro delle sentenze che inficia il loro acquisto. Le aggiudicazioni sono state opposte.

12 Maggio 2005- Di Napoli, nell’inerzia dei magistrati di Potenza ad esercitare l’azione penale contro i vari soggetti e i magistrati di Lecce coinvolti, presenta denuncia penale diretta alla Procura di Catanzaro chiedendo l’arresto del giudice delegato e del curatore.

13 Maggio 2005- Due sostituti Procuratori della Repubblica di Lecce chiedono l’arresto di Di Napoli.

24 Maggio 2005- DI NAPOLI, PERSONA OFFESA, AGLI ARRESTI DOMICILIARI. E’ accusato di avere creato il sequestro delle sentenze di fallimento.

7 Giugno 2005- Il tribunale del Riesame di Lecce conferma la misura ma dichiara l’incompetenza dei giudici di Lecce in favore dei giudici di Potenza.

30 Giugno 2005- il procedimento viene assegnato alla stessa P.M. denunciata, per le sue omissioni, presso il Tribunale di Catanzaro che chiede la conferma della misura. Gliela concede un GIP diverso dal “giudice naturale precostituito per legge”. Nella richiesta viene ravvisata la pericolosità sociale del Di Napoli per le numerose denunce e ricusazioni contro i giudici.

6 Settembre 2005- La Corte di Cassazione, su ricorso avverso il rigetto del riesame da parte dei giudici leccesi, dichiara la cessazione dell’efficacia della misura cautelare disposta dai giudici di Lecce.

Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-01923. presentata da SERGIO D'ELIA lunedì 11 dicembre 2006 nella seduta n.084. D'ELIA. - Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:

Il 21 ottobre 2006, su un quotidiano nazionale (l'Avanti), è apparsa la notizia della situazione assurda e paradossale di cui è vittima Luigi Di Napoli: «Un imprenditore salentino nel tritacarne».

già il 19 ottobre 2006, nel corso di varie edizioni del telegiornale di Telenorba (emittente locale pugliese), è stato trasmesso un servizio sulla drammatica situazione che, in quelle ore, stava vivendo, a Gallipoli, la famiglia Di Napoli con intervista rilasciata dall'avvocato Roberto Di Napoli, figlio della vittima, che, disperato, lamentava la mancata tutela dello Stato e gli abusi da parte delle Forze dell'Ordine che, per eseguire il rilascio dell'unica abitazione del Di Napoli, avrebbero, perfino, invaso i locali dell'immobile impedendone l'accesso a chiunque, compresa l'emittente televisiva;

il signor Luigi DI NAPOLI, imprenditore leccese, sarebbe, dal 1988, oggetto di una vera e propria persecuzione giudiziaria che lo ha distrutto economicamente e che sta compromettendo la serenità della sua famiglia; nel 1988, mentre contestava un appalto truccato, e riconosciuto tale nelle sedi amministrative, dopo avere ricevuto minacce, ha subito un attentato che lo costringe tuttora all'uso delle stampelle;

la sua è una storia di usura ed estorsione, di denunce reciproche tra la vittima e magistrati. Egli ha subito 21 processi e per 21 volte è stato assolto; ha sempre rinunciato ad amnistia e prescrizione per farsi processare;

il signor Di Napoli, tramite il figlio avvocato Roberto Di Napoli, sin dal 15 settembre 2006, aveva sollecitato il Commissario e il Comitato di solidarietà per le vittime dell'usura e dell'estorsione ad intraprendere ogni iniziativa al fine di far rispettare la sospensione dell'esecuzione ex articolo 20 legge n. 44 del 1999, intervenuta ope legis in favore della vittima Di Napoli in seguito al conforme parere dell'autorità amministrativa (S.E. Prefetto della Provincia di Roma) ricordando, tra l'altro, la ratio della legge n. 44 del 1999, che come ribadito dalla giurisprudenza, consente l'ammissibilità ai benefici ivi previsti anche in favore delle vittime fallite in seguito ed a causa delle condotte delittuose;

il 25 settembre 2006, Di Napoli ha subito l'accesso degli ufficiali giudiziari che gli chiedevano di rilasciare l'abitazione e, soltanto verso le ore 19, veniva comunicato il rinvio dell'esecuzione al 19 ottobre 2006; in tale data il Di Napoli afferma di aver subito un trattamento da parte sia dagli ufficiali giudiziari che dalle forze dell'ordine non in conformità con le norme vigenti in materia, subendo aggressioni fisiche che hanno comportato il ricovero dello stesso presso il locale Presidio Ospedaliero. Azione esecutiva che, stante il dolore causato al Di Napoli dalle percosse subite, è culminata con il suo arresto per presenta aggressione a pubblico ufficiale (arresto che è stato revocato soltanto lo scorso 23 novembre 2006) -:

1. le motivazioni per cui non siano stati adottati i provvedimenti al fine di fare osservare la sospensione di cui all'articolo 20 legge n. 44 del 1999 considerato che il Di Napoli ha già ottenuto pareri conformi del Prefetto di Roma che lo riconoscono meritevole dei benefici di cui alla legge antiusura ed antiestorsione;

2. se, nell'esecuzione della procedura di rilascio dell'immobile del 19 ottobre 2006 gli organi preposti abbiano agito nel pieno rispetto delle normative vigenti.(4-01923)

Antonio Giangrande, Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie non è il solo a denunciare pubblicamente le anomalie IMPUNITE E SOTTACIUTE in campo forense-giudiziario. “Il volto sporco della giustizia nel Salento” (libro – dossier). Testimonianza a cura dell’Avv. Fedele Rigliaco di Lecce.

Presentazione. Questo dossier vuole costituire un piccolo saggio dei numerosi casi di mala-giustizia nel Salento, che il sottoscritto difensore ha raccolto a seguito dell’incarico ricevuto di svolgere investigazioni ai sensi della legge 7-12-2000, n. 397. Egli è a disposizione delle autorità competenti a fornire ogni ragguaglio che dovesse occorrere sui casi esposti e su quelli non riportati in esso di cui, comunque, è a conoscenza. Questo opuscolo si prefigge, altresì, lo scopo d’invitare le autorità a prendere i provvedimenti di competenza. Nella mia veste di difensore incaricato di svolgere indagini ai sensi legge 7-12-2000, n. 397 sono venuto a conoscenza di casi di pessima amministrazione della Giustizia da parte di alcuni magistrati della Corte di Appello di Lecce, di Bari, di Potenza, di Catanzaro e di Bologna e di sperpero di preziose risorse di questa: archiviazione di procedimenti penali “de plano” finalizzati a favorire alcuni soggetti in danno di altri, insabbiamenti d’indagini importanti, fallimenti di aziende o di privati cittadini in assenza dei presupposti di legge, o condotti in modo scorretto, istanze di fallimento avanzate da usurai privati o da Istituti bancari che hanno praticato tassi d’interesse elevati, decreti ingiuntivi accordati ad usurai o ad Istituti bancari privi di titolo, disintegrazione di aziende ad opera di Istituti bancari che applicano interessi ultralegali anatocistici in assenza di contratti, trattamento di favore riservato da magistrati ad Istituti Bancari, dispendiose ed inutili consulente, diniego da parte di alcuni magistrati delle indagini difensive di cui agli artt. 391-bis e 391-nonies, utilizzo dei processi per calunnia come spauracchio per disincentivare i cittadini a denunciare amici di magistrati, corruzione di alcuni magistrati, terrorismo che promana da una parte della magistratura, condizionamenti da parte di magistrati su avvocati, archiviazione di procedimenti penali per comportamenti estorsivi da parte del Concessionario esattore delle tasse e da parte di Enti impositori, ecc..

CONTINUA……….

E ancora a Lecce. Un coraggioso Salentino si ribella alle banche usuraie e ai giudici che archiviano. Luigi De Magistris ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno. De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio...". Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento di banche che applicano tassi usurari disinvoltamente ed impunemente e che gli erano state ordinate da un GIP. Tutto ciò sarebbe scaturito da Luigi Stifanelli di Nardò (Lecce, Puglia), commerciante, ex senza tetto a causa dell’usura bancaria subita. Stifanelli si potrebbe definire uno degli uomini più coraggiosi e determinati d’Italia, nonostante tutte le angherie subite ha continuato a cercare giustizia. Il nostro impavido commerciante, anni fa aveva denunciato i giudici di Lecce per una brutta storia legata alla sua vicenda sulle banche, le indagini arrivarono a Potenza ma anche lì non ebbe giustizia. Allora si rivolse a Catanzaro e denunciò anche i giudici di Potenza, ma anche in questo caso i diritti di Stifanelli non furono rispettati. L’indagine era di De Magistris, una delle tante sulle toghe lucane. Alla seconda richiesta di archiviazione però, Luigi Stifanelli che è ormai più esperto di un avvocato nel parlare di articoli dei codici e di procedure, prepara una querela e la manda a Salerno. Alla Procura di Salerno dopo aver ascoltato la parte offesa hanno acquisito la documentazione dalle Procure di Potenza e Catanzaro, dopo di che i magistrati hanno richiesto il rinvio a giudizio di De Magistris davanti al Tribunale di Salerno. La prima udienza il giorno 21 Febbraio 2011.

Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.

"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."

Ma questo non basta. Sulla lotta alla mafia ed in particolare all'usura sconvolgente è la notizia data da tutti i giornali: arrestato il prefetto Carlo Ferrigno, ex Commissario nazionale antiracket ed antiusura.

Dal “Corriere della Sera” uno dei tanti articoli. “È l'ex commissario antiracket, sfruttava la sua posizione per ottenere favori sessuali da giovani donne. Il suo nome era spuntato in un’intercettazione del caso Ruby. È stato prefetto di Napoli, poi commissario nazionale antiracket. Uno dei più alti funzionari di Stato, in prima fila nella lotta alla mafia. L'ex prefetto Carlo Ferrigno, 72 anni, è stato arrestato con l'accusa di millantato credito ed è adesso agli arresti domiciliari. È indagato anche per prostituzione minorile per due casi segnalati nell'inchiesta. Secondo la Procura di Milano, dal 2005 a pochi mesi fa avrebbe fatto avance e ottenuto favori sessuali, promettendo in cambio il suo autorevole intervento nella pubblica amministrazione. Nell'ambito dell'indagine, è finito in carcere anche l'imprenditore Massimo Abissino, titolare di un negozio di moda in via Farini a Milano, che avrebbe tra le altre cose favorito la prostituzione di una delle due minorenni che avrebbero avuto rapporti con Ferrigno. Ad Abissino vengono contestati anche fatti di droga. Una delle giovani lavorava proprio nel negozio di Abissino come commessa. In totale, le parti lese, che riguardano condotte sessuali di Ferrigno per i reati di millantato credito e prostituzione minorile, sono 4: le due minorenni e due donne maggiorenni. In particolare, l'ex Prefetto, chiedendo prestazioni sessuali, millantava agevolazioni per le donne come la possibilità in un caso di far entrare una giovane in Polizia e, in un altro caso, di risolvere la questione di un permesso di soggiorno per un'altra ragazza. L’inchiesta, condotta dal pubblico ministero Stefano Civardi, è nata dalla denuncia del presidente di Sos racket e usura Frediano Manzi, che aveva raccolto le testimonianze di alcune vittime di usura ed estorsione, secondo le quali Ferrigno avrebbe promesso di «accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura, farle passare in commissione, se avesse ottenuto in cambio prestazioni sessuali». In merito Frediano Manzi era stato sentito come persona informata sui fatti, ma il pm aveva poi secretato gli atti. «Da tempo circolavano le voci nel nostro ambiente di prestazioni sessuali che erano richieste soprattutto alle vittime di usura che presso la sede del Comitato Nazionale Antiracket a Roma, in Via Cesare Balbo 37, entravano in contatto con il Prefetto Carlo Ferrigno». Così si apre la lunga nota pubblicata sul sito dell'associazione antiracket già nel febbraio del 2010. All'epoca risalgono anche le testimonianze video registrate nella sede dell'associazione. Le presunte vittime di Ferrigno raccontavano la disavventura con il funzionario che era arrivato a molestarle pesantemente. «Queste voci riferivano di una prassi consolidata e perpetrata negli anni dal Prefetto: accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura. Nel caso fossero stati uomini a far domanda al fondo, era loro richiesto esplicitamente se avessero avuto una "amica" da presentargli». Secondo quanto Manzi scriveva sul sito dell’associazione «era abitudine del commissario antiracket inviare un autista (...) con la macchina in dotazione del ministero a prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni, per fare orge e festini presso l’abitazione del Prefetto a Roma». Il nome di Ferrigno è poi spuntato in un’intercettazione svolta nell’ambito dell’inchiesta sul caso Ruby il 29 settembre 2010, in cui Ferrigno dice a un uomo parlando delle feste del presidente del Consiglio: «C’erano orge lì dentro non con droga, non mi risulta. Ma bevevano tutte mezze discinte. Berlusconi si è messo a cantare e a raccontare barzellette. Loro tre (Berlusconi, Mora e Fede) e 28 ragazze. Tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto solo le mutandine strette...». Un racconto che all'alto funzionario era stato fatto da Maria Makdoum, ventenne danzatrice del ventre in un caso ospite a Villa San Martino. La ragazza era diventata la sua amante, e per controllarla avrebbe anche violato il sistema informatico del Ministero dell'Interno. Da quanto si è saputo, Ferrigno controllava i contatti telefonici della Makdoum, anche grazie all'aiuto di altre persone indagate. In particolare, aveva l'accesso ad alcuni account e a delle password per spiare il traffico telefonico della ragazza. Il presidente dell'associazione Sos-Racket e Usura, che ha dato il la all'inchiesta, Frediano Manzi commenta così l'arresto: «Noi siamo stati gli unici tra tutte le associazioni antiracket a denunciare questo fenomeno. Ora pretendiamo che vengano verificate le posizioni di tutti coloro che hanno ricevuto i finanziamenti disposti dal prefetto Ferrigno dal 2003 al 2006 periodo in cui è stato commissario Antiracket».”

Ma c’è di più. Sulle cronache locali di tutta Italia ci sono pagine e pagine che parlano del fenomeno: Fallimentopoli.

A Torino. Ricostruisce i fatti, confessa e si giustifica: «il sistema mi è sfuggito di mano». Giovanni Marabotto, l’ex procuratore capo di Pinerolo, in provincia di Torino, arrestato per associazione a delinquere, corruzione, truffa aggravata, non ha potuto che ammettere le sue responsabilità davanti al sostituto procuratore Maurizio Romanelli che lo ha interrogato per un paio d’ore circa. Di più: al magistrato, l’ex procuratore capo ha di fatto "consegnato" il suo tesoretto, quello che nel corso delle indagini ancora non è stato trovato, "custodito" in un conto aperto presso una Banca di Monte Carlo. Un deposito al quale gli inquirenti erano già arrivati ma solo come "sigla", senza sapere fino ad ora che proprio lì l’ex magistrato aveva fatto confluire le sue "fortune", cioè tutte le somme percepite nel tempo sulla marea di perizie disposte su indagini "inventate" su almeno 375 società.  L’ex procuratore capo ha confessato di aver preso tangenti nel corso degli anni. Ma non nella percentuale del 30%, come gli contesta l’accusa, ma "solo" del 10%. Il "resto" finiva in altre tasche di quella piccola "catena" di consulenti, collettori e amici fidati creato ad hoc.

A Milano. Il Caso Maria Rosaria Grossi. A parlare negli interrogatori è Mauro Vitiello, magistrato in servizio al Tribunale di Milano, sezione fallimentare e dunque ex collega della Grossi: "Era sospettata di scambiare favori di natura economica con professionisti vari utilizzando il sistema della loro nomina nelle procedure concorsuali. Altra voce che correva sul conto della Grossi era relativa al fatto che avesse avuto relazioni sentimentali con avvocati e professionisti che lavoravano nello stesso settore dove lei svolgeva attività di giudice". Vitiello fa riferimenti espliciti: "La Grossi si occupò della vicenda lodo Mondadori (...)

A Firenze. Il giudice Sebastiano Puliga, già in servizio alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze, e i professionisti che, secondo le accuse, avevano costituito con lui una sorta di comitato d'affari che lucrava sulle procedure fallimentari, sono stati rinviati a giudizio dal giudice dell' udienza preliminare di Genova Elena Daloiso. Sono accusati, a vario titolo, di concussione, corruzione, peculato, concorso in bancarotta. Si è chiusa così, con il rinvio a giudizio di 30 dei 36 indagati, l'inchiesta sul più grave scandalo scoperto a Firenze negli ultimi anni.

A Roma. La sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Il magistrato è anche sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia. Usava una "falsa" identità, grazie a una tessera di riconoscimento che le era stata legittimamente rilasciata dalla Corte d'appello di Roma, ma sulla quale era riportata un'erronea data di nascita; e così disponeva di un codice fiscale che le permetteva di agire "al riparo da possibili responsabilità patrimoniali". E c’è di più. Sono sei i magistrati finiti sotto inchiesta. Oltre a Briasco e al suo vice Anacleto Grimaldi, le imputazioni riguardano Pierluigi Baccarini, Vincenzo Vitalone, Pierluigi Bonato e Raffaello Capozzi. Gli ispettori li accusano di essere riusciti a farsi assegnare le pratiche più importanti aggirando le disposizioni sulla rotazione degli incarichi. E soprattutto di aver affidato la gestione dei fallimenti a commercialisti e avvocati di propria fiducia. Quale fosse la contropartita dovranno accertarlo le inchieste penali, ma il sospetto è evidente. I consulenti nominati ottengono infatti un compenso percentuale rispetto all' entità del fallimento e gestiscono i beni delle società in dissesto. Due di loro sono stati indagati per peculato dai magistrati romani che hanno poi trasmesso gli atti ai colleghi di Perugia competenti a indagare sulle toghe capitoline.

Ma che fine fanno i beni pignorati di cui si chiede la vendita?

Si premette che non sempre il magistrato procedente, sentito il Prefetto e il Presidente del Tribunale, opera la sospensione del procedimento di vendita, in caso di reato di usura.

Come spesso accade, può succedere, anche, che il magistrato titolare proceda alla vendita, (per dolo o colpa) nonostante nullità procedurali o addirittura insussistenza dei motivi, per intervenuto adempimento stragiudiziale dell'obbligazione.

Un’inchiesta di Enrico Bellavia per Repubblica svela come funziona il sistema delle aste giudiziarie. I trucchi e le pratiche illecite degli affaristi e delle cosche mafiose per pilotare le aste e far scendere di prezzo degli immobili. Un sistema che sulla carta offre “garanzie e trasparenza” ma che nella realtà…

Una casa su dieci passa di mano alle aste giudiziarie. Un mercato nel grande mercato immobiliare. E in costante crescita, con il trenta per cento di transazioni in più ogni anno. Centocinquantamila gli immobili ceduti in un anno. Con previsioni di ulteriore espansione, considerando che le proprietà a rischio di procedura esecutiva sono più del doppio. Dieci miliardi sui 100 della borsa del mattone vengono già spesi così, all'interno di un sistema che, sulla carta, offre mille garanzie di trasparenza, ma che gli operatori per primi considerano una prateria per le scorribande di speculatori affaristi e mafie. I vecchi proprietari rientrano con le buone o con le cattive in possesso degli immobili perduti, i nuovi potenziali acquirenti sono indotti a mollare l'affare o a versare sostanziose tangenti per non incontrare ostacoli. Agenzie che operano alla luce del sole e faccendieri che si propongono come consulenti alle aste si infiltrano tra le pieghe delle regole che governano gli incanti, ne pilotano gli esiti e fanno incetta di immobili.

Per il cittadino qualunque avventurarsi nell'acquisto di una casa o di un terreno messi in vendita dai tribunali equivale a intraprendere spesso un percorso pieno di insidie. Per evitare le quali il ricorso all'intermediazione diventa l'unica alternativa. Ma come funziona il sistema? Dove sono le trappole? Quali i trucchi?

Un esperto di aste che conosce bene quel mondo confessa candidamente: "Per un acquirente che decida di concorrere da solo, le speranze di concludere positivamente l'affare si assottigliano e di molto e soprattutto si assottigliano le previsioni di strappare un immobile a prezzi stracciati. Quello è mestiere per chi sa tenere a bada le offerte fino a far crollare il prezzo ed entrare in gioco solo quando le decurtazioni hanno fatto precipitare il valore del bene". Un gioco di nervi, ma anche e soprattutto di astuzia. Che autorizza metodi spicci, come l'allontanamento preventivo dei concorrenti o i patti di cartello che consentono la turnazione alle aste di gruppi organizzati. Si calcola che a rischio sia almeno il venti per cento delle compravendite, in cifre due miliardi di euro all'anno. Con buona pace del fisco che vedrà volatilizzarsi parte del proprio gettito in favore di una "tassazione criminale".

Il sistema prevede che la vendita sia gestita da un giudice. Ma, con l'obiettivo di velocizzare le transazioni e smaltire l'arretrato, chiudendo in tempi ragionevoli procedure esecutive che durano anche 15 anni, dal primo marzo 2006 si è introdotta la delega ai professionisti. Avvocati, commercialisti, esperti contabili, oltre ai notai che già operavano in precedenza, possono ora procedere alla vendita. Le aste sono pubbliche, chiunque può assistervi - gli annunci compaiono sui giornali e su Internet - e chiunque, meno che il vecchio proprietario, può concorrere. Nella vendita senza incanto le offerte arrivano in busta chiusa e rimangono segrete fino alla data fissata per l'aggiudicazione. Nel sistema con incanto, invece, le offerte vengono formalizzate a voce. La procedura prevede un sistema alternato fino a sei tentativi, esauriti i quali l'immobile scende ancora di prezzo e si ricomincia.

Prima di farsi avanti, nella prassi, si seguono delle regole. "C'è da sapere intanto - spiega la fonte che opera nel mondo delle aste - a chi appartiene l'immobile. Il nome del proprietario, soprattutto in certi ambienti, può dire molto e un passaparola sotterraneo consente di sapere se non ci sono ostacoli o se ci sono interessi precisi su quella casa, su quel terreno o su quel capannone industriale. La regola, in questi casi, è starsene alla larga il più possibile. Tutto deve svolgersi nella massima segretezza sino al momento dell'asta. Nei fatti però, basta conoscere in anticipo se ci sono altri potenziali acquirenti e avvicinarli, o contattarli appena dopo l'aggiudicazione per costringerli a ritirarsi o a pagare una tangente per ottenere il via libera all'affare e il gioco cambia". Chi opera in quel mercato sa che le informazioni equivalgono a moneta sonante. Accaparrarsele è il primo obiettivo. I fascicoli delle procedure stanno nei tribunali. Hanno accesso a quelle carte giudici e cancellieri. Conoscere per tempo lo stato della pratica garantisce un indubbio vantaggio. Ma l'idea che solo attraverso un'interessata fuga di notizie sia possibile garantirsi il primato è riduttiva. L'avvento dei professionisti nel gioco delle vendite ha moltiplicato, senza risolverli, i conflitti di interesse. Capita che a occuparsi dell'incanto sia lo studio di riferimento di un legale che ha seguito la procedura in passato come avvocato della banca intenzionata a rientrare del mutuo erogato e non pagato. Capita che la stima dell'immobile che deve andare all'asta sia affidata a un tecnico che ha rapporti di parentela diretti o indiretti con chi fatalmente concorre all'acquisto. L'esperienza e l'affidabilità richiesti come requisito per l'affidamento degli incarichi, mostrano come rovescio, la concentrazione in poche mani delle procedure delegate.

Le indagini che hanno gettato luce sul mondo delle aste truccate rivelano la costante presenza di "ganci" interni che offrono su un piatto d'argento informazioni da spendere al banco di intermediari che agiscono quasi sempre in gruppo, con o senza la copertura delle cosche, a seconda dei contesti. Ma sono quasi sempre indagini nate in altri ambiti che poi svelano i meccanismi delle combine. Le intercettazioni si rivelano fonti primarie. A Milano, dove si registra il record di aste, dieci anni fa, fu un giudice a insospettirsi per la presenza costante alle aste di alcuni personaggi. Chiese e ottenne che si aprisse un'inchiesta. Furono piazzate anche delle microspie e si scoprì così che c'era un gruppo capace di scoraggiare gli acquirenti fin dietro la porta del magistrato con minacce esplicite. Da Palermo, a Lecce, passando per Reggio Calabria, tre inchieste nate intorno a vicende di mafia, hanno permesso di ascoltare in diretta come prassi e metodi si pieghino agli interessi più disparati. Ma sono scoperte, per così dire casuali, all'interno di indagini partite per altro. Ma quali sono i metodi? Chi sono i mediatori? Come agiscono? Fatalmente è dalle indagini di mafia che arrivino le informazioni più aggiornate sulle storture del sistema. Svelano l'esistenza di colletti bianchi, professionisti al servizio di cosche più o meno organizzate che mettono a disposizione informazioni ed esperienza per pilotare il sistema.

A Palermo, nel 2008, era il potente clan dei Madonia a giocare con un misterioso avvocato mai individuato per assicurarsi di rientrare in possesso degli immobili finiti in una procedura fallimentare. Beni per milioni che, riacquistati all'asta, attraverso prestanome sarebbero sfuggiti così alle misure di prevenzione patrimoniale a carico dei padrini.

In Calabria, dove periodicamente, si sono accesi i riflettori sulle aste, a giugno scorso, l'indagine del Ros dei carabinieri, Meta, coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone ha permesso di accertare che intorno alle aste due cosche un tempo rivali, quelle degli Imerti-Condello e quella dei De Stefano-Tegano-Libri, sotto l'egida di Cosimo Alvaro di Sinopoli avevano siglato un patto di non belligeranza in nome degli affari. Compravano come immobiliari capaci di stare sul mercato con una solvibilità immediata. Gestivano il riacquisto per conto degli affiliati ma avevano allargato il giro stimato in cento milioni di euro, proponendosi come veri intermediari. Perno fondamentale era l'avvocato Vitaliano Grillo Brancati: non uno 'ndranghetista, ma un colletto bianco molto utile, "capace di spianare la strada" per le aggiudicazioni. Un professionista, un esponente della zona grigia che "supportava", come ha spiegato il procuratore nazionale Pietro Grasso, le operazioni della criminalità organizzata. Vitaliano Grillo Brancati avrebbe mandato avanti la moglie Anna Maria Tripepi, anche lei avvocato, a fare incetta di immobili. Non solo mafia anche in Calabria. A Vibo Valentia, nel maggio 2010, in cinque sono finiti arrestati dopo la scoperta di un carico di marijuana nel capannone del responsabile delle vendite giudiziarie. Si è ricostruita da lì una combine delle aste soprattutto dei beni mobili. Il resto lo ha spiegato un imprenditore che aveva perso la propria casa a un'asta beffa.

Nella intermediazione pura erano specializzate due famiglie pugliesi, una guidata da Salvatore Padovano di Gallipoli, l'altra dai Coluccia di Galatina, i cui affari sono stati radiografati a novembre 2010 dalla procura di Lecce guidata da Cataldo Motta. Gli emissari dei clan costituivano agenzie di mediazione capaci di restituire i beni agli insolventi, dietro pagamento di una provvigione. L'indagine ha subito una brusca accelerazione per una fuga di notizie che vedeva sospettato un ufficiale dei carabinieri. Ed è stata ritrovata anche un'agenda sulla quale il mediatore alle aste, Giancarlo Carrino di Nardò, aveva annotato tutti i suoi interventi. In una intercettazione il boss gli ricordava: "Noi siamo legati da complicità".

C'è poi l'aspetto del riciclaggio del denaro. Tra cauzione e oneri, per partecipare a un'asta, bisogna disporre di denaro contante: il dieci per cento subito, il saldo dall'aggiudicazione con assegni circolari in un periodo che va dai venti ai sessanta giorni. Tempi troppo stretti se si considerano quelli medi per ottenere un mutuo. All'acquisto si arriva con assegni circolari emessi dagli istituti bancari. E qui c'è un'altra possibile falla: "Il sistema dei controlli - spiega il professionista delle aste - è assolutamente inesistente. A partire dalla provenienza dei soldi che arrivano a costituire il capitale di acquisto. Basta aggirare le norme antiriciclaggio, con la complicità di una mano amica dietro allo sportello, per trasformare il denaro contante di dubbia provenienza in assegni circolari, e trovarsi in mano soldi puliti con i quali comprare all'asta un bene che rientra nel circuito legale. Nessuno va veramente a controllare come si sia costituito quel capitale: se provenga da un mutuo, da risparmi o dalla massiccia immissione di contante ripulito in banca". La lavanderia ha così il bollo del giudice.

L’usura, secondo l’art. 644 c.p., è l’attività di chi si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, secondo il calcolo della media dei tassi applicati ai titoli di Stato. A differenza delle vittime della mafia, a cui la legge 44/99 ha riconosciuto a tutti l’indennizzo per i danni subiti e non risarcibili dal responsabile, alle vittime dell’usura si applica una discriminazione ai fini della concessione del mutuo decennale senza interessi, per far fronte alle obbligazioni.

Secondo la legge 108/96 al "Fondo di solidarietà per le vittime dell'usura" istituito presso l'ufficio del Commissario straordinario del Governo per il coordinamento iniziative anti-racket possono accedervi solo soggetti economici.

Il Fondo provvede alla erogazione di mutui senza interesse di durata non superiore al quinquennio a favore di soggetti che esercitano attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione, i quali dichiarino di essere vittime dei delitto di usura e risultino parti offese nel relativo procedimento penale. Il Fondo è surrogato, quanto all'importo dell'interesse e limitatamente a questo, nei diritti della persona offesa verso l'autore del reato.

Pare chiaro che il cittadino comune, vittima dell’usuraio, in quanto costretto da circostanze avverse a rivolgersi a questi per impedimento di accesso al credito da parte delle banche, sia discriminato dalla legge.

La stessa legge 44/99 ha introdotto la possibilità di ottenere la sospensione dei termini esecutivi per 300 giorni e di tre anni per quelli fiscali, sino all'esito dei giudizi penali incardinati a seguito di denunzie delle vittime. La sospensione la concede il giudice procedente, sentito il parere del Prefetto rilasciato entro 30 giorni dalla richiesta.

Anche sulle stesse sospensioni vi era discriminazione, sanata dall’intervento del parere emesso dal Consiglio di Stato il 3 dicembre 2007, in seguito al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso il decreto del Commissario Straordinario del Governo Prefetto Lauro.

Oggetto del ricorso fu l’illegittimo orientamento seguito dal Comitato di Governo nel quantificare il danno da usura bancaria ai fini della concessione del mutuo decennale senza interessi previsto dalla L. 44/99 . Difatti pur riconoscendo lo status di usurato bancario l’ufficio Amministrativo sopra menzionato ha ritenuto di dover diversificare e penalizzare la condizione.

Il Consiglio di Stato ha accolto le critiche denunciate e ha riconosciuto che: “… Manca d’altronde, qualsivoglia precetto che legittimi una diversità di trattamento. Né può essere ravvisato nell’ordinamento attraverso una interpretazione contraria al principio di uguaglianza e ragionevolezza che struttura l’intero sistema costituzionale…”

Così argomentando il Consiglio di Stato ha dichiarato che l’atto impugnato è illegittimo e va conseguentemente annullato. Tale parere rappresenta una pietra miliare all’interno delle procedure di erogazione dei fondi e costituisce il modello interpretativo e di indirizzo al quale tutte le Prefetture d’Italia e l’ufficio del Commissario Straordinario di Governo dovranno attenersi.

Nell’intervista rilasciata a “Striscia la Notizia” il 18.12.07, il Commissario Straordinario del Governo, Prefetto Lauro, ha manifestato la volontà di costituirsi parte civile in tutti i procedimenti di usura ed estorsione bancaria.

Per la gente comune l'usura ha un significato del tutto incomprensibile, che rimane tale sino a quando accade di trovarsi nella condizione di ricorrere a un certo e oscuro amico, in apparenza benefattore. Completamente diverse sono invece le circostanze che inducono imprenditori e professionisti a ricorrere al credito alternativo a quello convenzionale. Mentre per il nucleo famigliare il ricorso all'usura avviene solo in circostanze straordinarie, per risolvere problemi che la normale redditività non consente di appianare, per gli imprenditori e i professionisti il meccanismo del ricorso all'usura scatta, quando per una qualsivoglia ragione si ritrovano incagliati verso la banca che gli ha dato credito, quando si accumulano rate insolute di mutuo o vengono revocati i crediti affidati.

In pratica si diviene potenziali vittime di usura a partire dal momento in cui il proprio nominativo viene censito dalla Banca Dati CRIF o dalla Centrale Rischi di Bankitalia o ancora nella Centrale di Allarme Interbancario, anche quando si è incorsi nel semplice caso che un proprio assegno è risultato scoperto a prima presentazione, o sia stato richiamato dal suo presentatore per accordi col debitore. La situazione di affidabilità peggiora poi se l'imprenditore o il professionista sono incorsi in protesti di assegni o cambiali.

In pratica, per il sistema bancario e finanziario del nostro paese, ai cittadini, alle imprese e ai professionisti i cui nomi finiscono nelle predette Banche Dati, indipendentemente dal loro patrimonio e dalle loro capacità reddituali, non viene data alcuna possibilità di appello, poiché sino a quando i loro nomi risultano nella lista nera sono e saranno letteralmente inibiti ad ogni operatività col sistema bancario. Fatto più grave, che, mentre per gli evasori fiscali, per coloro che incorrono in abusi edilizi e per una infinità di reati o condannati a pene detentive fino a tre anni, sono previste sanatorie, condoni e indulti che fanno sparire ogni traccia degli eventi e consentono a questi soggetti piena operatività, per i malcapitati dei protesti la situazione diviene drammatica, poiché non viene loro consentita alcuna possibilità di operare con e tramite banche, neppure volendo operare con mezzi e soldi propri, anche quando sono in grado di dimostrare di avere assolto al pagamento dei titoli finiti in protesto.

Problema per il quale, l'ABI e le banche tutte, si ostinano a negare soluzioni obiettive.

Va considerato che le banche sono gli unici soggetti abilitati dalla legge alla raccolta dei risparmi e al reimpiego con il credito. La situazione non è cambiata neppure quando nell'estate del 2006 è intervenuto il famigerato decreto Bersani n.248/2006 che col suo art.35, comma 12, obbligava gli italiani, a effettuare tutti i pagamenti tramite banca, carte di credito o bancomat, per consentire la tracciabilità e limitava sotto la soglia dei 500 euro ogni pagamento con l'utilizzo di contante.

Secondo il Centro Studi SNARP, in Italia, oltre 6 milioni di cittadini e imprese sono costretti ad operare in modo sommerso, solo perché, in modo del tutto incostituzionale, sono esclusi dalla possibilità di operare attraverso le banche. Un problema, ripetiamo, che vede coinvolti oltre 6 milioni di protestati, in aggiunta agli oltre 15 milioni censiti nella CRIF e nella Centrale Rischi.

Più di 20 milioni di cittadini dunque ai quali è preclusa l'operatività.

Il Consorzio Patti Chiari di emanazione ABI, costituito da circa 150 Banche, ha istituito sì "il conto corrente di base", si dà il caso però, che tutte le volte che lo SNARP ha trasmesso richieste in favore di soggetti per i quali tale tipo di conto sarebbe stato istituito, le banche non hanno mai ritenuto opportuno aprirlo, neppure quando si è fatto prioritariamente dichiarare agli interessati che non avrebbero richiesto il libretto degli assegni, e che avrebbero operato solo con mezzi propri.

Ma veniamo al nocciolo del problema. Con queste premesse e limitazioni, risulta inevitabile che in situazioni di bisogno, chi non può disporre di soluzioni convenzionali sia costretto a ricorrere a soluzioni estreme. E dopo essere finito nelle mani degli usurai, comincia per i malcapitati un periodo più o meno di lunga agonia, in dipendenza della durata del rapporto e soprattutto della dipendenza economica del soggetto sventurato.

Il Ministero dell'Interno anno dopo anno ha fatto costosissime campagne informative sulla legge anti-usura e anti-racket per esortare le vittime dell'usura e del racket a sporgere denuncia per essere protetti dalle istituzioni, ma tutto ciò si scontra con una dura realtà.

Il Prof. Francesco Petrino, presidente nazionale del sindacato anti-usura SNARP, ha avuto modo di istruire e seguire oltre 8 mila denunce, col risultato che, pur in presenza della documentata consistenza di ipotesi di reato, almeno la metà delle stesse, rimaste per anni insabbiate, sono state archiviate per prescrizione dei reati; per circa il 40% delle denunce è stata richiesta l'archiviazione, le cui opposizioni hanno condotto al rinvio a giudizio solo in una decina di casi; e per circa il 10% si sono ottenuti i rinvii a giudizio degli aguzzini con qualche condanna.

Di contro, il 92% delle vittime che hanno denunciato i propri aguzzini non hanno mai ottenuto l'accesso ai mutui di solidarietà, anche quando gli usurai sono stati condannati. Non è andata meglio per coloro che hanno invocato i fondi per la prevenzione, con cui viene garantito l'80% delle somme erogate; poiché gestiti dalle banche, nella maggior parte dei casi vengono concessi solo in favore di soggetti indebitati con le medesime, le quali così recuperano i loro crediti, spingendo gli altri, che hanno sofferenze con soggetti diversi dalle stesse, nelle braccia degli usurai.

Va fatto notare che, la maggior parte delle denunce sono state presentate per il reato di usura bancaria, fronte su cui la magistratura ha quasi sempre mantenuto un atteggiamento di notevole distacco, evidentemente perché considera usura, solo quella praticata da chi non espleta attività bancaria, e non invece l'usura praticata dalle banche, specialmente dopo l'uscita della contestata legge n. 24/2001 di interpretazione autentica della precedente legge n. 108/96, che autorizza il sistema creditizio ancora oggi a percepire interessi alle condizioni stipulate sui contratti antecedenti al 1996, frequentemente a tasso superiore al 40% annuo.

Ma tornando alle vittime, divengono ancor più vittime dopo la presentazione delle denunce: rimangono isolate più di prima, e tenute a debita distanza dalle banche e dagli usurai. Le richieste di accesso al fondo di solidarietà si sono rivelate un autentico fallimento, poiché la maggior parte dei soggetti ammessi, hanno richiesto 100 ed hanno ottenuto delibere per 20, e, per ottenere i 20, hanno dovuto attendere mesi, se non addirittura anni. La lungaggine burocratica è dovuta prima alle Prefetture delegate alla gestione amministrativa delle domande e poi al Comitato Consap, istituito presso il Ministero dell'Interno.

Peggio ancora l'iter per ottenere la sospensione dei termini esecutivi, che in passato hanno consentito il salvataggio di molte gravi situazioni. Difatti dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n.457 del 14/12/2005, che ha attribuito al giudice delle esecuzioni il potere di concedere le sospensioni, si è rivelato del tutto inutile l'iter che prevedeva la domanda al Prefetto per l'emissione del decreto che autorizza la sospensione, subordinata però all'acquisizione del parere positivo del Presidente del Tribunale e di quello del pubblico ministero designato all'istruttoria delle denunce, con il risultato, che, anche in presenza di tutti e tre i pareri positivi, i giudici delle esecuzioni si ostinano a rigettare le richieste di sospensione delle esecuzioni e delle scadenze fiscali, dando così impulso a illegittime espropriazioni di interi patrimoni, calpestando ogni diritto che compete alle vittime, che si ritrovano beffate e ingannate. Tutto questo, mentre per la crisi che ha investito l'economia mondiale, nell'ultimo anno è aumentato del 27% l'indebitamento delle famiglie, è cresciuto del 32% il numero dei soggetti costretti a ricorrere agli usurai, ed è paurosamente aumentato il numero dei suicidi per debiti.

Secondo Petrino, presidente nazionale del sindacato anti-usura SNARP, “sembrerebbe esserci un patto federativo fra banche, uffici amministrativi, Prefetture, uffici giudiziari affinché i diritti dei cittadini vengano calpestati”.

Parole durissime che vengono pronunciate con la massima tranquillità, perché nascono da dati di fatto, sottolinea Petrino, docente di Diritto bancario. Una particolare forma mentis induce a pensare all’usura come a un reato commesso da nomadi, pseudo finanziarie, associazioni di falsi samaritani. In realtà “i principali usurai sono le banche”, afferma Petrino. Non è un caso che la legge anti-usura preveda anche l’usura bancaria che viene sanzionata sotto il profilo penale e civilistico.

Dal punto di vista civilistico esiste un articolo secondo cui anche le banche che superano per tasso le soglie stabilite trimestralmente dalla legge incorrono nel reato di usura. Il Consiglio di Stato ha stabilito che quando le banche si macchiano di usura sono sanzionabili penalmente e civilmente con la perdita degli interessi, “mentre la magistratura – attacca Petrino – si ostinava a far passare i tassi bancari ripristinandone il diritto”.

“In teoria la legge anti-usura ha istituito tutele per i cittadini e le imprese che denunciano il fenomeno (famoso lo slogan ‘denunciate l’usura e le estorsioni, noi vi tuteleremo’); nell’arco di dodici anni abbiamo presentato 8 mila denunce, ma nessuno di loro è stato tutelato dalla legge”.

Come se non bastasse “i Comitati di gestione dei fondi anti-usura hanno privilegiato soggetti che non avevano alcun diritto, tanto che sono partite inchieste sull’utilizzo dei fondi, chi li ha concessi, chi ne ha beneficiato; per non parlare poi – continua Petrino – del Fondo di prevenzione del fenomeno usuraio gestito da Confidi attraverso le banche che avevano concesso finanziamenti solo a soggetti che erano scoperti con quella banca. Il risultato? Imprese lasciate sole”.

Per Petrino la realtà è che le “banche si sono dimostrate istituzioni espropriative”. Il presidente nazionale punta il dito anche contro le Prefetture “responsabili di incomprensibili ritardi”.

Le anomalie sono tante, non ultima la sospensiva dei termini di esecuzione in attesa che i responsabili vengano rinviati a giudizio: “Troppe volte i giudici non tengono conto della sospensiva”. In altri casi vengono concessi i 300 giorni, ma l’istruttoria poi non viene conclusa (chissà come mai) e i beni finiscono venduti all’asta. Secondo Petrino “la banca è una società speculativa che eroga il credito dopo aver valutato l’immobile; quando il debitore diventa inadempiente e c’è un rapporto superiore al 60 per cento fra valore immobiliare e debito reale, la banca non può far vendere l’immobile da 100 a 40, ma tutt’al più prenderlo e rimborsare il debitore”.

A ingarbugliare il quadro ci si mette anche il ‘caso Banca d’Italia’: “La Banca d’Italia non è un organo dello Stato in quanto è stata venduta ad alcune banche”, spiega Argo Fedrigo, imprenditore, presidente del Comitato di sovranità monetaria. In pratica “la Banca d’Italia è privata e controllata da due Istituti che fanno capo all’estero: San Paolo Intesa e Capitalia Unicredit, queste ultime due dovrebbero essere controllate e invece controllano la Banca d’Italia; questo significa che la carta moneta non è di proprietà dello Stato, bensì delle banche”.

L’usura bancaria e l’usura comune, comunque indotta dalla banche, è solo un tassello anomalo del sistema creditizio italiano.

Altro tassello anomalo è l’impedimento della portabilità dei mutui da una banca ad un’altra. Tutti gli istituti di credito più importanti del nostro Paese sono stati condannati dall’Antitrust per pratiche commerciali scorrette per non aver applicato la legge sulla portabilità dei mutui (art. 8 della legge n. 40/2007), che non prevede spese a carico del consumatore per trasferire il mutuo a un’altra banca. L’ inchiesta aveva svelato il comportamento scorretto del 95% delle banche italiane che, nonostante il dettato della legge, facevano pagare il trasferimento del mutuo ostacolando la concorrenza e impedendo al cittadino di risparmiare. Chi è stato costretto a pagare le spese richieste dalla banca per trasferire il mutuo con la surrogazione ha diritto a chiederne il rimborso. La condanna dell’Antitrust è la conferma ulteriore che si è trattato di una richiesta illecita.

Altro tassello anomalo è la costituzione di società ad hoc per la gestione dei fallimenti. Le principali banche hanno infatti costituto apposite società denominate "Asteimmobili", nei principali Tribunali (Roma, Milano, Genova, ecc.), con la finalità di chiudere il cerchio quando i tartassati e maltrattati utenti non hanno la possibilità di adempiere alle obbligazioni, specie su mutui e prestiti.

ABI e banche si sono quindi ritrovate ben presto, con personale impiegato nella società costituita “Asteimmobili” a fare lavoro di cancelleria come altri pubblici ufficiali (con la non piccola differenza di non essere entrati per concorso e di non aver dovuto "prestare giuramento di fedeltà" allo Stato) in gangli alquanto delicati come le esecuzioni immobiliari, le procedure fallimentari, gli uffici dei giudici di pace, le corti d'appello sia civili che penali, le stesse procure.

Le precedenti società, per aver offerto un invidiabile vantaggio competitivo imbattibile, ossia la gratuità del servizio offerto, che svolgevano questo delicato lavoro, come Data Service ed Insiel, sono state sostituite dalla Asteimmobili Servizi spa con sede sociale presso l'A.B.I. (via delle Botteghe Oscure 46 di Roma) e come soci un pool di banche, quali Intesa San Paolo S. p. A., SI TE BA S. p. A., UGC Banca (Gruppo Unicredit), ICCREA Holding, Banca Monte Paschi di Siena, Credit Servicing, Banca Sella, Banco di Desio, Banca Carige, Banca Popolare di Verona e Novara, Interhol 2001 s.r.l., Banca del Piemonte, Bipielle S.G.C., Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell'Emilia Romagna, Banca Popolare di Puglia e Basilicata, Banca Popolare di Lajatico, Banca Popolare di Sondrio.

Come mai imprenditori taccagni e vessatori come le banche, dovrebbero offrire prestazioni di servizio gratuite allo Stato?

Per chiudere il cerchio, essendo la Asteimmobili di proprietà dell'Abi, e delle banche,che avrebbero investito 3,5 milioni di euro in questa operazione, con una generosa offerta con la finalità privatistica, come ad es. la trasformazione dei pignoramenti degli immobili (chiesti al 99% dalle stesse banche!) in vendite all'asta; oppure le procedure fallimentari di società (che devono soldi alle banche, altrettanto spesso); l'archiviazione (o no, si potrebbe anche sospettare, visto che non sempre il deposito di un atto processuale di diritto civile prevede rilascio di una ricevuta) degli atti e delle sentenze. Le banche gestiranno questi servizi con molta più efficienza, ma con minore attenzione per l'interesse pubblico, per la terzietà degli atti della pubblica amministrazione, per i diritti dei vessati cittadini sottoposti ad ogni sorta di abuso da parte degli Istituti di credito, alla stessa stregua di un “Dracula” chiamato a gestire la banca del sangue !

Per questo evidente conflitto di interessi tra gli istituti di credito, che avrebbero il dovere di salvaguardare anche il sudato risparmio investito nelle abitazioni per acquistare la prima casa per abitarci, tutelato dalla Costituzione, e la voracità di banche, non aduse a guardare mai le esigenze dei cittadini ed andare incontro a temporanee esigenze per onorare gli impegni, nel caso di specie con l’allungamento non oneroso della durata dei mutui stessi, i Senatori Di Lello, Casson (ex magistrati penali) e Bordon, hanno presentato una interrogazione parlamentare al Governo, mentre l’Adusbef, ha presentato esposti denunce alle Procure di Milano, Roma e Genova.

Il risultato delle anomalie su indicate è che da Nord a Sud, un sodalizio criminale in grado di condizionare l’attività giudiziaria, attraverso la collusione di intranei ai centri di comando della magistratura, sino alla Suprema Corte di Cassazione e al C.S.M., controlla indisturbatamente, da oltre 40 anni, le vendite giudiziarie e i fallimenti, garantendo impunità ai magistrati collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti e criminalità organizzata.

Era il 1998 quando la legge di riforma dava il via all'ambizioso progetto teso all'ottimizzazione delle tempistiche e della prassi legate alla vendita degli immobili da parte dei Tribunali competenti. In quel periodo il Tribunale di Milano era sommerso da una vera e propria valanga di procedure: 11.000 quelle pendenti, di cui 4.000 in attesa della fissazione della prima udienza, come dire bloccate a causa del mancato deposito dei certificati richiesti (quelli che in gergo tecnico vengono definiti "certificati ipocatastali"). Ed è stata sempre la stessa riforma a dare un "colpo d'acceleratore" all'intero comparto delle procedure esecutive, grazie alla sostituzione del certificato ipocatastale col certificato notarile ed alla sostituzione di termini più brevi per il deposito, pena l'estinzione della procedura stessa. Ma l'entrata in vigore di una normativa non sempre coincide con l'effettiva sua applicazione. Un impulso concreto, perciò, alla prassi delle esecuzioni immobiliari si è registrato grazie al lavoro sinergico promosso da un pool di magistrati di Milano unitamente all'Ordine degli avvocati ed al Consiglio notarile.

Obiettivo: coniugare garantismo ed efficienza nel pieno rispetto delle disposizioni vigenti in materia. Da qui la prassi inaugurata dal Tribunale di Milano in seno alle procedure immobiliari rappresentata dalla delega al notaio. Almeno per tutti quegli immobili di valore superiore ai 50.000 euro. Una formula, questa, che ha rappresentato un vero e proprio acceleratore. Attraverso la delega, infatti, ogni giudice riesce oggi, in ogni singola udienza, a rilasciare dalle 15 alle 20 deleghe. Potremmo dire che, considerati i tempi medi necessari all'espletamento della intera fase notarile, che vanno dai 6 ai 18 mesi, la procedura avviata dal Tribunale di Milano può, a pieno regime, garantire l'espletamento di una esecuzione immobiliare ordinaria nel giro di un anno e mezzo/due, un termine che può dirsi senza dubbio più ragionevole ed accettabile se confrontato alla media europea.

Non si può, comunque, dimenticare che il percorso dei giudici del Tribunale di Milano è stato particolarmente difficile, soprattutto nei confronti di un problema estremamente rilevante quale quello legato alla turbativa d'asta, vero e proprio tallone d' Achille per il sistema delle esecuzioni.

E' proprio su questo punto che i giudici sono intervenuti in maniera decisa denunciando alla Procura il fenomeno. I giornali allora parlarono di un "cartello" di speculatori per le “aste truccate”. Una specie di organizzazione in grado di condizione le gare per l'acquisto degli immobili pignorati. Come dire, nessuno poteva partecipare ad un'asta giudiziaria senza pagare una "commissione" che andava dal 10 al 15 percento del valore dell'immobile che intendeva acquistare. In caso contrario il "cartello" soprannominato allora "La compagnia della morte" avrebbe fatto lievitare al prezzo.

In passato, a partire dall’esperienza pilota del Tribunale di Milano, stampa ed istituzioni hanno dato grande risalto alla pretesa "innovazione" del sistema delle vendite giudiziarie, dedicando intere pagine, anche di pubblicità a  pagamento, sui quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli otto arresti di avvocati e pubblici funzionari della c.d. "compagnia della morte", si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l'acquisto degli immobili pignorati.

Ci hanno spiegato e confermato che per svariati anni una banda di "professionisti" ha potuto agire impunita, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di un "pizzo" pari al 10-15% del valore dell'immobile pignorato e pilotando l'assegnazione su società immobiliari vicine o su professionisti, soggetti privati e prestanome, i cui interessi spesso sono risultati riferibili agli stessi magistrati giudicanti, come nei tanti casi da noi vanamente denunciati.

Lo stesso dicasi per quanto attiene l'ambito delle procedure fallimentari, controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano, da cui sono stati sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, ha messo a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all'insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ‘80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando solo negli ultimi anni svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione dell’obbligo di registrazione delle denunce nell’apposito Registro delle notizie di reato, tassativamente previsto dall’art. 335 c. 1° c.p.p. (26.000 procedimenti insabbiati e occultati in soffitta dalla sola Procura di Brescia).

Un fenomeno che caratterizza la vita giudiziaria in ogni parte del Paese, mettendo in evidenza, come la “mafia giudiziaria” non sia una questione legata alle sole zone del sud a forte concentrazione criminale, ma una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e al modo di gestire le funzioni giurisdizionali - a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici - ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ormai storicamente entrata a fare parte della cultura dominante e delle perverse logiche di amministrazione della cosa pubblica, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di arricchimento occulto e fonte di finanziamento illecito, in base ad un “codice non scritto”, secondo cui, indipendentemente dalle latitudini, vince chi ha le giuste aderenze ed entra a fare parte del “giro” dei comitati d’affari.

Un “codice”, imposto dalla politica e dalla cultura dominante che accomuna il nord al sud del Paese e fa di quella che possiamo con giusta causa definire “mafia giudiziaria”, un fenomeno di elevatissima pericolosità sociale e allarme per la stabilità democratica e la sicurezza nazionale, riferibile alle logiche dominanti di gestione del potere e del finanziamento illecito dei partiti, che dalla malagiustizia si alimentano, attingendo ingenti risorse, consenso e protezione, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata e mafiosa.

Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un'ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto e alimentato dagli istituti bancari e dalle mafie locali. Un malaffare legalizzato dallo Stato, che tende a mostrare l'efficienza dei Tribunali, nascondendo ogni coinvolgimento di magistrati e infedeli funzionari.

Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Da “La Repubblica”. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. La sentenza è stata firmata dal giudice Beatrice Cristiani che ha condannato anche a 2 anni il commercialista Luciano Quadrini in relazione al crac appunto dell' Immobiliare Europa. Sotto processo oltre a Pierluigi Baccarini e Luciano Quadrini era finito anche Ercole Pugliese ( condannato a 3 anni), arrestati alla fine del 2004 e poi tornati in libertà. Tra gli imputati anche la moglie del magistrato, Luisa Fasoli (condannata a 2 anni e 4 mesi) e l'avvocato Oreste Fasano che è stato assolto. L' inchiesta, per corruzione anche in atti giudiziari è stata coordinata dai pm Sergio Sottani, Roberto Rossi e Andrea Claudiani. Secondo l' accusa il giudice Baccarini per cinque anni, dal ' 99 al 2004, il giudice avrebbe «ricevuto ingenti somme di denaro» per agevolare le procedure assegnate con «artifici» al suo ufficio. Nella distribuzione delle consulenze avrebbe «favorito costantemente» Pugliese e Quadrini e a quest' ultimo avrebbe assicurato una gestione del crack dell' Immobiliare Europa, ex immobili Dc, «atta a garantire gli interessi» curati dal commercialista. L' inchiesta era scattata a Roma dalle indagini dei pm Giuseppe Cascini e Stefano Pesci che nel 2005 avevano scoperto una sorta di "comitato d' affari" che gestiva l'attività fallimentari degli uffici di viale Giulio Cesare.

Dalle cronache dei giornali si apprende che una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione di un salentino, Giorgio Romano, che avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie. Mantovano lo ha spiegato, parlando a Lecce con i giornalisti. Romano è stato ucciso – a quanto è stato accertato poche ore dopo l’omicidio – da un uomo che, per gravi difficoltà economiche, aveva perso la sua casa e la sua macelleria e sperava di rientrarne in possesso tramite un accordo proprio con Romano, abituale frequentatore di aste giudiziarie.

“Un procedimento disciplinare per tutti gli avvocati coinvolti nella vicenda delle aste giudiziarie sottoposte all’indagine della Procura”. È quanto ha annunciato il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce Luigi Rella. “Ancora non c’è nulla di certo – ha dichiarato il presidente – ma non appena riceveremo notizie ufficiali da parte della Magistratura, avvieremo un procedimento disciplinare nei confronti di chi è coinvolto”. Nel giorno in cui la categoria degli avvocati fa sentire la sua voce nell’ambito dell’omicidio Romano, che ha visto prendere di mira gli avvocati per lo svolgimento non trasparente di alcune aste giudiziarie, il presidente Rella avverte: “Abbiamo sentito l’esigenza di intervenire in questa vicenda che si è poi dilatata. Se ci sono avvocati coinvolti non si può genericamente dire che lo sia tutta la categoria”. Rella continua dicendo che il fenomeno di cui si è parlato in queste settimane riguardante le aste sospette, esiste indubbiamente e conferma la volontà, da parte dei giudici, di eliminare tutte quelle influenze negative che ci sono sulle aste. “A Lecce la giustizia è al collasso – conclude il presidente – ma non ancora al fallimento”.

Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2011 Giovanni Longo racconta la Fallimentopoli barese. C’è voluto un camion per trasportare tutte le carte da Bari a Lecce. E quando i faldoni sono giunti a destinazione, pare che nella stanza del procuratore di Lecce Cataldo Motta non ci fosse spazio sufficiente. L’inchiesta della Procura di Bari sulle procedure fallimentari si allarga e trasloca: oltre a curatori, consulenti, professionisti, bancari e cancellieri, nel mirino del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza sono finiti anche magistrati in servizio presso il Tribunale del capoluogo pugliese. E dunque il Pm ha passato la mano.

I primi particolari dell’inchiesta sono emersi nella primavera del 2011, con numerose perquisizioni e l’arresto dell’avvocato barese Marco Vignola. Dopo che l’indagine ha toccato alcuni giudici le carte sono passate a Lecce, ufficio competente a indagare sui magistrati in servizio nel distretto di Corte d’Appello di Bari. Quattro i filoni d’indagine. In tre sarebbero stati individuati comportamenti penalmente rilevanti da parte di toghe baresi, in merito, sembra, alle modalità con cui per anni sarebbero stati gestiti i mandati di pagamento delle curatele. È il tema toccato in due informative che gli investigatori hanno depositato a fine settembre e fine ottobre ipotizzando, sembra, anche la corruzione in atti giudiziari. Che le indagini potessero allargarsi lo si era intuito leggendo la richiesta di misura cautelare nei confronti di Vignola, indagato per falso, peculato, truffa e omesso versamento delle imposte. «Occorre capire - scriveva tra l’altro il Pm barese Ciro Angelillis, ormai ex titolare di tutti i fascicoli - se e come sia stato possibile operare nel modo contestato senza che altri soggetti (cancellieri, creditori, giudici, bancari, ecc.) operanti all’interno di uffici in vario modo al controllo se non proprio alla gestione congiunta (col curatore) del patrimonio fallimentare se ne siano avveduti; occorre capire se vi siano state connivenze o, addirittura, forme di concorrenza nei reati commessi».

L’indagine era partita dalla presunta falsificazione dei mandati di pagamento per oltre sette milioni di euro che sarebbe stata commessa dall’avvocato Gaetano Vignola, padre di Marco, curatore fallimentare da almeno un ventennio. Ma ora l’inchiesta si è allargata: in uno solo dei quattro filoni passati a Lecce sarebbero analizzate otto procedure. Più recente invece il fascicolo su Marco Vignola, indagato nella veste di curatore della procedura fallimentare «Nova Tessile Srl». I fatti contestati al giovane legale - che ha assistito Alessandro Mannarini, uno dei tre «moschettieri» del caso Tarantini - si riferiscono agli anni 2000-2008 e riguardano presunti falsi mandati di pagamento e l’appropriazione di 1,6 milioni dai conti del fallimento. Soldi che il professionista sta restituendo alla nuova curatela.

Ora tocca a Lecce iniziare la fase degli accertamenti su alcuni magistrati baresi.

"Basta fallimenti truccati promossi dal sistema di potere, che distruggono aziende sane. Basta caste professionali, che gestiscono con arbitrio la svendita dei beni per arricchirsi alle spalle dell’indifeso cittadino imprenditore. Da anni denuncio al mondo l’anomalia dei fallimenti, su segnalazione dei miei associati locali, spesso vittime di racket ed usura e rappresentanti di comitati territoriali. Lo denuncio pubblicamente da Presidente nazionale di una associazione antimafia riconosciuta dal Ministero degli Interni. Il fenomeno copre tutta la penisola, ma le note stampa vengono ignorate e le mie denunce penali vengono insabbiate. Per il sistema devi subire e tacere”.

Il dr Antonio Giangrande nella sua inchiesta elenca una serie di casi eclatanti.

Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

E che dire del caso Cirio. Ci furono accertamenti su presunte irregolarità avvenute nella sezione fallimentare del Tribunale di Roma, che hanno visto coinvolti giudici accusati di aver “pilotato” alcuni fallimenti e che vede una procedura di trasferimento d’ ufficio per incompatibilità, avviata nei confronti di un giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari.

E che dire delle aste truccate in Lombardia. Al Tribunale di Milano i magistrati hanno denunciato una loro collega: tentata concussione e abuso d'ufficio nelle nomine dei consulenti, al fine di suddividerne i compensi. A Brescia si è archiviato un procedimento penale per usura, pur essendo stato accertato dal perito della Procura un tasso applicato del 446% annuo.

E che dire dell’intrigo che lega il Piemonte e la Toscana. Un Giudice condannato per tangenti per il fallimento Aiazzone e legato con un esponente della P2 in altri processi in Toscana. All’indomani di una udienza a Prato contro di questo, il suo difensore, noto avvocato e professore milanese, fu trovato morto a causa di uno strano suicidio. Nell’ambito di quei processi si denunciano casi di violazione del diritto di difesa. Sempre in Toscana, si chiede il processo ad un giudice:  al magistrato vengono contestati corruzione, concussione, peculato, falso, abuso di ufficio e concorso in bancarotta.

Anche in Emilia Romagna si denunciano casi di lesione del diritto di difesa e del contraddittorio a danno dei falliti.

Nelle Marche l'inchiesta sul crack delle aziende dell'imprenditore sambenedettese ha coinvolto ben 18 personaggi. Fra essi numerosi magistrati, avvocati, curatori fallimentari e dirigenti di banca.

In Abruzzo, l’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato da un cancelliere.

A Lecce, per la prima volta in Europa, è stato dichiarato il fallimento del creditore su richiesta del debitore. L’imprenditore è stato sbattuto fuori di casa, nonostante sia stato assolto dai reati di truffa e falso denunciati dal direttore generale di un noto istituto di credito spacciatosi per suo creditore, mentre era, in realtà debitore dell’imprenditore di cui ha provocato il fallimento. Una vittima spara e uccide il suo aguzzino: solo allora danno il via alle indagini, rimaste da tempo insabbiate.

Ciliegina sulla torta è il caso Palermo e Catania. A Palermo per il fallimento con il trucco, tre giudici rischiano il processo. A denunciare le illegalità un comitato antiracket ed antiusura. La competenza è passata alla Procura di Reggio Calabria. Nei suoi uffici è scoppiato lo scandalo “cimici”. A Catania, con atto ispettivo al Ministro della Giustizia n. 4-29179, l'interrogante On. Angela Napoli, ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti su una denuncia di un imprenditore dichiarato, ingiustamente, fallito.

Il sistema lobbistico di potere delle banche usufruisce di altri favoritismi: lo scandaloso meccanismo delle cartolarizzazioni che non ha risparmiato le casse dello Stato, la piccola e media impresa e i cittadini.

E’ doveroso spiegare in che cosa consiste di fatto la cartolarizzazione e quali sono le ragioni per cui la definisco, la più grande truffa organizzata dal sistema bancario in danno degli italiani.

Nel 1999, quando alla guida del governo italiano in barba a Prodi si era insediato D’Alema, il quale all’insegna del partito della coalizione della solidarietà ebbe a propinare agli italiani il grande evento rappresentato dalla promulgazione della legge n. 130/99, che soltanto gli esperti non allineati compresero subito essere una legge istituita per salvare le banche. Difatti di li a poco sono esplose le tre principali vicende cui si allude, conseguenti al mancato rimborso in misura adeguata delle obbligazioni emesse dallo Stato argentino, nonché da società riconducibili al gruppo Cirio e al gruppo Parmalat, titoli di cui le banche italiane hanno infestato i nostri poveri risparmiatori allettandoli con prospettive di lauti facili guadagni, per la sola finalità di scaricare quelle che si sarebbero presto rivelate perdite sulla pelle della povera gente. Va ricordato che in Italia sono stati sottoscritti circa 12 miliardi di euro di obbligazioni argentine, 1 miliardo di obbligazioni Cirio e 4,8 miliardi di obbligazioni Parmalat. Nel complesso si tratta dunque di quasi 18 miliardi di euro, ossia l’equivalente di tre finanziarie, che in massima parte si sono tradotti in consistenti perdite per varie centinaia di migliaia di investitori. E non sono stati gli unici casi purtroppo.

«Non è con le suggestioni» o «con il vibrato richiamo enunciato dal pm Francesco Greco» ai «tremendi guasti della finanza 'tossica' che si ricostruiscono i reati nelle aule di tribunale», qui «non si tratta di un convegno ma di accertamento penale»: e «l’enfasi » dei pm, «esibita» per sostenere «una sorta di aggiotaggio immanente» (tipo «la vicenda Parmalat è talmente grave, i fatti così macroscopici che qui tutti sono responsabili di tutto... »), avrebbe meritato «impegno degno di miglior causa» verso «ben altri responsabili certi del default, usciti» invece «per strategia inquirente con pene irrisorie» in patteggiamenti «già oggetto di indulto».

Trecento pagine di motivazione non argomentano solo la condanna a 10 anni di Calisto Tanzi per aggiotaggio e le molte assoluzioni decise invece il 18 dicembre 2008 per amministratori di Parmalat e funzionari di Bank of America: i giudici Luisa Ponti (processo Sme), Giuseppe Gennari (inchiesta Telecom) e Silvia Baldi vi formulano anche inedite critiche all’«errore di fondo» dei pm «i cui effetti deleteri hanno attraversato tutto il processo»; alla Consob «priva di curiosità» sui debiti Parmalat; e alle «scarse (a essere benevoli) capacità mnemoniche» del testimone Enrico Bondi, commissario Parmalat. Il Tribunale esprime «notevole imbarazzo» per un’accusa che «soffre di quei medesimi gravi difetti già segnalati dal Gip che respinse la richiesta di giudizio immediato (Piffer nel 2004,)». «Non emendati» dai pm. Ad esempio, Bank of America (BofA) o i consiglieri non esecutivi di Parmalat «per quale ragione avrebbero dovuto scandalizzarsi», se nel 2003 «Consob con poteri ben più ampi al termine di un’accurata attività ispettiva non solo non contestava alcun addebito, ma attestava l’attendibilità dei saldi contabili? Sia chiaro, questa domanda non vuole suonare come una critica alla Consob», tanto più che «i suoi accertamenti sono stati ostacolati in ogni modo da Tanzi », e «poi vale sempre il principio che meglio tardi che mai».

Ma «neppure si può alzare il dito contro» la banca BofA «pretendendo, come sostiene la consulente del pm, che dalla mera lettura dei bilanci si scoprisse l’arcano mistero celato dietro le scritture Parmalat». Altrimenti bisognerebbe ripensare alle «curiosità che Consob non aveva nutrito in precedenza pur visionando i bilanci»: su Epicurum, l’asserito fondo d’investimenti da 7 miliardi di dollari e in realtà inesistente, «neppure Consob ha consultato Internet e non si è resa conto che doveva essere falso perché sarebbe stato, pur sconosciuto, uno dei dieci più consistenti al mondo». E Bondi? «Imposto — ritiene di scrivere il Tribunale — come sempre e come in altre note vicende italiane da Mediobanca, neanche a lui, che pure conosceva almeno superficialmente i conti Parmalat al momento di accettare l’incarico, è parso così sospetto il rapporto tra indebitamento e liquidità, altrimenti non si sarebbe adoperato così apertamente» per provare a pagare il bond del dicembre 2003, «operazione che ha indotto più di un investitore a tornare sul titolo, convinto che il gruppo si sarebbe salvato».

Il Tribunale, poi, «avrebbe avuto interesse a conoscere» anche «il contenuto degli accordi riservati» tra Bondi e il capo (Lagro) del team di suoi consulenti PwC, perché, «se i compensi fossero legati al successo delle iniziative giudiziarie intraprese da Bondi in base al lavoro di verifica del team, ciò non potrebbe non avere una ricaduta sulla valutazione del teste Lagro, che tanto più guadagnerebbe quanto più sostenesse tesi funzionali al commissario». E la tesi di Tanzi, io vittima delle banche voraci? «Se il Collegio non esclude che alcuni istituti possano aver lucrato illecitamente dal rapporto con Parmalat, non per questo il ruolo di Tanzi non può essere ridimensionato, visto che il 'sostegno' bancario è servito a mantenere un sistema di cui era ideatore e primo avvantaggiato». Delusi dalla sentenza erano stati i 42mila risparmiatori rinviati dai giudici penali a una futura quantificazione dei danni in sede civile. Nel rifiutare il ricatto morale di «insostenibili generalizzazioni in nome della generica tutela del risparmiatore o della 'enormità' della vicenda Parmalat», i giudici rivendicano l’impietosa «verità: accertare il nesso causale tra condotta e danno avrebbe richiesto un’istruttoria su ciascuna delle 42mila parti civili che, va detto senza infingimenti, era impossibile da svolgere», pena «tempi intollerabili e sicura prescrizione». Se mai, proprio questo fallimento «dovrebbe fare riflettere sull’idoneità stessa del processo penale a fornire adeguato strumento di ristoro in caso di violazioni di massa che interessano migliaia di persone».

Ma torniamo alla sindrome della cartolarizzazione. Le banche italiane nel 1999, tirando le somme del contenzioso maturato dopo la crisi del 1992, si sono accorte che avevano crediti ipotecari con difficili probabilità di recupero per parecchie migliaia di miliardi, oltre a decine di migliaia di miliardi di crediti chirografi. Avendo i rappresentanti del sistema bancario mantenuto sempre buoni rapporti con i sinistri “governi della solidarietà”, sin da quando l’ex governatore Carli è stato ministro del tesoro, Ciampi, presidente della Repubblica, Dini e Prodi presidenti del Consiglio, hanno caldeggiato al suo successore una legge che permettesse lo sgravio dei bilanci delle partite difficili e l’abbattimento dell’importo dei crediti.

Col bene placido dell’allora presidente della Repubblica, è stata approvata una legge tutta italiana per la cartolarizzazione dei crediti, concepita per permettere alle banche una evasione legalizzata. Da quel momento si evince che nei soli primi due anni, 2000-2001, si è concretizzata in un buco di oltre 90.000 miliardi di lire per i conti dello Stato, danno ricaduto poi sui contribuenti.

Il 30 aprile 1999, con la legge n.130 intitolata “disposizioni per la cartolarizzazione dei crediti”, il governo presieduto da Massimo D’Alema, proseguendo nel suo progetto di sostegno alle povere banche italiane, dopo il decreto salva anatocismo del 1998, si è sentito in dovere di concedere alle banche un ulteriore strumento idoneo a distruggere la media e piccola imprenditoria del nostro paese, accattivandosi la riconoscenza del medioevale sistema bancario italiano.

Non appena questa legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, le banche più furbe, sempre pronte all’arrembaggio, avevano già costituito delle banali s.r.l. con capitale di 20 milioni di lire, ovviamente sottoscritto da esse stesse. S.r.l. alle quali hanno venduto crediti miliardari in cambio di obbligazioni (derivati - hedge found) di durata anche ventennale. Ma la vera astuzia degli scaltri manager delle grandi banche è consistita nel vendere in blocco (a se stesse), in cambio della promessa di pagamento del 40% del loro valore iscritto a bilancio, i crediti assistiti da garanzie ipotecarie, con perdite dichiarate del 60%. A questo si aggiungano anche i crediti chirografi per svariate centinaia di miliardi, svenduti a se stessi al 10% del loro valore a bilancio, partite per le quali le banche hanno dichiarato perdite del 90%.

Così che per conseguenza del metodo legalizzato delle elusioni fiscali e delle compensazioni per le presunte perdite subite a far data dall’anno 1999, le pseudo istituzioni creditizie, si sono sottratte al pagamento di molte migliaia di miliardi di vecchie lire di tributi, pari all’equivalente delle perdite multimiliardarie derivanti dalle cartolarizzazioni alle loro società controllate.

Ma non è tutto qui, le cause e gli effetti della cartolarizzazione derivante dalla legge D’Alema, si sono rivelati devastanti non solo per i conti dello Stato, ma anche per i debitori del sistema bancario, i quali si sono ritrovati a fare i conti con una nuova forma di usura e di estorsioni, attuata delle società di recupero crediti e delle immobiliari, in prevalenza di emanazione bancaria.

Veniamo al nocciolo del problema. Cartolarizzazione, significa “cessione dei propri crediti” ad altra azienda finanziaria, la quale, a fronte di posizioni creditorie ipotecarie contenziose paga con obbligazioni di durata anche ventennale, in media il 40% del valore dichiarato dalla banca venditrice dei crediti.

Così stando le cose, si è portati subito a pensare che la povera banca che si trova costretta a cedere i sui crediti, per esempio di un miliardo di euro, per effetto della cessione, incassa in 5/10/20 anni soltanto 400 milioni e perde di fatto l’importo di ben 600 milioni. Anche se i dati contabili portano in questa direzione, il risultato reale è ben diverso, poiché con l’operazione di cartolarizzazione, la banca venditrice, anziché perdere il 60%, in realtà realizza un duplice magnifico affare. Analizziamo insieme come e perché.

In dipendenza della cessione del credito, sul bilancio di esercizio, la banca consegue nello stesso anno dell’avvenuta cessione, l’immediato pareggio contabile dell’intero ammontare del credito ceduto. Il pareggio è costituito in parte dal controvalore incamerato con la percentuale pattuita per la cessione ed in parte per l’elusione fiscale conseguente alla perdita patrimoniale derivata dalla cessione del credito.

La prima «truffa» deriva dal fatto che per la perdita registrata, la Banca è esonerata dal versamento delle imposte dovute per pari ammontare delle presunte perdite dichiarate in bilancio.

La seconda operazione consiste nel fatto che la banca, per i medesimi crediti ceduti, con la formula della cartolarizzazione al momento della cessione, aveva già praticamente ammortizzato ognuno dei crediti vantati, poiché aveva già conseguito il beneficio degli ammortamenti attraverso il dispositivo degli accantonamenti annuali al fondo di svalutazione crediti e al fondo di rischio.

Questo graverà per il 50% circa sul debitore reale e per l’altro 50% sugli ignari cittadini contribuenti, costretti a pagare quelle tasse che gli istituti di credito sistematicamente eludono. Le operazioni di cartolarizzazione a partire dal 1999 sono state attuate dalle maggiori banche nazionali, per un ammontare stimato di oltre 300 miliardi di euro, pari a circa 580.000 miliardi di lire, con elusione fiscale derivata che ha aperto una voragine nei conti pubblici di almeno 150 miliardi di euro, pari a 290.000 milioni di lire.

La realtà che emerge è che le banche col meccanismo della creazione di società costituite, alle quali conferiscono mandato per la gestione dei crediti, fanno la parte del leone nei confronti degli sprovveduti cittadini e titolari di imprese, i quali si ritrovano di fronte ad autentici automi che discutono solo di rapporto tra credito preteso – benché infarcito di mostruosi interessi – e valore degli immobili in espropriazione, rapporto logico tra credito erogato e somme già rimborsate.

La conseguenza derivata è la assoluta impossibilità dei debitori a trovare soluzioni, se non quella di ricorrere al credito usuraio, per chi riesce a ottenerlo. In tale situazione i malcapitati delle cartolarizzazioni, vengono sottoposti ad una autentica aggressione psicologica e costretti a vivere in uno stato di totale insicurezza per l’imminenza della perdita della casa e per la triste sorte a cui si ritroverà esposto il proprio nucleo famigliare. Lo stato di stress emotivo–psico-fisico, in una gran percentuale di soggetti potrebbe portare alla graduale perdita delle difese immunitarie, e di conseguenza a gravissime patologie cardiache e tumorali senza scampo, come purtroppo è accaduto in moltissimi casi descritti sul dossier SNARP.

La drammatica situazione, è ignorata dal governo, oltre che dalla magistratura penale e tributaria.

Anzi, dopo il vertice di Parigi del 12 ottobre 2008 l'Esecutivo completa gli strumenti messi in campo con il decreto 9 ottobre 2008 n. 155 per far fronte alla crisi dei mercati finanziari.

Il nuovo decreto legge (13 ottobre 2008 n. 157, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 ottobre 2008 n. 240) introduce alcune misure per riattivare il funzionamento del mercato di prestiti interbancari. Le soluzioni adottate, attivabili fino al 31 dicembre 2009, vogliono favorire la liquidità, la capacità di finanziamento e la solvibilità delle banche con lo scopo di garantire il flusso di finanziamento all'economia reale.

Insomma, a garantire le Banche in sofferenza ci pensa lo Stato, ossia i cittadini vessati dalle stesse banche.

La crisi mondiale delle banche e del mondo della finanza ha scatenato una miriade incontrollata di opinioni. Sono spuntati opinionisti economici ovunque, tutti pronti a condannare il libero mercato indicandolo come la causa principale del finimondo finanziario a cui stiamo assistendo. Credere nel libero mercato, significa credere nella libertà dell’uomo di agire e a volte anche di sbagliare. Crederci non significa in ogni modo che chi sbaglia non debba pagare le conseguenze dei propri errori.

Il “diritto” o il rischio di fallire non deve rimanere appannaggio di pochi ma è il freno che regola il libero mercato che, se tolto o eluso, può provocare molti sconquassi.

Dove sta scritto che le banche non possano fallire? Dove sta scritto che non è giusto che una banca, grande o piccola che sia, finisca con dichiarare fallimento? Certo, le ripercussioni per il crollo di un grande istituto sono ingenti, con migliaia di posti di lavoro persi, piccoli risparmiatori coinvolti, azionisti che vedrebbero trasformarsi in carta straccia i loro investimenti (come del resto anche senza il fallimento dichiarato lo sono già). Lo spauracchio del fallimento, conseguenza logica di cattiva gestione, di perdita della clientela, di spese che superano le entrate, di mancanza di liquidità, è il vero regolatore del libero mercato. Crudele che sia, a volte cinico ma garanzia che richiama gli operatori alle proprie responsabilità.

D'altronde lo stesso metodo del fallimento è adottato per il clienti inadempienti delle stesse banche.

Allora, perché si chiede il fallimento delle imprese e viceversa si salvano le banche??

Oggi, nella stragrande maggioranza dei casi gli istituti bancari raccolgono i soldi dei risparmiatori e li investono in attività di carattere finanziario. Direttamente. Per le grandi banche, ad esempio, oltre il 50% dei loro ricavi viene da questi strumenti finanziari. In questo modo, le banche da anni hanno perso il ruolo di intermediario del credito e stanno svolgendo un altro mestiere. Dopo i casi di Cirio e Parmalat, da allora centinaia di testimonianze di dipendenti del settore bancario raccontano come prodotti ad alto rischio siano stati venduti a massaie, pensionati e a chi ci metteva tutti i risparmi. Se all'inizio le banche hanno teso solo a massimizzare gli interessi degli azionisti, con profitti davvero notevoli anche negli ultimi anni, di recente hanno usato questo procedimento anche per scaricarsi delle insolvenze, sui clienti. E adesso i tassi interbancari sono alle stelle, le banche non si fidano più di prestarsi soldi tra loro.

Le banche non si prestano tra loro denaro perché hanno una crisi di liquidità e sono preoccupate di non essere in grado di soddisfare le eventuali richieste di rimborso che potrebbero arrivar loro dai risparmiatori. E poi c'è il problema enorme della montagna di titoli spazzatura dentro le loro tesorerie. Di fatto i bilanci dell'intero sistema globale sono falsati. D'altronde la massa di carta finanziaria che gira è 25 volte l'economia reale.

La distanza tra economia finanziaria e reale non c'è più.

Alla base di questa crisi vi è quindi il mancato ritorno di denaro alle banche che l’hanno prestato, ma che hanno agito come se quel denaro fosse comunque immediatamente disponibile per altre operazioni finanziarie. Vi è quindi un enorme mercato bancario parallelo, fatto di debiti non coperti.

Ed è su questo mercato parallelo, da cui non c'è praticamente nulla da recuperare, che i governi cercano di intervenire cercando di mettere in atto provvedimenti volti a sgonfiare la bolla prima che esploda: trasferire masse di denaro fresco dalle casse dello Stato alle casse delle banche ed elargire ulteriore denaro alle imprese che non saranno in grado di ottenere finanziamenti attraverso i canali del credito. Nessuna operazione di ingegneria finanziaria, solo un gigantesco passaggio di risorse dal pubblico al privato in nome della salvezza del sistema economico e finanziario, con conseguenti lacrime e dolori per i lavoratori e i pensionati.

Non solo le banche fanno ciò che vogliono in economia, ma “le banche rappresentano la rete più estesa della connivenza con gli interessi finanziari della mafia. I soldi vengono ripuliti lì”. Ne è convinto Francesco Forgione, presidente della commissione Antimafia, in una intervista a Sintesi Dialettica.

"La politica - spiega Forgione - non ha avuto la forza di approvare una buona legge come quella sull'anagrafe dei conti correnti - legge Mancino del 1993, mai applicata. Da qui, quando si arresta un mafioso e gli si vogliono congelare subito i conti correnti, il mafioso, o l'amministratore del mafioso, ha tutto il tempo per svuotarli e movimentarli via internet in uno dei tanti paradisi fiscali del pianeta. Noi non abbiamo neanche la possibilità, attraverso l'anagrafe dei conti correnti e l'anagrafe degli immobili, di capire anche gli spostamenti di proprietà e le movimentazioni catastali. Manca, quindi, la possibilità di intervenire proprio lì dove si concentra il potere mafioso".

Insomma, per il presidente della commissione Antimafia il ruolo delle banche è centrale. Per Forgione, dunque, è necessario aggredire "il santuario del mercato", altrimenti non si possono sconfiggere le mafie.  "100.000 milioni di euro all'anno è l'ammontare di movimentazione delle mafie di cui almeno il 60% entra nell'economia legale - dice ancora -. Da qui si apre il problema della rintracciabilità dei flussi e dei patrimoni. Le mafie non hanno più la coppola e la lupara dei film in bianco e nero. Hanno capito che investire in patrimoni è rischioso per cui "finanziarizzano" le loro attività. E per colpire questo livello di "finanziarizzazione" e intercettarne i flussi, bisogna aggredire il sistema bancario".

IL CERCHIO SI È CHIUSO. SI È PARTITI DALL’USURA E SI È ARRIVATI ALLA MAFIA, ATTRAVERSO I FALLIMENTI, LA GESTIONE DELLE ASTE, LE CARTOLARIZZAZIONI E LA GARANZIA SULLA SOLVIBILITÀ.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.

“TINTINNAR DI VENDETTE”. Manette facili, voglia di riflettori e vendette della politica. Ecco come è stata minata la fiducia nella giustizia. Nel volume il giornalista Guido Dell’Aquila riordina tutti i discorsi ufficiali in tema di giustizia di Oscar Luigi Scalfaro, un giurista che è stato giudice, un uomo politico che ha scritto la Costituzione e infine Presidente della Repubblica e del CSM dal 1992 al 1999 in un settennato di scontri politici acutissimi, che non hanno risparmiato né la sua persona né l’istituzione da lui rappresentata. Ne emerge sia la denuncia senza mezzi termini e in tempi non sospetti degli errori e dei vizi di certa magistratura troppo disinvolta con l’uso delle manette e davanti ai riflettori delle tv; sia l’incapacità dell’organo di autogoverno della categoria di perseguire dall’interno abusi e sbagli.

Quando toccò al lui essere sfiorato dal sospetto eccoti il discorso di Oscar Luigi Scalfaro del 3 dicembre 1993 trasmesso a reti unificate, che passò alla storia per la celebre frase «Non ci sto». In quell'occasione respinse le accuse di aver usufruito di fondi neri nel periodo in cui era stato ministro dell'Interno.

Chi è il cattivo magistrato? Quello che vince un concorso truccato, quello che si sente il tenente Colombo, quello che come Torquemada sbatte la gente in carcere per farla confessare, quello che racconta tutto ai giornali, quello che fa politica, quello che fa la star, quello che ha il dente avvelenato, quello che qualche volta pensa di essere Dio. Il cattivo magistrato esiste? Secondo il magistrato Oscar Luigi Scalfaro sì, basta riascoltare quello che diceva da presidente della Repubblica.

Una cosa che non ti aspetti. Eppure è Oscar Luigi che parla. E ricorda: «Ho vissuto da ministro dell’Interno il periodo in cui Craxi si è intestardito sulla responsabilità civile e penale del magistrato. Con lui ho avuto un rapporto ottimo, ma l’avevo messo in guardia dell’inutilità di una norma del genere. Ancora oggi questa legge è in vigore. C’è qualcuno che lo sa? Nessuno, e non sarà mai applicata nei millenni. Il problema è che i magistrati l’hanno vissuta come un calcio nei denti. E quando è stato il momento, siccome siamo sempre condizionati dall’Antico Testamento, questo calcio l’hanno ridato, e l’hanno ridato sui denti, sui piedi, sullo stomaco, fino ad arrivare all’alluce».

Tintinnar di vendette, appunto. Molti magistrati si sentono un «noi». Ragionano come gruppo, corporazione, casta, classe. Il guaio maggiore arriva quando pensano come partito e si muovono nella politica condizionando tempi, temi e ribaltoni. Il 27 luglio 1994 Scalfaro dice: «Nessun potere deve sconfinare, pena il danno per i cittadini».

Così anche per  il presidente della Repubblica Giorgio Napoletano con nota del 27 novembre 2009. “Va ribadito che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggia sulla coesione della coalizione, che ha ottenuto dai cittadini elettori il consenso necessario per governare. E' indispensabile che venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione. E spetta al Parlamento esaminare di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".

Il libro è una lunga condanna, ad ampio raggio. L’avviso di garanzia? «Questo istituto nato come atto di grande garbo nei confronti del singolo, per proteggere la persona, a volte la uccide». Il carcere preventivo? «Dovrebbe essere un’eccezione». La separazione delle carriere? «Non è un dramma». Le luci della ribalta? «Sporcano la toga». Nel luglio del 1996 si riunisce il Csm e Scalfaro invita i giudici a liberarsi dei lavativi: «Il tema della operosità dei giudici volete lasciarlo ai politici? Volete lasciare che siano i politici a fare questo pelo e contropelo o è giusto che la prima riflessione parta da qui?».

C’è una cosa che il vecchio presidente fa fatica a capire. È possibile che le procure funzionino più o meno come l’Ansa? Lì, sotto la bilancia della giustizia, c’è una delle più grosse fabbriche della notizia. «Oggi abbiamo una pioggia di intercettazioni telefoniche. Non dubito della loro legittimità, ma è normale che un cittadino venga spiato giorno e notte? Non credo che questi eccessi siano il linea con la Costituzione. Ma a questo si aggiunge il contagocce delle notizie sulla stampa. È grave che escano tutte le intercettazioni, ma è incredibile che escano goccia a goccia, con infrazione del diritto alla vita privata di ciascun cittadino». Se un vecchio conservatore come Scalfaro dice queste cose, allora la Giustizia è davvero da rifare.

Eppure nell’estate 1945, a guerra finita, l’allora 27settenne Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica italiana, sostenne con altri due colleghi la pubblica accusa al processo che vedeva imputati per «collaborazione con il tedesco invasore» l’ex prefetto di Novara Enrico Vezzalini e i fascisti Arturo Missiato, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno, Raffaele Infante e Domenico Ricci. Dopo tre giorni di dibattimento fu chiesta per i sei la condanna a morte, eseguita il 23 settembre al poligono di tiro di Novara (in veste di pubblico ministero Scalfaro ottenne un’altra condanna capitale, che tuttavia non fu eseguita a causa dell’accoglimento del ricorso in cassazione del condannato Stefano Zurlo, ricorso suggerito, a quanto sostenne Scalfaro, da lui stesso).

La vicenda è nota: la fucilazione «firmata» da Scalfaro venne raccontata nei dettagli da "Il Giornale" nel 1996. Ed è anche noto che, successivamente alla rivelazione del "Il Giornale", Scalfaro stesso iniziò a manifestare dubbi sulla fondatezza dei processi, definendoli influenzati dal clima incandescente dell’epoca e dall’emozione popolare: in un’intervista rilasciata a Pierangelo Maurizio per Kosmos nell’ottobre 2006, Oscar Luigi Scalfaro ammise di «non aver elementi per rispondere» alla figlia di uno dei condannati, Domenico Ricci, che gli chiedeva di esprimersi sulla innocenza o colpevolezza del padre: «Lo interrogai - disse Scalfaro -. Era colpevole? Non so». Da notare che Scalfaro conosceva bene la famiglia Ricci, abitando nella stessa palazzina al piano di sopra, in corso Torino, a Novara. Domenico Ricci, brigadiere di pubblica sicurezza, quando venne fucilato aveva 48 anni. Lasciò la moglie e quattro figli, tutti minorenni. Lui e gli altri cinque non vennero uccisi alla prima maldestra raffica dell’inesperto plotone di esecuzione e sui corpi si accanì poi un gruppo di donne.

Fino a qui è (quasi) tutto noto. Ora, però, la cronaca ci riconsegna un’altra tessera di Storia. Dopo la morte di Scalfaro, la figlia Anna Maria (che oggi ha 78 anni) e il nipote Douglas Ruffini (40 anni) hanno deciso di rendere note le lettere inviate alla famiglia dal carcere di Novara da Domenico Ricci. Il quale, nell’ultima straziante pagina, scritta un’ora prima dell’esecuzione capitale, giurava di morire «innocente».

SONO STATO CONDANNATO A MORTE. NON HO PIÙ FORZA, IL PIANTO MI ASSALE.

Novara 29.6.1945

Cara Moglie. Con il cuore straziato debbo darti la dolorosa notizia, l’esito del mio processo è stato doloroso per me e per voi tutti, sono stato condannato alla pena di morte ciò che non mi sarei mai aspettato e che non meritavo [...]. Io ho fato ricorso in cassazione e mi auguro che venga accettato e così con l’aiuto di iddio che io prego sempre mi venga tramutata la pena se vi è possibile fatelo sapere anche a Francesco a Firenze se anche lui può fare qualcosa di bene, ti raccomando nel dare notizia a mia madre, se è ancora in vita, di essere prudente. Cara moglie ti chiedo di inoltrare domanda di grazia presso il Luogo Tenente del Re Principe di Piemonte esponendo tutti i casi pietosi e le condizioni della nostra famiglia e i quattro figli che noi abbiamo e la nostra casa sinistrata e che per quello fui costretto a trasferirmi nell’Italia settentrionale su ordine per mezzo di una circolare del ministero d’interno e anche per la fame che si soffriva mia e i nostri bambini, insomma pensate voi. Nella domanda mettete anche che nei quattro giorni del dibattito nessuna accusa specifica è stata fatta a carico mio né di omicidio né di rapina e ne di furto solo perché ero brigadiere e dicevano che avrei comandato io dopo Martino ciò che non è nulla vero. Cara moglie fatti coraggio che iddio aiuterà gli innocenti quello che ti raccomando i nostri quattro figli, per me più nulla ti dico tanto tu immagini quello che io soffro, però pregando iddio e sperando nella sua bontà divina mi sorreggo ancora per qualche giorno, se qualcuno di voi potesse venire a trovarmi potrei sorreggermi qualche ora di più, non ho più forza di scrivere il pianto mi assale. Vi bacio affettuosamente a tutti, tanti, tanti a Gina, Anna, vostro marito e padre. Domenico. Pregate per me addio.

TI RACCOMANDO LE BAMBINE. SONO LE COSE PIÙ CARE PER ME.

Novara 23.7.1945

Moglie carissima questa è la terza lettera che scrivo senza avere ancora una tua risposta perché? Scrivi subito e dammi tue notizie e dei bambini, fammi sapere anche se hai fatto qualcosa a Roma, per me, domanda di grazia per me a S.A.R. o al Vaticano. Io attendo vostre notizie, anche di mamma è ancora in vita mi auguro di si è digli che preghi per me. Ti raccomando le bambine guardale e tienile di conto che sono le cose più care per me, anche te fatti coraggio e spera nella grazia d’iddio perché solo lui è giusto, solo in questo luogo ho imparato a conoscere gli uomini e per questo che da questo momento ammiro le bestie. Cara moglie tutto quello che sta passando la nostra famiglia la sventura più grande di questo mondo lo dobbiamo al Sig. Lucchini l’uomo più cinico di questo mondo in tutta Novara non ho avuto nessuna imputazione a carico mio, solo quella di lui, spero che il nostro buon Gesù pregherà secondo il merito, vedi se puoi fare una capatina qui a novara insieme con qualcuno dei parenti il mio desiderio di rivedervi è tanto che qualche giorno finirò al manicomio. Vanda che cosa fa si è impiegata? Scrivetemi subito perché io non ho più forza a resistere. Vi bacio a tutti caramente, tanti, tanti a Ginotta, Vanda, Anna, più a tutti i parenti tuo affezionatissimo marito. Domenico Ricci. Scrivi, scrivi, baci.

SPERIAMO IN DIO CHE UN GIORNO. IO POSSA TORNARE DA VOI.

Novara 3.8.1945

Moglie Carissima, ho ricevuto una lettera scritta da Renzo, la quale mi da vostre buone notizie, assicurandomi che godete tutti ottima salute, medesimo posso dirvi di me fino ad oggi e speriamo in Dio che prosegua anche per l’avvenire, e venuta a trovarmi mia sorella Aurelia anche loro stanno bene. Osvaldo non è ancora tornato dalla Germania e non sanno notizie speriamo che presto anche lui possa tornare fra i suoi cari. Cara Assunta fammi sapere se Romolo e arrivato a Roma essendo che il collegio non c’è più a Gallarate e si è trasferito a Roma. Lui è partito quindici giorni indietro quindi spero che sia fra voi ti prego di stargli attenta come pure alle altre e speriamo in Dio che anche io un giorno, potrò ritornare fra voi. Ho fatto la domanda di grazia vedila anche voi a Roma di fare qualche cosa presso il ministero di Grazia giustizia. Cara Moglie fammi sapere qualche cosadei miei parenti e di mamma se è ancora viva oppure no scrivi spesso e fammi sapere tutto.

LA MIA SALUTE È BUONA. E COSÌ VOGLIO AUGURARMI PER VOI.

Novara 3.8.1945

cara sorella e cognato La mia salute è buona e così voglio Caugurarmi anche per voi, oggi ho scritto anche a mia moglie, non so come mai che loro non mi danno notizie scrivete anche voi a loro e ditegli che mi scrivano e mi danno loro notizie, io dubito che assunta non stà bene dato che lei era già stata operata per il fegato e adesso che aveva bisogno di tranquillità invece tutto al contrario,ma la bontà d’iddio aiuterà anche lei, come spero che aiuterà anche a me e tutti i miei cari [...]. Inviovi tanti baci a tutti tuo affezionato fratello e cognato.

MI MANTENGONO LE PREGHIERE. CHE FACCIO TUTTO IL GIORNO.

Novara 6.8.1945

Carissimi tutti, ho ricevuto la vostra in data 1˚ agosto sono lieto nel sentirvi che godete buona salute, anche io fino a questo momento non posso lamentarmi fin quando dura, speriamo Iddio e preghiamolo di cuore che la faccia durare sempre. Cara sorella vi ringrazio che avete dato comunicazione alla mia famiglia di quanto io desideravo, sarà solo difficile che potranno venire per mezzo che le comunicazioni sono poco comode, e poi credo, anzi sono convinto che assunta è molto malata tu sai che è stata operata per il male di fegato e quindi avrebbe avuto bisogno di tranquillità, pazienza il destino ha voluto così, però iddio vede e provvede anche per lei. Mi dite fra una quindicina di giorni verrete a trovarmi, puoi immaginare quale gioia è per me, speriamo però che sarò ancora in vita, poi mi dici di aiutarmi per far si che non vengo malato come vuoi che mi tiro su qui dentro? Mi mantengono le preghiere che faccio tutto il giorno, state tranquilli e coraggio.

Spero di rivedervi ancora.

QUANDO VIENI, PORTA UN PO’ DI TABACCO.

Novara 31.8.1945

Carissimi tutti, la mia salute fino ad oggi è discreta, mentre per voi voglio augurarmi che sia ottima. Carissimi non potete immaginare quale e quanto sia stato il dispiacere sapervi a Novara e non potervi vedere, potete immaginare con quale ansia attendevo per poter abbracciare Osvaldo dopo lunghi anni che non sapevo più notizie. Cara sorella adesso i colloqui sono ogni quindici giorni perciò puoi venire quando vuoi, se vieni non dimenticare la carta d’identità se no non ti rilasciano il colloquio. Cara sorella, io non ho notizie da casa, ti prego se tu sai qualche cosa di farmelo sapere, poi ti prego anche di scrivere a mia moglie edirgli che mi rimandano un po di soldi, perché io sono senza e debbo vivere con il solo vitto del carcere, e digli pure che scriva io non ho ancora ricevuto una lettera scritta da assunta quindi pensate. Cara sorella i soldi fatteli spedire te e poi quando vieni me li porti tu stessa. Quando vieni vedi se puoi portare un po di sigarette o tabacco con cartine e qualche scatola di fiammiferi. Saluti e baci a tutti arrivederci a presto.

QUI COMINCIA A FARE FREDDO. E IO NON Ò ROBBA INVERNALE.

Novara 19.9.1945

Carissimi tutti. Rispondo alla vostra lettera sono lieto nel sentire che godete ottima salute, anche di me posso assicurarvi medesimo fino ad ora, quando venite a trovarmi? Cara sorella questa lettera fammi la cortesia di darla a mia moglie. Cara Moglie. Ho ricevuto la tua lettera tramite mia sorella il primo scritto che ricevo da te, da quando sei partita da Novara, io di salute sto bene grazie iddio, così voglio augurarmi di te e i nostri bambini e tutti i nostri parenti. Cara moglie sono dispiaciuto che ti si è molto abbassata la vista e che ti sei molto sciupata, non prendertela di nulla coraggio e mangia e bevi e cerca di mantenerti bene, prega S. Rita che certamente ci fa la grazia da noi desiderata, io la prego sempre e con fede. Cara moglie quando venite? Qui incomincia a fare freddo e io nonò robba invernale, ora potete venire i treni ci sono tanti Roma Milano come pure Roma Torino quindi vedete un po’ fra te e Vanda chi vuole venire io preferisco che vieni te, ma se non sei in condizioni di viaggiare allora fai venire Vanda, Romolo, Anna, Gina come stanno? Annarella già mi ha scritto due volte mentre quel birbone di Romolo vuoi dirgli un po’ perché non mi scrive? Non avrà tempo, quando scrivete anche che scrive Vanda a me non minteressa basta che tu la firmi. La signora-Ines mi lava la biancheria tutte le settimane e mi porta anche qualche cosa ma tu sai che non fanno perché sono poveri. Vi bacio tanti a tutti tuo affezionatissimo marito.

MUOIO SI', MA INNOCENTE. NON DA TRADITORE.

Novara 23.9.1945

Famiglia mia carissima. È tuo marito che ti scrive e per i bambini è il papà, non piangete fra un’ora non ci sono più in questo mondo con santa rassegnazione passo all’altro. Coraggio iddio e S. Rita pregherà per voi. Salutatemi tutti i miei amici. Baciatemi tutti i miei parenti. Muoio sì, ma muoio innocente, è bene che tutti lo sappiano, la grande ingiustizia che stanno commettendo. Voi lo farete sapere perché nessuno deve mai dire che io sia stato un traditore, ho sempre servito la mia Patria con fede ed onore e con fede ed onore muoio. Viva l’Italia. Vi bacio a tutti caramente e dal cielo vi guarderò a tutti iddio vi aiuti e vi benedica tuo affezionatissimo marito e padre. Arrivederci in paradiso, addio. Addio.

Roma 6.8.1945.

Al Sig. Capo della Polizia del Ministero dell’Interno Io sottoscritta Assunta Tenchini moglie del Brigadiere di P.S. Ricci Domenico fu Romolo condannato alla pena capitale dal tribunale di Novara, rivolgo alla S.V.I. supplichevole domanda di grazia e prego che mi ascoltiate. Mio marito è stato nella Pubblica Sicurezza per molti anni, senza mai meritare una punizione, entrato a far parte di essa dopo che il corpo dei Vigili Urbani, a cui apparteneva dal 1924, fu disciolto, egli prestò servizio prima come motociclista poi come autista. Dal 1940 prestò servizio a Rieti come capo degli automezzi della Questura e qui ebbe la promozione al grado di brigadiere. Quando Roma era già stata occupata, nel 1944, dopo che aveva avuto la casa sinistrata dai bombardamenti, il Questore di Rieti lo obbligò a seguirlo in Alta Italia. Qui fu assegnato alla questura di Novara, dove svolse da principio mansioni di carattere esclusivamente burocratico. Dopo un po’ di tempo fu iscritto d’ufficio e contro la sua volontà,alla squadra di Novara. E questa è l’imputazione per cui si condanna a morte. Ma egli non prese mai parte ad azioni di carattere vessatorio contro chi che sia e la cosa risulta anche dagli atti del suo processo. Però mio marito non ha mai avuto la facoltà di difendersi, non è stato mai ascoltato obbiettivamente. Si può condannare così a morte un uomo? Egli non è mai stato un fascista, e nel 1933 fu obbligato ad iscriversi al defunto partito. Se in questo periodo caotico egli ha seguito chi lo comandava, tenete presente, però, che è padre di quattro figli tutti minori e che non poteva lasciarli morire di fame. Il suo può essere stato un atto di grave debolezza, non giustifica però una condanna capitale. Nessuno ha avuto niente da rimproverargli, non ha fatto male a nessuno. Solo un uomo in tutta Novara l’accusa un certo Lucchini, addetto sotto i nazi-fascisti alla mensa degli agenti, e ora nominato Vice Questore della città per meriti che noi non conosciamo. Essendo egli, per caso sfortunato, il più elevato di grado presente al processo, è stata applicata nei riguardi di mio marito la sanzione più grave, benché le azioni da lui svolte nella squadra suddetta siano state nulle. Vogliate ascoltarmi, e siate giusto con lui. Non vi chiedo di assolverlo, vi chiedo di rivedere il processo alla luce di una più obbiettiva giustizia. Ascoltate la supplica di cinque innocenti che stanno per essere travolti in una sventura senza rimedio, e che solo un vostro atto di clemenza può salvare. Se ritenete mio marito colpevole, condannatelo, ma non potete condannarlo a morte così; quando solo un uomo l’accusa. Siate clemente, ascoltatemi.

(Per gentile concessione della famiglia Ricci al quotidiano “Il Giornale”) 

IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.

Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata.

Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.

Scherzi della politica e dell’informazione. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge, non si muove foglia. Ogni tentativo va a sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che hanno il comune obiettivo di abbattere il nemico politico. Toccare i giudici è considerato un attentato alla Costituzione. Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori.

Basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, oltre che per errori giudiziari.

Responsabilità dei magistrati: solo 4 condanne - «Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici - ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di dolo e colpa grave - Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte».

Qualcuno dice, va bè, ma lo Stato poi si rifà sul responsabile fino ad un terzo del suo stipendio.

Bene. Bisogna sapere che oggi per un magistrato la vita e la reputazione di una persona vale la stipula di una polizza assicurativa. E basta poco a tacitare le coscienze.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

I magistrati, specie di sinistra, si ribellano alla norma votata alla Camera: “attentato alla Costituzione!!!”

E c’è qualcuno di loro, noti rappresentanti della categoria che, intervistati, hanno il coraggio di dire: “è in contrasto con la normativa europea e la Costituzione Italiana” (Giuseppe Cascini, segretario ANM); ovvero “è difficile rispondere a chi non sa nemmeno di cosa si sta parlando” (Luca Palamara, presidente ANM).

A questi risponde il dr Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: «La sentenza 13 giugno 2006 della grande sezione della Corte di Giustizia del Lussemburgo afferma che la Legge 117/88 viola i principi dell’Ordinamento Comunitario nella parte in cui la norma limita arbitrariamente l’ambito della responsabilità civile dei Magistrati. Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi (semplice colpa) in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto.»

I Magistrati dovrebbero solo applicare la legge, e dai risultati che appaiono sotto gli occhi di tutti spesso non ci riescono, ma questi vorrebbero anche emanarla.

E questo sì che è un attentato alla Costituzione!!!

Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata.  Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.

Scherzi della politica e dell’informazione: ipocriti e codardi. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge, non si era mossa foglia. Ogni tentativo era andato a sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che avevano il comune obiettivo di abbattere Berlusconi. Ricordate? Toccare i giudici era considerato un attentato alla Costituzione. Poi all’improvviso, quando meno te lo aspetti, cioè il 2 febbraio 2012, ecco arrivare un voto segreto che introduce la responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia pagherà di persona, come avviene per qualsiasi cittadino lavoratore. L’idea, cioè l’emendamento alla legge comunitari 2011, è della Lega, ma coperti dal segreto l’hanno sostenuta in massa a destra come a sinistra, come probabilmente addirittura da alcuni esponenti dell’IDV. Quei furbetti del governo Monti, per bocca del Guardasigilli, hanno fatto la parte degli indignati perché anche a loro i pm fanno un po’ paura. Prima hanno chiesto al parlamento di votare contro.

Poi, smentiti dalla loro maggioranza Pd-Pdl, si sono augurati, sempre per bocca della ministra della Giustizia Severino, che il Senato bocci la legge. I magistrati sono furenti, ovviamente. Traditi pilatescamente dal governo dei professori e da una parte della sinistra che dopo averli usati in chiave antiberlusconiana adesso li scarica. Ma hanno poco da urlare, le toghe. Non si capisce perché possano essere toccati presunti privilegi di tassisti, benzinai, farmacisti, pensionandi e non i loro. Del resto la Camera non ha fatto altro che accogliere, con 25 anni di ritardo, la volontà degli italiani che in un referendum del 1987 avevano (invano) deciso che i magistrati dovevano pagare personalmente per i loro errori e per dolo o colpa semplice. Sulla responsabilità civile la Camera vota in linea con l'Europa, facendo passare un emendamento della Lega che prevede la possibilità di fare ricorso contro giudici solo nel caso agiscano con dolo o colpa grave. Una posizione sacrosanta, che garantisce il giusto processo e tutela i cittadini e, questa l'indicazione dei vertici Ue, può sanare un grave difetto di sistema della giustizia italiana che allontana gli investitori stranieri. Ecco perché migliorare il processo civile può significare più competitività e non solo più "civiltà" (basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, senza contare gli errori giudiziari.

Sì alla responsabilità civile dei magistrati. La Camera ha approvato l'emendamento presentato dal leghista Gianluca Pini votando contro il parere del Governo. A scrutinio segreto voluto dalla Lega, l'emendamento è passato con 264 sì e 211 no. Immediata la reazione delle opposizioni. Il leader Idv Antonio Di Pietro ha invocato il ricorso ai "forconi" da parte degli italiani, mentre il futurista Italo Bocchino ha definito il voto di Montecitorio "la vendetta della Casta" nei confronti della magistratura. Anche l'Associazione Nazionale Magistrati ha usato toni assai aspri criticando la decisione dei deputati.

Si sa. In Italia i magistrati dovrebbero applicare la legge, e spesso non ci riescono, ma vorrebbero anche emanarla.

Cosa dice l'emendamento - La norma prevede che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave (non semplice colpa come per i comuni mortali, compresi i medici, gli ingegneri, ecc.) nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto - si legge nel testo presentato dal deputato Pini - deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonchè se abbia   ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea".

Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, semmai si acclamerà l'errore da parte di un suo collega (sic), mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori.

Solo 4 condanne - "Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici", ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di dolo e colpa grave. "Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte".

La posizione del governo - Il governo, come scritto, si era detto contrario all'emendamento leghista ribadendo però "l'impegno ad affrontare il tema della responsabilità dei magistrati nel quadro di una discussione organica ed in tempi rapidi, in una logica di insieme nella debita sede e in maniera organica". Lo ha ribadito il ministro per le Politiche comunitarie Enzo Moavero prima del voto, spiegando che "la legge comunitaria mal si presta ad affrontare tematiche di respiro più ampio rispetto al mero recepimento di normative. La sentenza della Corte di Giustizia Ue richiamata dall'emendamento - ha aggiunto - si riferisce a questioni di diritto europeo".

Con l’approvazione dell’emendamento è finita con Antonio Di Pietro a gridare contro una «maggioranza trasversale piduista» e l’Associazione nazionale magistrati a denunciare una «norma incostituzionale» contro la quale il sindacato delle toghe è pronto alle «più estreme forme di protesta». A partire dallo sciopero. A far infuriare l’ex pm e l’Anm, il via libera dell’Aula di Montecitorio all’emendamento del leghista Gianluca Pini che introduce la responsabilità civile dei magistrati modificando la “legge Vassalli” del 1988, che finora ha consentito al cittadino, in caso di errore grave delle toghe, di rivalersi esclusivamente sullo Stato. I sì sono stati 264, i voti contrari si sono fermati a 211. Uno l’astenuto: l’ex ministro prodiano Giulio Santagata (Pd). Un esito che ha scatenato la caccia al franco tiratore con accuse incrociate tra Pdl e Pd. In mezzo il governo, in realtà il vero sconfitto: in Aula Enzo Moavero, ministro per gli Affari europei, aveva espresso parere contrario al provvedimento. Moavero prende la parola perché Pini presenta l’emendamento all’interno della legge comunitaria 2011. Motivazione: la sentenza della Corte di giustizia europea del 24 settembre 2011 che ha condannato l’Italia, «uno dei pochissimi Stati occidentali che non permette ad un cittadino che ha subìto un’ingiustizia o un danno» di ricorrere contro le toghe. Moavero, però, commette l’errore di schierare l’esecutivo contro l’emendamento. Meglio affrontare la materia, spiega, «in una logica di insieme, nella debita sede e in maniera organica». Un autogol perché di lì a poco Gianfranco Fini accoglierà la proposta della Lega di votare a scrutinio segreto: si tratta, spiega il presidente della Camera, di un tema che «incide sull’articolo 24 della Costituzione». Protetti dal segreto, i deputati si liberano dal vincolo dell’obbedienza al governo e l’emendamento passa addirittura con 26 voti in più della maggioranza richiesta. È il finimondo: Dario Franceschini, capogruppo del Pd, accusa il Pdl di aver disatteso gli impegni. «Non possiamo veder rispuntare la vecchia maggioranza», rincara la dose il segretario, Pier Luigi Bersani. Attacchi che Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, bolla come «ingiustificati». I numeri gli danno ragione: sulla carta l’ex maggioranza (più i Radicali e l’intero gruppo Misto) disponeva di 227 voti. Lo stesso Pdl, inoltre, scontava 55 deputati assenti e 12 in missione. Conclusione: il testo non sarebbe potuto passare senza i franchi tiratori di Pd e Terzo polo. Una ricostruzione sposata da Di Pietro, che infatti denuncia l’esistenza di «cinquanta traditori che hanno votato in modo difforme dai loro gruppi. E cinquanta è un numero troppo grosso perché siano tutti di un solo gruppo: vanno cercati tra quanti si erano dichiarati contro l’emendamento Pini. Ovvero Pd, Udc, Fli e Idv». Fatto sta che il governo, incalzato dall’Anm che parla di «ritorsione contro la magistratura», non ci sta e invoca un intervento del Senato per correggere la norma. «Prendo atto della volontà del Parlamento. Confido però che in seconda lettura si possa discutere qualche miglioramento», avverte Paola Severino, ministro della Giustizia, che dice no a «interventi spot». E Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, risponde all’appello: «La norma si potrà correggere. I magistrati aspettino a scioperare». Parole che non piacciono ad Alfredo Mantovano, ex sottosegretario all’Interno, che in Aula ha difeso l’emendamento: «Non vogliono questa norma? Ne scrivano una migliore. Ad esempio un disegno di legge organico al quale possa essere assicurata una corsia preferenziale. Il governo dia seguito alla pronuncia di una larga parte della maggioranza che sostiene l’esecutivo». Il Guardasigilli è nel mirino del Pdl, dove non sono passate inosservate le sue ultime nomine. Dopo la scelta di due esponenti di Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell’Anm, per le poltrone di capo di gabinetto e capo degli ispettori di via Arenula, Filippo Grisolia e Stefania Di Tomassi, il consiglio dei Ministri potrebbe rimuovere Franco Ionta dal vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Al suo posto, Severino è pronta a proporre la nomina di Giovanni Tamburino, presidente del tribunale di sorveglianza del Lazio. Negli anni Ottanta, Tamburino è stato tra i fondatori del “Movimento per la giustizia”, altra corrente di sinistra delle toghe.

LA STORIA

Il Partito Radicale, il Partito liberale italiano e il Partito socialista italiano, presentavano nel 1987 la richiesta di tre referendum per ottenere la responsabilità civile dei magistrati, come risposta ai sempre più frequenti problemi della giustizia.

Tra i principali protagonisti che in quegli anni si battevano per la riforma della giustizia vi era Enzo Tortora, conduttore televisivo accusato sulla base di alcune dichiarazioni di pentiti di essere colluso con la camorra e il traffico di stupefacenti, rivelatesi successivamente false. La lunga detenzione del conduttore, e la successiva elezione nelle liste Radicali che sosteneva le sue battaglie politiche, contribuiva ad alimentare la discussione pubblica nel paese e nei mezzi di comunicazione circa la situazione della giustizia italiana.

L'appello radicale per la riforma della giustizia veniva sottoscritto anche da molti magistrati: «L’otto novembre gli italiani sono chiamati ad esprimersi su due aspetti particolarmente rilevanti della crisi della giustizia. Di fronte a insensibilità politiche e a resistenza corporative, i referendum sulla giustizia rappresentano un’occasione unica offerta ai cittadini per riaffermare fondamentali principi dello stato di diritto, abolire anacronistici privilegi e irresponsabilità e rivendicare improrogabili riforme. Lo strumento referendario restituisce così la parola ai cittadini. Non è più accettabile che i magistrati che, per colpa grave, abbiano danneggiato un cittadino non siano chiamati a risponderne dinnanzi ad un loro collega. Introducendo la responsabilità civile dei magistrati per colpa grave (grave negligenza, grave imperizia, gravi omissioni) non si intacca ma si riafferma la loro autonomia ed indipendenza. Abrogando i poteri istruttori della commissione inquirente per i reati dei ministri si eliminano inammissibili impunità. Noi voteremo SI ed invitiamo a votare SI perché anche politici e magistrati rispondano, come ogni cittadino, di fronte alla legge».

I referendum abrogativi dell'8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei «si».

Dopo la scelta degli italiani circa la responsabilità civile dei giudici, il Parlamento approvava la cosiddetta «legge Vassalli» (votata da Pci, Psi, Dc), che, secondo i Radicali, si allontanava decisamente dalla decisione presa dagli italiani nel referendum, facendo ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sullo stesso, ma solo entro il limite di un terzo di annualità dello stipendio. 

 

totale

percentuale (%)

 

Iscritti alle liste

45 870 931

   

Votanti

29 866 249

65,10

(su n. elettori)

Quorum raggiunto

Voti validi

25 896 355

86,70

(su n. votanti)

 

Voti nulli o schede bianche

3 969 894

13,30

(su n. votanti)

 

Astenuti

16 004 682

34,90

(su n. iscritti)

 
   

Voti

%

   

RISPOSTA AFFERMATIVA

20 770 334

80,20%

   

RISPOSTA NEGATIVA

NO

5 126 021

19,00%

   

bianche/nulle

 

3 969 894

     

Totale voti validi

 

25 896 355

100%

   
             

 

LA LEGGE

"Art. 11 C.P.P. (Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati).

1.                             I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge.

2.                             Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 il magistrato stesso é venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.

3.                             I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato sono di competenza del medesimo giudice individuato a norma del comma 1".

"Art. 30-bis C.P.C. (Foro per le cause in cui sono parti i magistrati). Le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale.

Se nel distretto determinato ai sensi del primo comma il magistrato è venuto ad esercitare le proprie funzioni successivamente alla sua chiamata in giudizio, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello individuato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale con riferimento alla nuova destinazione".

"Spostamenti di competenza per i procedimenti penali nei quali un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato. 

Tabella A

Dal distretto di

Al distretto di

ROMA

PERUGIA

PERUGIA

FIRENZE

FIRENZE

GENOVA

GENOVA

TORINO

TORINO

MILANO

MILANO

BRESCIA

BRESCIA

VENEZIA

VENEZIA

TRENTO

TRENTO

TRIESTE

TRIESTE

BOLOGNA

BOLOGNA

ANCONA

ANCONA

L'AQUILA

L'AQUILA

CAMPOBASSO

CAMPOBASSO

BARI

BARI

LECCE

LECCE

POTENZA

POTENZA

CATANZARO

CAGLIARI

ROMA

PALERMO

CALTANISSETTA

CALTANISSETTA

CATANIA

CATANIA

MESSINA

MESSINA

REGGIO CALABRIA

REGGIO CALABRIA

CATANZARO

CATANZARO

SALERNO

SALERNO

NAPOLI

NAPOLI

ROMA

Il testo vigente dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante: "Risarcimento di danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati", come modificato dalla legge 420/98 , é il seguente: "Art. 4 (Competenza e termini).

1.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente é il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

2.                  L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si é verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l'azione é esperibile.

3.                  L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si é concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si é verificato.

4.                  Nei casi previsti dall'art. 3 l'azione deve essere promossa entro due anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza.

5.                  In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio non abbia avuto conoscenza del fatto".

Il testo vigente dell'art. 8 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117, come modificato dalla legge 420/98, é il seguente: "Art. 8 (Competenza per l'azione di rivalsa e misura della rivalsa).

1.                  L'azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

2.                  L'azione di rivalsa deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

3.                  La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta, anche se dal fatto é derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.

4.                  Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa é calcolata In rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa é calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta".

LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE

ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI

Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma

Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione

Responsabilità Civile e Tutela Legale

(si prega di scrivere in stampatello)

Il sottoscritto_________________________________________________________________________________

Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________

Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________

Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:

Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________

Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________

Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza

Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:

a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.

Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.

b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.

Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.

_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma

CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: I MAGISTRATI RESPONSABILI ANCHE PER COLPA SEMPLICE

Sussiste la responsabilità dei magistrati per colpa semplice secondo la Corte di Giustizia europea.

Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi dello Stato è regolato dalla legge.

L’art. 3 della Costituzione esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti.

Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio o lesioni o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc.

L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche.

Al dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno riconosciuto.

Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati.

I magistrati sono liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona.

I magistrati sono liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per calunnia e diffamazione.

Al cittadino, che per anni ha subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto prosciolto, ovvero da vittima del reato ha visto il reato prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi.

C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni.

Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:

«1.      Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.

2.      Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.

3.      Costituiscono colpa grave:

a)             la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;

b)            l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;

b)             la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;

c)             l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».

Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria».

Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione di cui esso fa parte.

Se, come da molti è considerato, il magistrato è dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente.

Per il diniego di giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa, l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità di chi amministra la giustizia, ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia.

I magistrati devono meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini unti dal signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad equilibrare gli interessi in campo.

L’azione di rivalsa opera solo in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità dello Stato e ricade sulle spalle del cittadino.

La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati, e, con essa, il mancato utilizzo dell’art. 234 CE, attraverso la SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) del 13 giugno 2006:

«Responsabilità extracontrattuale degli Stati membri – Danni arrecati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado – Limitazione, da parte del legislatore nazionale, della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice – Esclusione di ogni responsabilità connessa all’interpretazione delle norme giuridiche e alla valutazione degli elementi di fatto e di prova compiute nell’ambito dell’esercizio dell’attività giurisdizionale»

Nel procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa

Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica italiana.

La sentenza, di seguito acclusa, si inquadra in un risalente filone nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva inoltre rifiutato di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati.

Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:

<Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.

Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler>  

A questo punto non si può pretendere che il cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.

LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE E CIVILE DEI MAGISTRATI

LA SENTENZA 13 GIUGNO 2006 DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL LUSSEMBURGO: LA LEGGE 117/88 VIOLA I PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO COMUNITARIO, NELLA PARTE IN CUI LIMITA ARBITRARIAMENTE L'AMBITO DELLA RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI.

CONVINTA ADESIONE DEI PRIMI AUTORI DELLA DOTTRINA.

La più autorevole, fra le conferme alle nostre tesi, non può che provenire dalla recentissima Sentenza 13 giugno 2006 resa dalla più alta magistratura esistente nell'ordinamento comunitario europeo, vale a dire dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. del Lussemburgo.

La pronunzia, integralmente pubblicata su www.aziendalex.kataweb.it/, oltre che (sempre integralmente) sui settimanali giuridici ""Diritto e Giustizia"" fasc. 29/2006, pagg. 105 segg., e ""Guida al Diritto"", fasc. nr. 4 / 2006 <>, pagg.30 - 39, si caratterizza per l'affermazione, netta e categorica, dei seguenti principi di diritto, assolutamente dirimenti a favore della dimostrazione della fondatezza delle tesi qui sostenute:

I. Gli Stati membri dell'U.E. rispondono a titolo extracontrattuale del danno patito dai singoli, in conseguenza di violazioni manifeste del diritto comunitario compiute dagli organi giurisdizionali, quand'anche tali violazioni derivino dall'attività di interpretazione delle norme o di valutazione dei fatti e delle prove;

II. Per stabilire quando una violazione del diritto comunitario debba ritenersi manifesta "" si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.234, terzo comma, del Trattato C.E., ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia "" (così il punto 43. della sentenza 13 giugno 2006); su questo punto, inoltre, il massimo giudice europeo conferma le precedenti sue statuizioni, rese a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C - 6 / 90 e C - 9 / 90 ricorrenti ""Francovich ed altri"", e poi dalla sentenza 5 marzo 1996 cause riunite C - 46 / 93 e C - 48 / 93, e in ultimo dalla la sentenza 30 settembre 2003 causa C - / 224 / 01 ricorrente ""Kobler"";

III. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto comunitario.

I primi commenti della dottrina si registrano in termini di grande interesse ed enfasi.

IMPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.

Le persone in carcere per droga sono il 15%; quelli per reati contro il patrimonio il 31; quelli per i reati contro la persona il 15%. Marginali sono le aliquote riguardanti delitti come l' associazione mafiosa (3%) e infinitesimali quelli per i reati dei 'colletti bianchi', conferma della compresenza di due codici distinti.

C'era una volta la lotta alla corruzione. Lotta dura, simboleggiata da Mani pulite.

Lotta che ha sconvolto l'Italia della politica e dell'impresa nella metà degli anni Novanta.

Memorabile l'immagine di quell'industriale che usciva dal carcere milanese di San Vittore, borsa Vuitton in alto, simbolo di ricchezza e del suo potere. Aveva resistito poche ore alle manette. E giù una confessione-fiume sulle mazzette da lui girate a questo o quell'uomo politico. Purché si aprissero dietro lui le porte della prigione, in vista del processo.

Ma, dopo le sentenze, quanti corruttori o corrotti hanno veramente pagato?

Quanti gironi infernali hanno dovuto attraversare prima di riavere la libertà definitiva?

La sensazione che pochissimi fossero gli sfortunati era diffusa. Ora c'è la certezza. La legge non è uguale per tutti.

Nell'arco di vent'anni, dal 1983 al 2002, compreso quindi il periodo di Tangentopoli, solo il 2 per cento ha scontato pene in carcere, mentre il 98 per cento l'ha fatta franca. O perché è scattata la sospensione condizionale (sotto i due anni) o perché sono state riconosciute misure alternative (servizi sociali: tra due e tre anni). E soprattutto perché nell'87 per cento dei casi la sentenza è stata mite: sempre meno di due anni.

Sono cifre rese pubbliche da una ricerca condotta dall'ex pm Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani pulite, ora giudice di Cassazione, e Grazia Mannozzi, docente di diritto penale all'Università dell'Insubria (Como e Varese). Ricerca riversata nel libro "La corruzione in Italia", editore Laterza. Due anni per un lavoro tutto sui numeri, tratti dal Casellario giudiziale centrale. Una miniera di dati che inizialmente dovevano dar vita a una smilza analisi destinata a una rivista specializzata di diritto. Ne è venuto fuori invece un volume di 373 pagine, ricco di grafici e tabelle. Dentro, un inedito censimento sulle tangenti "made in Italy". Con risultati choc.

Ad esempio, solo due condanne a Reggio Calabria (in vent'anni!). Ancora. Nessuno riesce a immaginare che la Finlandia, il paese più "virtuoso" in Europa, secondo le statistiche di Transparency International, possa registrare condanne per corruzione quasi uguali a quelle dell'Italia. Che invece, sempre secondo Transparency International (classifiche elaborate sulla base di indici di "percezione"), è al penultimo posto, davanti al fanalino di coda Grecia, la più corrotta.

 A proposito di risultati. I due autori bacchettano i corpi di polizia che «tendono a privilegiare l'attività di sicurezza pubblica rispetto a quella di polizia giudiziaria», ossia trascurano le indagini delle procure. Per questo annotano: «Non riteniamo di poter correlare alla (loro) attività la massiccia emersione della corruzione negli anni '92-94».

Un'altra delle sorprese che balzano all'occhio leggendo "La corruzione in Italia" riguarda la distribuzione del sistema mazzettaro sul territorio: «Intere aree geografiche del nostro paese, almeno stando al numero delle condanne per corruzione e concussione (l'estorsione del pubblico ufficiale, ndr) passate in giudicato, non sembrano essere state neppure sfiorate dal fenomeno Tangentopoli».

Partiamo dai più bravi. Al primo posto, l'area della Corte d'appello di Milano (882 casi), seguita da quella di Torino (568), Napoli (538) e Lecce (poco meno di 500). Stupiscono Genova (137) e, soprattutto, Firenze, «interessata a malapena da Mani pulite». Nel Meridione c'è invece atmosfera da "grande freddo", con l'eccezione, come si è visto, di Lecce e Napoli, dove «la macchina giudiziaria sembra aver funzionato efficacemente». Se a Reggio Calabria, però, quanto a condanne, c'è il deserto, non meglio se la cavano altri distretti meridionali. Come L'Aquila, Potenza, Salerno e Campobasso, per nulla toccati dalle «inchieste per corruzione». Stesso clima dal fronte di altre città della Sicilia e della Sardegna: Catania, Caltanissetta e Cagliari. Ma come, tutto lo Stivale è pervaso da un'atmosfera tale da «rovesciare un intero sistema politico con una risonanza mediatica senza precedenti» e laggiù non succede nulla? Secco il commento di Davigo-Mannozzi: «La repressione della corruzione in Italia tra il 1983 e il 2002 è avvenuta a macchia di leopardo». Colpendo solo alcuni distretti e «lasciando completamente indenni altri».

Andiamo allora a vedere che cosa succede nel profondo Sud. Come si spiega la vicenda di Reggio? Non si può certo credere che quella fosse una zona franca. Tanto più che l'ex sindaco Agatino Licandro, dimessosi nel '92, quindi nel pieno di Mani pulite, ha raccontato nel libro "La città dolente" «i particolari del patto del disonore con nomi, fatti, circostanze, e citando tutti i documenti necessari per trovare riscontri e prove». Come mai ci si imbatte in un numero così modesto di fatti di corruzione? Non solo in Calabria, ovviamente, ma anche nelle altre regioni appena nominate.

Cerchiamo allora di capire, dati alla mano, se vi è uno stretto intreccio tra corruzione e criminalità organizzata. Con una premessa. Quello della corruzione è un "mercato illegale", come gli altri tipici mercati illegali, dal traffico di droga al gioco d'azzardo. Nelle zone ad alta densità mafiosa è anch'esso sotto il controllo delle singole associazioni espressione del territorio, vale a dire la 'ndrangheta in Calabria, Cosa nostra in Sicilia e così via. Pertanto non è un caso se ci sono funzionari pubblici a libro paga delle organizzazioni.

Insomma, pochi casi vengono accertati. Rappresentano la punta dell'iceberg, quella che spunta dall'acqua. Ma il grosso continua a rimanere sotto, nella montagna sommersa.

FUNZIONARI PUBBLICI: NON LICENZIATI PUR CONDANNATI.

Sintesi delle osservazioni sulla gestione disciplinare prodotte dalla Corte dei Conti con Delibera n. 7/2006/G, da cui si evince una palese immunità ed impunità.

In questo paragrafo vengono sintetizzate le valutazioni, inerenti ai profili gestionali critici e a problematiche situazioni consolidatesi negli uffici controllati:

a)      i continui mutamenti organizzativi, originati da prescrizioni normative e/o amministrative e caratterizzati da un sostanziale disinteresse per le sorti di una funzione naturalmente “tipizzata”, come quella disciplinare, pregiudicano il principio di continuità della azione disciplinare e tendono a disperdere specializzazioni professionali nella difficile materia;

b)      analoghi effetti produce la forte mobilità di dipendenti nel settore disciplinare;

c)      nelle istituzioni scolastiche questi fenomeni si accentuano perché  la nuova organizzazione, basata su criteri autonomistici, convive con l’arcaica e disefficiente struttura consultiva “piramidale”. Quest’ultima è titolare di un anomalo potere di codecisione, che viene implementato da una frequente utilizzazione interdittiva di sanzioni proporzionate all’illecito;

d)     risulta ancor più lenta e difficoltosa, rispetto alle precedenti indagini compiute da questa Corte, la capacità di evadere le notizie istruttorie. Il fenomeno riguarda soprattutto i casi più problematici, ove si intuisce una tendenziale riottosità ad illustrare compiutamente le disfunzioni amministrative e le loro conseguenze;

e)      la tempistica delle vicende penali permane ipertrofica e allontana nel tempo la definizione disciplinare dei reati;

f)       la tempistica dei procedimenti disciplinari  - sia pure con le eccezioni e particolarità evidenziate in relazione – presenta margini di miglioramento rispetto ai valori rilevati nelle precedenti indagini. Essa rimane tuttavia assolutamente problematica se rapportata ai tempi tassativi previsti dalla legge, il cui mancato rispetto invalida la legittimità formale delle sanzioni disciplinari. Il fenomeno si acuisce  e tende a concentrarsi nelle istituzioni scolastiche;

g)      tendono ad accentuarsi – soprattutto nelle istituzioni scolastiche – i problematici rapporti, già accertati nelle precedenti indagini, tra le cancellerie penali e gli uffici disciplinari, da ascriversi prevalentemente al comportamento delle prime ma - talvolta – anche alla inadeguatezza dei funzionari degli uffici disciplinari ad interagire con  procure e tribunali;

h)      si sono verificate situazioni di mancata applicazione delle pene accessorie inerenti al rapporto di impiego;

i)        sono state intercettate alcune situazioni di mancata apertura del procedimento disciplinare, con conseguente impunità del soggetto condannato in sede penale per reati rilevanti;

j)        le situazioni di ritardo e le disfunzioni amministrative, inficianti la regolarità formale dei procedimenti, induce i funzionari responsabili a minimizzare le sanzioni, in modo da prevenire i ricorsi degli interessati e gli esborsi pecuniari conseguenti;

k)      anche per le sospensioni cautelari il complesso “diritto vivente”, risultante dalle eterogenee disposizioni, normative e dagli andamenti giurisprudenziali, produce l’effetto secondo cui, al centro delle valutazioni della amministrazione più che la esigenza cautelare rimane la preoccupazione degli effetti economici della sospensione stessa;

l)        quanto alla tempistica della funzione cautelare emerge che tra la data del fatto illecito e l’adozione del provvedimento decorre un tempo medio superiore a due anni;

m)    i complessi meccanismi giurisdizionali e amministrativi illustrati nella relazione provocano la frequente permanenza in servizio di condannati per reati gravissimi. Queste situazioni sono talvolta accentuate dagli apparati amministrativi competenti;

 

n)      alcune pronunce, soprattutto di carattere arbitrale, presentano notevoli profili problematici, aggravando situazioni di disparità ed effetti, anche patrimoniali, negativi per l’amministrazione;

o)      emerge una sensibile dissonanza tra le pronunzie penali e quelle dei giudici del lavoro anche in termini ermeneutici della legge n. 97/01. Su tale fenomeno si riverbera, probabilmente, la natura del rapporto di lavoro pubblico “privatizzato”, dietro la cui controversa connotazione semantica si nasconde un coacervo di interessi concreti diversi da quelli del rapporto di lavoro privato;

p)      permane, rispetto alle precedenti indagini, la eterogeneità delle sanzioni disciplinari in ordine ad analoghe tipologie criminose. Su tale fenomeno incidono, tra l’altro, la presenza di irregolarità formali nel procedimento disciplinare ed i condizionamenti ambientali;

q)      si consolidano fenomeni elusivi della funzione disciplinare, quali i passaggi ad altra amministrazione, alcuni dei quali con esiti di recidiva particolarmente gravi;

r)       nell’esercizio della mobilità non risultano prassi di verifica, da parte della amministrazione ricevente, dei requisiti di moralità del dipendente trasferito;

s)       le procedure di arbitrato e conciliazione, applicate alle condanne più gravi, consentono di negoziare interessi ontologicamente indisponibili, privando i reati più gravi di appropriate sanzioni.

MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ??? 

PARLIAMO DELLO STATO DELLA GIUSTIZIA.

Pubblichiamo la relazione del guardasigilli avv. prof.ssa Paola Severino sull'amministrazione della Giustizia nell'anno 2011 nel testo ufficiale depositato alle Camere. 17 gennaio 2012. Esemplare ed importante perché fatta da un tecnico e non da un politico, quindi riporta la cruda realtà.

RELAZIONE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NELL'ANNO 2011

INTRODUZIONE

“Sig. Presidente, Onorevoli Deputati,…….Al termine del mio intervento depositerò una completa documentazione sullo stato della giustizia, anche su supporto informatico, in modo da garantire il massimo della trasparenza e dell’accessibilità dei dati, mentre concentrerò l’esposizione sui punti di maggiore criticità del sistema giudiziario italiano…….. Si tratta di emergenze ben note che riguardano:

a) l’attuale stato delle carceri e le problematiche condizioni dei 66.897 detenuti che, salvo poche virtuose eccezioni, soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un Paese come l’Italia;

b) il deficit di efficienza degli uffici giudiziari rispetto ad una domanda di giustizia che, in termini quantitativi, appare nettamente sovradimensionata nel confronto con le altre democrazie occidentali (il rapporto CEPEJ 2010 ci dice che, nel civile, con 4.768 contenziosi ogni 100.000 abitanti, l’Italia è al quarto posto in Europa per tasso di litigiosità, dietro Russia, Belgio e Lituania su 38 paesi censiti). Anche su questo ci si dovrebbe forse interrogare maggiormente: questo elevato tasso di litigiosità da cosa deriva? Da una propensione socio-culturale italiana alla conflittualità? Da una scarsa fiducia nella possibilità di affrontare a monte la controversia e di trovare soluzioni ragionevoli nel dialogo tra cittadini? Da una eccessiva complessità del tessuto normativo, tale da generare essa stessa un proliferare di contrasti interpretativi, la cui soluzione va devoluta al giudice? Ognuna di queste domande richiederebbe una approfondita analisi, perché la risposta ad esse potrebbe segnare un cambiamento di politica legislativa, volto ad incidere sulle cause di una domanda di giustizia così diffusa;

c) la problematica individuazione degli strumenti attraverso i quali, soprattutto nel settore civile, sia possibile procedere alla rapida eliminazione dell’arretrato accumulatosi negli ultimi trent’anni, senza stravolgere i nostri principi fondamentali, senza deludere le aspettative di quanti hanno già da tempo intrapreso il cammino processuale e senza limitare eccessivamente l’accesso del cittadino al sistema giudiziario per nuove istanze;

d) l’indifferibile razionalizzazione organizzativa e tecnologica dell’intera struttura amministrativa dei servizi giudiziari, in modo da utilizzare al meglio le risorse umane e finanziarie disponibili, realizzando risparmi di spesa che siano il frutto di interventi strutturali e non di semplici tagli alle dotazioni di bilancio. Vedete, in questi primissimi mesi di Governo mi sono resa conto di come i risparmi più razionali si potrebbero realizzare anche sulle spese “minori”, sol che si modificasse l’erronea attitudine mentale a pensare che il denaro e le risorse pubbliche siano “di nessuno”, convertendola nella corretta concezione che il denaro pubblico è “di noi tutti”, perché proviene dalle nostre tasse, dalla nostra fatica quotidiana, dal nostro lavoro, dal nostro impegno per contribuire alla crescita del Paese. Allora vedremmo come dalla somma dei piccoli-grandi sprechi e dalla loro eliminazione si potrebbe ottenere un ammontare molto più rilevante di quanto si pensi, ma soprattutto un cambiamento culturale, idoneo a garantire risparmi di spesa strutturali e non episodici.

Queste, dunque, le quattro principali criticità da affrontare che, di certo, non rappresentano una sorpresa se è vero che se ne parla da molti lustri.

Il quadro generale è, infatti, rappresentativo di una situazione che desta forti preoccupazioni sia in ordine all’enorme mole dell’arretrato da smaltire che, al 30 giugno del 2011, è pari a quasi 9 milioni di processi (5,5 milioni per il civile e 3,4 milioni per il penale), sia con riferimento ai tempi medi di definizione che nel civile sono pari a 7 anni e tre mesi (2.645 giorni) e nel penale a 4 anni e nove mesi (1.753 giorni). Peraltro nel settore civile l’inefficienza nella definizione dell’arretrato ha dato luogo a costose e talvolta paradossali conseguenze. Si è già detto che il ritardo nella definizione dei giudizi dipende, in larga misura, dal numero davvero esorbitante di questioni per le quali si richiede l’intervento del giudice. Con oltre 2,8 milioni di nuove cause in ingresso in primo grado l’Italia è seconda soltanto alla Russia nella speciale classifica stilata nel citato rapporto CEPEJ. Ebbene, proprio questo fenomeno determina un ulteriore intasamento del sistema conseguente al numero progressivamente crescente di cause intraprese dai cittadini per ottenere un indennizzo conseguente alla ritardata giustizia. Al riguardo i numeri non ammettono equivoci.

Approvata la legge (n. 89 del 2001 a tutti nota come legge Pinto) che consente di indennizzare l’irragionevole durata del processo si è verificata una vera e propria esplosione di questo contenzioso passato dalle 3.580 richieste del 2003 alle 49.596 del 2010. Un secondo effetto negativo indotto da tale contenzioso è quello dell’ulteriore dilatazione dei tempi di definizione dei giudizi presso le Corti di Appello (cui è assegnata la competenza a decidere nella specifica materia) che si aggiunge all’entità ormai stratosferica e sempre crescente degli indennizzi liquidati (si è passati dai 5 milioni di euro del 2003, ai 40 del 2008 per giungere ai circa 84 del 2011). Il dato di maggiore rilievo mi pare, però, quello fornito nel 2011 dalla Banca d’Italia, secondo cui l’inefficienza della giustizia civile italiana può essere misurata in termini economici come pari all’1% del PIL. Se a questo si aggiunge che nella categoria “Enforcing Contracts” del rapporto Doing Business 2010 l’Italia si classifica al 157° posto su 183 paesi censiti, con una durata stimata per il recupero del credito commerciale pari a 1210 giorni, mentre in Germania ne bastano 394, si coglie la misura di quanto ciò incida negativamente sulle nostre imprese segnando, anche sotto tale aspetto, una divaricazione di efficienza con i migliori sistemi dei Paesi dell’Unione Europea che frena, ineluttabilmente, le possibilità di sviluppo ed anche gli investimenti stranieri.

……Non meno rilevanti risultano le conseguenze dell’eccessiva durata del processo penale. E non inganni la circostanza che la durata media del processo penale è inferiore rispetto a quella del processo civile (4,9 anni rispetto agli oltre 7 del civile) poiché occorre tener conto che essa incide in modo sensibile anche sulla sorte degli oltre 28.000 detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano il 42% dell’intera popolazione carceraria (altra anomalia tutta italiana). E se è vero che la libertà personale può e deve essere limitata per tutelare la collettività è parimenti incontestabile che una dilatazione eccessiva della durata del processo a carico di imputati o indagati detenuti pregiudica questo delicato equilibrio tra valori di rango costituzionale ed aumenta, talvolta in modo intollerabile, la sofferenza di chi, ad onta della presunzione di innocenza, è costretto ad attendere, da recluso, una sentenza che ne accerti le responsabilità. Con la possibilità, non del tutto remota, che alla carcerazione preventiva segua una sentenza assolutoria.

La durata del processo penale incide, infatti, anche sul numero dei procedimenti (in media 2369 ogni anno) per ingiusta detenzione ed errore giudiziario e, in ogni caso, aggrava la misura dei pur doverosi risarcimenti a tale titolo erogati (nel solo 2011, lo Stato ha subito un esborso pari ad oltre 46 milioni di euro).

Se mi è consentita una digressione, senza alcun intento polemico, credo che i dati oggettivi che ho appena illustrato consentano di riflettere sull’effettività del sacrosanto principio di civiltà giuridica sancito dal terzo comma dell’art. 275 del codice di procedura penale secondo cui “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. Quel che è certo è che un uso, per così dire, meglio calibrato della custodia cautelare in carcere sarebbe sotto più aspetti benefico per l’amministrazione giudiziaria e per il sistema carcerario, senza alcuna controindicazione per la collettività, se è vero che le esigenze di sicurezza possono essere alternativamente garantite da un ventaglio davvero ricco di opzioni di cui oggi il giudice dispone e che, se possibile, proveremo a migliorare ed incrementare. Detto questo, ho già manifestato in più occasioni la mia personale preoccupazione, anzi, la mia angoscia per lo stato delle carceri italiane e degli ospedali psichiatrici giudiziari e sento fortissima, insieme a tutto il Governo, la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti (ma anche degli agenti della polizia penitenziaria che negli stessi luoghi ne condividono la realtà e, spesso, le sofferenze). Si tratta, ancora una volta, di questioni di difficile soluzione a causa di complicazioni burocratiche e di difetti strutturali e logistici che si sono stratificati nel corso del tempo. Non intendo, però, soffermarmi sul numero e la composizione della popolazione carceraria, sulla vetustà e le condizioni delle strutture, sugli spazi che competono e su quelli effettivamente assegnati e su tutte le altre questioni fatte di freddi dati e numeri (che facilmente troverete nei documenti ufficiali). Tutto questo, infatti, dice poco della vera questione in ballo: siamo di fronte ad una emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana. Le innegabili difficoltà non possono costituire un alibi né per il Ministro della Giustizia né per tutte le altre istituzioni interessate. Qualunque giustificazione è infatti destinata a crollare miseramente non appena si varca la soglia di una delle strutture a rischio e si verifica personalmente la realtà. Lo dico da Ministro, ma anche e soprattutto da cittadino: questa situazione va migliorata subito, pur nella piena consapevolezza che non esista alcuna formula magica per risolvere questo annoso e doloroso problema, se è vero, come è vero, che anche in altri paesi la piaga del sovraffollamento carcerario è segnalata da numeri che parlano da soli (ad esempio: 80.000 detenuti nel Regno Unito e più di 2 milioni negli Stati Uniti). Solo un equilibrato insieme di misure, idonee a coniugare sicurezza sociale e trattamento umanitariamente adeguato del custodito o del condannato, potrà fornire un serio contributo alla soluzione del problema. Edificazione di nuove carceri, ma anche manutenzione e migliore utilizzo di quelle esistenti; misure alternative alla detenzione, ma anche lavoro carcerario; deflazione giudiziaria attraverso depenalizzazione di reati bagatellari e non punibilità per irrilevanza del fatto, ma anche effettività della pena. Sono solo alcuni esempi che dimostrano come il campionario delle possibili soluzioni sia molto ampio, ma che l’aspetto più difficile è quello di un corretto equilibrio tra aspetto afflittivo ed aspetto rieducativo della pena, tra carattere umanitario del trattamento del condannato e tutela del diritto dei cittadini alla sicurezza, tra riconoscimento dei più elementari principi di civiltà anche a chi è detenuto e pieno soddisfacimento dei diritti delle vittime e dei loro familiari.

§ La mediazione.

Con il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 il Governo diede attuazione alla delega relativa all’introduzione in via generalizzata della mediazione come strumento di risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali. Si tratta di un’importante riforma che mira a ridurre in modo sensibile il numero di giudizi dinanzi al magistrato, offrendo alle parti uno strumento generale alternativo alla via giudiziale per risolvere le controversie dei cittadini. Questa importante riforma legislativa, completata con l’emanazione della normativa regolamentare di dettaglio è operativa dal 20 marzo 2011, con l’entrata in vigore delle norme sulla obbligatorietà della mediazione nelle materie tassativamente indicate dalla legge. Poiché l’analisi dei dati statistici riguarda soltanto il primo semestre dell’anno appena trascorso è certamente prematuro tentare una valutazione degli effetti della riforma sulla domanda di giustizia. Bisogna inoltre tener conto che è stata differita di un anno l’obbligatorietà della mediazione in materia di condominio e risarcimento del danno derivante da circolazione stradale. Nondimeno, rispetto alle 33.808 mediazioni iscritte nel primo semestre del 2011 si può cogliere un trend in crescita se si considera che a novembre 2011 le mediazioni registrate hanno superato la soglia delle 53.000 unità. Sorprendono, invece, i dati relativi allo scarso utilizzo della mediazione delegata dal giudice e l’elevato numero di mancate comparizioni dinanzi al mediatore. Vorrei però sottolineare due dati che mi sembrano rilevanti:

a) nell’80% dei casi le parti partecipano alla mediazione con l’assistenza di un legale di fiducia (e ciò vale a scongiurare almeno in parte le preoccupazioni della classe forense in ordine ad una possibile minorata tutela tecnica dei diritti dei cittadini);

b) in presenza delle parti il tentativo di mediazione si conclude con successo nel 60% dei casi, fatto che testimonia le grandi potenzialità deflattive dell’istituto.

§ Gli interventi in materia di organici della magistratura.

Al momento risultano presenti in organico 8.834 magistrati togati, con una scopertura di 1.317 posti.

§ L’Attività Ispettiva e di Gabinetto.

Nell’anno 2011 il Ministro ha dato il proprio concerto in ordine al conferimento di 72 Uffici Direttivi, mentre nel quadro della programmazione predisposta l’Ispettorato generale ha eseguito 42 ispezioni ordinarie e 14 inchieste. Risulta altresì esercitata l’azione disciplinare nei confronti di 46 magistrati per violazioni dei doveri di diligenza, correttezza e laboriosità, relativi a diverse ipotesi, tra le quali spiccano quelle relative a gravi e reiterati ritardi nel deposito delle motivazioni delle sentenze che, talvolta, hanno determinato inaccettabili scarcerazioni di pericolosi criminali per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare. L’Ispettorato Generale ha svolto anche 234 ispezioni ordinarie presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado.

§ La Giustizia Minorile.

Con riguardo alla Giustizia Minorile, nel corso del 2011 l’esame delle statistiche ha confermato l’aumento generale della presenza di minori di nazionalità italiana, già iniziato negli anni immediatamente precedenti, anche nei Servizi residenziali, come i Centri di prima accoglienza e gli Istituti penali per i minorenni, che per molti anni hanno visto prevalere numericamente i minori stranieri. Attualmente la presenza straniera proviene prevalentemente dall’Est europeo (principalmente dalla Romania) e dal Nord Africa (Marocco soprattutto). In generale i reati contestati sono prevalentemente contro il patrimonio (60%), pur se non sono trascurabili le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti (10%).

……È possibile applicare questo modello virtuoso anche al sistema giudiziario? Certamente sì, purché tutti i protagonisti: magistrati, avvocati, personale amministrativo, cittadini utenti, e non soltanto le istituzioni competenti (Governo, Parlamento e C.S.M.) siano disposti ad accettare che un altro modello di servizio giudiziario, più snello, più rapido, meno costoso e meno intasato, non soltanto è possibile, ma è oggi assolutamente necessario e non più rinviabile. Ciascuno di noi sarà magari chiamato a rinunciare a qualche privilegio o a qualche abitudine consolidata e rassicurante, ma così facendo consegneremo al Paese, cioè a tutti noi, un sistema giudiziario migliore e più giusto. Vi ringrazio.”

Galere da terzo mondo

L’inchiesta - denuncia su “La Repubblica”. Ogni 100 detenuti, 47 sono di troppo, ma uno su cinque ha un lavoro. Sono 67510 i reclusi in Italia, 45572 i posti disponibili. Un tasso di sovraffollamento del 149% contro il 99% della media europea. Resta alto il numero dei suicidi: 684 nel 2011. E dal 2000 sono 85 gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita.

I numeri:

67.510 I detenuti nelle carceri

45572 I posti disponibili

28457 I detenuti in carcerazione preventiva

47 I detenuti eccedenti ogni 100 posti disponibili

684 I suicidi in carcere nel 2011

85 I suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria dal 2000 ad oggi

99% L'indice di sovraffollamento nelle carceri europee

149% In Italia

1491 I condannati all'ergastolo

7311 I detenuti con meno di 25 anni

20,68% La percentuale di detenuti che lavora

3, 95 miliardi di € Le risorse a disposizione nel 2007

2, 77 miliardi di € Nel 2010

134 milioni di € La situazione debitoria dell'amministrazione penitenziaria

25mila I detenuti di origine straniera, pari circa al 30%

7000 Di questi, di origine balcanica

5200 I marocchini

3500 I romeni

675 milioni di € La cifra promessa in tre anni dal piano carceri di Alfano

9150 I posti previsti in più

20 I nuovi padiglioni previsti

Sessantottomila detenuti intrappolati in un sistema fatto per poco più di 45 mila. Strutture vecchie, condizioni igieniche disperate, cibo degno di canili, salute a rischio anche per le guardie, tasso di suicidi altissimo. E' la foto impietosa del nostro sistema penitenziario. Riuscirà il governo a porvi rimedio?Sporche, fredde, sovraffollate e invivibili. L'"inconcepibile orrore" delle carceri raccontata da Alberto Custodero. Una situazione ormai insostenibile, stigmatizzata anche da Napolitano: oltre 68mila detenuti rinchiusi in edifici destinati a non più di 45.654 persone. Una qualità della vita indegna di un paese civile. Il ministro della Giustizia, Severino ne riferisce alla Camera: "Le difficoltà non possono essere un alibi". E promette interventi per cominciare a svuotarle almeno parzialmente. A San Vittore, carcere milanese, in celle di sette metri quadrati respirano a fatica sei detenuti per 20 ore al giorno. Nel partenopeo Poggioreale per ogni gabbia ne ammassano anche una dozzina: a Natale mancava il riscaldamento e "centinaia di persone - racconta il deputato pd Guglielmo Vaccaro - stavano accalcate attorno a stufe di fortuna". Nell'anconetano Montacuto, teatro di una recente rivolta, alcuni reclusi sono costretti a orinare in appositi "pappagalli". I bagni sono sufficienti per 178 ospiti, non per i 448 che ci sono. A Monza (900 detenuti per 400 posti) la prigione si allaga quando piove ed è in atto un piano di parziale evacuazione. Nel supercarcere Torinese delle Vallette a giugno venti detenuti hanno dormito in palestra, su materassi buttati a terra. Nel carcere di massima sicurezza di Paliano, nel Frosinate, che ospita un quarto dei pentiti d'Italia, la direttrice fa la guardia in portineria: manca il personale. Ma "l'estremo orrore inconcepibile in un Paese civile", per usare le parole del presidente della Repubblica Napolitano, i Nas lo hanno trovato in 21 celle dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, in Toscana. E in altre 28 in Sicilia a Barcellona Pozzo di Gotto: in quei luoghi di detenzione per condannati definitivi malati di mente, i bagni a disposizione per pazienti con la diarrea erano senz'acqua. Alcune persone erano legate al letto nude, altri malati privi di farmaci. Il presidente del Dap, Franco Ionta, non ha esitato a definire "un'emergenza nell'emergenza carceri" il problema dell'opg siciliano, dove 200 detenuti potrebbero uscire, ma restano reclusi perché nessuno sa dove piazzarli. Le 206 carceri italiane stanno scoppiando, riempite come sono all'inverosimile: in 45mila e 654 posti, sono stipati più di 68 mila detenuti, il 30 per cento stranieri (e di questo, un terzo di origine balcanica). La qualità della vita s'è abbassata anche perché - lo denuncia il Gruppo Abele - dal 2007 al 2010 è stata ridotta la spesa annua, passata da 13170 euro pro-capite a 6275. "Ventottomila detenuti - dichiara il ministro della Giustizia Paola Severino nella sua relazione sullo stato della giustizia che presenta oggi alla Camera - sono in attesa di giudizio, il 42% dell'intera popolazione carceraria (anomalia tutta italiana)". Ventitremila sono comunque di troppo e creano la cosiddetta emergenza sovraffollamento. "Che emergenza non è - osserva la deputata radicale Rita Bernardini - perché è una situazione diventata cronica". "Siamo di fronte ad una emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica - ammonisce il ministro - poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana". Tre anni fa l'allora ministro della Giustizia Alfano aveva annunciato e promesso un faraonico piano-carceri triennale: 1800 assunzioni di agenti. E 670 milioni stanziati per costruire, entro il 2012, undici nuovi istituti e venti padiglioni in strutture già esistenti, per un totale di 9150 posti. Cosa sia stato realizzato di quel piano è mistero. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli del Papa che il 18 dicembre, durante la visita nel carcere romano di Rebibbia, ha detto che "il sovraffollamento e il degrado possono trasformare il carcere in una doppia pena". Anziché, come previsto dall'articolo 27 della Costituzione, in un luogo di detenzione "finalizzato alla rieducazione". Se per l'ex ministro dell'Interno Giuliano Amato "il carcere è lo specchio della civiltà di un Paese", i 66 suicidi di detenuti del 2011 riflettono la gravità dello stato di salute del "pianeta carceri". "Le condizioni in cui si trovano i detenuti nelle celle italiane - aggiunge Amato - gli animalisti le ritengono intollerabili per i polli in batteria". Il presidente del consiglio regionale pugliese parla di "un'autentica emergenza sociale e umanitaria". Le Asl lanciano l'allarme sanitario, con il rischio (è il caso del carcere "le Sughere"di Livorno) di epidemie di Tbc e di diffusione di scabbia.

Ma è davvero costituzionalmente rieducativo un mondo carcerario nel quale il rischio suicidio è venti volte superiore a quello della popolazione "libera"? Dove l'indice di sovraffollamento medio è del 149 per cento contro il 99 per cento europeo? Dove fino a qualche mese fa c'erano 57 bambini sotto i 3 anni in prigione con le mamme-detenute? La realtà è nell'ammissione della stessa Severino: "Le innegabili difficoltà - dice a Montecitorio - non possono costituire un alibi né per il Ministro della Giustizia né per tutte le altre istituzioni interessate". La drammatica realtà è pure nella denuncia del garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che chiede lo stop dei nuovi ingressi a Regina Coeli "perché si rischia la catastrofe umanitaria". Nelle ordinanze dei giudici di Sorveglianza che scrivono che nel carcere romano "ci sono condizioni di criticità". Nelle parole del commissario del piano carceri e presidente del Dap, Ionta, secondo cui "con l'ingresso di mille unità al mese e 68 mila detenuti il sistema penitenziario vive le difficoltà maggiori dal Dopoguerra ad oggi". Nell'annuncio della Comitato per la prevenzione della tortura di Strasburgo che ha annunciato per il 2012 una ispezione nelle carceri italiane dopo la condanna del nostro Paese della Commissione europea dei diritti dell'uomo perché un detenuto bosniaco viveva in condizioni disumane di sovraffollamento. Nella proposta di legge del deputato pdl Rocco Girlanda che - unico ad accorgersene - chiede di vietare l'uso di bombolette del gas per cucina da cella in quanto alcuni detenuti le usano per suicidarsi. Altri, tossicomani, per sballarsi inalando il gas.

Il carcere è un mondo nel quale "guardie e ladri", detenuti e agenti, sono accomunati da un'unica tragica disperazione. Ai 66 suicidi dei carcerati (si impiccano coi lacci delle scarpe, inalando gas, tagliandosi i polsi, ingoiando lamette), si contrappongono quelli dei poliziotti, diciotto negli ultimi 5 anni. Troppi, tanto che lo stesso Ionta ad ottobre ha deciso di istituire una Commissione ad hoc per "indagare" sul fenomeno dei suicidi fra agenti della polizia penitenziaria. A questo proposito, però, il sindacato Sappe ha denunciato che i punti di ascolto psicologico per il personale vittima di disagio istituiti dal Dap nel 2008 sono rimasti un progetto non realizzato per mancanza di fondi. "I 50 psicologi che avevano vinto il concorso - sostengono i sindacati - non sono mai stati assunti". Alle rivolte dei detenuti (Ancona, Parma, Bologna, Cagliari, Prato), si contrappongono le manifestazioi dei poliziotti che, per protesta, si mettono in "autoconsegna".  Una recente denuncia della Uil svela la crisi che attraversa lo stesso dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: "Il Dap - dicono i sindacati - è sull'orlo del fallimento con un debito di 150 milioni che mette a rischio l'acquisto del vitto per i detenuti. E che costringe direttori e provveditori a mediare con i creditori per garantire l'erogazione di acqua, luce e riscaldamento".

Il governo Monti annuncia le sue contromisure per svuotare le carceri. "Edificazione di nuove carceri", annuncia il ministro Severino che però non dice con quali risorse. "Manutenzione di quelle esistenti". "Ma anche lavoro per i detenuti. E deflazione giudiziaria attraverso la depenalizzazione di reati bagatellari. Sono stati dimezzati i tempi massimi per la convalida dell'arresto (48 ore anziché 96), lasciando 21mila detenuti nelle camere di sicurezza delle forze dell'ordine o agli arresti domiciliari. Inoltre s'è innalzato da 12 a 18 mesi la soglia della pena detentiva residua per l'accesso alla detenzione domiciliare. Con questa norma agli oltre 3800 detenuti fino a oggi scarcerati se ne aggiungeranno altri 3327 con un risparmio di spesa di 375mila euro ogni giorno.

In questo mondo di drammi e sofferenza non può mancare anche una storia al contrario. Come quella del cinquatunesimo detenuto suicidatosi nel 2011: l'uomo s'è tolto la vita a tre giorni dalla fine pena. Per dirla con Erich Fromm, "aveva paura della libertà". Pazzi di solitudine o malati terminali. Ma il 41-bis non si può toccare. Il regime di assoluto isolamento applicato a condannati particolarmente pericolosi e ai boss della criminalità organizzata non sembra poter avere attenuazioni. Così persone sono morte, stanno morendo o sono andate fuori di testa senza che sia stato possibile curarle in condizioni dignitose. Lo discrezionalità dei giudici di sorveglianza. Il 19 maggio un detenuto, infettato dall'Hiv e allo stadio terminale di un tumore ai polmoni, s'è visto negare dai magistrati di Sorveglianza il diritto di trascorrere gli ultimi istanti di vita da cittadino libero. Ed è morto dietro le sbarre. Il garante del detenuto per la Toscana, Andrea Callaioli, ha gridato allo scandalo: "Un uomo nelle sue condizioni non doveva morire in prigione per questioni etiche". Ma esiste un'etica della morte in cella? E quanto grave deve essere una malattia per rendere incompatibile la detenzione? Un confine certo non esiste. Tutto è affidato alla discrezionalità dei singoli magistrati. "Quot capita, tot sententiae". Tanti giudici, tante sentenze.

E così può capitare che un detenuto possa impazzire perché seppellito vivo da 20 anni al 41-bis, il regime carcerario duro riservato a mafiosi e terroristi che li isola dal resto del mondo. È la morte civile che ha forse un senso quando un boss - o un terrorista - ha ancora il potere di comandare dalla cella. Ma che diventa una tortura, una crudeltà o un accanimento quando il regime duro viene reiterato nei confronti di boss nel tempo invecchiati, malati e non più pericolosi. Al 41-bis è vietato guardare la tv, parlare con altri detenuti, leggere, scrivere, uscire dalla cella. Una sola visita al mese per i familiari che, però, si possono contattare solo attraverso un vetro. E coi quali si può parlare solo con un telefono.

Vincenzo Stranieri si trova ininterrottamente al 41-bis dal 1984, all'epoca poco più che ventenne. Quel prolungato isolamento dal mondo ha nuociuto alla sua psiche, devastandola. Stranieri ha subito già diversi trattamenti sanitari obbligatori (Tso) con ricoveri in reparti psichiatrici. Ha perso 45 chili in pochi mesi. Periodicamente si ferisce in tutto il corpo. Ma secondo i giudici "merita" ancora il 41-bis e non, invece, una condizione carceraria "normale". Ma è rieducativo, dal punto di vista costituzionale, mantenere un detenuto malato di mente al regime 41-bis? Ed è etico negargli la possibilità di stare in carcere insieme agli altri detenuti? La vicenda di Stranieri è oggetto di un'interrogazione parlamentare di sei deputati radicali, e per la sua liberazione si batte disperatamente la figlia Anna, che non ha mai potuto abbracciare il papà. Un caso analogo riguarda un altro detenuto sottoposto al regime carcerario duro nel carcere di Parma. Si tratta di Gaetano Fidanzati, anziano boss mafioso (ha 76 anni) dell'Arenella Acquasanta che si trova dal dicembre 2009 al 41-bis. La deputata radicale Rita Bernardini s'è rivolta con una interrogazione al ministro della Giustizia per sapere se le gravi condizioni di salute in cui versa il detenuto siano compatibili col carcere duro. Una perizia medico legale, afferma la parlamentare, pur rilevando diverse malattie, ipertensione, diabete, disturbi cardiaci e cancro, sostiene la compatibilità con il 41-bis. Ma - chiede la Bernardini al Guardasiguilli - nel regime 41-bis è veramente garantita a Fidanzati e a tutti i detenuti che si trovano in analoghe gravi condizioni la tutela dei propri di diritti alla salute prevista dalla Costituzione? Cibo da cani e zero in igiene.

Così ci si ammala di carcere e ce lo dice Vittoria Iacovella. Solo dal 2008 esistono criteri nazionali per dare omogeneità alla tutela della salute dei detenuti. Ma la crisi e la mancanza di soldi hanno peggiorato la situazione: per i pasti di ciascun carcerato si spendono 3,8 euro al giorno; nei canili si arriva a 4,5. Il carcere intercetta e riflette la grande fragilità di questo Paese. Così, come aumenta il disagio psichico tra la gente comune (ne è colpito un quinto della popolazione italiana) scopriamo, nelle celle sovraffollate, che più del 15 per cento soffre di disturbi legati alla salute mentale, spesso associati a tossicodipendenza o alcolismo.

Gli stranieri rappresentano il 30-40% a seconda delle regioni, fino ad arrivare al carcere di Civitavecchia in cui sono presenti più di 100 nazionalità. Per i pochi medici, non sempre supportati dai necessari mediatori culturali, si rivela una Babele. La salute è strettamente legata all'alimentazione. Secondo il "Forum per il diritto della salute in carcere", il costo del cibo per un detenuto è di 3,8 euro al giorno e comprende colazione, pranzo e cena. Il comune di Roma ne spende 4,5 per ciascun ospite dei canili. Senza cure efficaci, i 5.200 malati di epatite B e C, i 2.500 sieropositivi (quasi certamente sottostimati), e la recrudescenza della tubercolosi sono un pericolo per tutti. Fino alla riforma del 2008, la salute in carcere era gestita da ogni singolo istituto penitenziario, in modo autonomo. Ciascun sistema rimaneva chiuso in se stesso con un'enorme disomogeneità nella gestione fra diverse città. Il Forum Nazionale per la salute in carcere ha lottato a lungo per riuscire a ottenere che i criteri fossero omogenei in tutto il territorio nazionale. Oggi la sanità penitenziaria è gestita dalle Asl competenti per territorio. "In teoria è una cosa giusta, una riforma che andava fatta - spiega Fabio Gui, operatore dell'ufficio del garante della regione Lazio per la salute in carcere - In pratica è difficilissimo attuarla a causa di anni di tagli ai budget delle Asl". Tuttavia, come sottolinea Roberto Di Giovan Paolo, senatore Pd e Presidente del Forum per la salute in carcere "non esiste un censimento delle emergenze sanitarie, le Asl non sanno con chi e con quanti pazienti detenuti devono lavorare. E' una cosa necessaria per la quale stiamo preparando un'interrogazione parlamentare".

La riforma ha aperto le porte del carcere ai medici esterni, ha reso tutto più trasparente, facendo emergere, però, anche tutte le criticità. Con la crisi economica gli operatori del settore testimoniano che la qualità del cibo è sempre più scarsa, le lenzuola sempre più sporche. "Spesso si parla di carcere per i suicidi o gli atti autolesionistici - racconta Gui - ma difficilmente si riesce a raccontare cosa porti a tali gesti. Qui il disagio psichico è fortissimo ed è in aumento sia per i detenuti che per la polizia penitenziaria. Si entra sani e si esce malati. A Bari ci sono letti a quattro piani. Scabbia, pidocchi, tubercolosi si diffondono velocemente fra i detenuti ma anche fra la polizia, gli operatori e le loro famiglie. Il sistema delle carceri italiane è una bomba in continuo procinto di esplodere, se finora non lo ha fatto è grazie agli operatori interni che continuano a fare i salti mortali, ma quanto potrà durare?"

Il pacchetto del neoministro Severino è stato accolto positivamente dalle associazioni del settore penitenziario. "Perché finalmente si preoccupa di guardare da dentro il carcere e di capire le differenze che ci sono fra i vari detenuti - sottolinea Gui -. Ad esempio è assolutamente positivo spostare i tossicodipendenti nelle comunità terapeutiche in modo che possano essere curati e recuperati. Abbiamo verificato che la recidiva di solito è del 70% mentre per chi è stato in strutture alternative cala al 30%".

Nelle carceri italiane i tossicodipendenti sono circa 21mila, le strutture che dovrebbero accoglierli, però, non sono abbastanza e non hanno i fondi sufficienti a farlo. La riforma in atto prevede anche la chiusura degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, o manicomi criminali (che la legge Basaglia non cancellò). All'interno di questi, oggi, si trovano circa 1400 persone malate e socialmente pericolose per le quali sono necessarie terapie psichiatriche e misure di sicurezza particolari che dovranno essere gestite dai dipartimenti di salute mentale competenti per territorio. Ma le regioni hanno dimostrato di non avere le risorse necessarie a pagare le equipe che devono occuparsi di questi internati. Che fine faranno, in pratica, non si sa. Chi è positivo all'Hiv e fa una terapia antiretrovirale spesso ha difficoltà a reperire i farmaci. Chi si ammala di cancro lo scopre troppo tardi a causa delle attese di mesi per poter fare le visite e le analisi necessarie. "Alcuni pazienti detenuti vengono operati dopo 18-20 mesi dal momento in cui è stato diagnosticato loro il cancro - testimonia Gui -. Abbiamo portato alla Procura della Repubblica storie di persone che non si sono salvate a causa di questi colpevoli ritardi. A volte mancano le autorizzazioni alle visite, banalmente, perché il fax in tribunale è rotto e non ci sono i soldi per ripararlo".

PARLIAMO DI LESIONE DEL DIRITTO DI DIFESA.

Custodia cautelare: richiesta del PM e verifica di sussistenza delle esigenze e controllo di legittimità da parte del GIP ?!?

La riprova che il GIP non è altro che la longa manus del PM la dà “Il Corriere della Sera”. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». Gaetano Riina rimane in carcere perchè arrestato nel luglio 2011 per associazione mafiosa in quanto considerato nuovo capo del mandamento di Corleone. I magistrati della Dda partenopea stanno esaminando gli atti relativi all'inchiesta per valutare una eventuale nuova richiesta di misure cautelari dopo l'annullamento dei provvedimenti restrittivi. Il Riesame di Napoli (presieduto da Angela Paolelli) ha infatti annullato le ordinanze nei confronti non solo di Gaetano Riina, ma di altri otto indagati (tra cui Nicola Schiavone, fratello del capo del clan Casalesi Francesco Schiavone detto Sandokan) motivando la scarcerazione col fatto che il gip di Napoli Pasqualina Paola Laviano, che aveva emesso le ordinanza di custodia cautelare, si era limitato a copiare o riassumere la tesi accusatoria della procura. L'indagine della procura di Napoli - coordinata dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho e dai pm della Dda Francesco Curcio e Cesare Sirignano - ha accertato l'esistenza di una spartizione degli affari all'interno dei mercati ortofrutticoli da parte delle principali organizzazioni criminose del nostro Paese e il monopolio del settore dei trasporti su gomma da parte del clan dei Casalesi, alleato con la mafia siciliana.

"Totale testuale trasposizione del richiesta del pubblico ministero" e carenza di "qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari": con questa motivazione il Tribunale del Riesame di Napoli ha annullato l'ordinanza di custodia cautelare a carico di Gaetano Riina, fratello del padrino di Cosa nostra, accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip campano, sostiene il Riesame, si sarebbe limitato a riproporre la richiesta d'arresto della procura, non sostituendo neanche le parole "questo pm" con "questo gip". Il provvedimento annullato risale al 14 novembre scorso: secondo la Procura di Napoli Gaetano Riina avrebbe preso accordi con il clan dei Casalesi per la gestione del trasporto su gomma di frutta e verdura verso i mercati del centro e nord Italia. Un'ordinanza successiva all'arresto eseguito il primo luglio a Mazara del Vallo, su richiesta della procura di Palermo che aveva portato in carcere Riina con l'accusa di essere il boss di Corleone.

Il Commento di Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un episodio imbarazzante. Un gip appiattito, come si dice in questi casi, sulle tesi del pm tanto da copiare in buona sostanza la sua richiesta di arresto e trasformarla paro paro in un ordine di custodia. Sembra di essere tornati ai tempi di Mani pulite: allora alcuni gip dicevano sempre sì, senza se e senza ma, a tutto quello che le procure volevano. Invece siamo a Napoli e lo scivolone tocca incidentalmente una delle famiglie più note dell'Italia criminale: quella dei Riina. Il tribunale del riesame ha infatti annullato l'ordine d'arresto-fotocopia che riguardava Gaetano Riina, il fratello di Totò, il capo dei capi seppellito in cella sotto una valanga di condanne. Gaetano Riina, meno celebre di Totò, avrebbe fatto affari con i Casalesi mettendo insieme due business: quello dei mercati ortofrutticoli e quello del trasporto su gomma. Ora si dà il caso che il gip valuti le prove raccolte dal pm e decida, se il ragionamento dell'accusa gli è parso convincente, l'arresto, ma qui il gip di Napoli non avrebbe raggiunto nemmeno il minimo sindacale. Il tribunale del riesame, impietoso, parla di «totale, testuale trasposizione della richiesta del pubblico ministero» e carenza di «qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari, omettendo», così, «ogni controllo e ogni valutazione sul risultato delle indagini preliminari». Addirittura, secondo il riesame il giudice si sarebbe dimenticato perfino di sostituire le parole, «questo pm» con «questo gip». Risultato: l'ordine di arresto per concorso esterno in associazione camorristica è finito nel cestino. Gaetano Riina non è stato scarcerato perchè a luglio era già stato ammanettato: questa volta su input della procura di Palermo che lo considera il nuovo boss di Corleone. Dunque, l'aspirante padrino resta dentro. Ma questo nulla toglie alla gravità dell'episodio che conferma un vecchio vizio di parte della magistratura italiana: la sciatteria e insieme la sudditanza culturale dei gip ai pm. Non è sempre così, naturalmente, ma da Mani pulite in poi l'allarmante fenomeno è stato denunciato infine volte dagli avvocati che dovrebbero essere sullo stesso piano dei pm e invece si trovano spesso spalle al muro. Incalzati dai pm e anche dai gip che sembrano ufficiali di complemento dell'accusa. È questa una delle ragioni da pesare a favore della separazione delle carriere, argomento di cui si parla a vuoto da quasi vent'anni. Ma la prima rivoluzione è quella che dovrebbe avvenire nelle teste dei giudici, non di tutti, ci mancherebbe, perchè proprio l'epilogo della vicenda napoletana insegna che molti giudici fanno, e bene, il loro mestiere. Il riesame esclude addirittura che il gip «abbia realmente preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nella richiesta del pm». Un disastro. I giudici hanno annullato l'arresto di Riina ma anche quelli di altri otto indagati, compreso il fratello di un altro celebre padrino: Nicola Schiavone che sta a Francesco detto Sandokan come Gaetano sta a Totò Riina. La girandola si è chiusa con la giustizia rossa di vergogna, ma in concreto poco è cambiato: solo tre indagati, quelli con le posizioni meno pesanti, sono stati scarcerati. Gli altri restano in cella, raggiunti da altri provvedimenti. E la procura corre ai ripari: la Direzione distrettuale antimafia di Napoli sta valutando se chiedere un nuovo arresto per Riina. L'indagine ha scoperchiato un accordo fra Cosa nostra e i Casalesi: alleati di ferro nel riscuotere il pizzo sul commercio di frutta e verdura fra la Sicilia e il resto d'Italia.

Va giù pesante anche Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Si è comportato come lo studente scansafatiche che copia il compito in classe del secchione di turno. Ma il gip del tribunale di Napoli ha fatto di più: ha pure copiato male, facendosi beccare. Il tema in aula non aveva come oggetto la vacanza estiva, bensì l'accusa di concorso esterno in associazione camorristica nei confronti di Gaetano Riina, fratello del capo dei capi di Cosa nostra, Totò. Insomma, un cognome di quelli che pesano e che enfatizza la scarsa attenzione posta dal giudice per le indagini preliminari, il quale si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto formulata dai pm della procura napoletana. Ma più che riassumere, il tribunale del Riesame parla di un vero e proprio copia e incolla, di errori grossolani e clamorosi. Un esempio? Nello scritto il gip non ha sostituito nemmeno le parole "questo pm" con "questo gip", mantenendo inoltre l'espressione "presente richiesta di misura cautelare". Come riporta il Giornale di Sicilia, "il mandato di cattura era stato emesso a novembre 2011 e il gip riteneva Gaetano Riina in combutta con i clan dei Casalesi nella gestione del trasporto su gomma di frutta e verdura verso i mercati del centro e nord Italia". Provvedimento annullato, appunto, dal Riesame campano per "inesistenza della motivazione". La decisione che ha portato al rigetto delle richieste del gip è spiegata molto chiaramente: "Il provvedimento impugnato consiste nella totale testuale trasposizione della richiesta del pubblico ministero, con il solo inserimento di una breve parte introduttiva di carattere meramente giuridico", si legge sul quotidiano siciliano. E come se non bastasse i giudici del Riesame continuano: "Manca il riferimento espresso al provvedimento o all'atto richiamato...così come è del tutto carente qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari". Non è farina del suo sacco, sentenzierebbe un insegnante. La sentenza nei confronti dello stesso gip l'hanno fornita gli stessi giudici del Riesame: "Ha dimostrato di essere venuto meno al suo ruolo, omettendo ogni controllo e ogni valutazione sul risultato delle indagini preliminari, si esclude che abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nella richiesta del pm". Una bocciatura senza appello. Chiamatela negligenza o imperizia. Magari il gip sarà stato oberato di lavoro da non potere dedicare tanto tempo al fratello del boss mafioso. Oppure la sua fiducia nel lavoro del pm di turno era tale da non rendere opportuna nessuna valutazione nel merito. Comunque sia ha copiato (pure male) e si è anche fatto beccare. E non siamo a scuola, ma in un'aula di tribunale. 

Gli strumenti di difesa. Gli interrogatori di garanzia??

In Italia ogni giorno c’è un innocente che viene incolpato ingiustamente ed un colpevole che riesce a farla franca. E’ in questo dilemma che si opera. In virtù di esso, chi conosce bene la Giustizia in Italia, è abituato a conoscere l’uomo nei momenti più tristi della sua vita: o perché è accusato di aver commesso un crimine o perché lo ha subito. In entrambi i casi, l’uomo della strada deve difendersi in giudizio e quindi si prepara ad andare incontro al calvario giudiziario, che comporta il rischio di un crollo non solo economico, ma anche sociale, familiare e psicologico.

Quanti dicono: “Se sei innocente non hai nulla da temere” sono, a dir poco, ingenui o ignoranti, se non addirittura in malafede, perché la realtà nei nostri tribunali è ben diversa, posto che non basta avere ragione, ma occorre ottenerla. Sorprende l’incredulità o l’indifferenza di quei politici che prima fanno compiere la riforma del codice penale e di procedura penale ai penalisti, senza il supporto di veri esperti, e poi s’indignano quando le storture della procedura penale li colpisce direttamente o da vicino. Consideriamo un attimo lo strumento tecnico del cosiddetto “interrogatorio di garanzia” davanti al Gip (ma un’analoga riflessione la possiamo fare, ancor prima, tra l’avviso di garanzia e l’interrogatorio davanti al Pm). L’arresto in flagranza  o il fermo, tecnicamente misure temporanee e precautelari, sono richieste dalla Pg e dal Pm e convalidate dal Gip, ovvero la custodia cautelare è disposta dal Gip su richiesta del Pm. Per questi istituti fa seguito il cosiddetto “interrogatorio di garanzia”, ma garanzia di cosa? Per chi?

L’arresto è la cosa più grave che può capitare ad una persona, perché lo priva della sua libertà personale e gli fa crollare addosso, in un attimo, tutte le certezze di una vita. Ora, una riforma penale dotata di senso umanitario e disposta secondo una giustizia amministrata in conto del popolo (non solo in nome), disporrebbe l’interrogatorio di garanzia prima dell’arresto, non dopo. Difatti, se il Gip dispone l’arresto oggi, ben motivandolo a pena di invalidità, come può il giorno dopo fare marcia indietro? Non sarà invece psicologicamente interessato (perché predisposto, anche in perfetta buona fede) a cogliere di più gli elementi di colpevolezza che quelli d’innocenza?

Il risultato di chi entra dal Gip con una situazione penalmente rilevante e ne esce con un aggravio di responsabilità (secondo il Gip, ovviamente), può essere causato: uno, dal meccanismo bizzarro dell’interrogatorio di garanzia, come suddetto; due, dalla psicologia del reo, ove questi non è consapevole (anche in buona fede) che determinate condotte corrispondono a determinate fattispecie di reato; tre, dalla “devastazione psicologica” del reo, il quale, tratto in arresto e finito sulla gogna mediatica deve fare i conti con lo stigma della colpevolezza (anziché dell’innocenza) fino a prova contraria. Per la persona accusata ingiustamente di un crimine, non contano tanto i provvedimenti giudiziari (se pur gravi e devastanti), quanto il fatto che nessuno sembra più disposto a credergli, da qui il rischio psicopatologico che col tempo tende ad accettare lo stigma della colpevolezza (ed a comportarsi di conseguenza), pur essendo innocente. Questo fattore trae in inganno molti periti psichiatri e giudici, se non sono esperti di criminologia. Togliere la credibilità al reo è il principale indizio del complotto. Ora, capita spesso che una persona quando è raggiunta da un avviso di garanzia grida al complotto; ma chiunque volesse incastrarlo, come primo atto, farebbe di tutto per togliergli l’attendibilità anche e, soprattutto, sui giornali, con articoli telecomandati.

Nei nostri tribunali, periodicamente, si lede, nei confronti dei più deboli, il diritto costituzionale dell’art. 24 al diritto di agire e di difendersi.

Si dichiara nullo il mandato dato dagli analfabeti con crocesegno autenticato dal proprio avvocato.

L’autentica del difensore vale per tutti, meno che per loro.

E’ stato sostenuto che “è inesistente, per difetto di forma, la procura alle liti con crocesegno in calce al posto della firma” (Cass. civ., II, 14 maggio 1994, n. 4718).

In questo caso la Corte di Cassazione dà interpretazione incostituzionale degli art.83 c.p.c., 110 c.p.p. e 39 att. c.p.p., che, violando l’art 3 (diritto di uguaglianza), differenzia l’autenticazione della sottoscrizione data dal difensore tra scolarizzati e analfabeti.

A questo si aggiunge l’impedimento ai soggetti con disabilità motorie di essere parti o testimoni in processi in cui hanno interesse.

Molti dei nostri uffici ed aule giudiziarie hanno delle barriere architettoniche insormontabili per i portatori di handicap. Questi soggetti deboli non possono stanziare o accedere in luoghi di giustizia aperti al pubblico, in quanto mancanti di accessi, bagni e panche idonei a loro.

A tutto questo si aggiunge la vergogna del "Patrocinio a spese dello Stato" ( legge 217/90 - 134/2001 – T.U. 115/2002)

Cos’è ?

Al fine di essere rappresentate in giudizio nei processi penali, civili ed amministrativi, sia per agire che per difendersi, le persone non abbienti possono chiedere la nomina di un avvocato e la sua assistenza a spese dello Stato, usufruendo dell’istituto del “Patrocinio a spese dello Stato”.

A quali condizioni di reddito può essere richiesto?

Per essere ammessi al Patrocinio a spese dello Stato è necessario che il richiedente sia titolare di un reddito annuo imponibile, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a euro 9.723,84, rivalutati annualmente secondo dato Istat. Se l'interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l'istante. Eccezione: si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi. Nel solo ambito dei procedimenti penali, la regola che impone la somma di tutti i redditi prodotti dai componenti della famiglia è contemperata dalla previsione di un aumento del limite di reddito che, a norma dell'art.92 del T.U., è elevato ad euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.

La norma al fine di rendere immediato il diritto di difesa, a nullità assoluta prevede il riscontro all’istanza di ammissione a gratuito patrocinio, notificato all’interessato, entro 10 giorni dalla richiesta. La domanda contiene altresì, in autocertificazione a pena di reità, la dichiarazione di essere in possesso dei requisiti richiesti, quindi non devono essere allegati i documenti che ne attestino la veridicità, come per esempio la dichiarazione dei redditi.

La nomina del difensore, secondo la legge, avviene dopo l’ammissione al gratuito patrocinio.

Invece nella prassi i termini non sono rispettati, si impone l’illegittima allegazione di documenti e l’illegale nomina preventiva del difensore d’ufficio, iscritto nell’apposito elenco. La nullità palese, nonostante le nullità assolute, è sempre respinta. Inoltre, per impedire l’accesso, nei requisiti di ammissione si indicano limiti di reddito inferiori a quelli previsti dalla norma. Non solo delle citazioni a giudizio presso il Giudice di Pace si omette ogni riferimento al diritto di accesso al beneficio. Nel processo amministrativo si rigettano le istanze per mancanza di fumus: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Il gratuito patrocinio dovrebbe essere la tutela per il diritto di difesa dei più poveri e per questo motivo la parte politica di riferimento, secondo le loro enunciazioni, dovrebbe essere la “sinistra”.

Guarda caso, però, fu proprio il governo “D’Alema” con la legge del 2001 a prevedere l’obbligatorietà della scelta del difensore iscritto nell’elenco tenuto dal Consiglio dell’Ordine.

In questo modo il povero non può più scegliersi l’avvocato di fiducia pagato dallo Stato, quant’anche non sia iscritto nell’elenco, com’era prima, ma gli viene imposto un avvocato che a tutti gli effetti è un avvocato di ufficio.

Impedimenti all’accesso e scarse affinità elettive con i “difensori di ufficio” sono le cause delle soccombenze dei poveri nei giudizi in cui sono parti o imputati.

Gli effetti della lesione del diritto di difesa si appalesano dai dati del Ministero della Giustizia: la maggior parte dei detenuti è “E' PRESUNTA INNOCENTE”, IGNORANTE, INDIGENTE.

PARLIAMO DI ERRORI GIUDIZIARI ED INGIUSTA DETENZIONE.

(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni.

Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.

Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.

"Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada".

Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione.

L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.

Giusta pena in giusto processo, ma dai resoconti giornalistici sul caso Stroppiana, il delitto della logopedista Marina di Modica, qualcosa non quadra. Nessuno osa criticare la sentenza. La Cassazione ha condannato Paolo Stroppiana per un delitto in cui si nota: niente arma, niente corpo, niente movente.

La Cassazione ha condannato un imputato per omicidio preterintenzionale che: o doveva essere assolto con formula piena; o doveva essere condannato per omicidio volontario e soppressione od occultamento di cadavere. Non esiste in diritto una via di mezzo !!!

Altro che "Le Iene portano bene". Al procuratore capo della Repubblica di Modica hanno portato solo un po' di fastidio. Il programma cult di Italia 1 si è occupato di un errore giudiziario scaturito da un caso, di cui si occupò Francesco Puleio ai tempi in cui lavorava alla procura del tribunale di Catania. Si tratta di errore giudiziario: la vicenda di Maria Columbu, una donna accusata di terrorismo per colpa di un volantino dai toni minacciosi palesemente risibili.  Columbu ha trascorso 6 mesi in carcere e altri 6 agli arresti domiciliari, prima di essere prosciolta. Maria Columbu viene indagata per terrorismo, perchè in un volantino di stampo brigatista c'era il suo numero di cellulare.

Il servizio di Luigi Pelazza inizia con la presentazione di Maria Columbu che nel 2005 in Sardegna, a 39 anni, madre di 4 bambini, viene arrestata. L’accusa è pesante: terrorismo. In video si presenta una signora disabile su una sedia a rotelle. Secondo gli inquirenti avrebbe conosciuto un uomo su internet e con questo avrebbe incitato i visitatori della rete  a compiere attentati alle più alte cariche dello Stato. Maria Columbu viene condannata a 4 anni carcere. Nel 2010, però è assolta con formula piena.

 

Maria racconta la storia: «anno 2002, bussano alla porta alle 6 di mattina. Era la Finanza. Mi dicono che sono indagata per terrorismo. Alla fine della perquisizione sequestrano i miei due computers, materiale cartaceo e questo volantino.» Mostrandolo a Luigi Pelazza.

Gli inquirenti lo considerano sovversivo, in quanto contiene una stella a 5 punte che rievoca le brigate rosse degli anni 70, ma a differenza di quei manifesti, su questo vi è anche il numero di Maria da contattare per informazioni. E’ un volantino anomalo.

«Ma vi pare – dice Pelazza -  che se uno vuole fare un attentato mette il suo numero di telefono così lo possono rintracciare». Infatti il giudice che assolve Maria, nella sentenza, fa notare proprio questo. Un’altra prova che ha portato all’arresto della donna sono alcuni documenti trovati sul suo computer. Maria spiega che sul computer vi era un file scaricato da internet in cui si parlava di politica con opinioni personali, ove probabilmente si è sfogata "un pochino in modo più colorito del solito per la rabbia che avevo in corpo perché non mi sento protetta o garantita: a morte lo Stato; a morte Berlusconi". Ma non è detto che una cosa si dice e poi si faccia. Anche in questo caso il giudice che l’ha assolta l’ha creduta, tanto che nella sentenza scrive: "non è emerso durante l’attività investigativa l’esistenza di nessuna banda, neanche allo stato rudimentale". Pelazza spiega che tra i file sequestrati vi erano le istruzioni per costruire una bomba e ne spiega le indicazioni: "per prima cosa procuratevi 110 kg di plutonio dal vostro fornitore locale; suggeriamo di contattare l’organizzazione terroristica del luogo". Pelazza dice: è inverosimile, le bizzarre istruzioni terminano con un consiglio: "adesso che avete un ordigno nucleare, potete usarlo per spettacoli pirotecnici o per difesa nazionale". Il giudice che ha assolto Maria ha considerato le istruzioni: risibili, cioè ridicole ed in prigione non ci doveva proprio andare.

Luigi Pelazza spiega che le persone che finiscono in carcere ingiustamente c’è ne sono tante ogni anno.

A questo punto del servizio vi è l’intervista all’avv. Gabriele Magno dell’Associazione vittime degli errori giudiziari che spiega che secondo le statistiche dell’Eurispes negli ultimi 10 anni sono state depositate 8 mila richieste di indennizzo per ingiusta detenzione.

Ci si chiede, però, al di là dei soldi che poi paga il cittadino e non i magistrati, perché si fanno errori così grossolani.

Per questo motivo Luigi Pelazza si reca dal sostituto procuratore che ha chiesto ed ottenuto la condanna di Maria. Appunto Francesco Puleio.

Il procuratore Puleio, ha ricevuto nel suo ufficio del tribunale di Modica la "Iena" Luigi Pelazza, con cui si è intrattenuto pochi minuti.

Pelazza: «l’intervista riguarda questa donna, non so se lei se la ricorda, si chiama Columbu Maria Antonia».

Puleio infastidito chiede che all’interolcutore: «cosa vuole».

Pelazza: «abbiamo chiesto che indagini ha fatto la Procura per chiedere la condanna di queste persone. Quando ho letto le istruzioni per fare la bomba nucleare (per prima cosa procuratevi 110 kg di plutonio), la domanda che mi son fatto è come ha fatto a credere una cosa del genere».

Puleio in palese difficoltà risponde: «guardi sono passati 7 anni».

Pelazza «Ho capito, ma l’indagine è sempre quella».

Puleio: «non credo che le cose che lei mi mostra corrispondano a verità».

Pelazza: «sono atti processuali…».

Puleio: «me li lasci guardare con attenzione e le darò una risposta esauriente».

Pelazza: «se è stato fatto un errore così gigantesco».

Puleio: «lo dice lei, questo lo dice lei…ma quale errore».

Pelazza: «la Cassazione, lo dice la Cassazione».

Poi Puleio ha messo alla porta Luigi Pelazza a causa del tono a lui poco gradito che stava assumendo l'intervista: «maresciallo li accompagna i signori? Grazie ed arrivederci».

Pelazza: «però mi scusi».

Puleio: «mi faccia avere le sue domande, le darò le risposte. Poi rimanda l’intervista ed io vorrei parlare….conoscendo le cose. Ripeto sono cose di 7 anni fa. Mio figlio andava alla seconda elementare, adesso è al liceo».

Pelazza: «un bambino di 7 anni avrebbe capito che si trattava di una bufala, no?»

Pelazza poi spiega che esce dalla Procura ed invia al procuratore capo di Modica le domande per e-mail e questi dopo circa un’ora risponde che si rende disponibile ad un’intervista, ma solo se si firma un documento (e lo mostra): spiegando che il documento contiene delle condizioni, ossia: «se l’intervista non dovesse uscire come piace a lui – dice Pelazza - questo magistrato, non sappiamo con quale potere, non ci darebbe modo di darvene conto (rivolto ai telespettatori)».

Il giorno dopo Pelazza torna in Tribunale, ma un addetto alla sicurezza ferma il cameraman all’entrata, spiegano che non può entrare su disposizione del procuratore.

Pelazza sale da solo con in tasca solo un registratore e fa presente al procuratore che: «la donna si è fatta 1 anno di carcere, lei lo sa che è così…»

Puleio: «non è così….»

Pelazza: «non ci dà la possibilità di far vedere…»

Puleio: «lei sta registrando tutto…»

Pelazza: «io sto registrando. Lei mi può anche far arrestare, peggio ancora.. »

Puleio: «no, no, non è il caso. Vede le cose vanno inserite nel loro contesto, vanno contestualizzate. Se lei si presenta normalmente così…vestito da beccamorto, può sembrare un tipo balzano. Grazie ed arrivederci».

A  questo punto Puleio spinge fuori dall’ufficio Pelazza che dice: «visto che però parla, perché mi spinge? perché mi spinge? Visto che però parla solo lei….questa è la democrazia come la interpreta lei, comunque noi abbiamo registrato e questo andrà in onda. Io glielo sto dicendo, arrivederci».

Pelazza a chiusura del servizio spiega che ogni anno in Italia 8000 persone finiscono in carcere ingiustamente.

Tutto documentato dalle "Iene" con la solita telecamera nascosta, dal momento che al cameraman era stato fatto divieto di entrare in tribunale.

E così Pelazza ha documentato l'intervista (o meglio, la tentata intervista) con tanto di reazione stizzita del procuratore, che poi fa accomodare la "Iena" fuori dal suo ufficio. Il servizio, andato in onda nella puntata de "Le Iene" di mercoledì 26 ottobre 2011, è stato visto praticamente da milioni di italiani e migliaia di modicani, curiosi di capire su cosa verteva l'intervista al procuratore. Puleio non ha rilasciato queste dichiarazioni all’inviato delle Iene perché, a suo avviso, trattasi di una trasmissione irriverente e burlesca.

A tutto ciò è conseguito solo indifferenza ed insensibilità al problema: nella società civile e sui media. Anzi, proprio sulla stampa, specialmente locale, si è ossequiosamente dato risalto alla piccata rimostranza del procuratore, omettendo il contenuto del servizio. Della nota del procuratore qui si da conto in calce al resoconto del servizio, per non essere tacciati di partigianeria anti magistrati e per rendere chiaro ed asettico quanto è successo. Nota che il procuratore ha distribuito ai media. lo stesso procuratore si è sentito in dovere di giustificare l'accaduto, sottraendo tempo al suo lavoro,  e perchè ha deciso di mettere alla porta Pelazza, senza rilasciare dichiarazioni sul caso in oggetto, di cui lo stesso procuratore capo di Modica scrive diffusamente nella sua nota che riportiamo di seguito in versione integrale.

"Facendo seguito a delle notizie di stampa, desidero brevemente fare chiarezza su quanto avvenuto a proposito di un servizio della trasmissione televisiva «Le Iene» e concernente un processo da me trattato quale sostituto procuratore della Repubblica a Catania.

La scorsa settimana, un inviato della trasmissione si è presentato presso il mio ufficio, chiedendomi una intervista in ordine al processo celebrato a Catania nei confronti, tra gli altri, della signora C.M.A.

Mi sono dichiarato disponibile all’intervista, chiedendo a tale inviato – trattandosi di una trasmissione di intrattenimento e non già di informazione – un impegno a trasmettere l’intervista senza interruzioni o cesure e senza tagli o manipolazioni delle dichiarazioni rese che stravolgessero o modificassero il mio pensiero.

L’inviato mi ha risposto di non essere in grado di garantire il rispetto di tali richieste.

Ho allora riferito al mio interlocutore che non avrei rilasciato l’intervista e che non consentivo alla diffusione televisiva di immagini o dichiarazioni che mi riguardassero, accettando soltanto, per puro spirito di cortesia, di rendergli alcune dichiarazioni informali, al fine di esporre il mio punto di vista sul reale svolgimento delle vicende processuali.

Ho così chiarito quanto segue:

La signora C.M.A. è stata processata e sottoposta alla misura degli arresti domiciliari per i delitti di associazione con finalità di terrorismo ed eversione e di propaganda sovversiva per avere, tra l’altro, diffuso via internet (attraverso i siti, nella sua disponibilità, anarchyboom, amortelostato, morteaberlusconi) materiale teso a fomentare il sovvertimento delle istituzioni e lo scontro violento con le forze dell’ordine, nonché per aver diffuso istruzioni per il confezionamento, con modalità artigianali ed utilizzando materiali di facile reperimento, di ordigni esplosivi di vario genere (bomba acida, lampadina esplosiva, pipe bomb ecc.);

Nel corso del processo, la responsabilità della signora C.M.A. per i fatti sopra ricordati è stata valutata dapprima dai tre componenti della Sezione reati contro l’ordine pubblico e l’eversione della Procura di Catania, quindi è stata affermata dal G.i.p. e dal Tribunale del riesame di Catania, ed ancora dal G.u.p. e dalla Corte di appello di Catania;

Avverso le sentenze di condanna la signora non ha mai presentato ricorso, dimostrando con ciò di riconoscersi colpevole, ovvero di non riconoscere l’autorità dello Stato;

Nel corso del processo, l’ipotesi delittuosa di propaganda sovversiva è stata abrogata con legge n. 85 del 2006;

Solo dopo diversi anni, e su ricorso di un altro imputato, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Catania;

La Corte di cassazione non ha posto in dubbio le condotte ascritte all’imputata, ritenute certe nella loro materialità, ma ha osservato che mancava la prova della esistenza di una struttura organizzativa di reale pericolosità. In esito al rinvio, la Corte di appello di Catania, nel corso di un nuovo giudizio, ha assolto l’imputata.

Non mi risulta che questi dati, da me esposti all’inviato, siano stati riportati nel corso della trasmissione, la quale, come anticipavo, è una trasmissione di intrattenimento, con finalità irridenti e burlesche che nulla hanno a che vedere con la corretta informazione giornalistica".

Il procuratore capo di Modica Francesco Puleio.

Una premessa ed una considerazione va fatta: in Italia solo i programmi di intrattenimento fanno informazione (vedi Striscia la Notizia e Le Iene), poi nell’errore giudiziario o nell’ingiusta detenzione la responsabilità va sempre ripartita tra chi chiede la condanna o la misura cautelare e chi dispone l’accoglimento dell’istanza. E’ risaputo che i magistrati giudicanti spesso sono dei passacarte, proprio perché sono colleghi dei magistrati inquirenti. La colleganza non permette sgarbi. Per questo i PM sono maggiormente responsabili e non si devono coprire con le manchevolezze dei colleghi. Se poi gli imputati preferiscono, pur innocenti, di agevolarsi della prescrizione, di adottare riti alternativi e patteggiativi o di non avvalersi dell’impugnazione, un motivo ci deve pur essere. Spesso si ritiene vano il tentativo di affermare una realtà storica tanto palese da non essere attestata con una verità giudiziaria.

“Cento Volte Ingiustizia” di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (Mursia). Cento casi di errori giudiziari, ricostruiti con l'unico intento di sollevare una riflessione approfondita su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. La prefazione è affidata a Roberto Martinelli. L'opera vede anche l'intervento di altri quattro addetti ai lavori: il giudice Ferdinando Imposimato; l'avvocato Carlo Taormina, docente di procedura penale presso l'Università di Tor Vergata di Roma; Severino Santiapichi, per anni presidente della Corte d'Assise di Roma, ex procuratore generale presso la Corte d'Appello di Perugia; Renato Borruso, ex magistrato della Corte di Cassazione.

Dopo 18 anni di carcere nei penitenziari più duri e difficili d’Italia, lo Stato si è accorto che sei uomini erano estranei alla strage di Via D’Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, e li rimette in libertà senza neanche una parola di scuse. Sei uomini, alcuni comunque vicini alle cosche, altri totalmente estranei, che entrarono in carcere ragazzi e ne escono, dopo 18 lunghi anni, vecchi nell’anima e privi di ogni speranza. Uomini che, nel frattempo, hanno perso la famiglia, il lavoro e persino la dignità; uomini cui lo Stato ha chiesto di pagare un prezzo altissimo per un delitto che non solo non hanno commesso ma che, addirittura, con ogni probabilità, è stato lo stesso Stato ad ordinare. Vittime sacrificali di un sistema perverso, in cui la giustizia si trasforma sempre più in ingiustizia. Vittime di un sistema giudiziario che non paga mai per i propri errori, anche per i più gravi, e che per le proprie decisioni affrettate ed ingiuste ha prodotto, solo nel 2010, come ci dice Eurispes, ben 8000 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. 8000 richieste che, al di là degli aridi numeri, equivalgono ad 8000 persone che hanno visto rovinata la propria vita per errori giudiziari per i quali nessun giudice o pubblico ministero pagherà mai il conto. Come nascondere l’indignazione per uno Stato che non difende i suoi cittadini e li lascia in balia delle Procure? Fa rabbrividire il giustizialismo di chi, come fosse una partita di calcio, fa il tifo per le procure a prescindere, o per chi teorizza il “meglio un innocente in galera che dieci colpevoli liberi”; cari tifosi questa bella storia raccontatela alle famiglie, ai figli, agli amici di quell’uno finito in galera ed imprimetevi bene in mente la loro risposta. Se poi vi resta tempo andate a vedere cosa è accaduto alla procura di Taranto ed alla Procura di Potenza: scoprirete un mondo diverso in cui non sempre i buoni, come nei film, indossano toghe ed ermellini. E ricordatevi che gli altri siamo anche noi.

Non c'è colore politico o condizione economica e sociale che tenga, quando si è subìto un errore giudiziario o un'ingiusta detenzione. Dal dopoguerra al 2003 quattro milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o ingiusta detenzione o prosciolti perché il fatto non sussiste. Questo enorme numero è già vicino ai cinque milioni, se esteso al tempo odierno. Per quantità si tratta dell’intera popolazione di Toscana e Umbria assieme. Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.

La macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva. Meno male.

Secondo un rapporto del ministero della Giustizia, su 53 mila detenuti complessivi 16.740 sono in attesa del primo giudizio, 9.600 dell’appello, 3.200 del giudizio della Cassazione: il totale di questa popolazione carceraria "sospesa" è assai maggiore dei 22 mila detenuti perché condannati in via definitiva.

Questo succede: l’Italia è lo Stato maggiormente sanzionato dalla Corte europea. I capi d’accusa di Strasburgo: lentezza nei processi e nei risarcimenti. Ma quanto costa al “Bel Paese” la sua fatale distrazione? Parliamo in termini economici innanzitutto.

Le statistiche del ministero parlano di una media di 8000 richieste di riparazione per ingiusta detenzione l'anno, di cui ne vengono risarcite 2000. Ogni giorno di ingiusta detenzione costa allo Stato 235 euro che vengono ridotti della metà in caso di arresti domiciliari, in vista della minore afflittività. Il numero dei risarcimenti si eleva esponenzialmente a 36mila casi l'anno per l'irragionevole durata del processo (legge Pinto). Infine i casi di errore giudiziario, con revisione processuale, sono circa 100 l'anno. Ci sono molte storie limite, ma a nostro avviso è peggiore l'abuso che si fa della custodia cautelare, spesso inflitta per pericolo di fuga o di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove quando non ce ne sarebbe spesso bisogno. E sono molte le Corti d'Appello che condannano il Ministero dell'Economia, quindi gli stessi contribuenti, a riparare il danno.

Esempio eclatante di parte di quegli sprechi per cui il nostro Ministro dell’Economia si mette le mani nei capelli, nella ricerca costante di trovare una quadra al deficit nazionale prima che la falla nella carena diventi irreparabile e il veliero italiano inizi a sprofondare tra i pesci nelle profondità marine.

Parliamo adesso dei costi umani: per tutti la storia va sempre allo stesso modo. Alle 7 del mattino ti suonano alla porta di casa, con un mandato di perquisizione, e non puoi fare nulla. La vita ti cambia in un istante e non sei più padrone di nulla: sei entrato all’interno di un complesso sistema, che è la procedura, che è il diritto, che ti travolge e ti guida. Diventi un elemento passivo e il tuo destino viene affidato al giudizio, alle parole e all’intelletto di altre persone, spesso incapaci a ricoprire quel ruolo, nessuna di queste che ti conosce, a nessuno importa chi tu sia se non nella circostanza per cui sei imputato. Sei solo un fascicolo.

Ma sarà vero che tra le cause dei numerosi suicidi che avvengono dietro le sbarre ci sia proprio l'errore giudiziario? Molte volte è così. Il carcere fa la sua parte nelle persone psicologicamente deboli. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che le è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia, agli amici. Sono questioni che toccano tutti gli esseri umani; perché l'argomento non è strumentalizzabile a livello politico e non può non unire. E' per questo si è deciso di offrirvi un'analisi dettagliata, precisa e puntuale sugli errori commessi dalla macchina della giustizia negli ultimi anni, dal più famoso di Enzo Tortora ai tanti ragazzi messi dietro le sbarre ingiustamente. Per troverete pubblicata una storia, delle vite e dei sentimenti distrutti dalla giustizia ingiusta per cercare di dar voce, accanto ai tanti urlatori forcaioli, a chi non può parlare.

TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?

Da "Il Secolo d'Italia" di mercoledì 8 giugno 2011

TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI? Da "Articolo 643" lo stop al carcere ingiusto e all'abuso della custodia cautelare. Anche un solo giorno di carcere può cambiare la vita di un uomo. Ricco o povero, famoso o nell'ombra, di destra o di sinistra. Non c'è colore politico o condizione economica e sociale che tenga, quando si è subìto un errore giudiziario o un'ingiusta detenzione. Lo slogan è "tutti vittime di fronte alla legge": sono oltre duemila le persone che ogni anno vengono risarcite dallo Stato per essere finite dietro le sbarre senza colpa. È di qualche tempo fa la proposta di legge targata Pdl, presentata alla Camera da Giuliano Cazzola, di istituire una Giornata della memoria per le vittime di errori giudiziari. Dal 2012, ogni 18 maggio, giorno emblematico della morte di Enzo Tortora, dovrebbero essere protagoniste quelle persone, note e meno note, le cui storie sono accomunate dallo stesso identico dramma. Perché quella perquisizione in casa alle 7 del mattino, quell'ordinanza di custodia cautelare e quei giorni da detenuto hanno cambiato per sempre la loro vita. Lo sa bene l'avvocato bolognese Gabriele Magno, presidente dal 2000 di "Articolo 643".

Dopo la Giornata della memoria per le vittime del terrorismo dedicata alle toghe, il Pdl chiede che sia istituita anche una Giornata della memoria per le vittime degli errori giudiziari. Promotore dell'iniziativa, Giuliano Cazzola. La data scelta è emblematica, il 18 maggio, giorno della morte di Enzo Tortora. Cosa ne pensa?

Magno: «Ovviamente con noi la proposta sfonda una porta aperta. Le statistiche del ministero parlano di una media di 8000 richieste di riparazione per ingiusta detenzione l'anno, di cui ne vengono risarcite 2000. Ogni giorno di ingiusta detenzione costa allo Stato 235 euro che vengono ridotti della metà in caso di arresti domiciliari, in vista della minore afflittività. Il numero dei risarcimenti si eleva esponenzialmente a 36mila casi l'anno per l'irragionevole durata del processo (legge Pinto). Infine i casi di errore giudiziario, con revisione processuale, sono circa 100 l'anno. Ci sono molte storie limite, ma a nostro avviso è peggiore l'abuso che si fa della custodia cautelare, spesso inflitta per pericolo di fuga o di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove quando non ce ne sarebbe spesso bisogno. E sono molte le Corti d'Appello che condannano il ministero dell'Economia, quindi gli stessi contribuenti, a riparare il danno.»

Quando e come nasce "Articolo 643", quali i casi più significativi a cui si è ispirata e qual è l'attività di intervento dell'associazione?

Magno: «L'associazione, che prende il nome dall'articolo 643 del codice di procedura penale sulla riparazione dell'errore giudiziario, nasce undici anni fa. L'occasione è stato uno studio dell'Eurispes, dove venivano fuori cifre spaventose: dal `48 al `99 erano state 4 milioni le persone che avevano subìto il carcere ingiustamente. E non c'era nessuna associazione che si occupasse del fenomeno. Certamente il caso emblematico che tutti conoscono è quello del giornalista Enzo Tortora, ma i casi sono troppi e tanti. Ma nel tempo, tappa dopo tappa, qualcosa è cambiato, in meglio, per fortuna. Prima del `99, data dell'entrata in vigore della legge Carotti, il risarcimento massimo era di 100 milioni delle vecchie lire, anche per vent'anni di carcere. E solo una persona ebbe l`indennizzo massimo: Clelio Darida, ex sindaco di Roma, guardasigilli e sottosegretario in varie fasi di governo, rappresentò il caso limite, per 90 giorni di carcere ingiusto. Con la legge Carotti, invece, si è passati dalla cifra massima di 100 milioni a 1 miliardo, quindi 500mila euro attuali, in caso di abuso della custodia cautelare. Altra data importante, per l'errore giudiziario, è stata il 2003, quando si è stabilito che non esiste un limite massimo di indennizzo, perché è entrata in auge la nuova figura giuridica del danno esistenziale. Caso emblematico è quello di Daniele Barillà, protagonista di uno scambio di persona e per questo accusato ingiustamente di essere un narcotrafficante. Dopo che l'Escobar della Brianza, così fu soprannominato dopo l'arresto, era stato condannato a 15 anni, la Corte d'Appello di Genova gli ha riconosciuto, per i sette anni e mezzo di carcere patito da innocente, il maxi-risarcimento di 4 milioni e 600mila euro per il danno esistenziale oltre a quello materiale.»

Dopo tanti anni di attività c'è un caso che l'ha maggiormente colpita?

Magno: «In realtà sono molti i casi a cui siamo affezionati. Fra i più noti a livello mediatico quello che ha coinvolto Gigi Sabani, che dopo la sua disavventura giudiziaria disse: «Ora rido, ma il dolore per quell'ingiustizia mi è rimasto. La spina riguarda il mio caso giudiziario. Un terribile errore che può capitare a tutti». Penso al musicista e compositore Lelio Luttazzi, che proprio mentre si trovava all'apice del suo successo, nel giugno del`70, fu arrestato con l'accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti assieme all'attore Walter Chiari. Dopo circa un mese di carcere fu libero di uscire, completamente scagionato. E ancora, tra i casi più noti, quello del portiere di via Poma Pietrino Vanacore: il suo ultimo biglietto, lasciato in macchina, parlava abbastanza chiaro. Ma ci sono anche storie di gente comune, che prendiamo ugualmente a cuore, soprattutto quelle legate a episodi di violenza sessuale su donne e minori, perché in questi casi, oltre all'onta, c`è un discorso dei problemi che sorgono in carcere con gli altri detenuti. La vita di un uomo cambia anche con un solo giorno di carcere: per tutti la storia va sempre allo stesso modo. Alle 7 del mattino ti suonano alla porta di casa, con un mandato di perquisizione, e non puoi fare nulla. Per me fare questo lavoro è ormai una questione etica. Per un avvocato difendere gli innocenti è un enorme privilegio.»

E Pensa che tra le cause dei numerosi suicidi che avvengono dietro le sbarre ci sia proprio l'errore giudiziario?

Magno: «Molte volte è così, non posso escluderlo. Il carcere fa la sua parte nelle persone psicologicamente deboli. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che le è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia, agli amici. Sono questioni che toccano tutti gli esseri umani, ricchi e poveri, uomini di destra e di sinistra. Perché l'argomento non è strumentalizzatile a livello politico e non può non unire.»

E Come associazione attiva sul tema, avete mai presentato delle proposte per leggi "ad hoc" che migliorino la condizione delle vittime della malagiustizia?

Magno: «Sono due le proposte legislative più rilevanti di cui ci facciamo promotori. La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione: la richiesta di indennizzo, differentemente dall'errore giudiziario, subisce un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima su un errore di questo o quel magistrato. E, se passano i due anni, lo Stato non pagherà più. Vogliamo che i due anni vengano sostituiti con l'inciso "in ogni tempo", per dare modo a chiunque di rivalersi. Dall'anno `89 al 2011 sono stati una sessantina i casi di magistrati "responsabili" di errore, e una metà sono stati stralciati. Altra proposta, creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro, perché vengano riabilitate. Ad esempio, penso ai concorsi pubblici, dove la condizione delle vittime della malagiustizia dovrebbe essere equiparata, in un certo senso, a quella dei portatori di handicap. E` una questione di riabilitazione, di tornare alla vita prima di quelle.

E ancora Magno Da "Famiglia Cristiana" di martedì 1 novembre 2011.

«Negli ultimi dieci anni ci sono state 8.000 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. È un numero enorme. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro. Noi chiediamo l’abolizione di questo tetto, così come chiediamo, nel caso di errore giudiziario, che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di equa riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall’assoluzione».

A parlare è l’avvocato Gabriele Magno, fondatore dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari. L’associazione, spiega, è nata dieci anni fa, quando lui e altri avvocati e giuristi si sono resi conto che non esisteva alcuna realtà che tutelasse le vittime della giustizia. E, oltre all’errore giudiziario e all’ingiusta detenzione, si occupa anche di una terza tipologia di problemi: l’eccessiva lunghezza dei processi. Naturalmente tutte queste associazioni tematiche che aspirano alla prima genitura ed all'esclusiva, molto attente ad non urtare la suscettibilità dei magistrati, causa del male, non fanno mai riferimento all'Associazione Contro Tutte le Mafie, colpevole di non santificare i magistrati, colpevole di non essere di sinistra e colpevole di non guardare in faccia nessuno e di dire sempre la verità, dando spazio anche a chi la ignora o la emargina.

«La lunghezza ingiustificata dei procedimenti italiani ha già portato a 38 mila ricorsi», aggiunge l’avvocato Magno. «Se il processo è troppo lungo non è più giustizia. In giurisprudenza è cosa nota: un processo deve avvenire in aula e non solo sulle carte; dev’essere immediato, cioè a ridosso dei fatti; dev’essere ragionevolmente rapido. Se no è un processo ingiusto».

Avvocato, perché l’Italia soffre da sempre di una giustizia lenta e inceppata?

«Perché, pur avendo inventato il diritto, ci siamo dimenticati di un suo caposaldo, che era già chiaro all’epoca dei romani: il precedente giudiziario è vincolante. È il principio su cui si basa la giustizia americana: la Corte Suprema emette 120 sentenze l’anno, ma tutti i tribunali e in tutti i gradi di giudizio vi si devono uniformare».

E in Italia, invece?

«I nostri riferimenti di giurisprudenza provengono dalle leggi. Il Parlamento legifera e il giudice deve applicare. Per farlo deve interpretare la legge. Le sentenze della Corte di Cassazione non sono vincolanti. Fanno giurisprudenza, ma ogni magistrato, ogni avvocato e ogni giudice trovano nella storia giurisprudenziale tutto e il contrario di tutto. La legge, poi, arriva spesso molto tardi rispetto al fenomeno che deve normare, e talvolta risulta inefficace già fin dal suo nascere. Ammesso che si faccia la legge...».

Che cosa intende dire?

«Che il Parlamento spesso agisce in base a ragioni di maggioranze, di opportunità del momento politico, di convenienza di una parte o dell’altra».

Come dev’essere la durata di un “processo giusto”?

«I tempi sono noti: 3 anni per il primo grado, due anni per il secondo, e 1 anno per la Cassazione, l’ultimo livello di giudizio».

E invece?

«E invece basta guardare ai ricorsi alla casistica di condanne dell’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per vedere quanti processi, specie civili, durano quindici, venti, o anche oltre 25 anni. In Italia è diventato quasi normale che si fissi l’udienza successiva di un processo civile due anno dopo, talvolta anche tre. Come si può aver fiducia in una giustizia che lavora con questi tempi?»

Negli ultimi anni ci sono stati alcuni casi di risarcimenti clamorosi, di milioni di euro…

«È vero. Riguardano processi di equa riparazione per errori giudiziari (il risarcimento nel caso del vero e proprio errore si chiama così). Ad esempio, il “caso-Barillà”, uno dei casi storici di cui si è occupata l’associazione, ha ottenuto il risarcimento di 4,6 milioni di euro. In quella vicenda, oltre all’errore giudiziario, c’era il problema di 5 anni e mezzo di ingiusta detenzione. Ma la vera novità è che per la prima volta era stato accolto dal giudice il concetto di risarcire il danno esistenziale, ossia le conseguenze pesantissime subite dalla vittima dell’errore che ne peggiorano definitivamente la qualità della vita. Il danno esistenziale va ad aggiungersi agli altri: danno morale, biologico, e via dicendo».

Qual è la vostra posizione? Che siano i magistrati in prima persona a pagare l’errore?

«No, noi non siamo del “partito anti-magistrati”. Anzi, pensiamo che la contrapposizione non aiuti affatto la giustizia. La nostra posizione è equilibrata: i magistrati possono sbagliare, come tutti; non ci interessa di punire i magistrati, ma che venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. Pensiamo, tra l’altro, che di fronte al rischio dell’indennizzo, il magistrato si autolimiterebbe e porrebbe molta attenzione nel prendere certi provvedimenti».

Non c’è il rischio di limitare l’autonomia della magistratura?

«L’ultima cosa che vogliamo è limitarne l’autonomia, che è uno dei capisaldi della giustizia. Il magistrato è e deve rimanere autonomo».

È sempre del giudice la colpa dell’errore?

«Per la mia esperienza no. Lo è nel 50 per cento dei casi, l’altro 50 è di noi avvocati. Sapesse quanti ne vediamo commessi dai colleghi: ricorsi dimenticati, scelte difensive sbagliate, errori procedurali. Tanta giustizia ingiusta viene anche da scarsa preparazione di una parte della nostra categoria».

EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE. La verità che mancava sul funzionamento del processo penale in Italia.

Nell’aprile del 2007 l’Eurispes e la Camera Penale di Roma, a suggello di un accordo operativo e scientifico, organizzavano e realizzavano una indagine – la prima del suo genere – volta a verificare, secondo i criteri rigorosi della scienza statistica, che cosa accadesse davvero nelle aule giudiziarie della Capitale impegnate nella celebrazione dei processi penali ordinari. L’idea della ricerca nasceva dalla constatazione, pur tuttavia non documentata fino a quel momento, che l’esperienza quotidiana nelle aule di giustizia offrisse indicatori sul processo penale non espressi dai dati generali raccolti ufficialmente, che non spiegano in definitiva quali siano le vere ragioni del malfunzionamento del sistema. Si è, insomma, in grado di misurare con esattezza la temperatura febbrile del paziente, ma non si ha la minima idea delle cause della malattia.

È nata così l’idea di una ricerca destinata a costituire un punto di non ritorno nelle annose dispute sulle cause della durata irragionevole dei processi penali in Italia.

Ad un anno di distanza la stessa indagine è stata ripetuta con un ambizioso obiettivo: monitorare i procedimenti attraverso l’analisi di un campione statistico nazionale e comparare i risultati con quelli già ottenuti su Roma. Si è trattato di un impegno organizzativo davvero straordinario, che ha coinvolto ben 27 Camere Penali territoriali secondo le indicazioni di natura statistica elaborate dall’Eurispes, e con la conseguente analisi di un numero imponente di dati da analizzare: 12.918 schede, ciascuna corrispondente ad un processo penale monitorato. Una indagine innovativa, realizzata sul campo con l’obiettivo di far emergere i veri problemi che attanagliano il nostro sistema giudiziario, attraverso il monitoraggio dei processi che si sono svolti nei Tribunali di: Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lucca, Macerata, Melfi, Milano, Modena, Modica, Monza, Napoli, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Roma, Salerno, Sassari, Torino, Trani, Trieste, Varese e Venezia.

Le giornate di rilevamento sono state organizzate con lo specifico obiettivo di ricostruire e rispettare nel modo più fedele l’organizzazione delle udienze nei singoli Fori considerati. Il monitoraggio ha rigorosamente seguito l’intero arco temporale delle singole udienze: tutti i rilevamenti sono iniziati con l’apertura della udienza, e si sono conclusi con la chiusura della udienza stessa. Le proporzioni tra udienze collegiali (8%) e monocratiche (92%) monitorate sono sostanzialmente rispettose del rapporto percentuale tra processi monocratici e collegiali quotidianamente celebrati in Italia.

Quanto incide, nel normale corso di un processo penale, l’impedimento a comparire del difensore perché impegnato in altro processo, e quanto la mancata citazione dei testimoni per l’udienza da parte del Pubblico Ministero? Quanto incide la nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con conseguente regressione della fase processuale, e quanto l’assenza del Giudice titolare? E quanto gli errori nella notifica degli atti, o le assenze dell’interprete o dei periti, o la mancata comparizione dei testimoni pur regolarmente citati per l’udienza, a cominciare da agenti o ufficiali di Polizia giudiziaria?

Queste le domande alle quali l’indagine svolta dall’Eurispes in collaborazione con l’Unione Camere Penali Italiane ha voluto dare risposta. L’analisi comparata di alcuni dei dati principali di questa ricerca, se da un lato offre in qualche caso la conferma di una Italia “a due velocità”, sembra in realtà indicare piuttosto che la crisi strutturale del processo penale, nei suoi quasi esclusivi profili organizzativi ed amministrativi, non salva alla fine dei conti nessuna area del Paese, restituendoci una inconsueta unità del Paese nel segno di un naufragio della giustizia penale.

La scarcerazione di sei condannati all'ergastolo per la strage di via D'Amelio, a diciannove anni dall'eccidio che uccise Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, per lo Stato italiano che nel 1992 fu dilaniato dalle bombe mafiose rappresenta allo stesso tempo un successo, una sconfitta e un mistero ancora aperto. È un successo, perché dimostra che le istituzioni (in questo caso la Procura e la Procura generale di Caltanissetta) hanno la capacità e la forza di ritornare sui passi sbagliati, e di tirare fuori di galera chi stava scontando una pena ingiusta. Anche quando i condannati sbagliati non hanno nomi importanti, ma anzi fanno parte di un girone sociale molto vicino a quello dei reietti. È però anche una sconfitta, perché per arrivare al riconoscimento dell'errore (che probabilmente poteva essere individuato anche nel corso dei processi) ci sono voluti troppi anni e soprattutto un mafioso, Gaspare Spatuzza, che dopo un decennio di prigione s'è «fatto pentito» e ha deciso di raccontare una nuova verità, decisamente più credibile di quella giudiziaria, nonché definitiva, ricostruita fino a quel momento. Fosse rimasto in silenzio, gli innocenti avrebbero finito i loro giorni in cella e l'Italia sarebbe rimasta con una falsa verità sulla fine di Paolo Borsellino. Una fine sulla quale la riapertura del processo aggiunge un ulteriore, inquietante mistero. Perché a questo punto non si tratta più soltanto di scoprire come mai l'erede di Giovanni Falcone fu ucciso con tempi, modalità e conseguenze che facevano e fanno sospettare interessi e regie che vanno oltre gli esecutori e mandanti mafiosi. Ora bisognerebbe scoprire perché le indagini dell'epoca, basate fra l'altro su tre falsi pentiti che fecero arrestare e condannare almeno sette innocenti, presero quella direzione. Fu solo un clamoroso errore investigativo oppure un depistaggio orchestrato ad arte? E in questo secondo caso, per conto di chi? Per coprire che cosa? Domande rimaste senza risposta, anche dopo la liberazione di chi è stato condannato ingiustamente.

Dal 18 luglio 1994 e fino al 28 ottobre 2011 è stato uno degli ergastolani accusati della strage di via d'Amelio. Ha attraversato l'inferno di Pianosa, che lui chiama la discoteca perché "si ballava dalla mattina alla sera per le sevizie", è rimasto in isolamento al 41 bis, ha perso il suo lavoro al Comune come spazzino, portando addosso il marchio di essere uno dei mafiosi che ha preparato l'attentato al giudice Borsellino. Gaetano Murana, scarcerato con altri cinque, compie 54 anni il 4 novembre: il suo primo compleanno da uomo libero dopo 18 anni in cella. Si racconta nella sua prima intervista a “La Repubblica”. Ha il viso scavato, adesso porta gli occhiali e ha le mani gonfie e rosse di chi ha maneggiato tanti detersivi per tirare a lucido le troppe celle in cui ha vissuto. Al polso l'unico "souvenir" che gli ricorda gli anni trascorsi in galera: un orologio Swatch di plastica, l'unico ammesso.

Da dove cominciamo signor Murana, dall'inizio o dalla fine?

«La conclusione dei miei giorni in carcere è assolutamente la parte più bella. A Voghera ho lasciato l'infinita tristezza per una falsa verità che non mi apparteneva e una pentola con il sugo di carne fatto con le mie mani, che, senza offesa, è uno dei migliori che si siano mai assaggiati nelle celle italiane. E io di carceri ne ho girate ben 8 in diciotto anni. È andata così: stavo arriminannu il sugo per non farlo appigghiare quando un agente è entrato nella mia cella di Voghera. Mi ha portato in infermeria dal capoposto che mi ha chiesto quale fosse la mia residenza. Lì ho capito e mentre già piangevo è stato il capoposto a dirmi: "Lei è liberante". A quel punto i miei compagni mi hanno aiutato a fare le valigie. Anche loro piangevano. I vestiti, le scarpe, le tute da lavoro li ho donati ai più bisognosi. Quando la porta carraia si è chiusa alle mie spalle ho cominciato a tremare. Mi sono guardato attorno, ero confuso. Mi sono seduto su un gradino e ho cominciato a piangere tutte le mie lacrime».

Andiamo indietro di 18 anni, al giorno dell'arresto. Come andò?

«Ancora ci penso e in certi momenti sorrido amaramente. Bisogna partire dal giorno prima per capire. Era il 17 luglio. Stavo guardando la finale Italia-Brasile del campionato mondiale di calcio Usa 94, abbracciato a mia moglie. Eravamo sposini. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo l'annuncio che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del tg diceva che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. Conosco Scarantino, abitava a 50 metri da casa mia. La mattina seguente sono stato arrestato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino"».

Lei è stato accusato di avere "bonificato e sorvegliato" il luogo dell'attentato a Borsellino. Ed è finito al 41 bis, il carcere duro. Come ha resistito?

«Pianosa è quello che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici dentro alle minestre, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto, adesso, che negli anni a tutte quelle botte mi ero quasi abituato».

Nel "Borsellino I" lei è stato assolto, e dal 2002 al 2005 è tornato in libertà. In appello poi è stato condannato all'ergastolo, pena confermata in Cassazione. Libertà a parte, cos'altro ha perduto in questi anni?

«La crescita di mio figlio: l'ho rivisto e l'ho potuto toccare dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Poi ho perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto salutare. E ho perso il lavoro. Adesso pretendo di nuovo il mio impiego al Comune. Credo mi spetti, no?».

C'è stato qualcosa di buono, nonostante tutto, nella sua lunga carcerazione?

«Nel 2009, finalmente, dopo una lunga battaglia con l'avvocato Rosalba Di Gregorio, ho ottenuto la revoca del carcere duro. Ho potuto riprendere gli studi. Mi sono iscritto a ragioneria: andrò al terzo anno. Poi ho approfondito la mia fede. Ho letto e riletto i libri su San Francesco. Sono diventato anche un uomo più riflessivo e vorrei dedicarmi al volontariato».

Qual è il primo desiderio esaudito da uomo libero?

«Mi sono fatto preparare un piatto di pasta con le sarde, la mia preferita».

Se avesse Scarantino davanti cosa gli direbbe?

«Nulla, lo saluterei. È una vittima come me. Credo che le sue false dichiarazioni sono il frutto dei terribili anni a Pianosa. Vorrei solo chiedergli una cosa: Chi ti ha detto di fare il mio nome?»

Lasciando il carcere di Voghera Gaetano Murana confessa: «Sono felice e confuso. Non so neppure come pagare... con questi soldi nuovi non sono pratico. Io sono rimasto alla lira». In effetti sono trascorsi 18 anni da quando assieme ad altri sette imputati, tre dei quali incensurati, venne arrestato e poi ingiustamente condannato all' ergastolo per la strage di Via D'Amelio. Lui, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina e Cosimo Vernengo, detenuti rispettivamente a Milano, L' Aquila e nelle Marche, sono già tornati in libertà. Usciranno dopo anche Salvatore Profeta e Natale Gambino. Resta detenuto solo Gaetano Scotto, che deve scontare un residuo di pena. Molti torneranno nelle loro case del quartiere Guadagna a Palermo dove dovranno rispettare un precedente obbligo di firma in commissariato. Sono tutti liberi grazie alla decisione della Corte d'Appello di Catania che ha sospeso 8 delle condanne all'ergastolo per la strage in cui fu ucciso il giudice Borsellino. È l'attesa conseguenza della richiesta di revisione del processo avanzata dal procuratore generale di Caltanissetta Scarpinato. Ma torna libero anche Vincenzo Scarantino, il falso pentito sul quale sono stati costruiti i processi che hanno portato a quelle sentenze all'ergastolo. Vista la sua storia e il ruolo che ha avuto in questa vicenda giudiziaria tanti farebbero a gara per eliminarlo. Per questo ci sono stati frenetici contatti tra polizia, magistrati e il carcere dov'è detenuto per far scattare misure di protezione anche se non ne avrebbe alcun diritto. La Corte d'Appello di Catania non ha invece accolto, «allo stato degli atti», l'istanza di revisione del processo Borsellino. Una scelta tecnica, ampiamente messa in conto dalla stessa Procura generale di Caltanissetta. «Allo stato - argomentano i giudici - l'istanza di revisione fondata sull'asserita responsabilità di un terzo è inammissibile qualora la responsabilità non sia stata accertata giudizialmente in modo definitivo». In altre parole non ci può essere una revisione fino a quando le responsabilità alternative non vengano accertate con sentenza passata in giudicato. Come può essere una condanna su Scarantino per calunnia, ovvero una condanna per i responsabili della strage. Su questo punto l'avvocato Rosalba Di Gregorio che assiste 4 degli otto scarcerati, fornisce una diversa lettura ritenendo che per avviare la revisione basta una sentenza che accerti il falso commesso dal pentito Scarantino. «Comunque - aggiunge - l'importante è che degli innocenti abbiano potuto lasciare il carcere dopo tanti anni di ingiusta detenzione. Meglio tardi che mai». Il legale attende ora che si completi l'iter di revisione per presentare il conto allo Stato. Sarebbe opportuno anche che si procedesse con un inchiesta sui trattamenti riservati ai carcerati. Soddisfatti anche i magistrati di Caltanissetta che da anni cercano di venire a capo di quello che è stato definito un «colossale depistaggio» per il quale presto potrebbero scattare nuovi arresti. «La Corte d'Appello - afferma il procuratore Sergio Lari - ha ritenuto valida la nostra impostazione per la richiesta di revisione e lo dimostra la sospensione della pena per gli 8 imputati. Non ci sorprende invece l'inammissibilità della revisione perché i giudici hanno aderito ad un orientamento della Cassazione». È stato il pentito Gaspare Spatuzza, che si è autoaccusato, a far crollare il castello di accuse di Scarantino raccontando di aver rubato lui l'auto utilizzata per l'attentato su mandato del boss Giuseppe Graviano.

Da ricordare la vicenda dell'attentato. Il 19 luglio 1992 in via D'Amelio muoiono in un attentato il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. Il processo di primo grado si conclude il 26 settembre 1997 con gli ergastoli a 24 boss. Il processo bis nel 2002, la Corte d' Assise d'appello di Caltanissetta infligge 13 ergastoli ai mandanti ed esecutori della strage. A far riaprire le indagini le dichiarazioni del neopentito Gaspare Spatuzza (2008) che si autoaccusa di aver rubato la 126 utilizzata come autobomba nell'attentato.

Altro fatto eclatante e mediaticamente seguito è un altro fatto giudiziario. Il processo di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher diventa terreno di scontro politico sul fronte della Giustizia. Ad accendere le polveri della polemica è stato l’ex ministro Angelino Alfano: «La sentenza di assoluzione per Amanda Knox e Raffaele Sollecito fa pensare che in Italia per gli errori giudiziari nessuno paga». Nel merito della sentenza Alfano ha osservato che «i tre gradi di giudizio sono fatti proprio per consentire ripensamenti. Il tema che mi viene in mente, e che è giusto, è che - ha continuato Alfano - se la detenzione di Amanda è stata ingiusta, chi la risarcirà? Chi pagherà mai per una detenzione ingiusta sua e di Raffaele Sollecito?». «Io - ha concluso Alfano - mi attengo all’esito del giudizio della Corte, che ha dichiarato innocenti i due, con ciò affermando implicitamente che la detenzione non doveva esserci. In Italia il tema è che per gli errori giudiziari nessuno paga».

Una sponda immediata arriva da Marco Pannella, convinto che «tutto sommato, Amanda e Raffaele sono stati fortunati», perchè sia la pressione internazionale che il fatto di avere alle spalle famiglie economicamente solide ha consentito di accorciare i tempi di solito «lentissimi» dei giudizi. In caso contrario, assicura il leader radicale «avrebbero scontato 6 o 7 anni da innocenti». Il problema, afferma, sono le «migliaia di persone rinchiuse per reati mai commessi». E’ la conferma di una giustizia ingiusta, assicura l’associazione radicale ‘Nessuno tocchi Caino’. Il Codacons si rivolgerà alla Corte dei Conti per evitare che il risarcimento per l’errore giudiziario lo debbano pagare i cittadini.

Il tema è sempre quello degli errori giudiziari: in tv domenica 30 ottobre 2011 su Rai 1 con Lorella Cuccarini si parla di Raffaele Sollecito e Amanda Knox, rimasti 4 anni in carcere per via di un'indagine errata. In studio la sorella di Raffaele, Vanessa. Con molta amarezza la ragazza racconta il suo passato da ufficiale dei Carabinieri e il licenziamento avvenuto, secondo lei, per via delle ripercussioni derivate dal processo. Nel frattempo, in studio sono arrivati Irene Pivetti e Pierluigi Diaco. Le vittime si devono scontrare poi con coloro che negano sempre e comunque l'evidenza, trovando giustificazioni al potere, spesso per codardia o per collusione. Pierluigi attacca in maniera veemente Vanessa sulla questione dei Carabinieri, e quest'ultima insiste: "E' un dato di fatto che 2 anni dopo la vicenda, io sia stata licenziata dai Carabinieri. Il resto lo chiarirà il processo, poichè ho fatto ricorso". Poi, Irene Pivetti puntualizza: "non è un vero e proprio errore giudiziario, ma un iter coi suoi tempi". Farei provare a lei cosa significa stare dentro per 4 anni. Si dice che il sazio non crede il digiuno.

In studio, dopo la pausa, si parla della vicenda di Gennaro Scarcello. Un controllo dei Carabinieri lo trae in stato d'arresto nel carcere di Terni, in regime 41 bis. L'accusa è riciclaggio, per via di un assegno ricevuto in passato, peraltro denunciato alle autorità in quanto scoperto. Assieme agli ospiti, sono ora presenti il cappellano Don Sandro Spiano, del carcere di Rebibbia, e il magistrato Rosario Priore. Quest'ultimo spiega che tali errori, a volte, sono derivati da organi quali il pubblico ministero, definiti da lui "a caccia di prove" per via delle pressioni derivate da media e altri fattori. Don Sandro dibatte il problema etico della colpevolezza. Continua la storia di Gennaro, messa in piedi mediante un mini film. Gennaro infatti, dopo essere stato scarcerato, si trova di fronte a un diniego delle banche di liquidità e all'estromissione dall'azienda da parte del fratello. Di seguito, nel prosieguo del confronto televisivo, si pone la questione della sovraesposizione televisiva nei protagonisti di vicende giudiziarie. Persone come Amanda Knox, racconta un video, hanno ricevuto proposte per libri, video, film, mentre invece altre, come Gigi Sabani, Enzo Tortora e Luttazzi, sono stati rovinati da errori della giustizia.

In studio compare Isabella Sabani, sorella di Gigi, accusato di induzione alla prostituzione. Il caos mediatico creato dalla vicenda ha creato un vuoto nella sua carriera, nonostante fosse stato poi scagionato. Il conduttore è stato infatti tre anni senza contratti. Il dibattito è coadiuvato dal giudice Priore, che spiega come, già da allora, le pressioni che volevano portare il caso in TV erano altissime.

Viene presentato l'ultimo segmento della storia di Gennaro: tentando di riprendere un'attività, egli va incontro al fallimento, in preda a problemi di salute mentale. Tenta quindi di farla finita, ma viene aiutato dagli stessi Carabinieri, ricevendo un risarcimento per l'errore. Rimane comunque invalido per via della sua debole salute mentale, percependo un sussidio e vivendo, oltre che con quei soldi, grazie ai lavori di parcheggiatore e fattorino.

Tornati in studio, Gennaro viene intervistato, spiegando il suo riavvicinamento, nonostante tutto, col fratello. L'ultima considerazione viene affidata al giudice Priore, il quale dichiara: "bisogna educare i magistrati a un maggior senso di responsabilità".

«Certo che andrò a trovare Amanda a Seattle. - dice Raffaele Sollecito - È stata lei a invitarmi. Io ho accertato con gioia. E non è detto che aspetti Natale. Potrei farlo anche prima. In qualunque momento. Ho voglia di rivederla, di parlare, di guardarla negli occhi. Ci telefoniamo o ci scriviamo tutti i giorni, abbiamo bisogno ‘uno dell’altro sia per tentare di capire cosa è successo sia per guardare avanti, verso un futuro che sembrava spezzato per sempre e che invece possiamo ancora costruire. Abbiamo tante cose da dirci, dopo aver passato quattro anni in un girone infernale che ci ha stritolato, ci ha procurato sofferenze indicibili, ci ha rovinato la vita. Abbiamo rischiato l’ergastolo per un’accusa ingiusta, tanto assurda da apparire inverosimile. Anche lei, come me, chissà quante volte si sarà chiesta: “Ma cosa mi sta capitando?”. E non c’è stata risposta. Ecco perché, a quasi un mese dalla sentenza che ci ha assolto, ho la sensazione che la mia sia una vita sospesa. Mi pare tutto così irrazionale quel che è successo! Una settimana dopo avrei dovuto discutete la tesi di laurea e mi sono ritrovato in carcere con l’accusa di avere assassinato Meredith», Brillano gli occhi a Raffaele Sollecito quando parla d Amanda e lo fa, per la prima volta dopo la scarcerazione, in esclusiva con Oggi.

Ma sembra lontano, quasi assente. Chissà cosa insegue con la mente. Chissà quali fantasmi si annidano nei pensieri di questo ragazzo timido e garbato che l’avvocato Giulia Bongiorno ha definito «il signor nessuno in un processo “amandocentrico” ». Se veramente Raffaele è solo «un allegato» di Amanda (la definizione è sempre della Bongiorno), non lo sapremo mai e non sarà lui a rivelarlo, riservato com’è. Ma certo Amanda, malgrado tutto , è più che mai nei suoi pensieri. Quattro anni di carcere, di angoscia e di paura non hanno mandato in frantumi quel tenero legame che era nato improvvisamente nell’autunno del 2007 fra la ragazza di Seattle e lo studente di Giovinazzo. Quei quattro anni che nessuno dei due ha vissuto, chiusi com’erano fra quattro mura, senza speranze e senza futuro, schiacciati da una condanna a 25 e 26 anni e dalla prospettiva dell’ergastolo. Oltre 1.400 giorni che hanno lasciato segni dolorosi e incancellabili. Raffaele cerca di nasconderli ma appaiono evidenti. Impossibile capirne e saperne di più da lui. Non ha certo metabolizzato il macigno che gli è cascato addosso. Il peso lo opprime e le conseguenze chissà quando svaniranno anche se i familiari e un bel gruppo di amici gli sono ” premurosamente vicini nella bella casa di Bisceglie. Gli fanno compagnia, lo portano in barca o nei locali, la sera. «Deve ricominciare a vivere dal punto in cui aveva smesso. Deve riprendere a fare tutto quello che faceva prima. E deve riprendere a studiare per il corso universitario di realtà virtuale che aveva iniziato in carcere. Non sarà facile», dice Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, un uomo che non riesce a nascondere amarezza e rancori, convinto che suo figlio non sia stato solo vittima di una grande ingiustizia ma di qualcosa di peggio.«Agli errori, se si è in buona fede, si può sempre porre rimedio», dice con un tono di voce che rivela astio e desiderio di ulteriore giustizia, «ma a Perugia è successo qualcosa di peggio, qualcosa e qualcuno che hanno rovinato la vita non solo a Raffaele. Una ottusa ostinazione, inspiegabile quando la realtà dei fatti, le prove, i testimoni inattendibili dimostravano tutto il contrario. Quegli interrogatori prima dell’arresto, fatti per entrambi senza l’assistenza di un avvocato, quell’interprete di Amanda che, anziché limitarsi a tradurre, visto che la ragazza non capiva e non parlava una parola di italiano, aveva la pretesa di fare la psicologa, aiutandola a ricordare, a rimuovere presunti traumi psichici che, secondo lei, bloccavano il ricordo doloroso dell’omicidio. La Corte di Cassazione ha giudicato quegli interrogatori inutilizzabili sia contro Lumumba sia contea se stessa. Un abominio giudiziario che non è servito certo a dare giustizia alla povera Meredich». «Inseguirò la verità fino alla fine» «Non voglio ripercorrere le tappe dell’inchiesta e dei due processi», aggiunge Francesco Sollecito, «lo farò in altra sede quando verrà il giorno nel quale a qualcuno chiederò conto di tutto questo. Ma una cosa la voglio dire: Raffaele è rimasto in carcere e ha rischiato di restarci per sempre per una impronta plantare, quella scoperta accanto al corpo di Meredirh, che non era la sua ma di Guede. La polizia scientifica ha ammesso l’errore dopo cinque mesi. Guede l’ha confessato al Pm Giuliano Mignini dopo serre mesi. Contro mio figlio Raffaele non c’era altro. E non parlatemi più del gancetto del reggiseno di Meredith. L’avvocato Bongiorno l’ha detto chiaro e tondo: “II vero giallo in questo dramma è il gancetto. La sua scomparsa e il suo ritrovamento”, riferendosi alla incredibile spiegazione data da Patrizia Stefanoni, responsabile della polizia scientifica: “Quel gancetto è traslato”. Avete capito? “E traslato”, ha detto. Ma un giorno conosceremo la verità e vuole sapere perché? Perché io la inseguirò per tutta la vita.

Visibilmente soddisfatta anche l’avvocato Giulia Bongiorno, uno dei legali di Raffaele Sollecito che rivela: «Nel corso del processo di primo grado, dopo che la perizia ci fu negata dissi al padre di Raffaele: “Suo figlio verrà condannato”. Dopo i risultati dell’ultima perizia gli ho invece detto: “Assolveranno suo figlio”. E’ il verdetto che ci aspettavamo – prosegue il noto legale -: dopo la nuova perizia l’estraneità di Raffaele è parsa inconfutabile. Una sentenza che non si è fermata alle apparenze, mentre in primo grado ci sono stati sospetti e illazioni. Peccato solo che la perizia non ci sia stata concessa prima, non ci sarebbero stati quattro anni di sofferenza e dolore».

E ancora sugli errori giudiziari. Luttazzi inedito e spietato. Ecco il film perduto contro la casta dei giudici. Arriva al festival di Roma 2011 l’opera scritta e girata nel 1972 dal musicista, vittima di un clamoroso errore giudiziario. La pellicola si chiama "Illazione" ed è stata ritrovata dalla moglie.

Un film contro lo strapotere dei giudici. Contro la loro impunità. Una pellicola di denuncia che, eravamo nel 1972, la Rai rifiutò di trasmettere. Una lacuna che viene colmata ora, 40 anni dopo. Domenica sera 30 ottobre 2011 Rai5 si trasmette "L’illazione", film scritto diretto e interpretato da Lelio Luttazzi, dopo che nel pomeriggio il Festival Internazionale del Film di Roma gli si è reso omaggio proiettandolo come evento speciale.

Girato con pochi mezzi in gran parte in una villa nella campagna romana dove un gruppo di persone si ritrova a cena, "L’illazione" è un’opera di appena 60 minuti che risente del clima e delle mode dell’epoca, con molti dialoghi e qualche digressione onirica. Il cuore della storia invece - gli errori dei giudici - è di un’attualità sconvolgente. E conserva la forza di un pamphlet, sebbene girato nel 1972, un anno dopo il proscioglimento di Luttazzi dalle accuse di detenzione e spaccio di droga nate da un’intercettazione tra Walter Chiari e uno spacciatore. Accuse che lo costrinsero a 27 giorni di carcere quand’era uno dei personaggi più amati dal pubblico, musicista sopraffino, presentatore di rara eleganza, simbolo della tv in bianco e nero. Finalmente ora vedremo "L’illazione", grazie alla dedizione della vedova Rossana Luttazzi e al restauro realizzato da «L’immagine ritrovata» di Bologna con la supervisione di Cesare Bastelli.

Con tanto di barba anticonformista, Luttazzi è uno scrittore deciso ad aiutare l’amico medico (Mario Valdemarin) caduto in depressione a causa delle lettere anonime che lo accusano di aver praticato l’eutanasia sul figlio neonato e sub-normale. Tra un bicchiere di vino e un disco jazz, lo scrittore sottopone la vicenda a un ambiguo magistrato (Alessandro Sperlì), acquirente del terreno adiacente la villa. Le cose però non vanno per il verso giusto e il giudice imbastisce a sorpresa una sorta di processo kafkiano in cui le vittime, in un susseguirsi di dialoghi acuminati, si trasformano in indiziati. «Tra noi intellettualoidi e voi magistrati c’è una differenza», osserva lo scrittore Luttazzi. «Mentre voi presumete di conoscere di volta in volta la verità noi viviamo nel dubbio perenne, come Socrate. Un brindisi alla cicuta!».

Il magistrato: «Lei è un artista, il nostro mestiere lo lasci a noi. Il popolo ha bisogno di essere rassicurato da una giustizia energica, severa, dura se serve». E così, in attesa di un caffè anti-abbiocco, il giudice severo e duro mette nel mirino il medico taciturno. «Di che cosa dubita», gli chiede lo scrittore. «Di niente, non sono un socratico. Focalizzo dei concetti». «O dei preconcetti», precisa Luttazzi prima di condensare la sua denuncia: «Quindi, lei che ha il potere di decidere della libertà e della vita di tutti noi si abbandona all’illazione come fanno quelli che stanno massacrando il mio povero amico. E magari a questo sistema si abbandona anche nella sua professione. Eh già, tanto anche se sbaglia, a chi deve rispondere, eh?». Le battute di Luttazzi fanno pensare anche oggi: «In una società ben organizzata chi ha responsabilità sociali andrebbe psicanalizzato prima di essere immesso nella professione. Certe tendenze negative che fanno parte della nostra natura, sadismo, volontà di potenza, narcisismo, esibizionismo ... possono spingerci a scegliere professioni dove possiamo meglio soddisfarci rimanendo al coperto». «E perché io dovrei psicanalizzarmi e lei che è scrittore no?», chiede il magistrato. «Perché io non ho il potere di mandare in galera la gente».

Fu Rossana Luttazzi a ritrovare nel ’78 durante un trasloco la pizza della pellicola: «“E questa cos’è?”, chiesi a mio marito. “È un film di qualche anno fa. L’ho scritto, girato, interpretato. Ma non se n’è mai parlato perché è contro un giudice”, tagliò corto lui». Tempo dopo, pur di vederlo, la moglie lo fece riversare in una cassetta vhs. «Ma Lelio non volle rivederlo. “Mi fa male... Lo sai che cosa mi ricorda... Non parlarmene più”, protestò. Così lasciai perdere», ricorda ancora la signora Rossana. Che un anno fa, pochi mesi dopo la morte del marito, nel luglio 2010, diede vita alla Fondazione Lelio Luttazzi. «Era il modo per continuare a occuparmi di lui, come avevo fatto per 36 anni. Mostrai L’illazione a un amico critico cinematografico, che mi spronò assolutamente a fare qualcosa perché il film di Lelio lo meritava».

Ilaria Cavo ha scritto “Il cortocircuito”. I casi di errori giudiziari sono un fenomeno reale e in forte crescita nelle aule dei tribunali italiani. Imprenditori, politici, star dello spettacolo e molto più spesso comuni cittadini sono vittime di frequenti errori, omissioni o banali equivoci con conseguenze però tragiche per le loro vite: nella maggior parte dei casi, per la lentezza della burocrazia italiana, saranno costretti a un calvario di anni o addirittura decenni alla fine del quale in molti casi saranno riconosciuti innocenti. Ilaria Cavo ci racconta le storie di alcune di queste persone, vicende spesso drammatiche, a volte tanto assurde da apparire grottesche, come quella di Elvio Zornitta, sospettato ingiustamente per anni di essere il famigerato Una bomber, o quella di Carlo Rossi, un normale responsabile amministrativo, arrestato per corruzione e poi assolto dopo una via crucis durata quindici anni.

“Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”, di Ilaria Cavo. In carcere da innocenti. Dal dj arrestato per un’intercettazione male interpretata al carabiniere infiltrato tra i pusher e accusato di spaccio. Marcello parla al telefono. Dice: “Vengo, prima passo a prendere Maria”. Si riferisce a un’amica che si chiama Maria, ma chi intercetta la conversazione si convince che stia parlando di marijuana. E, quando Marcello parla di “bibite”, pensa stia discutendo di dosi di stupefacenti. Peggio ancora quando informa un amico di stare trasportando delle “casse”: si tratta di altoparlanti per una serata musicale, ma chi intercetta collega la frase allo spaccio, immaginando che stia trasportando casse di droga. Per colpa di quelle telefonate, di quelle parole normalissime diventate segnali di colpevolezza, Marcello Maganuco ha passato due anni in galera. Prima nel carcere Malaspina di Caltanissetta, dove è entrato il 6 giugno 2001, poi ad Agrigento, da cui è uscito soltanto il 13 maggio 2003.

Troppe assurdità.

Questa storia assurda di mala-giustizia la racconta Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. È contenuta, assieme a un’altra decina di simili situazioni, nel libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Così come fa restare allibiti ciò che è capitato a Marcello Maganuco. Tutto succede perché i carabinieri di Gela, durante un’indagine su un traffico di droga in città, s’imbattono in una telefonata che G.M., presunto spacciatore, ha fatto a Marcello. Gli chiede un numero di telefono, quello di S.G., considerato dalle forze dell’ordine uno dei personaggi di spicco dell’organizzazione criminale su cui stanno indagando. Perché G.M. chiama Marcello? Perché Marcello lavora nelle discoteche, fa il deejay e il pr, incontra tantissima gente, organizza serate, trasferte in pullman, liste per entrare nei locali. Ha la sola responsabilità di conoscere due sospetti. Si limita a fornire un numero di cellulare, scandito cifra dopo cifra come emerge dall’intercettazione. Da quel momento, però, le sue parole al telefono sono ascoltate con attenzione e alcune conversazioni vengono considerate equivoche. Così Marcello viene arrestato e sconta due anni di custodia cautelare in attesa del processo. Che lo assolve da ogni accusa. Il suo calvario giudiziario, però, non è terminato. A causa della galera, Marcello - oltre a perdere due anni di vita - ha ritardato la maturità. Nei giorni dell’arresto avrebbe dovuto sostenere l’esame. A patto che entrasse in aula, davanti a tutti i compagni, con le manette ai polsi. L’umiliazione era troppo grande, ha rifiutato di sostenere il colloquio. Per guai come questi e per 24 mesi di ingiusta detenzione, ha chiesto un risarcimento allo Stato: 516 mila euro. La prima volta li ha richiesti nel 2005, ma la Corte di appello di Caltanissetta glieli ha negati. Motivo? Se l’hanno tenuto due anni in gabbia per niente è colpa sua. Colpa delle telefonate “ambigue”, considerate un “comportamento gravemente colposo”. Dunque uno telefona e anche se sono gli investigatori a capire male, la responsabilità è tutta sua. Marcello ha fatto ricorso, nel febbraio 2009 la Corte di cassazione gli ha dato ragione. Ma niente: nel dicembre dello stesso anno la Corte d’appello di Caltanissetta si è opposta di nuovo il risarcimento. Contando che la sua trafila è iniziata nel 2001, Maganuco è in ballo da circa 9 anni.

Nessun risarcimento.

Succede a quasi tutti i protagonisti del libro della Cavo. Finiscono in galera ingiustamente, qualche giudice riconosce gli errori dei suoi colleghi - dopo tempi d’attesa lunghissimi - ma poi lo Stato, per i motivi più vari, rifiuta di pagare dazio. Intanto, la vita di queste persone ne esce a pezzi. Altro caso stupefacente è quello di Carlo Rossi, geometra di Feltre. Lui ha scontato solo 4 giorni di carcere - comunque troppi, visto che immotivati - ma la sua vicenda processuale è durata dal 1995 al 2005, anno in cui è stato riconosciuto innocente. Vanno poi aggiunti ulteriori tre anni di visite al tribunale per farsi riconoscere un risarcimento, negato.

Che ha fatto Carlo Rossi? Ha cercato di far risparmiare soldi alla Ulss (unità sanitaria locale) di Belluno, per la quale lavorava. “Con la fusione delle unità sanitarie locali di Agordo, Cadore e Belluno in un’unica Ulss, come responsabile dell’economato, mi sono reso conto che uno stesso prodotto (in questo caso le strisce per l’esame del diabete) veniva acquistato a prezzi differenti, a pochi chilometri di distanza”, spiega Rossi. Il quale decide di svolgere un’asta tra fornitori per abbassare il prezzo. E ci riesce: spunta una cifra che dimezza la spesa a carico della struttura sanitaria. Ad aggiudicarsi la fornitura è la ditta Boehringer, e qui cominciano i guai. M.S., referente commerciale dell’azienda, è intercettato mentre parla con Rossi di prezzi e offerte. Poi, mentre spiega ad altri di conoscerlo. Chi ascolta i nastri ne deduce che il geometra sia colpevole di abuso d’ufficio. O di corruzione (il capo d’imputazione viene cambiato tre volte, cosa che non favorisce certo la difesa). Non c’è traccia di soldi che provino la corruzione. L’azienda che Rossi avrebbe favorito ne risulta danneggiata - aveva già contratti a cifre molto più alte, non si capisce perché avrebbe dovuto farseli cancellare - e non si riscontrano reati. Eppure il geometra prima finisce dentro per quattro giorni. Poi deve affrontare un iter impressionante, fino ad essere scagionato. Dopo oltre dieci anni di caos, sapete che ha ottenuto Rossi? Un risarcimento? Macché. Una richiesta di 38 euro da pagare per i diritti di cancelleria da parte del Tribunale di Belluno. Altra storia allucinante è quella di Gian Mario Doneddu. Sessanta anni, maresciallo dei carabinieri, ha ottenuto notevoli riconoscimenti internazionali (uno pure dal generale Dalla Chiesa) dopo una sfolgorante carriera da infiltrato. Sembrava destinato a un grande successo professionale, finché nel 1997 viene condotto in carcere. Si trova all’estero, per un incarico prestigioso. Rientra immediatamente, dunque non c’è dubbio che voglia scappare, ma viene richiesta la custodia cautelare (poi revocata). Accade che un collaboratore di giustizia, ex spacciatore, lo accusa di aver approfittato del suo ruolo di infiltrato per intascare droga. L’indagine riguarda vari colleghi, alcuni dei quali effettivamente colpevoli. Ma lui non c’entra. Viene coinvolto perché il suo nome è erroneamente inserito nel verbale d’interrogatorio del pentito. Una trascrizione sbagliata. Doneddu affronta un iter giudiziario durato 11 anni: nel 2009 viene scagionato. Gli serve un tempo infinito per dimostrare che non c’entrava, per ottenere le registrazioni degli interrogatori in cui il suo nome non compare e la sua posizione appare chiara: è innocente. Farà ricorso per chiedere un risarcimento, ma nel frattempo gli hanno stroncato la carriera. Leggendo le storie come la sua, e come le altre raccontate da Ilaria Cavo, viene da pensare una cosa sola: la riforma della giustizia è da fare. Subito.

“Cento volte Ingiustizia”, libro di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone.

Cento casi di errori giudiziari, ricostruiti con l'unico intento di sollevare una riflessione approfondita su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. La prefazione è affidata a Roberto Martinelli.

L'opera vede anche l'intervento di altri quattro addetti ai lavori: il giudice Ferdinando Imposimato; l'avvocato Carlo Taormina, docente di procedura penale presso l'Università di Tor Vergata di Roma; Severino Santiapichi, per anni presidente della Corte d'Assise di Roma, ex procuratore generale presso la Corte d'Appello di Perugia; Renato Borruso, ex magistrato della Corte di Cassazione.

L’idea di raccogliere in un volume cento storie di cittadini travolti dalla macchina della giustizia, nasce dal caso della piccola Miriam Schillaci, la bambina uccisa da un tumore che un medico aveva scambiato per violenza sessuale commessa dal padre. L’errore diagnostico indusse il giudice a sbagliare nel ritenere il genitore colpevole, e il giornalista a sbattere in prima pagina un “mostro” innocente.

Medico, magistrato e giornalista sono i rappresentanti delle tre corporazioni alle quali il cittadino affida la tutela della salute, della libertà e dell’onore. Per questo, quando queste categorie professionali cadono in errore, le conseguenze finiscono per avere un’incidenza maggiore sulla vita della gente.

Nel processo penale vige il libero convincimento del magistrato. Il suo giudizio è sovrano, prescinde dall'imponderabilità delle prove e degli indizi, dalle opinioni contrastanti dell'accusa e della difesa. Quel principio consente un'interpretazione dei fatti il più delle volte attendibile e verosimile, ma mai veritiera al punto di essere considerata del tutto aderente alla realtà storica. Il tentativo di far coincidere verità giudiziaria e realtà storica è la causa di molti errori giudiziari. Obiettivo del giudice è far emergere l’effettivo svolgimento dei fatti, affinché tra questo e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. In caso di conflitto tra le due verità (storica e processuale) il giudice è tenuto comunque a seguire soltanto quella processuale. Anche se intuisce la verità reale, il magistrato deve tener conto delle risultanze del processo che possono anche portare lontano dall'effettivo svolgimento dei fatti. Di qui la possibilità di cadere in errore. Trasformando un pronunciamento di giustizia in una chiave che apre le porte a un vero e proprio dramma.

Nell'emettere la sentenza, il giudice fonda il suo convincimento su elementi che gli provengono comunque da altri soggetti: i verbali, le sensazioni personali del testimone, i vuoti di memoria, l'interesse inconscio dell'imputato a nascondere uno spicchio, anche infinitesimale, di verità. Si arriva così alla formulazione di un verdetto che si allontana dalla verità, intesa come ricostruzione asettica dell'evento che ha dato origine al processo. Quando questo divario assume proporzioni macroscopiche e irreversibili, si finisce per commettere un errore giudiziario: un innocente si ritrova in carcere, condannato da una sentenza che lascia in libertà il vero colpevole del reato.

Le cronache riferiscono che l’errore è un’ipotesi che si verifica sempre più frequentemente. Le statistiche confermano che in carcere finisce un gran numero di innocenti. Le assoluzioni hanno toccato punte altissime. Si è tentato di creare una legge che regolasse la responsabilità del giudice che sbaglia. Ma il Parlamento ha approvato norme che prevedono la responsabilità dello Stato-giudice e non del singolo magistrato.

Fortemente voluta da un largo schieramento politico, nata da un referendum che provocò tante lacerazioni nel tessuto sociale del paese, la legge sulla responsabilità del magistrato ha finito per tradire le aspettative di coloro che credevano di poter ottenere una giustizia più sollecita, più corretta, più efficiente.

Fu il caso Tortora a mettere in moto il meccanismo della consultazione popolare. La vicenda umana del popolare presentatore, accusato di essere un camorrista e uno spacciatore di droga e poi scagionato, fu la bandiera che i promotori del referendum usarono per far cadere la barriera che il codice civile poneva alla chiamata in giudizio del magistrato responsabile di gravi errori commessi nella gestione del suo potere. Anni dopo l’entrata in vigore della legge, si rivelano esatte le previsioni di coloro i quali avevano manifestato scetticismo sull’effetto deterrente che le nuove norme avrebbero potuto avere sulla corporazione dei giudici. Il legislatore ha voluto salvaguardare l’autonomia del giudice, la sua libertà di applicare la legge, la sua indipendenza. Probabilmente c’è riuscito e lo ha fatto in un momento in cui tutti questi valori sono posti in discussione. Ma non ha realizzato quel regime di tutela del danneggiato pari a quella che altri paesi europei hanno introdotto nei loro ordinamenti.

E la gente lo ha capito: la giustizia continua a funzionare male come nel passato; i giudici continuano a sbagliare, senza curarsi troppo dei loro errori. Anche perché sanno che nel peggiore dei casi c’è un assicurazione che paga. Alcuni sbagliano in buona fede, altri meno. Alcuni perché non hanno strumenti adeguati e strutture idonee, altri perché si ritengono baciati dal dogma dell’infallibilità.

Ogni anno il gran numero di assoluzioni ripropone il tema della “giustizia-ingiusta”. La percentuale degli imputati assolti si aggira di media intorno al 40 per cento. Ma perché solo una piccola parte di questi si rivolge allo Stato per essere risarcita? Paura, sfiducia nelle istituzioni, voglia di dimenticare? Difficile rispondere. Ogni storia ha un suo risvolto che non consente interpretazioni generalizzate.

Non tutti gli assolti erano innocenti. Molti, forse, erano colpevoli e la giustizia li ha scagionati perché non è riuscita a dimostrarne la colpevolezza. Non tutte le assoluzioni presuppongono errori dei magistrati. Di certo la stragrande maggioranza di queste persone aveva probabilmente diritto a un risarcimento del danno subìto per essere stata ingiustamente sottoposta a un procedimento penale. Ma ha taciuto, si è tirata in disparte, ha preferito chiudere i suoi conti in perdita con la giustizia e mettere una pietra su un’esperienza triste e disarmante.

Luciano Rapotez - una delle più celebri vittime di errori giudiziari - sostiene che dal giorno in cui è nata l’Italia repubblicana, gli innocenti perseguitati dalla giustizia sono stati cinque milioni. Non tutti hanno subìto il carcere, ma tutti sono stati coinvolti in vicende che non li riguardavano. Da oltre quarant’anni Rapotez combatte per far valere il proprio diritto a essere risarcito. Fu accusato, innocente, di aver assassinato un orefice, la sua amante e la cameriera. Diventò “il mostro di san Bartolomeo” e scontò tre anni di carcere. Assolto, ha fatto causa allo Stato, ma i tempi della giustizia sembrano eterni: “Aspettano la mia morte - dice - ma non intendo dargliela vinta”.

Non tutti hanno la sua tenacia e la sua forza d’animo: i dati più recenti rilevati nelle corti d’appello e relativi ai procedimenti in corso sono disarmanti per la loro esiguità. le cause promosse contro lo Stato per responsabilità civile del giudice, ingiusta detenzione ed errore giudiziario sono state poche. Come dire che solo una persona su cento ha avuto il coraggio di farsi avanti per avere giustizia. Se da una parte la legge sulla responsabilità del giudice ha fallito il suo scopo, se non si è dimostrata uno strumento valido a garanzia del cittadino, dall’altra c’è una qualche resistenza anche nel chiedere l’indennizzo per ingiusta detenzione. L’istituto è stato introdotto dal nuovo processo penale e consente all’imputato che ha subìto un periodo di carcerazione preventiva ingiusta, di ottenere un risarcimento.

L’indennizzo prescinde dalla responsabilità del magistrato che ha convalidato il provvedimento restrittivo della libertà. È una sorta di riparazione dell’errore fisiologico, del rischio imprevedibile di ogni processo. Al momento dell’entrata in vigore del nuovo rito penale, rappresentò una novità assoluta della nostra legislazione, che conosceva fino ad allora soltanto l’istituto dell’errore giudiziario. Quest’ultimo presupponeva invece una sentenza di condanna e una successiva revisione del processo. Il caso più clamoroso è rimasto quello di Salvatore Gallo, condannato all’ergastolo per aver ucciso il fratello che si scoprì, dopo qualche anno, essere vivo e vegeto.

Di certo la giustizia che sbaglia non paga. Non pagava prima del referendum, non ha pagato dopo la legge sulla responsabilità civile dei giudici, non paga ora. È una realtà che Enzo Tortora aveva intuito prima di morire. Per il suo calvario di presunto colpevole nel processo alla Nuova camorra organizzata, aveva citato in giudizio lo Stato per ottenere un risarcimento di cento miliardi. Una richiesta assurda, pensarono in tanti. In realtà, la sua fu solo una provocazione, un modo per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema reale che tanti anni dopo resta ancora irrisolto.

Proprio Tortora fu una delle prime vittime di errore giudiziario provocato dalla testimonianza di alcuni pentiti. Erano ancora gli anni Ottanta e i collaboratori di giustizia non erano riconosciuti come fonte di prova nel processo penale. Dopo le testimonianze dei Buscetta, dei Mutolo, dei Contorno, il Parlamento ha riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia e la quasi immunità per tutti i delitti commessi prima di quello che i giudici definiscono “ravvedimento operoso”. La nuova legge è stata interpretata da due sentenze della Suprema Corte, che hanno di fatto scardinato il sistema garantista che proteggeva l’imputato dalle possibili verità di comodo, imponendo al magistrato un controllo diretto e puntuale su ogni affermazione del collaborante. Fino al 1992 la Cassazione aveva sempre sostenuto l’esigenza che ogni affermazione di un pentito dovesse trovare riscontro nei fatti. Tutto ciò comportava un impegno assai gravoso per la pubblica accusa. Trovare riscontri su storie di mafia lunghe decenni e raccontate “a puntate” risultò impossibile. Di qui il nuovo corso della giurisprudenza che ha facilitato il compito dei magistrati, introducendo il principio secondo il quale la concordanza tra due testimonianze parallele equivaleva al riscontro. Un’assurdità bella e buona, che la giurisprudenza riconoscerà cambiando di nuovo il corso della giustizia, quando si accorgerà che i pentiti parlano tra loro, studiano le carte dei processi, hanno avvocati in comune, al dibattimento danno prova di capacità mnemonica fuori dall’ordinario.

Uno degli ultimi casi in cui si è parlato di errore è il processo Pacciani. La pubblica accusa, dopo aver sostenuto con ostinazione e fermezza - e poi ottenuto - la condanna dell’imputato, ha fatto macchina indietro e ne ha chiesto l’assoluzione. Il processo era durato sette mesi e trenta udienze dibattimentali e si era concluso con una condanna all’ergastolo per quattordici dei sedici omicidi commessi dal “mostro di Firenze”. Senza disporre nuove indagini e basandosi solo sulla lettura della sentenza di condanna, la procura generale ha rimesso in discussione il castello probatorio costruito a carico dell’imputato. A questo punto si è verificato un fatto senza precedenti: nel momento stesso in cui la corte d’assise d'appello stava per decidere, la procura della Repubblica - che aveva sostenuto la colpevolezza di Pacciani - ha disposto e annunciato pubblicamente l’arresto di un presunto complice del principale imputato. Per tutta risposta, la corte ha assolto Pietro Pacciani dando vita a un mostro giuridico a due teste, in cui il nuovo arrestato rischia di diventare complice di un innocente. Un mese dopo la stessa procura ha annunciato l'arresto di un terzo complice, reo confesso. A questo punto si apre uno scenario nuovo e dagli sviluppi imprevedibili. Resta il fatto che all'interno della vicenda si sia insinuato un tipo di errore assolutamente inedito, su cui giuristi e addetti ai lavori disserteranno a lungo.

“Toghe che sbagliano”, libro di Claudio Defilippi e Debora Bosi, propone le storie di innocenti reclusi, abbandonati e mai risarciti, con la beffa finale data dal fatto che nessuno ha mai pagato per questi errori giudiziari. Claudio Defilippi, avvocato del foro di Milano, già procuratore onorario presso la Procura di Reggio Emilia, è patrocinante presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Professore presso la Scuola di specializzazione dell’Università di Pisa, è autore di varie pubblicazioni in materia di diritti umani e responsabilità dello Stato. Debora Bosi, avvocato del foro di Parma, è autrice di testi giuridici in materia di ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e al Comitato per la prevenzione della tortura di Strasburgo.

Un libro che apre uno squarcio nel sistema giudiziario italiano, confermando che la sintesi dei mali della giustizia italiana è tutta qui, nei casi proposti. Casi per i quali nessun pubblico ministero ha mai pagato. Casi per i quali nessun giudice ha mai pagato. Casi sui quali, dopo, segue spesso il silenzio delle istituzioni. Casi che rasentano l’assurdo giuridico. Sono casi di mala-giustizia sconvolgenti, per i quali gli autori pongono una domanda retorica: «Quale risarcimento lo Stato dovrebbe concedere al cittadino vittima di un errore giudiziario e sottoposto al 41 bis, ossia il carcere duro?».

Da Enzo Tortora a Daniele Barillà fino a Domenico Morrone, quindici anni in galera da innocente e una causa allo Stato lunga e ingarbugliata per essere finalmente e degnamente risarcito. Ingiuste detenzioni mostruose per le quali l’Italia è il Paese più condannato in Europa, ed errori giudiziari grotteschi. Questo è un libro che narra devastanti abbagli, vite stroncate e mai riparate. Ma è anche un libro che racconta gli ingranaggi rotti della macchina giudiziaria, contro cui gli autori, tra i pochi avvocati esperti in processi di revisione, si sono scontrati per anni: «I giudici possono rigettare, de plano, senza alcun contraddittorio, le richieste di revisione, pertanto il sistema impedisce, come oggi prevede la legge, il diritto pieno alla prova». Se sei innocente e finalmente, dopo anni, hai le prove, resti dentro. Grottesco, ma tutto dannatamente vero.

Una società civile che permette di tenere in carcere degli innocenti, per essere genuflessa ai poteri forti, è una società collusa e codarda.

Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un’omissione o un abuso d’atti di ufficio da parte del magistrato che non ha saputo o voluto cercare prove a discarico, così come la legge lo obbliga a fare.

Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un infedele patrocinio da parte del difensore che non ha saputo o voluto difendere il proprio cliente, spesso dovuto allo stato d’indigenza dell’indagato/imputato.

Eppure la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, (Sent. 13 marzo 2008 n. 11251/08), ha stabilito che non ha diritto al risarcimento dei danni il cittadino che è stato ingiustamente imputato poi assolto. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti precisato che "in tema di danni provocati dall'attività giudiziaria, l'ordinamento vigente prevede la riparazione del danno, patrimoniale e non patrimoniale, patito per: a) custodia cautelare ingiusta (art. 314 c.p.p.); b) irragionevole durata del processo, (legge 24.3.2001 n. 89, c.d. legge Pinto); c) condanna ingiusta accertata in sede di revisione, ovverosia errore giudiziario (art. 643 c.p.p.)". Aggiunge poi la Corte che "non prevede invece alcun indennizzo per una imputazione ingiusta, cioè per una imputazione rivelatasi infondata a seguito di sentenza di assoluzione. Così come ovviamente non consente di duplicare, in sedi processuali diverse, la riparazione dello stesso danno".

Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes sarebbero quasi 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero della Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Dal dopoguerra al 1995. Questo enorme numero è già vicino ai 5 milioni, se esteso al tempo odierno. Per quantità si tratta dell’intera popolazione di Toscana e Umbria assieme.

Dal 1945 al 1995 in cella vi sono stati 4 milioni di innocenti. Dal 1980 al 1994 vi è stata assoluzione per metà dei reclusi vittime di detenzioni ingiuste. La percentuale di persone prosciolte è risultata pari al 43,94 per cento di quelle sottoposte a giudizio. In cifre assolute, più di un milione e mezzo di cittadini è stato giudicato non colpevole, degli oltre 3,5 milioni finiti di fronte ad un giudice. E ancora: di questo milione e mezzo sono più di 313.000 quelli prosciolti con formula piena. Tradotti in cifre, i mali della giustizia fanno rabbrividire. Si chiamano errori giudiziari e in 50 anni di storia repubblicana hanno travolto 4 milioni di italiani. Per omonimia, perizie errate, calcoli approssimativi sulla permanenza in carcere. Errori o distrazioni che hanno avuto costi altissimi per le casse dello Stato. Non per niente il rapporto che l'Eurispes ha preparato e che è stato presentato a gennaio del 2006, si intitola: "Un popolo a rischio. Gli italiani e la macchina della giustizia".

Ad oggi non vi sono a riguardo dati statistici ufficiali da parte del Ministero della Giustizia, per ovvie ragioni, ma ormai siamo vicini ai 5 milioni di vittime del sistema. Adesso quasi ogni giorno, sostiene il rapporto dell'Eurispes, "lo Stato si vede costretto a riconoscere i propri errori e a rifondere cittadini innocenti".

Più in generale, l'Eurispes sostiene che il fenomeno degli "errori giudiziari" in Italia è in ogni caso soltanto "la punta di un iceberg". Infatti, "per una piccola parte di situazioni accertate e riparate, c'è comunque un numero altissimo di realtà che restano senza soluzione: sul totale delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione o responsabilità civile dei giudici, quelle che vanno a buon fine rappresentano la minoranza". La ricerca riporta anche alcune considerazioni di "addetti ai lavori", come il senatore Ferdinando Imposimato, ex giudice istruttore, e l'avvocato Carlo Taormina. Imposimato sostiene che "i procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari, basati cioè su fatti desunti dall'esistenza di altri fatti. In pratica, il risultato di una deduzione logica: terreno ideale per l'errore; troppo spesso l'indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di tramutarsi ulteriormente in prova". Per Taormina, invece, esiste "una condizione di squilibrio" in particolare a vantaggio del pm e come conseguenza si verificano "errori giudiziari che incidono sull'impostazione dell'accusa".

La vittima di un ingiustizia è vittima, sì, si un errore giudiziario, ma spesso è anche vittima di un'ingiusta detenzione.

L'errore giudiziario consiste nella scoperta, mediante l'impugnazione straordinaria della revisione (cfr. artt. 629 ss c.p.p.), dell'ingiustizia sostanziale di una sentenza irrevocabile di condanna.

E' importante ricordare che è la stessa Costituzione a richiedere che il legislatore determini le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari (cfr. art. 24, comma 4, Cost.).

I presupposti necessari alla riparazione dell'errore giudiziario sono sia positivi, sia negativi (art. 643 c.p.p.).

Il presupposto positivo è il proscioglimento in sede di revisione; i casi di revisione del processo sono essenzialmente il contrasto tra giudicati penali, il contrasto tra giudicato penale e civile o amministrativo, la scoperta di nuove prove (cfr. art.630 c.p.p.).

I presupposti negativi sono i seguenti: innanzitutto chi è stato prosciolto in sede di revisione non deve aver dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario; in secondo luogo, il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso.

La quantificazione del danno esistenziale da errore giudiziario è legato fondamentalmente ad un duplice ordine di fattori: anzitutto alla genericità dell’espressione utilizzata dal legislatore nella indicazione dei parametri di riferimento per la commisurazione dell’entità della riparazione e, in secondo luogo, alla considerazione che, in realtà, stando anche al dato letterale, non si può parlare tecnicamente di risarcimento del danno da errore giudiziario, ma di indennità o indennizzo.

E’ in quest’ottica che si pone la ricorrente massima giurisprudenziale in base alla quale "la riparazione dell’errore giudiziario, come quella per l’ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato".

La ricostruzione in questi termini della riparazione per l’errore giudiziario (avente, dunque, natura indennitaria e non risarcitoria) risponde alla precisa finalità di evitare che il danneggiato debba fornire la prova sia dell’esistenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) delle persone fisiche che hanno agito, sia la prova dell’entità dei danni subiti.

Per quanto riguarda l'ingiusta detenzione, all'imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente (artt. 314 e 315 c.p.p.).

Questo diritto è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell'uomo (cfr. art 5, comma 5, C.E.D.U.).

La domanda di riparazione è presentata dall'imputato dopo che la sentenza di assoluzione è divenuta irrevocabile e sulla richiesta decide la Corte di Appello con un procedimento in camera di consiglio.

Il presupposto del diritto ad ottenere l'equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nell'ingiustizia formale della custodia cautelare subita.

L'ingiustizia sostanziale è prevista dall'art. 314, comma 1, c.p.p. e ricorre quando vi è proscioglimento con sentenza irrevocabile perchè il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.

E' importante tenere presente che, ai sensi del successivo comma 3 dell'art. 314 c.p.p., alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione.

L'ingiustizia formale è disciplinata dal comma 2 dell'art. 314 c.p.p. e ricorre quando la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., a prescindere dalla sentenza di assoluzione o di condanna.

In materia rilevanti novità sono state apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, cosiddetta "Legge Carotti", il cui articolo 15 ha apportato modifiche all’art.315 del codice di procedura penale.

In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un’ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire ad un miliardo (oggi € 516.456,90), ed è altresì aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione: da 18 a 24 mesi.

Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.

Secondo un rapporto del ministero della Giustizia, su 53 mila detenuti complessivi 16.740 sono in attesa del primo giudizio, 9.600 dell’appello, 3.200 del giudizio della Cassazione: il totale di questa popolazione carceraria "sospesa" è assai maggiore dei 22 mila detenuti perché condannati in via definitiva. "Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada".

Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. Ogni tanto lo Stato paga: il ministero dell’Economia conteggia in 213 milioni di euro i soldi sborsati nel periodo 2004-2007 per risarcire le vittime di errore giudiziario e per custodia cautelare ingiusta (il grosso del malloppo). I risarciti sono 3.600: il 90% italiani, il 10% stranieri, perché si difende chi può.

L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.

Sono uomini bagnati. Con il freddo nelle ossa, per sempre. "Sa come si dice dalle mie partì? Chi è stato bruciato dall’acqua calda ha paura dell’acqua fredda". Le "parti" di Francesco Masala sono la Calabria e una stanza muta dove ha soggiornato per dieci armi, scontando una pena più lunga (16 anni) per un omicidio compiuto da un altro, un criminale con tanto di pedigree. Lui, Masala, nel novembre del 1985 era un ragazzo che sei mesi prima aveva messo un mattone nella costruzione del suo futuro, prendendo la Maturità. Quel mattone divenne cemento, a destra, sinistra, sopra, sotto. Una porta blindata era il diversivo di quest’orizzonte negato. Non sono storie di denaro, ma sono storie d’amore. Francesco Masala era un ragazzino, dunque. E il futuro già dietro le spalle. Lei sapeva che Francesco era innocente, il suo Francesco, che cresceva e restava un bell’uomo, un metro e 85, spalle larghe, viso dolce, occhi inarcati e castani, capello lungo, barba che va e viene. Lei c’è anche 23 anni dopo. E mo, cosentino come i protagonisti, che da vent’anni ha "questo tarlo: far capire ai giudici che Francesco è innocente". Quella sera di novembre aveva la colpa di essere sul marciapiede di piazza Kennedy accanto a Sergio Palmieri, impiegato comunale. Si riparavano dalla pioggia. Un killer conosciuto e sanguinario freddò Palmieri, due colpi precisi. Molti i testimoni, nessuno fece il nome dell’assassino. I poliziotti torchiarono un coetaneo e conoscente di Masala, finché non gli fecero ammettere di aver visto sparare l’amico. Il "falso" testimone affermerà 23 anni dopo: "Non ho mai detto di aver visto Masala con la pistola in mano. Lo interpretarono gli inquirenti". Vi furono dubbi, una prima scarcerazione di un anno, nel 1989 (e Masala fu chiamato al servizio di leva!). Indefesso, il procuratore generale fece ricorso e la Cassazione lo accolse, rispedendo il calabrese in carcere. Il presidente della Suprema Corte era Corrado Carnevale, quello che semmai scarcerava i mafiosi. Il tarlo rode ancora l’avvocato: "Il processo di revisione è cominciato otto anni fa, a Salerno. Le procure sono oberate di carichi, e dilatano nel tempo la conclusione di un processo che deve certificare un loro errore. E per la causa civile serviranno altri dieci anni". Questo succede: l’Italia è lo Stato maggiormente sanzionato dalla Corte europea. I capi d’accusa di Strasburgo: lentezza nei processi e nei risarcimenti. Masala oggi è sposato e fa il manovale in una ditta di telefoni. Ha una figlia, "volevo che sapesse che sono innocente".

Nella storia di Felice Turco, siciliano di Gela, ci sono otto processi e un’ammissione di colpa che abbrevierà i tempi del processo di revisione: è la stessa procura di Caltanissetta che ha rinnegato la soluzione ai delitti del 1998. Morirono un commerciante e un ragazzo (Fortunato Belladonna, 16enne) accusato di essere l’esecutore dell’altro omicidio. La coinquilina di Belladonna era la testimone del delitto del commerciante: per questo i due episodi furono collegati. Il nome di Felice Turco fu un depistaggio dei pentiti di mafia. Prese l’ergastolo, la pena massima, con sentenza definitiva. Adesso sono sette i collaboratori di giustizia che lo scagionano, "Turco non c’entra niente". Colui che lo accusò con più vigore si è suicidato dopo aver ammesso la menzogna.

Melchiorre Contena ha occhi sorridenti, umidi. Andò a trovarlo nel suo appartamento nel senese perfino il Tg1, nel podere dove nel 1977 viveva di pastorizia. Il 31 gennaio di quell’anno, poche colline più a sud, l’imprenditore milanese Marzio Ostini venne rapito. La famiglia pagò, i rapitori sparirono. Di Ostini non si saprà più niente. Sono gli anni dell’Anonima sequestri, sono terre dove lavorano molti pastori emigrati dall’isola. Gli inquirenti picchiarono subito nel mondo dei pastori sardi. Uno di loro, Andrea Curreli, venne fermato che vagava senz’arte né parte con due targhe in tasca di auto rubate. Interrogato, snocciolò una fantasiosa verità, risolvendo d’un colpo il caso-Ostini: "Il sequestro è stato pianificato al podere dei Contena". È un racconto lardellato di evidenti rancori e bugie. Si scoprì che Curreli aveva lavorato come servo pastore per Contena e fu allontanato perché inaffidabile. Non era una confessione ma una vendetta. Eppure quelle parole inchioderanno Contena nella sua cella. Il pastore di Orune ha oggi un filo di voce, ancor meno memoria. Un maledetto ictus gli ha complicato i ricordi. Sarebbero serviti a raccontare una vita intera passata nel posto sbagliato, per colpa d’altri, senza sapore, a rimbalzare fra muri spessi e grigi e cancelli di ferro. Con la lucida consapevolezza di essere vittima del furto più atroce, quello della libertà. Derubata in nome del popolo italiano: 31 anni di carcere, e altri 10 passati nel limbo di una parvenza di libertà ritrovata, ma l’onore ancora no, per quello ha dovuto attendere il 18 luglio 2008, quando la corte d’assise dell’Aquila scrive: "Contena è innocente". Ha gli occhi felici perché adesso, con i capelli bianchi e la stanchezza della vecchiaia, si fa compagnia con la dignità e l’onore che i giudici gli avevano tolto. Per lui, parla la moglie, Miracolosa Goddi. C’è sempre stata, nella buona e nella cattiva sorte: "Non c’interessano i soldi. Hanno detto che i Contena sono persone perbene. Questo volevamo".

Angelo Rizzoli, una storia tra carcere e malattia. Dieci mesi trascorsi in carcere e tre agli arresti domiciliari. Poi, Angelo Rizzoli, nipote del re dell’editoria arrestato nel 1983, è stato prosciolto. Ospite a "Niente di personale", il magazine condotto da Antonello Piroso in onda il 27 febbraio 2007, alle 21.30 su LA7, riportato su “Il Giorno” in pari data, Rizzoli ci tiene però a precisare durante la sua intervista un "particolare" che ha reso ancora più dolorosa la sua vicenda: "Io ho la sclerosi multipla, una malattia che secondo me è incompatibile con la vita carceraria e che, purtroppo, girando cinque istituti di pena, si è notevolmente aggravata". Angelo Rizzoli parla poi di quanto gli sia costato essere l’erede di una famiglia così illustre. "Purtroppo, portare un nome altisonante comporta anche delle negatività. Nel carcere di Bergamo, dove tra l’altro ero assieme a Enzo Tortora, sono stato anche estorto dal direttore. L’ho denunciato, sono stato rimesso in libertà, ma quando sono stato nuovamente arrestato, mi hanno rimandato lì". Eppure Rizzoli spiega al conduttore di aver detto esplicitamente: "Portatemi in tutti i carceri che volete, meno che a Bergamo". Niente da fare. Il Direttore è stato poi condannato a 5 anni per estorsione. "E a Bergamo - prosegue - il direttore mi ha messo 45 giorni in cella di punizione, dal 10 novembre fino al giorno di Natale. Quando sono uscito, ero in uno stato di disperazione, ma anche in una condizione di grandissima prostrazione fisica". "Essere nato con un nome fortunato e in una famiglia baciata dal successo - commenta poi - non garantisce nella vita che queste condizioni di privilegio durino, anzi.

In qualche modo, io ho subito una legge di compensazione, perché, ai tanti benefici che ho avuto nella nascita, sono seguite poi altrettante sofferenze. E non parlo solo per me. Ho visto amici morire della mia stessa malattia, andare in galera mio fratello e morire mio padre, mentre mia sorella, indagata per lo stesso reato, non ha resistito e si è gettata fuori dalla finestra. Per queste vicende giudiziarie e per salvare la mia società sono finito nelle braccia della P.2.. Nessuno mi voleva aiutare, perché c’era la politica in mezzo".

Quando si parla delle vicissitudini giudiziarie di Berlusconi, l'argomento dovrebbe essere vagliato senza paraocchi ideologici, ma basterebbero solo rudimenti di diritto per farsi una propria opinione sul sistema giustizia in Italia. Il caso Berlusconi è esemplare. Per un premier non basta personalizzare gli accanimenti, perchè se capita a lui, figuriamoci ai poveri cristi.

Esemplare è il caso Ruby. A Milano i pm chiedono il rito immediato per i reati di concussione e prostituzione minorile. Bruti Liberati parla di prove evidenti, ma poi ammette: le telefonate del premier sono irrilevanti. E dice: "Non c'è reato ministeriale". Ruby indagata per false generalità. Berlusconi: "Accuse infondatissime, c'è una finalità eversiva". Il Csm: "Magistrati denigrati". Bossi: "Vogliono lo scontro fra istituzioni". Davanti al palazzo di giustizia di Milano la protesta dei sostenitori del Pdl: "Silvio resisti".

Berlusconi: "Sono dei processi farsa, accuse infondatissime". E ancora: "Queste pratiche violano la legge, vanno contro il Parlamento, la procura di Milano non ha competenza territoriale, nè funzionale. La concussione non c’è, è risibile, non esiste. Sono cose pretestuose, a me spiace che queste cose abbiano offeso la dignità del Paese e hanno portato fango all’Italia", Silvio Berlusconi risponde a stretto giro di posta ai magistrati di Milano. I pm "hanno una finalità eversiva", ha detto il Cavaliere. "È una vergogna, uno schifo", dice il premier. "Alla fine nessuno pagherà, alla fine come al solito pagherà lo Stato. Farò una causa allo Stato visto che non c’è responsabilità dei giudici", ha aggiunto il presidente del Consiglio. Le indagini dei giudici milanesi "hanno solo una finalità di disinformazione mediatica. Io non sono preoccupato per me, sono un ricco signore che può passare la sua vita a fare ospedali per i bambini del mondo...", ha concluso Berlusconi. Intervistato da Belpietro, il direttore di “Libero”, il premier è poi tornato sull'accanimento giudiziario nei suoi confronti: un record mondiale, ha sostenuto ironizzando. "Una persecuzione politica da parte dei magistrati di sinistra" che si è espressa in "più di cento indagini" e "28 processi, un record assoluto nella storia dell’uomo in tutto il mondo". Poi ha snocciolato i numeri record della "persecuzione": "Ci sono state 2.560 udienze. Se avessi dovuto presenziare a tutte avrei avuto un’udienza al giorno". Il premier ha inoltre ricordato che sono stati impegnati "più di mille magistrati" con "un costo da parte mia di 300 milioni di euro in avvocati e consulenti". Il Cavaliere ha infine ricordato di aver avuto 10 assoluzioni, 13 archiviazioni e 4 processi ancora in corso "assolutamente inventati, ridicoli, grotteschi".

Ma non è solo la fondatezza delle accuse a far pensare. Si parla anche della velocità.

A tal proposito, si riporta il pensiero di Filippo Facci, che racchiude il pensiero di molti commentatori. "Eccolo il processo breve, anzi immediato, anzi esclusivo: è quello organizzato da un’intera procura che per mandare alla sbarra Berlusconi si è fatta prestare gente anche da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie. Eccolo il processo brevissimo, quel giudizio immediato addirittura preannunciato all’Ansa e che dovrebbe presupporre «l’evidenza della prova» anche se la prova non è evidente manco per niente, perché abbiamo una concussione senza concussi (la questura di Milano non si ritiene vittima) e poi abbiamo dei fatti di prostituzione minorile (con Ruby, anche qui, presunta parte offesa), la cui effettività e consapevolezza del reo sarebbero tutte da ricostruire, come tuttavia un’udienza preliminare non ricostruirà: il rito alternativo, infatti, la salterà di netto. Ha vinto la scuola di Ilda Boccassini, ha vinto la linea dura che mira alla guerra lampo e alla torsione della giurisprudenza ai diktat della Procura di Milano, come ai vecchi tempi: un rito immediato per prostituzione minorile è fuori dal Codice? Non sta in piedi neanche con lo sputo? Staremo a vedere. Già si sapeva che la priorità dell’azione penale, qui in Italia, era notoriamente rivolta a problemi fondamentali quali sono appunto la prostituzione minorile e la concussione telefonica: ora sappiamo che non è così, la priorità infatti è generica e ad personam (altri indagati come Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora saranno giudicati con rito ordinario, senza fretta) e riguarda specificamente, questa priorità, il presidente del consiglio: una forma di ennesimo privilegio. Eccoli i processi brevi, che ci sono già e che funzionano benissimo: quelli a Berlusconi. Ben lo sanno quei giudici che a Milano hanno sbrigato l’Appello del caso Mills in un solo mese e mezzo, per fare un esempio a caso. Il processo lungo, invece, a Milano continua a impiegare almeno sette anni per mandare in primo grado un processo per usura. Lo stesso processo lungo, nel resto d’Italia, impiega un minimo di cinque anni per un penale in primo grado, da otto a trent’anni per un civile, sette anni e mezzo per un divorzio, quattro anni per un’esecuzione immobiliare. Il processo breve, invece, quello cioè ad personam, ha fatto filare il primo grado del processo Mills per la bellezza di 47 udienze in meno di due anni: hanno lavorato talvolta sino al tardo pomeriggio, talvolta anche nei weekend. È lo stesso processo breve che ha visto depositare le motivazioni della sentenza d’Appello in soli 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Ma non c’è soltanto il solito caso Berlusconi. Il processo breve, inteso come discrezionalità della magistratura nel dare impulso ai processi che preferisce, ha chiuso il caso Cogne in tre anni, e, in generale, corre come un treno ogni volta che i giornali ne scrivono. Mentre altri procedimenti dormono, e come mai? Forse è perché manca la carta per le fotocopie - l’hanno usata tutta a Milano - o perché qualche cancelliere era in malattia, la segretaria è in maternità, insomma le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i veri e soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda a tutte le classifiche sulla giustizia.  Problemi nei quali la magistratura, resta inteso, non ha né arte né parte."

Sullo sfondo del nuovo processo sul cosiddetto Rubygate c’è un dato numerico che nel blog "In-Giustizia" di Maurizio Tortorella su “Panorama” si è considerato. Gli antiberlusconiani lo considerano un tema insieme ridicolo e irrisorio. Anzi, a volte se ne appropriano proprio per dimostrare la pericolosità sociale dell’uomo. Invece pare un dato impressionante e incontrovertibile, che dimostra solo un accanimento giudiziario mai visto: Silvio Berlusconi, da quando è sceso in campo nel 1994, è stato messo sotto processo 29 volte in Italia (per la stragrande maggioranza dei casi a Milano) e una in Spagna. A Madrid fu Balthasar Garzon, il giudice più internazionale d’Europa, a indagarlo nel 1997 per presunte malversazioni su Telecinco, l’emittente televisiva. Risultato: procedimento archiviato in istruttoria nel dicembre 2008, 11 anni più tardi. In Italia, dei 29 procedimenti aperti dal 1994 al 2010, due hanno riguardato reati gravissimi come la strage e uno l’associazione mafiosa; altri hanno avuto come ipotesi di reato la corruzione, l’appropriazione indebita, il falso in bilancio, la concussione, la frode fiscale, la ricettazione… Sono stati tutti, com’è noto, processi durissimi dal punto di vista mediatico e spesso anche lunghi. Di questi procedimenti, però, 12 sono terminati con un’archiviazione in istruttoria, e questo significa che lo stesso pubblico ministero ha ritenuto non doversi procedere, o per mancanza di prove o per insussistenza dell’ipotesi di reato; altri cinque sono finiti in prescrizione, e due sono stati cancellati per intervenute modifiche legislative (sono questi i cosiddetti casi delle «leggi ad personam»). Altri sei sono ancora in corso (tra loro il nuovo processo sul Rubygate), ma per tre il pm ha già chiesto l’archiviazione. Restano infine quattro assoluzioni piene. Il computo dice che Berlusconi è stato processato quasi due volte l’anno, dal 1994. Non da sottovalutare sono anche i processi-scandalo mediatici. Prima: Patrizia D'Addario, la escort barese che ha aperto la strada alle indagini sugli scandali sessuali di Silvio. Lo ha incastrato registrando le serate trascorse con il premier tra Villa Certosa e Palazzo Grazioli, cercando di dimostrare anche le notti di sesso con il presidente del Consiglio sul "lettone di Putin". Poi, nel 2009, Noemi Letizia, "colpevole" di aver scattato troppe immagini con il premier per il suo 18esimo compleanno a Napoli. Foto che fecero il giro del mondo e misero di nuovo in imbarazzo Berlusconi. Senza dimenticare che furono la rovina matrimoniale del premier. Noemi è la causa del divorzio con Veronica Lario, stanca di "un marito che frequenta minorenni". Ultima ma non ultima Ruby Rubacuori. La 18enne che si è finta nipote di Mubarak e ha diverse volte partecipato alle feste del bunga bunga a villa di Arcore, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da Ruby è partita l'inchiesta che vede Berlusconi di fronte a un giudizio immediato per concussione e prostituzione minorile. Nessun capo di stato o di governo aveva mai ricevuto una così grave accusa.

Di Berlusconi e i suoi processi parla Bruno Vespa su l'Unità del 11 ottobre 2008, rispondendo a Marco Travaglio.

“Scrivo nel mio libro che Berlusconi dopo l’ingresso in politica ha avuto 22 processi e non 15 o 17 come scrive Travaglio, è perché ho i numeri di protocollo che sono costretto ad esibire: 1) N° 842/95 (Falso in bilancio Fininvest per libretti al portatore. Archiviato). 2) N° 6081/95 (Edilnord commerciale. Archviato). 3) N° 6031/94 (Palermo associazione mafiosa, archiviato nel ’97; riciclaggio, archiviato nel ’98). 4) N° 1370/98 (Caltanissetta su stragi Falcone e Borsellino, archiviato). 5)  N° 3197/96 (Firenze su strage via dei Georgofili, archiviato) 6)    N° 3000/96 (Progetto Botticelli, archiviato) 7) N° 11343/99 (Lodo Mondadori, prosciolto dal Gup perché il fatto non sussiste, amnistiato in appello e in Cassazione). 8) N° 11262/94 (Tangenti Guardia di Finanza, assolto per non aver commesso il fatto per tutti i capi d’imputazione tranne uno in cui c’è stata assoluzione per insufficienza probatoria). 9) N° 9811/93 (All Iberian, assolto per intervenuta prescrizione). 10)  N° 10594/95 (Medusa, assolto per non aver commesso il fatto). 11) N° 4262/95 (Macherio, assolto da tre imputazione perché il fatto non sussiste e da una per amnistia). 12)  N° 11747/97 + 12193/98 (Corruzione Ariosto Sme, assolto per non aver commesso il fatto e perché il reato non sussiste). 13) N° 5888/02 (Falso in bilancio Ariosto Sme, assolto perché il fatto non costituisce reato).  14)  N° 735/96 (“Consolidato, falso in bilancio”, assolto perché il reato si è estinto per prescrizione). 15) N° 2569/99 (All Iberian 2, assolto perché il fatto non è più prevista dalla legge come reato). 16) N° 2569/99 (Lentini. Estinto per prescrizione). Altri tre procedimenti (“Diritti”, “Mills”, “Mediatrade”) sono in corso come il processo Telecinco in attesa di archiviazione dopo che il tribunale ha assolto tutti gli otto imputati per i quali è stato celebrato il processo. E siamo a quota ventuno. Il 22esimo processo, il più vecchio (N° 5746/93 Viganò Verzellesi ha visto Berlusconi inscritto nel registro degli indagati il 28 gennaio del ’95. L’archiviazione è avvenuta cinque anni dopo. Nessuna indagine è stata dunque avviata su Berlusconi prima del suo ingresso in politica. Ho sempre sostenuto che il Cavaliere non è entrato in politica solo per “salvare l’Italia dai comunisti”, ma anche per proteggere le sue aziende. I Poteri Forti gli avrebbero fatto fare la fine di Angelo Rizzoli, depredato di tutto. Enrico Cuccia gli aveva fatto revocare dalla sera alla mattina fidi importanti. Glieli mantenne soltanto Cesare Geronzi, l’uomo che avrebbe salvato il Pds dai debiti. Due parole, infine, sul caso Travaglio – Schifani – Ciuro. A chiunque può capitare di avere in buona fede rapporti con una persona che poi si scopre più che discutibile. Ma occorre un bel coraggio per crocifiggere il presidente del Senato per aver avuto un rapporto con una persona condannata per mafia 14 anni dopo, mentre si trascorrevano ripetutamente le vacanze e si accoglievano le amichevoli segnalazioni di una persona come il maresciallo Ciuro arrestato tre mesi dopo l’ultimo soggiorno con il giornalista Travaglio e definito “figura estremamente compromessa con il sistema criminale” prima della condanna in Corte d’Appello a 4 anni e 8 mesi per favoreggiamento. Ma Ciuro aveva una grande benemerenza. Come scrivono Marco Travaglio e Saverio Lodato nel loro libro “Intoccabili”, il maresciallo era stato impiegato dal Pubblico Ministero Ingroia (anche lui partecipe delle stesse vacanze) “nell’ultima fase delle indagini su Dell’Utri e sui finanziamenti Fininvest”.

Da Panorama l’elenco dei procedimenti penali a carico di Silvio Berlusconi aggiornati al 19 aprile 2012:

1. Proc. Pen n. 5746/93 R.G.N.R. “Viganò Verzellesi” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 28/01/1995) Reati contestati: corruzione archiviato l’8/08/2000;

2. Proc. Pen. n. 842/95 R.G.N.R. “Falso in bilancio Fininvest libretti al portatore” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;

3. Proc. Pen. n. 6081/95 R.G.N.R. “Edilnord Commerciale” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;

4. Proc. Pen. n. 6031/94 R.G.N.R. “Palermo riciclaggio” Reati contestati: concorso esterno in associazione mafiosa – riciclaggio concorso esterno in associazione mafiosa: archiviato il 19/02/1997 riciclaggio: archiviato il 25 – 27/11/1998;

5. Proc. Pen. n. 1370/98 “Stragi Caltanissetta” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 3/05/2002;

6. Proc. Pen. n. 3197/96 R.G.N.R. “Stragi Firenze” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 14/11/1998;

7. Proc. Pen. n. 3000/96 R.G.N.R. “Progetto Botticelli” Reati contestati: falso in bilancio – frode fiscale archiviato il 16/02/1998;

8. Proc. Pen. n. 11343/99 R.G.N.R. “Lodo Mondadori” Reati contestati: corruzione giudiziaria assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 12/05/2001 ha dichiarato di “non doversi procedere perché il reato si è estinto per intervenuta prescrizione” (concesse le attenuanti generiche), sentenza confermata in Cassazione;

9. Proc. Pen. n. 11262/94 R.G.N.R. “Tangenti GDF” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte di Cassazione del 19/10/2001 ha “assolto in ordine a tutti i capi di imputazione per non aver commesso il fatto”. Solo per il capo D) l’assoluzione è ai sensi dell’art. 530 co 2 (insufficienza probatoria), dichiarata dalla Corte d’Appello e confermata dalla Cassazione;

10. Proc. Pen. n. 9811/93 R.G.N.R. “All Iberian 1” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 23/11/1995) Reati contestati: finanziamento illecito ai partiti assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 26/10/1999 ha dichiarato di “non doversi procedere perché i reati si sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;

11. Proc. Pen. n. 10594/95 R.G.N.R. “Medusa” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/06/2000 ha “assolto dal reato ascritto per non aver commesso il fatto”, sentenza confermata in Cassazione;

12. Proc. Pen. n. 4262/95 R.G.N.R. “Macherio” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 28/10/1999 (sentenza definitiva) ha “assolto dal reato di falso in bilancio perchè il fatto non sussiste, dichiarato non doversi procedere per il reato di appropriazione indebita per intervenuta amnistia e confermata la sentenza del Tribunale per la frode fiscale perché il fatto non sussiste”;

13. Proc. Pen. n. 11749/97 + 12193/98 R.G.N.R. “Corruzione Ariosto SME” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 27/04/2007 ha “assolto dal reato per l’episodio di cui al capo A) per non aver commesso il fatto ai sensi dell’art. 530 co 2 cpp e per l’episodio di cui al capo B) perchè il fatto non sussiste ai sensi dell’art. 530 co 1 cpp” sentenza confermata in Cassazione;

14. Proc. Pen. n. 5888/02 R.G.Trib.(stralcio del n. 11749/97 + 12193/98) “Falso in bilancio Ariosto SME” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 30/01/2008 (sentenza definitiva) ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato ascrittogli perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”;

15. Proc. Pen. n. 735/96 R.G.N.R. “Consolidato” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del GIP del 13/02/2003 ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato di falso in bilancio ascritto perché gli stessi sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;

16. Proc. Pen. n. 2569/99 R.G.N.R. (stralcio del n. 9811/93) “All Iberian 2” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 26/09/2005 ha “assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”;

17. Proc. Pen. n. 2601/94 R.G.N.R. “Lentini” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/12/2005 ha confermato la sentenza del Tribunale “di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione”;

18. Proc. Pen. n. 262/97Y R.G.N.R. - Tribunale di Madrid “Telecinco” Reati contestati: reati societari – reati contro la Pubblica Amministrazione (diritto spagnolo) archiviato il 13/10/2008;

19. Proc. Pen. n. 22694/01 R.G.N.R. “Diritti” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale con sentenze del 7/07/2006 e 28/05/2007 il Tribunale di Milano ha dichiarato il non doversi procedere per i reati di falso in bilancio e di appropriazione indebita in quanto estinti per prescrizione. Per il reato di frode fiscale è in corso il dibattimento;

20. Proc. Pen. n. 6859/05 R.G.N.R. “Mills” Reati contestati: corruzione giudiziaria Assolto: 25/02/2012 il Tribunale ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione;

21. Proc. Pen. n. 40382/05 R.G.N.R. “Mediatrade Milano” Reati contestati: appropriazione indebita – frode fiscale Prosciolto: Il GUP di Milano ha “prosciolto per non aver commesso il fatto”; in data 01/12/2011 il PM ha depositato ricorso in Cassazione;

22. Proc. Pen. n. 31358/10 R.G.N.R. “Mediatrade Roma” Reati contestati: frode fiscale In corso l’udienza preliminare;

23. Proc. Pen. “Santa Margherita Alitalia (convegno del giugno 2009)” Reati contestati: aggiotaggio e insider trading Archiviato il 18/11/2011;

24. (*) Proc. Pen. n. 58833/07 R.G.N.R. “Intercettazioni Saccà” Reati contestati: corruzione archiviato il 17/04/2009;

25. (*) Proc. Pen. n. 1349/08 R.G.N.R. “Corruzione Senatori” Reati contestati: corruzione archiviato;

26. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Saint Just” archiviato il 26/01/2009;

27. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Voli di Stato” archiviato l’8/10/2009;

28. (*) Proc. Pen. n. 41895/09 “UNIPOL - Intercettazioni Fassino Consorte” Reati contestati: rivelazioni segreto d’ufficio. Disposto il rinvio a giudizio il 7/02/2012. In corso il dibattimento(richiesta di archiviazione del 16/12/2010 - 15/09/2011 il G.i.p. ha disposto l’imputazione coatta per Berlusconi - 22/09/2011 chiesto il rinvio a giudizio);

29. (*) Proc. Pen. n. 55781/2010 + 5657/11 R.G.N.R. “Caso Ruby” Reati contestati: concussione – favoreggiamento prostituzione minorile il 15/02/2011 il g.i.p. ha disposto con decreto il giudizio immediato (prima udienza dibattimentale: 6/4/2011);

30. (*) Proc. Pen. “Innocenzi – Anno Zero” Reati contestati: abuso d’ufficio Chiesta l’archiviazione;

31. (*) Proc. Pen. “Minzolini – De Scalzi” Reati contestati: abuso d’ufficio. In corso le indagini preliminari;

32. (*) Proc. Pen. “vilipendio alla magistratura” Reati contestati: vilipendio all’ordine giudiziario. In corso le indagini preliminari;

33. (*) Proc. Pen. Tribunale di Bari Reati contestati: induzione a rendere false dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria
In corso le indagini preliminari.

(*) trattasi di procedimenti personali e quindi non riguardanti il Gruppo Fininvest. I dati relativi non rientrano tra quelli della c.d. “sintesi”.

Indagini per stragi a Firenze, Palermo e Caltanissetta: si tratta di tre indagini riguardanti le stragi di mafia degli anni 1992/1993, indagini già archiviate in passato (v. n. 5 e 6). Ad oggi non disponiamo di dati ufficiali, ma solo di notizie di stampa. Negli ultimi mesi ci sono state sia smentite (Firenze), sia conferme (Palermo), circa l’iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati.

Quando ci sono, le condanne di Silvio Berlusconi per corruzione e altro, non arrivano mai al giudizio definitivo: o per assoluzione o per prescrizione. E le sentenze e le motivazioni delle sentenze sono tutte postmoderne, nel senso che non stabiliscono una verità giuridica, introvabile nei processi politicizzati, ma si limitano a fungere da interpretazione tra le interpretazioni.

Il caso Mills è indicativo: il condannato non è Berlusconi, perché il lodo Alfano lo tiene fuori dal processo, ma nelle motivazioni della condanna di I grado a Mills il premier è tirato in ballo pesantemente come corruttore di un testimone. Giudicato senza essere processato. Giudizio arbitrario brandito dalle opposizioni a fini politici che, oltre ad aizzare le folle all’odio, danno un’immagine meschina dell’Italia all’estero: il Presidente del Consiglio italiano è un corruttore e un pregiudicato. Che fare? Credere o non credere? E a che cosa credere, a una sentenza che non c’è, o alle motivazioni che invece ci sono? Credere a un giudice che ha vinto un concorso (come si vince in Italia), o a un politico che ha vinto le elezioni (come si vincono in Italia)?

Vorrei vivere, come la maggioranza assoluta degli italiani, in un paese in cui la legge fosse uguale per tutti e tutti fossero uguali davanti alla legge. Vorrei un paese in cui i giudici applicano la legge dello Stato, rispettandola essi stessi, e non attuando un programma di risanamento e di salvezza politica della Repubblica deciso nei loro club e nelle loro correnti politiche, perché hanno sentore di poter perdere i loro privilegi ed impunità. Un paese in cui le decisioni dei tribunali hanno delle conseguenze veloci e certe, perché promanano da una sede autorevole e indiscussa, e un cittadino difeso e giudicato da un sistema di giustizia imparziale (e riconosciuto tale dalla totalità dei cittadini e non solo di sinistra). Ma questo paese non è il mio, non è il nostro.

Lelio Luttazzi, scomparso l’8 luglio 2010, ad 87 anni, nella sua abitazione di Trieste, in questo momento, è l’attualità. Perché Luttazzi è una delle tante vittime (naturalmente innocenti) delle intercettazioni telefoniche e delle libere interpretazioni del loro contenuto. Quelle stesse intercettazioni, usate dai media come gogna, che sono al centro del dibattito politico nazionale. Raccontava l’artista a Gian Antonio Stella, il 28 agosto del 1995: «Abitavo a Roma, davanti alla fontana di Trevi. La sera prima avevo fatto tardi. Mi sveglio e la donna di servizio mi fa: "Ha chiamato Walter Chiari, chiede di essere richiamato all'albergo Baglioni di Bologna. Prima però dovrebbe telefonare qui a Roma a un certo Lelio Bettarelli, a un numero che le ha lasciato, per dirgli di mettersi in contatto con il signor Chiari a Bologna perchè lui non riesce a prendere la linea". Non ebbi sospetti. E vero che nel giro si diceva che Walter sniffava, ma io non l'avevo mai visto farlo. Non mi passava per la testa che quel Bettarelli fosse uno spacciatore e che io potessi essere usato come ponte. Si figuri poi se potevo immaginare che la telefonata era intercettata. Fatto sta che chiamo 'sto Bettarelli e gli giro il messaggio. Stiamo per chiudere e lui mi fa: "A lei serve qualcosa?". E io come un baccalà : "Qualcosa cosa?". E lui, che aveva capito di essersi sbagliato pensando che anch'io fossi un cocainomane: "Ah, niente, niente, buongiorno". E mette giù. Fine». Qualche giorno dopo quella telefonata, Luttazzi si ritrovò a casa due finanzieri che, dopo una perquisizione (senza risultati) dell’appartamento, lo condussero nel carcere romano di Regina Coeli ove rimase, da innocente, per ben 27 giorni. Qualcuno, evidentemente, dopo un affrettato “2+2”, aveva deciso che anche «il maestro» fosse immischiato nel traffico di sostanze stupefacenti. Quella detenzione, quell’errore giudiziario, lasciarono su Luttazzi delle cicatrici indelebili. Una bellissima presenza in una TV monolitica, confessionale, ma attraverso la quale delle persone eccezionali, riuscivano a far passare la propria genialità, in modo anche sofferto. All’apice della fama, nel 1970 viene arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. Era innocente e fu assolto. Diceva: “ormai la gente rimarrà sempre con il dubbio”. Sentiva di aver subito un ingiusto marchio. Solo radio, un poco di “Hit parade”. e poi il lungo isolamento con qualche brevissima interruzione, fino alla partecipazione a San Remo 2009 con Alisa. La ferita del 1970, lo aveva segnato per tutto il resto della vita, soffrendo di ricorrenti crisi depressive, rimanendo sempre lucido e schietto.

La tv piange la prematura scomparsa di Gigi Sabani. Faceva l'imitatore, il suo umorismo era facile e popolare, una risata la strappava sempre. Gigi Sabani è stato uno di quei conduttori davanti a cui si aprivano tutte le porte, cui non mancavano le occasioni per inseguire un successo che pareva senza fine. Poi un bel giorno qualcosa si è rotto. Nell'estate del 1996 finisce in manette... si inaugura la prima grande inchiesta di Vallettopoli. La storia finisce in niente, viene prosciolto senza nemmeno arrivare al processo. Ancora, di fronte allo scandalo della seconda Vallettopoli, Sabani non riusciva a darsi pace: “Quando io e altri fummo sbattuti violentemente in prima pagina, senza certezze sulle eventuali responsabilità, nessuno, a parte pochi, si impegnò per difendere la nostra dignità”.

Tagliato fuori dalla tv, sbalzato dal trono, Sabani subì anche la beffa del risarcimento. Tredici giorni di ingiusta detenzione patiti dal presentatore dal 18 giugno all'1 luglio del 1996 gli valsero 24 milioni di lire (più un milione e rotti per le spese processuali). In tribunale avevano fatto i conti della serva: gli arresti domiciliari sono meno 'afflittivi' della gattabuia, il contratto con Sotto a chi tocca di Canale 5 non era ancora firmato, nel 1997 Sabani ci aveva rimesso 'solo' 250 milioni rispetto all'anno precedente e così via. Probabilmente, 24 milioni Sabani li guadagnava in una o due serate e la Corte d'appello di Roma non aveva tenuto conto che per un presentatore l'immagine è tutto e l'immagine di Sabani aveva subito un brutto colpo. Dal quale, con ogni probabilità, non si è mai più ripreso.

Non bisogna dimenticare il caso di Simonetta Cesaroni. Cose allucinanti. Una condanna, che per i più va al di qua del ragionevole dubbio. Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere: nell'aula bunker di Rebibbia la sentenza di I grado sul delitto di via Poma. Dopo due decenni, la morte di Simonetta Cesaroni trova “un colpevole”, che per molti non è “il colpevole”. Nel processo per la morte della ragazza uccisa il 7 agosto 1990 con 29 coltellate, Busco, ex fidanzato della Cesaroni, era l'unico imputato. Il pm Ilaria Calò aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà. Questo dopo la morte di Pietrino Vanacore, additato dalla stampa ed accusato dai magistrati di essere coinvolto nell’omicidio. Colpevole. Dopo più di 20 anni. Ma la condanna va al sistema giudiziario. E’ il fallimento di uno stato di diritto. Quale rito si è rispettato se dopo venti anni sono venuti meno tutte le prove e tutti gli strumenti difensivi. LA PENA. E’ la sanzione prevista che lo Stato, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria affligge all’autore di un fatto illecito. La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di punire il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha funzione rieducativa che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, terzo comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Dopo più di venti anni quale prevenzione a vantaggio della società ci può essere e quale rieducazione si può prevedere per il reo. Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni prima la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione. Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» il 26 gennaio 2011 alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione». Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo. Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta. Il processo era iniziato il 3 febbraio 2010. L'accusa, il pm Ilaria Calò, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. I giudici della terza corte d'assise, dopo una riunione in camera di consiglio, ha concesso all'imputato le attenuanti generiche. Per venti anni si è cercato la verità su quell’efferato delitto compiuto nell'ufficio dell'Associazione alberghi della gioventù dove Simonetta lavorava. Il 7 agosto 1990 Simonetta a 21 anni venne massacrata con un tagliacarte. Il suo carnefice la colpì 29 volte in tutto il corpo, ferite profonde circa 11 centimetri. Ad ucciderla però, fu un trauma alla testa. L'ipotesi degli investigatori fu che le coltellate erano state inferte sul cadavere solo per depistare le indagini. Il corpo seminudo e senza vita della ventunenne venne scoperto alle 11 di sera. L'autopsia accertò che non aveva subito violenza carnale e che la sua morte era avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. Il Busco, all'epoca aveva 26 anni ed era il fidanzato della vittima. Il primo ad essere stato sospettato del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore che scoprì il delitto. Poi gli inquirenti puntarono i loro sospetti su Federico Valle che era il nipote di un architetto che abitava in quel palazzo, Cesare Valle. Per il primo alcuni giorni dopo il delitto arrivò il fermo, mentre per il secondo nel 1992 un avviso di garanzia. Successivamente prima nel 1993, il Gup prosciolse dall’accusa di favoreggiamento Vanacore e Valle da quella di omicidio, e poi nel 1995 la Cassazione definitivamente emise la decisione di non rinviarli a giudizio. Le indagini ripartivano da zero. Gli inquirenti sospettarono che l’assassino fosse nella cerchia dei contatti della ragazza. Tra gli altri indagati finì anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, anche per lui il fascicolo venne archiviato. La svolta nelle indagini nel 2006. I risultati delle analisi di tracce di saliva rinvenuta sul reggiseno di Simonetta, ritrovato, dopo anni, dimenticato, e rimasto incustodito, in un armadietto del laboratorio di medicina legale, portarono al Dna dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario nel settembre del 2007. Gli investigatori, inoltre, prelevano anche l'impronta dell'arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla, attraverso le foto autoptiche del 1990, con il morso riscontrato sul seno di Simonetta. Il 9 novembre 2009 venne poi rinviato a giudizio e il 3 febbraio 2010 iniziò il processo. Nel corso del quale, il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione come teste, Vanacore si tolse la vita. Scompariva di scena un personaggio importante, e forse detentore di qualche segreto, di questa intricata vicenda. il 26 gennaio 2011 poi, la sentenza di primo grado. Il mistero che ha avvolto per tanti anni la morte di Simonetta Cesaroni è davvero svelato? Il difensore di Busco, Paolo Loria, ha affermato: “Non è stata fatta giustizia, andremo in appello”. “Non c'è prova alcuna che Raniero Busco abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Non si sa nemmeno con certezza che sia mai entrato in quell'ufficio”. Sono le parole del criminologo Francesco Bruno che si è detto profondamente stupefatto della condanna a 24 anni dell'ex fidanzato della Cesaroni. “Ancora una volta si dimostra come i giudici di primo grado risentano delle ipotesi accusatorie”, ha spiegato Bruno aggiungendo che: “Busco sarà certamente assolto in appello, ma sarà ben difficile cancellare quel marchio che gli hanno appiccicato addosso. Speravo che infine si tenesse in maggiore considerazione la fragilità accusatoria e che nel dubbio si arrivasse ad una soluzione più' ragionevole. Così non è stato, tuttavia nella condanna a 24 anni c’è tutto il senso di una non certezza della sua colpevolezza”. “La sentenza di condanna a 24 anni per Raniero Busco non risolve il caso di Via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni”. Ad affermarlo il criminologo Carmelo Lavorino, autore tra l’altro di un libro sul delitto di via Poma. Comunque sia per ora Busco non andrà in carcere. Nonostante la condanna a 24 anni di reclusione infatti, la corte non ha disposto alcuna misura in merito. Un fatto questo dovuto allo stato della sentenza. Quella emessa è infatti una sentenza non definitiva emessa in primo grado di giudizio. In Italia una sentenza diviene 'definitiva' solo al terzo grado, con il pronunciamento della Corte di Cassazione. Il caso in cui un condannato finisce in carcere dopo il primo grado si verifica solo se ci sono i presupposti per la custodia cautelare, che sono tre: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e possibile reiterazione del reato commesso. In questo caso il provvedimento restrittivo potrebbe essere applicato solo se ci fosse un reale pericolo di fuga. Cosa questa che sembra poco probabile che possa verificarsi. Busco ricorrerà in appello nella certezza dell’assoluzione in secondo grado di giudizio come ha anticipato il suo legale. Un ricorso in appello che invece, se non ci fosse porterebbe Busco in carcere. L’ordinamento infatti, prevedere che decorsi i 45 giorni dal deposito delle motivazioni di primo grado, la sentenza diverrebbe definitiva e il pm come 'giudice dell'esecuzione' potrebbe disporre la carcerazione del condannato.

Inaspettata dopo il 1° grado, ma attesa secondo la super perizia arriva il 27 aprile 2012 intorno alle 13 la sentenza d’appello: Raniero Busco è innocente, «assolto per non aver commesso il fatto».

Raniero Busco è stato assolto dalla prima corte d’assise d’appello di Roma per non aver commesso il fatto. L’uomo era accusato di aver ucciso Simonetta Cesaroni, assassinata il 7 agosto del 1990 in via Poma, che all’epoca era la sua fidanzata. Decisiva per l’assoluzione la perizia disposta dai giudici in appello: il segno su un seno di Simonetta non sarebbe riconducibile ad un morso di Busco e sul reggiseno della ragazza oltre al Dna dell’ex fidanzato comparirebbero altri due Dna. La sentenza di primo grado l’aveva condannato a 24 anni di reclusione per omicidio. Busco dopo la sentenza è stato colpito da un lieve malore: è stato sorretto dal fratello e dalla moglie, poi ha pianto abbracciato ai familiari. Arriva dopo 22 anni la sentenza che rivela la verità giudiziaria sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. La Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma, che venerdì 27 aprile si era ritirata in camera di Consiglio intorno alle 11, ha impiegato circa due ore e mezza per decidere la conclusione del nuovo processo per il caso di via Poma. Intorno alle 13.30 la pronuncia: Busco è stato dichiarato non colpevole. E' stata così annullata la sentenza di primo grado che aveva condannato l'ex fidanzato di Simonetta a 24 anni di reclusione. La sentenza è stata accolta da un urlo di sollievo. «Da oggi ricomincio a vivere - ha detto Busco -. Quando è uscita la Corte, in un attimo, ho rivisto tutta la mia vita». La verità, l'identità del «mostro» che assassinò la giovane romana, resta un giallo. La Corte d'Assise e d'Appello ha ritenuto dunque fondati i rilievi sollevati dai consulenti nominati dalla corte stessa, gli autori della superperizia secondo la quale il segno sul seno sinistro della ragazza uccisa - considerato in primo grado la «firma» dell’assassino, ovvero il segno perfetto della dentatura anomala di Busco - non era un morso. La conferma della condanna era stata sollecitata dal procuratore generale Alberto Cozzella, insieme con gli avvocati di parte civile. Mentre la tesi dei difensori Franco Coppi e Paolo Loria era che Busco dovesse avere la piena assoluzione «per non aver commesso il fatto», così come prevede l'art. 530 del codice di procedura penale al primo comma. E così è stato. Assenti i familiari di Simonetta, l'imputato Raniero Busco era presente in aula assieme alla moglie Roberta Milletari. «Non so come sarebbe finita la nostra storia ma non ho mai pensato di farle del male - aveva detto Busco durante l'udienza del 23 aprile -.

Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho provato quando ho perso mio padre». E aveva concluso rivolto alla corte: «Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza». Busco è stato colto da malore dopo la pronuncia di assoluzione. Sorretto dal fratello e attorniato da una gran ressa di telecamere e fotoreporter l'ex fidanzato di Simonetta è stato portato in una stanza dai carabinieri che svolgono l'ordine pubblico in Corte d'appello. Alla lettura della sentenza, Busco avrebbe prima esultato abbracciando la moglie, poi secondo alcune testimonianze sarebbe stato colto da un lieve malore. Ma uno degli avvocati ha smentito: «No, è stato composto. Ha solo pianto di gioia». Abbracci e commozione tra gli amici dell'imputato per la vittoria della linea difensiva. Il primo a parlare di morso era stato la notte dell’autopsia di Simonetta Cesaroni il medico legale Ozrem Carella Prada, proprio uno degli esperti nominati per la superperizia dal procuratore generale della Corte d’assise d’appello. L’avvocato storico della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro, ricorda a memoria le parole della perizia: «Si nota una deviazione del capezzolo del seno sinistro e la formazione di una crosticina che potrebbe essere stata causata da un probabile morso». «Scrisse probabile o eventuale morso» precisa Molinaro, «usò una formula dubitativa. Il pm Cavallone, una volta ritrovato il corpetto e il reggiseno di Simonetta, si rilesse per l’ennesima volta gli atti e puntò su quelle parole, su quella pista, sui Dna, su quel segno e la dentatura unica di Busco per via di un sovradente». ”E’ una sentenza emessa dall’unico organo deputato ad emettere una pronuncia in appello. Va accettata e rispettata” commenta alla stampa il procuratore generale, Alberto Cozzella. “All’esito del deposito delle motivazioni (la corte d’assise si è presa almeno 90 giorni) - ha aggiunto Cozzella – decideremo il da farsi. Non è escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. I giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria sono entrati in Camera di Consiglio poco dopo le 11. La riunione in camera di Consiglio è stata preceduta dalle repliche delle parti che, a sostegno delle rispettive tesi accusatorie e assolutorie hanno ripercorso le tappe fondamentali della vicenda esaminando punto per punto anche gli esiti peritali che da una parte portano a scagionare l’imputato e dall’altra come sostiene la Procura generale a confermare le responsabilità di Busco. E si accende la polemica sul dna, diventato prova regina in questo processo. “L’assoluzione di Raniero Busco era attesa, perchè nel condannarlo non sono state tenute in considerazione tutte le prove ma si è data un’importanza esagerata al solo Dna” afferma alla stampa il medico legale Angelo Fiori, uno dei periti all’epoca del delitto. “Questa sentenza sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove” afferma Fiori. ”Già all’epoca – prosegue – era emerso che il sangue trovato sulla porta era incompatibile con il gruppo di Busco, e questo secondo me già bastava a non includerlo nei sospettati. Ci si è basati invece solo sul Dna trovata sul presunto morso sul seno, ma senza tenere conto del fatto che c’erano quelli di tre persone, e non solo di Busco”. D’accordo con l’analisi anche Vincenzo Pascali, uno dei consulenti della Procura di Roma: “C’è stata una mancanza di lucidità nella valutazione delle prove – dice – la sentenza è dovuta al fatto che si sono considerate conclusive delle evidenze che invece non lo erano”. Da considerare una cosa: se non ci fosse stata la super perizia, perché non ammessa, o perché non necessaria, cosa sarebbe successo?

Non si dimentica il caso Enzo Tortora. Era un presentatore televisivo molto noto. La sua figura pubblica, certamente, non era a tutti gradita. Finì, all’improvviso, in un tritacarne allestito dalla Procura di Napoli sulla base di un manipolo di "pentiti" che prese ad accusarlo di reati ignobili: traffico di droga ed associazione mafiosa. Con lui, prima che quell’operazione si sgonfiasse come un palloncino, finiranno nel tritacarne altre 855 persone. Il suo arresto fu un evento mediatico. Prima di trasferirlo in carcere, i carabinieri lo ammanettano come il peggiore dei criminali e gli allestiscono una sorta di passerella davanti a fotografi ed operatori televisivi. L’Italia si spacca letteralmente in due tra innocentisti e colpevolisti.

E la stampa, dichiaratamente forcaiola e filo-magistratura, riesce a dare il peggio di sé.

E’ la quasi estate del 1983. Comincia il "caso di Enzo Tortora", vittima sacrificale degli isterismi e dei pressappochismi dell’antimafia. Con Tortora la giustizia italiana fa un salto indietro di qualche secolo, coprendosi letteralmente di vergogna.

Un gruppo di magistrati mostra i suoi lati più bui. Il presentatore televisivo viene tenuto in carcere per sette mesi, ottenendo appena tre colloqui con i suoi inquirenti. Gli indizi che lo accusavano sono debolissimi, praticamente inesistenti: oltre alle parole dei "pentiti", soltanto un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista. Un nome scritto a penna e un numero telefonico. Solo dopo lungo tempo si saprà che quel nome non era "Tortora", ma "Tortosa" e che il recapito del telefono non era quello del presentatore.

Nel giugno del 1984 Enzo Tortora, nel frattempo divenuto il simbolo delle tragedie della giustizia italiana, viene eletto deputato europeo nelle liste dei radicali che ne sosterranno sempre le battaglie libertarie.

Il 17 settembre 1985 (ad oltre due anni dall’arresto) Tortora viene condannato a dieci anni di galera. Nonostante l’evidenza, le accuse degli 11 "pentiti" (definiti da un giornale "la nazionale della menzogna") hanno retto al dibattimento.

Con un gesto nobile, l’ormai ex divo della TV, protetto dall’immunità parlamentare, si consegna. Resterà agli arresti domiciliari.  Il 15 settembre 1986 (a più di tre anni dall’inizio del suo dramma) Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla corte d’Appello di Napoli.

Il 20 febbraio 1987 torna sugli schermi televisivi.

Il 17 marzo 1988 Tortora viene definitivamente assolto dalla Cassazione.

Il 18 maggio 1988, stroncato da un tumore, Enzo Tortora muore.

Resterà per sempre il simbolo di una giustizia ingiusta. Che di macroscopici errori, dopo di lui ne commetterà, purtroppo, ancora molti.

Nel gennaio 2002 un uomo è stato assolto per non aver commesso il fatto dopo aver trascorso 16 mesi in carcere con l’accusa di violenze carnali e lesioni. L’anno prima, a febbraio, un condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso la moglie fu lasciato libero dopo sette anni dietro le sbarre. A giugno dello stesso anno un giovane di 25 anni è stato riconosciuto innocente dopo aver trascorso 6 anni e 4 mesi in carcere, come presunto omicida. Tre casi di clamorosi errori giudiziari, citati nel rapporto Eurispes sulle storie di ingiusta detenzione. Secondo un calcolo compiuto dall’istituto di ricerca nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 4 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al Ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. La vicenda di Filippo Pappalardi arrestato a Gravina con l’infamante accusa di aver ucciso i due figli Ciccio e Tore, poi scagionato dall'evidenza delle scoperte degli investigatori, è solo l'ultimo di tanti casi che in Italia hanno visto protagonisti genitori presunti pedofili o assassini, spesso vittime di gogna mediatica e invece poi rivelati dalle indagini non colpevoli. Il primo caso clamoroso fu quello di Lanfranco Schillaci. Insegnante di matematica a Limbiate, vicino a Milano, nell'aprile 1989 divenne un 'mostro da prima pagina': aveva portato la figlia Miriam di 2 anni all'ospedale Niguarda, perché perdeva sangue, accusato di abusi e pedofilia anche dai vicini di casa, si vide allontanare la bambina dal Tribunale dei minori fino a quando, poche settimane dopo, i medici dell'ospedale decretarono che Miriam perdeva sangue perché affetta da teratoma sacro-coccigeo. Un cancro al retto che la portò alla morte il 3 giugno dello stesso anno. Anche l'allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, chiese pubblicamente scusa all'insegnante per "le ingiuste sofferenze, che la terrena limitatezza delle attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto".

Nel settembre 1996 un tassista milanese di 45 anni, Marino, sulla base delle consulenze di psicologi e periti, che poi si rivelarono incompetenti, fu accusato di abusi sessuali nei confronti della figlia di tre anni: il Tribunale dei minori del capoluogo lombardo prima decide per un allontanamento cautelativo dalla famiglia della piccola, poi riaffida la piccola ai genitori. Nel frattempo la separazione con la moglie, infine l'assoluzione.

Nello stesso anno un pensionato di 61 anni viene condannato in primo grado a sette anni e tre mesi di reclusione per presunti abusi sessuali e maltrattamenti nei confronti delle nipotine di 7 e 3 anni: queste si rivelarono poi 'suggestionate' dalle convinzioni a priori dei periti e dopo 18 mesi di carcere, nel 2001, il pensionato è stato assolto.

Alla fine degli anni '90 don Giorgio Govoni, parroco di S. Giorgio, chiesetta di Modena, è accusato di essere responsabile, con altri, di abusi nei confronti di 13 bambini tra i quattro mesi e i 13 anni negli anni 1996-1997 e 1998: si parla addirittura di un giro di pedofilia perpetrata nei cimiteri. Don Giorgio fu scagionato sia dalla sentenza in primo grado che dalla Corte d'Appello di Bologna, ma non fece in tempo a sentire la riabilitazione dei giudici perché morì, si dice di crepacuore per le accuse.

Ancora. A Torino, nel 2000, il professor P., insegnante di musica in una scuola media della città, viene indagato per violenza sessuale nei confronti di due alunni. Il professore fu prosciolto due anni dopo: i ragazzi si erano inventati tutto.

Nel 2001 è la volta di un altro caso clamoroso. Paola Mantovani, 44 anni, accusa alcuni albanesi di aver fatto irruzione nella villa di famiglia e di aver ucciso il figlio Matteo, bambino autistico di 14 anni. La donna però viene subito coinvolta nelle indagini, accusata dell'omicidio, infine è assolta nel 2006.

Nel luglio 2004, a Brescia, due suore, che si erano sempre dette innocenti, vengono assolte in secondo grado con formula piena "perché il fatto non sussiste" dall'accusa di aver commesso, tra il 1999 e il 2000, abusi sessuali nei confronti di otto bambini che frequentavano la scuola materna di un paese vicino Bergamo. Sempre a Brescia, nel 2007, dopo due anni di indagini e 120 udienze, vengono assolti dall'accusa di pedofilia e abusi sessuali nei confronti di alunni della scuola materna Sorelli sei maestre, un bidello e un sacerdote: "Il fatto non sussiste".

Nel gennaio 2005, ancora a Brescia, la Corte di appello scagiona definitivamente Giuseppe R., 48 anni, accusato di aver molestato sessualmente nel 1997 il figlio di due anni e mezzo. Oltre il danno la beffa: nonostante la verità raggiunta nel frattempo il bambino era stato dato in adozione alla mamma e al suo nuovo compagno.

Nel giugno 2005, questa volta a Bologna, un pakistano di 28 anni lascia il carcere dopo un anno di detenzione per abusi sessuali nei confronti di una bambina di 11 anni poi rivelatisi inesistenti. Due mesi più tardi Elena Romani, un'hostess di Vercelli, è accusata di omicidio preterintenzionale nei confronti della piccola Matilda, la figlia di 22 mesi. Il Tribunale di Novara la scagiona.

Qualche mese dopo, è il febbraio 2006, don Giorgio Carli, parroco della chiesa di Don Bosco a Bolzano, accusato di violenze sessuali nei confronti di una sua parrocchiana, che all'epoca dei fatti era minorenne, viene assolto e abbandona la detenzione dopo tre anni.

Arriva marzo, l'Italia è scossa dalla vicenda del piccolo Tommaso Onofri, il piccolo di 18 mesi malato di epilessia rapito a Casalbaroncolo, vicino Parma. Nei primi giorni delle indagini finisce nel registro degli indagati il padre del bambino, Paolo Onofri: gli investigatori scoprono nel pc dell'uomo centinaia di file pedopornografici. Giornali e tv lo accusano. Alcune settimane dopo il tragico epilogo: il piccolo Tommaso è stato ucciso dai rapitori la sera stessa in cui fu portato via dalla sua casa.

Infine il caso di Rignano Flaminio, piccolo paese alle porte di Roma. Nell'aprile 2007 sei persone (tre maestre, una bidella e due personaggi esterni alla scuola) vengono arrestate per violenza sessuale reiterata su bambini della scuola materna Olga Rovere, minacce, percosse, sequestro di persona, produzione e commercio di materiale pedo-pornografico. I giornali parlano di "orchi" e di "asilo degli orrori", ma già nel giro di pochi giorni, però, le prove e testimonianze contro i sei traballano e si invita alla prudenza. Il 10 maggio il Tribunale del riesame di Roma decreta la scarcerazione per tutti gli arrestati per "mancanza di gravi indizi". In ottobre, poi, la Cassazione evidenzia contro i sospettati "elementi ma non indizi gravi". Le cronache parlano anche dei bambini di Basiglio (MI), che non c’entravano nulla con quel disegno osè che ritraeva la sorella con il fratello, allontanati dai genitori per oltre due mesi. In quella vicenda furono indagati preside e maestre, che attivarono l’intervento degli assistenti sociali con la falsa accusa che il disegno l’avesse fatto la bambina.

L’elenco degli errori giudiziari è infinito.

Francesco Pagano, ex direttore di Regina Coeli. Accusato da un magistrato di Vibo Valentia di concorso in sequestro di persona. E questo avviene dopo che il sequestrato, l’armatore D’Amico, crede di riconoscere uno dei suoi rapitori in Tiberio Cason, re della mala romana. Ma Cason ha un alibi di ferro: all’epoca del sequestro era rinchiuso in carcere, a Regina Coeli, appunto. Quello che per Cason è un alibi inattaccabile diventa l‘“indizio” per accusare Pagano. In sostanza il direttore del penitenziario romano avrebbe organizzato e protetto una fuga clandestina di Cason dal carcere. Pagano viene interrogato per complessive trenta ore dal magistrato calabrese che lo indizia di reati di concorso in sequestro di persona e procurata evasione. Un’accusa fumosa, una storia che va avanti comunque per un paio di anni e dalla quale l’imputato verrà completamente scagionato al termine di una lunga istruttoria. Colpito da infarto Pagano morirà pochi mesi più tardi.

Bruno Broglia, commerciante di tessuti, viene accusato di complicità nel sequestro del suo socio di affari. Secondo il magistrato inquirente avrebbe architettato il sequestro per impadronirsi dell’azienda. Un’accusa che non resta in piedi neanche in istruttoria, tant’è che Broglia sarà completamente scagionato senza arrivare al processo. Un’accusa che il commerciante inquisito non regge: morirà poche settimane dopo per un attacco cardiaco.

Giacomo Rosapepe, direttore del manicomio di Sant’Eframo. Condannato in primo grado a cinque anni, nell’ambito di un’inchiesta su alcune telefonate fatte da un internato utilizzando l’apparecchio dell’istituto. Alla condanna viene accoppiata la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici: Rosapepe è quindi immediatamente rimosso dall’incarico e, in preda allo sconforto, tenta di togliersi la vita, ma viene salvato in tempo. Qualche mese più tardi la sentenza di appello lo manda assolto con formula piena. Ma ormai è troppo tardi. Completamente distrutto dall’esperienza patita, Rosapepe ritenta il suicidio, questa volta riuscendoci.

Alfonso Agnello arrestato per l’uccisione del cronista del Mattino Giancarlo Siani verrà rilasciato dopo pochi giorni. In “diretta” dal telegiornale il magistrato aveva comunicato che “al di là di ogni ragionevole dubbio Alfonso Agnello era da ritenersi uno dei killer del cronista Giancarlo Siani”.

Giuseppe Pecorelli viene scarcerato dopo nove mesi dal blitz anticamorra nel quale è coinvolto, tra gli altri, Enzo Tortora, per mancanza di indizi. Era finito in carcere dopo le rivelazioni di un “pentito”. Pecorelli era accusato di aver preso parte ad una esecuzione di stampo mafioso avvenuta nel carcere di Poggioreale. Le indagini rivelano che all’epoca del delitto il giovane non era in carcere, aveva solo tredici anni.

Mario D’Errico, di Succivo (Caserta), viene scarcerato perché innocente, dopo cinque anni e mezzo di custodia cautelare in carcere. Era stato accusato di aver ucciso un’insegnate del suo paese.

Antonello Demontis, pescatore, e Mauro Marangoni, marittimo, vengono riconosciuti estranei il 6 giugno 1985 dall’accusa di aver ucciso un pensionato a scopo di rapina. Hanno trascorso ventun mesi in carcere, in detenzione preventiva.

Francesco Maiorana, di Nocera Inferiore, viene scarcerato il 26 luglio 1985 per mancanza di indizi. Era stato arrestato con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso. La denuncia era partita da un “pentito”. Ha patito una carcerazione di dieci mesi.

Mario Amoruso, di Mugnano (Napoli), accusato di omicidio, viene assolto il 18 novembre 1985 per “non aver commesso il fatto”. L’estraneità di Amoruso nella vicenda è apparsa tanto evidente nel corso del dibattimento, da indurre lo stesso Pubblico Ministero, al termine della sua requisitoria, a chiedere l’assoluzione con formula piena. Amoruso era stato arrestato tre anni prima, tutti trascorsi in carcere.

Stefano Lo Grasso, Michele Marino, Salvatore Marco, Gaspare Fiorino, Vito Mareca, accusati di estorsione continuata, vengono assolti il 29 febbraio 1986 perché il fatto non sussiste. Erano stati arrestati il 15 giugno 1984, e hanno trascorso due anni in cella prima di essere processati e prosciolti.

Domenico Zarrelli, accusato dell’assassinio degli zii e della cugina avvenuto il 30 maggio 1975, viene condannato all’ergastolo il 9 maggio 1978. Dopo tre processi d’appello e due sentenze della Cassazione, dieci anni trascorsi per la metà tra il carcere di Poggioreale e quello di Procida con un soggiorno di un mese e mezzo nel manicomio giudiziario di Sant’Eframo dove viene sottoposto a perizia psichiatrica, viene assolto con formula piena. Non è uno “sbaglio” tant’è che la Cassazione nella sentenza di assoluzione scrive “a carico di Zarrelli non esisteva nessun indizio e mai e poi mai nessuna corte avrebbe potuto condannarlo”.

Aldo Sardone amministratore di una ditta di Agrigento, trentadue anni, è rimasto in carcere per ventuno giorni a causa di una distrazione, un banale errore. Arrestato perché dichiara di aver risposto ad una telefonata ricattatoria che -visto che il telefono era sotto controllo- non risulta registrata. Dopo ventuno giorni -essendo l’avvocato difensore riuscito ad ottenere la trascrizione dei nastri- come per un prodigio la telefonata a cui fa riferimento Sardone c’è, esiste.

Giovanni Amato, muratore disoccupato di Palermo, viene arrestato nell’aprile del 1984, dopo che un rapinatore si “pente”. Dopo nove mesi, 275 giorni, viene scarcerato. E’ lo stesso giudice istruttore a spiegarne il perché, “Ho avuto la sfortuna di trovarmi tra le mani uno di quei casi in cui l’errore è inevitabile. Sì, proprio inevitabile. Succede perché deve succedere. Gli elementi coincidevano tutti”. Il fatto che abitassero nello stesso quartiere è l’elemento coincidente. Fatto salvo che si trattava di un altro Giovanni Amato.

Pietro Parracchio, presidente della Corte di Assise di Catania, viene arrestato l’1 dicembre 1984 per corruzione. A lanciare l’accusa è un “pentito”, Salvatore Parisi accusato di diciotto omicidi. Il magistrato, a detta del Parisi, l’aveva assolto in cambio di cento milioni, un gioiello per la moglie e un aiuto finanziario per la ristrutturazione della villetta. Il 22 luglio 1985, sette mesi dopo, il Tribunale della libertà annulla il mandato di cattura; scagiona il magistrato e manifestato sul merito processuale “un dissenso che non è solo marginale”.

Bino Baiamonte geologo palermitano arrestato il 3 gennaio 1984 per “associazione a delinquere di stampo mafioso”. Dopo quattro giorni di detenzione apprende che un “pentito” ha rivelato che, in un periodo di comune detenzione all’Ucciardone, da un Bino Baiamonte ha ricevuto terribili confidenze. Ma Baiamonte non era mai stato all’Ucciardone perché non era mai stato arrestato. Poteva dunque considerarsi un fortunato se in solo quattro giorni Baiamonte aveva chiarito la propria posizione, beninteso stando in carcere. Dopo due settimane viene invitato a presentarsi in Questura: vogliono consegnato il passaporto e ogni altro documento che possa consentirgli l’espatrio. Altre due settimane, altro invito; gli viene tolto il porto d’armi e gli viene ingiunto di disfarsi dei fucili che possiede. In data 7 giugno, urgente convocazione al nucleo giudiziario dei carabinieri: gli notificano tre ingiunzioni, perché indiziato di otto delitti tra i più gravi accaduti a Palermo in questi ultimi anni.

Agatino Litrico nato il 19 luglio del 1956, nel quartiere di San Birillo a Catania. Pasticciere di ventotto anni ha avuto la “disgrazia” di dividere nome, cognome e luogo e data di nascita con un criminale. Per scoprire l‘“errore” e per riconoscerlo ci sono voluti settanta giorni che Agatino Litrico ha passato nelle carceri Nuove di Torino. Ma ad Agatino Litrico era già accaduto otto anni prima di finire in cella, per un paio di giorni, sempre per “errore”.

Vito Surdo bancario del Credito italiano di Salemi, paese della provincia di Trapani, nell’estate del 1985 fu arrestato con l’imputazione di “associazione per delinquere, intimidazione ed estorsione”. Dopo sei mesi di carcere e quattro di arresti domiciliari la Procura della Repubblica di Trapani riconosce che non ci sono indizi sufficienti che giustifichino il processo.

Dante Forni bolognese, otto processi, ventidue mesi di carcerazione preventiva scontata in sette prigioni, alcune delle quali “speciali”. Infine il verdetto della Corte di Cassazione, che sancisce l’assoluzione con formula piena da tutti i reati e da tutte le accuse che via via si erano accumulate.

Adriana Avico il 19 dicembre 1984 si lasciava alle spalle il carcere romano di Rebibbia; libertà provvisoria. Aveva già scontato due mesi di carcere, di cui trentatré giorni in isolamento. L’accusa era: associazione per delinquere. Alla fine è stata assolta “per non aver commesso il fatto”.

Francesco Perrillo e Giuseppe Giordano, di San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli; scrivono il 5 ottobre 1985 una lettera pubblicata dal quotidiano `La Repubblica’: “Noi sottoscritti Perillo Francesco e Giordano Giuseppe, classe 1928 (classe sfortunata e disgraziata, anche Tortora è del ‘28), ringraziamo pubblicamente attraverso le colonne della “Repubblica” chi ci ha privato della libertà personale per circa un anno, trasferendoci con violenza dai nostri domicili di onesti e integerrimi lavoratori nel carcere più infame del mondo, a contatto con assassini, ladri, drogati, magnaccia, con malfattori della peggior specie. In una fetida cella abbiamo trascorso i primi mesi a piangere, sì abbiamo pianto e tanto, noi uomini di lavoro sessantenni abbiamo pianto come quando eravamo bambini, e come allora abbiamo tanto pregato. Molte volte, tante volte, ci siamo trovati i pantaloni impregnati di urina. Grazie a chi non ha ritenuto opportuno e necessario fare dei `riscontri oggettivi’ (signor Bocca, la Madonna, quella della sofferenza, l’aiuti e la protegga insieme alla sua famiglia), perché sarebbe bastato un usciere del Tribunale per constatare che vivendo e lavorando in un unico basso, per di più al centro del paese, non si poteva certamente ospitare per mesi i latitanti Rosetta Cutolo e Vincenzo Casillo. Alle nostre preghiere di mandare qualcuno a rilevare quanto affermavamo, i giudici ci invitavano a confessare. E siamo stati quasi tentati di farlo. Di confessare l’impossibilità pur di venire fuori da quell’incubo. E così oggi, dopo circa tre anni, ci hanno assolto con `formula piena’. Grazie, grazie a tutti. Adesso non siamo che due relitti umani con la devastazione nel cuore e nella mente. Grazie soprattutto ai signori che hanno levato voci in favore dei Tribunali meridionali, con l’augurio che un giorno anche ad essi, o magari ai loro figli, possa capitare questa sciocchezzuola che a noi è capitata”.

Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati sulla propria pelle, accusato di interesse privato in atti di ufficio. Tutto nasce dopo la conclusione di un sequestro di persona. Il rapito e il suo avvocato, a liberazione avvenuta, vengono accusati di simulazione di reato. Imposimato, nella sua qualità di giudice istruttore, non è d’accordo, e dispone l’archiviazione del procedimento. Scatta, a questo punto, l’accusa contro di lui. Il processo ha luogo a Firenze. Si conclude con l’assoluzione piena. Dopo questa esperienza, Imposimato dichiara: “Il mio sentimento nei confronti della giustizia è di natura quasi di terrore. La mia esperienza mi conferma nella convinzione che sia ancora molto alta, e non solo per il mio caso personale, la possibilità di errori. In fondo è più facile difendersi da colpevoli che da innocenti. Un innocente è travolto dalla macchina dei sospetti. Nel mio processo fui trattato con molta durezza. Sembrava che il mio passato non avesse alcun peso. Per settimane ho dovuto leggere il mio nome a carattere cubitali, sui giornali: `Giudice accusato…’. L’assoluzione piena venne invece riportata con una breve notizia”. Imposimato ricorda quei giorni con una profonda amarezza. Tornano in mente sequenze da incubo, sottili insinuazioni, taglienti calunnie: ecco, anche lui, finalmente, il giudice irreprensibile, come gli altri, sul banco degli imputati: “Perfino un’assoluzione, dopo la condanna della pubblica opinione, non è sufficiente a riparare il danno subito”. “Mi fanno paura”, dice ancora Imposimato, “i giudici che sono o si ritengono `preparati’, perché conoscono a memoria i codici. Non è solo la preparazione, che pure occorre, e neanche il coraggio, ma l’equilibrio, la maturità, il senso delle cose. Chi afferma che anche per i giudici andrebbero fatte perizie psichiatriche, o attitudinali, non dice una sciocchezza. Andrebbero bene per evitare di commetterne, di sciocchezze, sulla pelle di gente innocente”. E conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

Non bisogna dimenticare i casi esemplari e noti come quello di Daniele Barillà, protagonista di un clamoroso caso di errore giudiziario per il quale ha scontato sette anni di carcere e affrontato tre gradi di giudizio prima che venisse riconosciuta la sua innocenza.

Barillà, nei lunghi anni passati in prigione è venuto a conoscenza di altri casi simili al suo? “Tanti, e potrei fare anche i nomi ma sarebbe una mancanza di rispetto. Il vero male è questo maledetto patteggiamento. Molti, anche se innocenti, accettano pur di tornare alle loro case e poter riabbracciare i propri cari. Io potevo uscire dopo 6 mesi ma non ho patteggiato perché ero sicuro di poter dimostrare la mia innocenza. La ‘mitica squadra’….."Già! Di loro faceva parte anche il capitano Ultimo. Seguì la macchina sbagliata, al processo fu uno dei miei accusatori e la sua testimonianza risultò determinante, chi poteva credere che un tale eroe avesse commesso un così grave errore?” Sette anni di carcere, 24 prigioni diverse. Come si può sopravvivere a tanto sapendosi innocente? “Giravo con in mano i verbali dei miei processi e dicevo a tutti che ero innocente. Qui siamo tutti innocenti – mi rispondevano – mica solo tu. Ho capito che ognuno ha i suoi guai.

Esemplare è il caso Mariani e Crosignani. Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire, che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono.

A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro.

E’ allucinante il calvario dell’orunese Melchiorre Contena. Riconosciuto innocente dopo 30 anni di carcere. Accusato del sequestro-omicidio Ostini. Negli anni Novanta gli ex latitanti Soru e Mongile confessarono: «I veri colpevoli siamo noi», ma solo nel 2008 viene proclamato l’errore giudiziario.

Questa è la storia di Melchiorre Contena, pastore di Orune (NU), e di sua moglie Miracolosa Goddi.

Il 18 luglio 2008 la corte d’assise d’appello di Ancona ha messo fine a un incubo durato trent’anni, spazzando via l’accusa terribile di sequestro di persona e omicidio che aveva sprofondato Melchiorre Contena nel buio universo chiuso del carcere. E’ l’epilogo di una complicata e contraddittoria storia giudiziaria che ha visto pronunciarsi per quattro volte i giudici di merito e per due quelli di legittimità. Senza contare due pronunce in risposta alla richiesta di revisione del processo. La sentenza finale, quella che stabilisce che Melchiorre Contena è innocente, arriva però quando l’orologio del tempo ha scandito anche l’ultimo giorno della pena.

Tutto comincia alle 22,30 del 31 gennaio 1977. Marzio Ostini, imprenditore milanese di 38 anni, sposato e padre di un bambino di sei, torna nella sua villa “Le Querce”, nella tenuta di Armatello, a San Casciano Bagni, nel Senese. In casa lo attendono tre uomini armati e mascherati. Modi spicci, ruvidi, e poche parole in un inconfondibile accento sardo. Prima di andare via con l’imprenditore milanese dicono a Miscio: «Vogliamo cinque miliardi (poco meno di due milioni e mezzo di euro). E non avverta la polizia, altrimenti il riscatto raddoppia». Marzio Ostini svanisce nel buio insieme ai suoi carcerieri. Marzio Ostini non tornerà mai a casa e il suo corpo non sarà mai ritrovato.

Le indagini si orientano subito verso gli ambienti dei pastori sardi.

Il 25 marzo del 1977, quella che risulterà la svolta nelle indagini: un giovane servo pastore di Fonni, Andrea Curreli, viene trovato in possesso di due targhe appartenenti a un’auto rubata alcuni mesi prima. A fine aprile, i giornali pubblicano un messaggio della famiglia del rapito che dice di essere disposta a pagare 300 milioni di lire a chiunque sia in grado di fornire informazioni utili alla liberazione di Marzio. Dopo qualche giorno, lo stesso Curreli si presenta spontaneamente alla stazione dei carabinieri di Montefiascone e racconta di essere stato invitato, nell’ottobre del 1976, nel podere di Melchiorre Contena, a una riunione nella quale si era pianificato il sequestro di Carlo Ostini, il padre di Marzio. E fa i nomi di tutti i partecipanti a quel summit: Melchiorre, Bernardino e Battista Contena, Marco Montalto, Giacomino Baragliu e Pasquale Delogu. Di più: dice che successivamente Baragliu e Battista Contena, ubriachi, gli avrebbero confidato di aver ucciso Marzio Ostini.

I Contena, Baragliu, Delogu e Montalto finiscono in carcere e, poco dopo, vengono arrestati anche altri due sardi: Pietro Paolo De Murtas e Gianfranco Pirrone. Sconcertante il comportamento di Curreli che, con due lettere in due occasioni diverse, ritratta tutto, ma poi davanti al giudice istruttore reitera le accuse.

Non basta: le sue versioni altalenanti vengono smentite da molte verifiche degli investigatori ed emerge che Curreli in passato era stato servo-pastore dai Contena che poi lo avevano allontanato perché inaffidabile sul lavoro. E il giovane servo pastore non aveva mai nascosto il suo rancore per i tre fratelli di Orune.

Dopo qualche mese finisce in carcere anche il pastore di Paulilatino Antonio Soru, trovato con alcune banconote provenienti dal sequestro Ostini. Andrea Curreli, dunque, è l’unico vero pilastro dell’accusa. Per dire la verità, si rivela subito un pilastro molto fragile. Tanto che, nel corso del processo, celebratosi davanti alla corte d’assise di Siena, la sua versione frana clamorosamente. La difesa porta in udienza l’impressionante curriculum del “super accusatore”: 35 denunce per falsa testimonianza, simulazione di reato e furto. Melchiorre Contena e gli altri imputati il primo marzo del 1979 vengono assolti.

La corte d’assise d’appello di Firenze, il 21 febbraio del 1980, arriva alle stesse conclusioni: Curreli, che si è addirittura autoaccusato dicendo di essere stato il vivandiere della banda, è inattendibile e l’assoluzione per Melchiorre Contena viene confermata.

Sembra tutto finito. E invece la Cassazione riapre i giochi: accogliendo il ricorso della procura generale, rinvia il processo alla corte d’assise d’appello di Bologna che, senza neppure riaprire l’istruttoria dibattimentale, ribalta le sentenze di Siena e Firenze. Per Melchiorre Contena la condanna è a trent’anni di carcere. In estrema sintesi, i giudici di Bologna giudicano Curreli attendibile. Eppure sulla sua credibilità ha sempre avuto fortissimi dubbi perfino il suo avvocato, Fabio Dean, diventato famoso come difensore del gran maestro della loggia massonica P2, Licio Gelli.

Curreli, uscito di galera subito dopo il processo, sarà assassinato poco tempo dopo alla periferia di Roma. Ma il caso Ostini si evolve anche in un processo parallelo. Antonio Soru di Paulilatino, Pietrino Mongile di Ghilarza e Lussorio Salaris di Borore sono sospettati fin dall’inizio di essere coinvolti nel rapimento. Nel luglio del 1986, Salaris viene ucciso nel suo podere di San Donnino, al confine delle province di Perugia e Terni. Per questo delitto, il 5 dicembre 1989, vengono condannati Soru e Mongile a 27 anni e sei mesi. Secondo la corte d’assise d’appello di Perugia, Salaris sarebbe stato punito perché avrebbe tenuto per sè parte del riscatto proveniente da un sequestro di persona compiuto dai tre e avrebbe poi cercato di “vendere” i suoi due complici ai carabinieri. Conferme clamorose arrivano prima da Antonio Soru nel 1993 e poi da Mongile tre anni dopo. I due raccontano infatti che il sequestro era stato organizzato da loro e da Salaris e che quest’ultimo aveva ucciso l’ostaggio con un colpo di piccone in testa perché aveva paura di essere scoperto. Soru e Mongile dicono anche che loro non erano d’accordo sulla soppressione dell’ostaggio e che avevano eliminato Salaris perché questi si era tenuto parte del riscatto e li aveva poi traditi. Le loro confessioni sono suffragate da robusti riscontri.

Si arriva così a due sentenze radicalmente contraddittorie, a due verità insanabilmente incongruenti.

E’ quello che giuridicamente viene definito conflitto di giudicati. Eppure quella della revisione del processo per Melchiorre Contena è una strada ancora lunga. Infatti, nel 2002 la corte d’assise d’appello di Ancona dice no alla riapertura del processo. Ma nel maggio del 2004 la Cassazione interviene e trasmette gli atti del processo alla corte d’assise d’appello dell’Aquila che, nel luglio scorso, dice che Melchiorre Contena è innocente.

Ora, anche per gli altri sette imputati, si apre la porta della riabilitazione. Dopo trenta lunghissimi anni.

"Ci voleva il suicidio di Lombardini perché decidessero di occuparsi di quel che succede qua", commentava ieri, con sardo disincanto, un magistrato isolano. Eh sì, perché il palazzo di giustizia di Cagliari si chiama da molti anni "palazzo dei veleni". Proprio come quelli di Roma e di Palermo. Con una differenza: i veleni mafiosi palermitani e quelli politici romani sono sempre diventati, nel momento stesso della loro sintesi chimica, veleni nazionali, mentre i veleni sardi, fino al suicidio Lombardini, sono sempre rimasti sardi. Eppure con quelli nazionali avevano molti punti in comune. In alcuni casi li hanno anticipati. La Sardegna ha avuto un "caso Tortora" due anni prima di quello "vero". Si chiamava "caso Manuella", dal nome di un civilista assassinato nell' aprile del 1981. Per l' omicidio Manuella, e per traffico di droga, finirono in manette quattro avvocati: uno di loro, Aldo Marongiu, morì di tumore, proprio come Enzo Tortora, pochi anni dopo la fine della sua tragedia giudiziaria. L' inchiesta si era svolta in un cupo clima inquisitorio, con tre pentiti che adeguavano progressivamente le loro menzogne alle esigenze dell' accusa. Finì dopo due anni, con l' assoluzione dei quattro avvocati e, in seguito, con una veloce e indulgente indagine del Csm sui metodi del pm Enrico Altieri e del giudice istruttore Fernando Bova che lasciò con l' amaro in bocca l' inferocito foro di Cagliari. Luigi Lombardini era allora capo dell' ufficio istruzione. Sostenne, salvo defilarsi ai primi scricchiolii della tesi accusatoria, la sgangherata indagine dei due colleghi. Aveva altro di cui occuparsi. Risolveva a raffica tutti i sequestri di persona degli anni 77-79, i latitanti cadevano nelle sue mani come tordi, i giornali esaltavano il giudice-sceriffo. Le denunce di qualche avvocato sui suoi metodi di indagine (gli interrogatori con la pistola sulla scrivania, i testimoni accusati di concorso per indurli a parlare, etc. etc.) non trovavano ascolto da nessuna parte. Nemmeno al Csm. In quegli anni l' Anonima era arrivata a tenere contemporaneamente in ostaggio diciannove persone, tra le quali tre cittadini inglesi e i cantanti Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Lombardini aveva risolto quella situazione. E se qualche pastore innocente era rimasto stritolato, pazienza: i garantisti, allora, erano meno, ed erano più poveri, di oggi. Le cose cominciarono a cambiare quando, a metà degli anni 80, andò in pensione il procuratore generale Giuseppe Villasanta, magistrato potentissimo, considerato una specie di viceré della Sardegna. Col pensionamento di Villasanta, Lombardini perse un grande protettore, l' uomo che ne aveva fatto il giudice unico antisequestri, e si rafforzò il fronte avverso. Si era trattato - per quanto queste categorie possono valere nel mondo giudiziario - dello scontro tra una destra (Villasanta- Lombardini) e una specie di sinistra. Sul fronte opposto a quello del giudice-sceriffo c'erano infatti Magistratura democratica (uno dei leader era il sostituto procuratore antimafia Mauro Mura), qualche altro giudice garantista, e il composito e sempre fluttuante mondo forense. Così quando alla procura generale di Cagliari fu nominato Francesco Pintus, ex senatore della Sinistra indipendente, si pensò che la partita fosse definitivamente chiusa. Nessuno poteva immaginare che sullo stagno dei veleni cagliaritani si stava per rovesciare l' autobotte dei veleni milanesi e romani. Nessuno aveva preso in considerazione l'esplosiva personalità di Pintus, uomo temerario fino all'autolesionismo, come lo strabiliante incontro con Grauso dimostra. Ex membro della sezione di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, Pintus cominciò a entrare in conflitto con la sinistra quando, in una intervista, prese le difese dell' ammazza- sentenze. Qualche tempo dopo, nel discorso inaugurale, attaccò i metodi del pool di Borrelli. La sua domanda per la procura generale di Milano fu letta come una specie di dichiarazione di guerra. Schiacciato, come si dice, "a destra", il garantista di sinistra Pintus divenne il principale sponsor dell'ormai ex sceriffo Lombardini nella corsa, perduta, per la guida della procura della Repubblica di Cagliari. Quasi contemporaneamente perse la sua corsa per Milano. Negli ultimi due anni gli esposti e i contro esposti sardi hanno tempestato il Csm. Un giudice di Sassari, Gaetano Cau, che accusa Lombardini e Pintus di interferenze; Pintus che invia al Csm un'intervista di Cau; Lombardini che viene alle mani col pm Paolo De Angelis; l'ex procuratore Franco Melis che segnala le interferenze di Lombardini nelle indagini sui sequestri; otto sostituti che sottoscrivono un esposto contro Pintus. Sarà un caso, ma il Csm ha cominciato a occuparsi seriamente dei veleni cagliaritani quando, con Pintus, hanno varcato il Tirreno. Per la prima volta sugli uffici giudiziari sardi, con le loro miserie e le loro deviazioni, è stato acceso un grosso riflettore.

A Caserta marcire in prigione senza avere colpe. Era il destino di Alberto Ogaristi, operaio accusato di omicidio, condannato all´ergastolo. Ma, ancora prima, segnato dalla "tragedia" di essere nato a Casal di Principe. Tutto perso. Fino a quando le parole di un pentito offrono alla coscienza di un pm e alla determinazione di un avvocato il riscontro: «Non fu lui». Eppure non basta. Passeranno giorni, forse mesi, forse anni, prima che la giustizia della logica si traduca in quella delle carte. Prima che un innocente possa riprendersi la propria esistenza.

La fetta di paese che non si arrende, sorride. Senza brindisi. E in una palazzina di via Giovanni Spadolini, a Casal di Principe, la madre dell´ergastolano che non aveva colpe da espiare, Teresa Ricciardi, si tormenta le mani, aspettando che torni libero il suo Alberto. «Ce l´avevo a morte con la giustizia. Pure i cortei e la fiaccolata mi hanno impedito. I parroci, don Franco Picone e don Carlo Aversano, ci erano vicini. Ora dico: ridatemelo presto. Mio figlio esce a testa alta».

Eccolo il caso di Alberto Ogaristi, «muratore e stuccatore», dall’età di 15 anni, da Reggio Emilia in Germania. Nato a Casal di Principe, incensurato e figlio di persone incensurate, primogenito del proprietario di un bar poi ammalatosi di cirrosi epatica, Alberto viene arrestato il 6 luglio 2007 come presunto killer del pregiudicato Antonio Amato - ucciso il 18 febbraio del 2002, nella faida di Villa Literno. Ad accusarlo è il cognato della vittima del raid, un cittadino albanese, Qoqu Telat, sfuggito per miracolo (oggi tornato in Albania, irreperibile). L´albanese crede di riconoscere l´assassino nella foto segnaletica di Alberto Ogaristi. I magistrati non credono all´alibi raccontato dalla fidanzata di allora (oggi è sua moglie: ma si erano appartati in auto, lei si vergognava di farlo sapere, ed esitò nella deposizione). Lui viene assolto in primo grado, ma condannato in appello. Con sentenza passata in giudicato. Ergastolo. Invece. È un clamoroso errore giudiziario. Svelato, definitivamente, dalle indagini dei carabinieri di Caserta e dai pm Raffaello Falcone e Marco Del Gaudio, che con un´ordinanza inchiodano tre pregiudicati per quel delitto: Luigi Guida, di 59 anni, Luigi Grassia, di 36 e Gaetano Ziello, di 29 (ai quali la misura è stata notificata in carcere). E scagionano di fatto, sulla scorta del racconto del pentito Emilio Di Caterino - che a sua volta conferma quanto dichiarato dal collaboratore Massimo Iovine - l´innocente Alberto. Tuttora detenuto nel carcere di Rebibbia. E ora a Casale, la signora Teresa bacia santini e madonne. «Scrivetelo che avevamo fatto di tutto per fare venire a galla la verità. Tutto sembrava perso. Ma non ho mai smesso di pregare». È una cinquantasettenne invecchiata di colpo, famiglia di contadini, quattro figli. Prova ad assaggiare un sollievo che sa di non potere ancora abbracciare. Anche il suo avvocato, Romolo Vignola, penalista tenace del foro di Santa Maria Capua Vetere, un professionista che non ha smesso di credere che l´antidoto alla malagiustizia fosse riposto nelle pieghe più asciutte e pazienti della giustizia, suggerisce moderazione: «Ci dà conforto sapere che ormai l´innocenza di Alberto è una verità sostanzialmente acquisita. Ma tecnicamente dobbiamo superare ostacoli importanti. Impossibile dire tra quanto tempo il mio assistito lascerà il carcere. Purtroppo siamo ancora alla fase del rigetto opposto alla nostra istanza di revisione del processo. Passaggi che due genitori non capiscono. Ma si fideranno, ancora. L´avvocato Vignola dice grazie ad un magistrato, in particolare: «Con encomiabile e davvero laica capacità di ascolto il pm Falcone che aveva sostenuto la pubblica accusa è stato poi il primo a lottare con noi, quando si è reso conto, già nel dicembre 2007, che il pentito Iovine scagionava Ogaristi. La stessa Procura generale di Napoli si è attivata». Si attende solo che giustizia sia fatta.

Le nostre TV e i nostri giornali sono pieni di storie inutili di gente senza arte, né parte, riportate da giornalisti inutili senza arte, né parte. E’ doveroso da parte mia, Antonio Giangrande riportare ai posteri la vicenda di un eroe contemporaneo. Piccole e grandi storie di questa Italia alla rovescia. Tutta la Stampa ne parla. A volte non basta una confessione per essere certi di avere un colpevole di un reato. Lo dimostra la sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria che dopo 21 anni, due mesi e 15 giorni di detenzione ha assolto per non aver commesso il fatto Giuseppe Gulotta, 55 anni, accusato della strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia. Il fatto avvenne il 27 gennaio 1976, quando vennero uccisi due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, all'epoca poco più che diciottenni. Dai loro armadietti sparirono divise e armi, e altri effetti personali. Dopo la strage, il 13 febbraio, venne fermato con due armi sull'automobile Giuseppe Vesco. Una delle pistole era una Beretta calibro 9, in dotazione alle forze dell'ordine. Il ragazzo disse che doveva solo consegnarle armi sulla spiaggia, fu interrogato e fece i nomi di Giuseppe Mandalà, che venne trovato in possesso di armi, e dei presunti complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Gulotta, diciannovenne all'epoca dei fatti. Quest'ultimo si è sempre dichiarato innocente, ma fu condannato all'ergastolo con sentenza definitiva nel 1990. Eppure dopo diversi anni a l'ex brigadiere Renato Olino, che si occupò del caso, ha rivelato che per far confessare Vesco erano stati usati metodi persuasivi "eccessivi", scagionando di fatto il condannato. Ci sono voluti però altri nove processi, tra rinvii della Cassazione e questioni procedurali, perché la Suprema Corte concedesse la revisione del processo, iniziata finalmente nel 2009. Nel frattempo, Vesco è stato trovato impiccato nell'infermeria del carcere di Trapani, ma l'ipotesi di una sua confessione forzata è stata confermata anche dalle parole di un collaboratore di giustizia siciliano, Vincenzo Calcara.

Gulotta, 21 anni all'ergastolo da innocente.

"Ho sempre sostenuto di non avere colpe". Giuseppe Gulotta è stato condannato all'ergastolo per l'uccisione di due militari ad Alcamo, nel 1976. Ha pagato questo reato con la propria libertà. Dal 1990 è in carcere. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell'Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha raccontato la sua verità: "Confessò perché lo torturammo". Assolto dopo aver trascorso ventidue anni di carcere. Giuseppe Gulotta è stato scarcerato dopo la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria che l’ha ritenuto estraneo alla strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia, avvenuta il 26 gennaio del 1976. «Aspettavo questo momento da 36 anni» ha detto Gulotta. L’uomo era stato accusato ingiustamente di essere l’autore della strage dove morirono due carabinieri diciottenni, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.

La vicenda di Giuseppe Gullotta è articolata da una serie di processi. Il primo capitolo l’aveva scritto la Corte d’Assise di Trapani che aveva assolto l’imputato. La Corte d’Assise di Palermo però, ribaltò il verdetto e lo condannò all’ergastolo. I legali ricorsero in Cassazione che annullò quella condanna e trasferì gli atti nuovamente a Palermo, ad altra sezione. Nuova condanna all’ergastolo per Gulotta. Stessa decisione presero successivamente le Corti d’Appello di Caltanissetta e Catania, investite da altri rinvii trasmessi dalla Cassazione. Nel 1990 la sentenza è divenuta definitiva.

L’imputato non si è mai arreso. I suoi difensori Baldassarre Lauria e Pardo Cellini hanno cercato e trovato nuovi elementi per far riaprire il caso. Una prima istanza di revisione del processo presentata a Messina fu annullata. I legali si rivolsero ancora una volta in Cassazione che ha accolto la revisione inviando gli atti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Al processo i giudici reggini hanno raccolto nuove testimonianze, tra cui quella dell’ex brigadiere Renato Olino, all’epoca in servizio al reparto antiterroristico di Napoli che si occupò dell’inchiesta sulla strage. Il brigadiere ha fatto alcune ammissioni: in particolare ha riferito che ci furono dei «metodi persuasivi eccessivi» per far «cantare» un giovane Giuseppe Vesco, che finì con accusare Gulotta. Il pentito Vincenzo Calcara, poi, sentito in videoconferenza ha dichiarato di aver appreso in carcere dell’estraneità alla strage di Gulotta. Nella sua requisitoria il procuratore generale Danilo Riva ha chiesto l’assoluzione dell’imputato. «Spero che anche per le famiglie dei due carabinieri sia fatta giustizia» ha detto Gulotta, avvicinato dai giornalisti dopo la sentenza.

Ventuno anni all'ergastolo, era innocente.

"Chi mi ridarà la mia vita perduta?".Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani.

"Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto.

Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione.

La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo.

Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto".

Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?". spettavo questo momento da 36 anni".

Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia. "Non ce l'ho con i carabinieri" - Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". "Fatta giustizia giusta" - Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". La vicenda - Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Venti anni in galera: Gulotta è innocente.

Le rivelazioni di un carabiniere: "Confessò perché lo torturammo". Giuseppe Gulotta è in carcere dal ’90 per l'uccisione di due militari ad Alcamo, avvenuta nel 1976: "Ho sempre detto delle sevizie. Nessuno mi ha mai creduto".

Era poco più che maggiorenne, Giuseppe Gulotta siciliano di Alcamo Marina (Trapani), quando iniziò il suo lungo calvario, che attraverso nove processi lo ha portato dietro le sbarre con l’accusa di duplice omicidio per la strage di Alcamo Marina del gennaio 1976. Condannato all’ergastolo per aver ucciso — in concorso con due complici tuttora latitanti — due carabinieri trucidati in caserma. Condannato ma innocente. Reo confesso, ma sotto tortura. L’ha gridata, la sua innocenza, attraverso 14 anni e 9 processi. Ma inutilmente: l’ergastolo lo sta scontando dal ’90, nel carcere di Ranza di San Gimignano (Siena). Una speranza si è accesa nell’autunno del 2007, quando Renato Olino, brigadiere in congedo dei carabinieri del Nucleo antiterrorismo, che indagò sul duplice omicidio, rivelò al sostituto procuratore di Trapani che la confessione di Gulotta, effettivamente, fu estorta con la violenza. Ci sono voluti tre anni di battaglie legali per ottenere la revisione del processo. Oggi, a distanza di 34 anni dai fatti, la testimonianza di Olino, sarà ascoltata dai giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria (cui è stato affidato il nuovo processo).

Gulotta, che adesso ha 53 anni, in tutto questo tempo si è sempre professato innocente. Per la sua buona condotta gli è stato concesso anche il regime di semilibertà: di giorno lavora come muratore a Poggibonsi, quando smonta raggiunge a Certaldo la sua compagna Michela (dalla quale ha avuto anche un figlio, William di 22 anni), ma a mezzanotte è costretto a tornare in cella.

«Il mio calvario — racconta — cominciò quel maledetto giorno di molti anni fa quando insieme ad altri due giovani alcamesi fummo sospettati di aver ucciso l’appuntato Salvatore Falcetta e il militare Carmine Apuzzo che dormivano in caserma. Gli inquirenti che facevano parte di un commando antiterrorismo di Napoli, mandato apposta per indagare sul caso, ci arrestarono e ci sottoposero ad un terribile interrogatorio dove ci torturarono per farci confessare». I tre giovani, tra l’altro accusati dalla testimonianza di Giuseppe Vesco, un alcamense psicolabile, conosciuto con il nomignolo di «Peppe ‘u pazzu», davanti al magistrato ritrattarono tutto, ma nessuno li credette più. Tutti colpevoli, tutti condannati all’ergastolo. L’unico, però, che ha conosciuto il carcere è stato Gulotta, perché gli altri si sono dati alla latitanza in Brasile, da dove hanno chiesto inutilmente la grazia.

A distanza di anni, però, Renato Olino è pronto a raccontare ai giudici gli sconcertanti retroscena sui metodi utilizzati durante l’interrogatorio di molti anni fa. Rivelazioni che l’ex carabiniere aveva già fatto al sostituto procuratore di Trapani nel 2007 e che hanno permesso agli avvocati, Baldassarre Lauria e Pardo Cellini, di chiedere alla Cassazione la revisione del processo a carico di Gulotta.

Giuseppe Gulotta, condannato per la strage della casermetta di Alcamo Marina del 27 Gennaio 1976, in cui furono uccisi barbaramente nel sonno i due militari Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, e furono rubate, dopo la strage, armi, munizioni e divise.

La svolta sulle indagini avvenne il 13 febbraio. A un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, su una Fiat 127 verde con una targa di cartone “Trapani 121”. Questi aveva in mano una pistola (si pensa che fosse scarica dato che il giovane aveva un arto amputato) e dopo una perquisizione ne venne trovata una seconda. Era una Beretta in dotazione ai carabinieri, probabilmente rubata durante l’omicidio della casermetta. Dopo una perquisizione a casa del ragazzo e attente analisi si dimostrò che Vesco era in possesso dell’arma del delitto. Fu dunque interrogato dai carabinieri ma questi negò in modo deciso la sua partecipazione all’agguato dicendo che doveva solo consegnare le armi a qualcuno. Dopo aver negato in tutti i modi la sua partecipazione alla strage improvvisamente il fermato Vesco cambiò versione.

Vesco fece ritrovare armi e divise in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico. Vesco confessò di aver partecipato alla strage insieme ad altri tre ragazzi: Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. I tre ragazzi alcamesi più il partinicese Mandalà furono tutti tratti in arresto per omicidio e costretti a confessare firmando un verbale di riconoscimento di colpevolezza. La versione accertata dei fatti fu la seguente: Giovanni Mandalà, il bottaio di trentotto anni di Partinico, avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica e a sparare invece sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, due giovani alcamesi di diciannove e diciassette anni, mentre Vincenzo Ferrantelli, uno studente di sedici anni di Alcamo, avrebbe solo messo a soqquadro le stanze.

30 anni dopo, il colpo di scena. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha spiegato come si sono svolti veramente i fatti. Dopo 32 anni dall’accaduto l’ex brigadiere Olino ha affermato chiaramente che sia a Vesco che agli altri ragazzi accusati, le confessioni furono estorte con violenza. Vennero messi nelle loro bocche imbuti e versati al loro interno grossi quantitativi di acqua e sale. Gli accusati furono anche picchiati e venne usato anche un “telefono da campo” in grado di produrre scariche elettriche per torturare ulteriormente i fermati. Giuseppe Vesco però aveva dichiarato già nel 1976, dopo aver firmato la sua colpevolezza, di essere stato torturato. Dopo qualche mese da quel tragico gennaio 1976 Vesco aveva provato anche a scagionare i presunti complici, purtroppo senza riuscirci. Ma il 26 ottobre del 1976, pochi giorni prima di essere ascoltato dagli inquirenti: Giuseppe Vesco, nonostante avesse un arto imputato, viene ritrovato impiccato alle sbarre della finestra della sua cella. Gli accusati da Vesco, anche loro torturati, subiscono un’odissea di condanne dopo un iter giudiziario complicato. Ergastolo per il bottaio Giovanni Mandalà, che avrebbe aperto la porta della caserma con la fiamma ossidrica e custodito le armi, ergastolo a Giuseppe Gulotta, che avrebbe sparato, 20 anni a Gaetano Santangelo, che avrebbe sparato anche lui ma allora minorenne, e 20 anni anche a Vincenzo Ferrantelli, che ha rubato armi e divise anche lui minorenne. Mandalà è deceduto di morte naturale dopo essersi fatto diversi anni di carcere, Santangelo e Ferrantelli, tra un appello e l’altro, si sono rifugiati in un paese del Sudamerica che non ha accordi di estradizione con l’Italia.

Il brigadiere Olino s’è presentato spontaneamente nel 2008 davanti al procuratore capo della Procura di Trapani e ha rivelato che furono mandati in galera degli innocenti. Gulotta ha chiesto e ottenuto la revisione del processo. Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, della famiglia di San Cataldo di Caltanisetta, soltanto recentemente ha illustrato un’altra verità: quando era in carcere a Trapani venne a sapere da altri mafiosi di Alcamo che la strage della casermetta era stato un errore. Era stato stabilito di affidarla ad alcuni affiliati della famiglia di Alcamo ma poi era stato deciso di che non si sarebbe fatta più. Il contro-ordine purtroppo era arrivato troppo tardi e la mafia aveva ugualmente eseguito l’operazione. Perché la mafia doveva eseguire tale strage? Perché Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato: era stata decisa una vera e propria strategia della tensione. Probabilmente accordi segreti tra mafia e servizi segreti deviati. Un altro mafioso della famiglia di Alcamo, Giuseppe Ferro, conferma che la strage della casermetta non fu eseguita da quei giovani accusati e che la mafia questo lo sapeva bene.

Oggi dopo le rivelazioni di Renato Olino, i magistrati indagano ancora e sono tornati sulle tracce di GLADIO. La presenza di Gladio è documentata a Trapani negli anni 90 (con l’esistenza del misterioso Centro Scorpione) ma le indagini sulla casermetta inducono a ritenere che questa a Trapani ci fosse già da molto tempo prima.

Il 26 gennaio 1976 Apuzzo e Falcetta avrebbero fermato un furgone. Danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta. La scoperta è incredibile: ci sono tantissime casse piene di armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Tutti vengono portati nella casermetta per il verbale ma Apuzzo e Falcetta vengono uccisi. Un poliziotto del trapanese ha riferito recentemente alla magistratura che una fonte sicura gli riferì nel 1993 la vera storia della strage della casermetta: Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messa in scena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non far svelare qualcos’altro… Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel gruppo: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da loro nessuna conferma ma neanche alcuna smentita.

In carcere 11 anni ma era innocente scagionato grazie alla sua compagna. E' lei che non ha mai mollato. Per dieci anni ha cercato le prove per scagionare il compagno, in carcere per omicidio. è lei che non ha mai smesso di credere a quel giuramento. «Sono innocente», le disse prima di essere sbattuto in cella. Giuseppe Lastella, ragioniere di Bari accusato ingiustamente, in carcere c' è rimasto per undici anni. Avrebbe dovuto scontarne trenta se non ci fossero stati l' amore, la tenacia, la forza di Elisabetta che è riuscita a far riaprire il processo e a cambiare un destino baro. Era l'aprile del 1990, in provincia di Cosenza fu ucciso un pregiudicato coinvolto in un traffico di stupefacenti, Domenico Chionna. Prima di morire fece il nome dei suoi killer e indicò un autosalone gestito da Giuseppe Lastella. Il ragioniere fu rinviato a giudizio ma assolto in primo grado. Seguì l' appello del pubblico ministero, e il secondo processo a Catanzaro si concluse con una condanna a trent' anni. La sentenza fu impugnata in Cassazione che l' annullò, affidando il nuovo giudizio alla corte d' Assise di Reggio Calabria. La gioia durò poco, il 26 ottobre del 1994 arrivò di nuovo una condanna a trent' anni, poi confermata a piazza Cavour. Giuseppe Lastella rimase in carcere. Sembrava una situazione irrimediabile, ma Elisabetta decise di non rassegnarsi. Credeva al suo uomo, credeva a ciò che le diceva il cuore. Diventò un segugio. Fu così che si mise a fare indagini per conto suo. E riuscì a trovare nuovi indizi. Gli avvocati chiesero la revisione del processo. Domanda respinta. Elisabetta decise di insistere con l' ennesimo ricorso in Cassazione, che a sorpresa dispose un processo di revisione davanti alla corte d' Appello di Salerno: il giudizio è stato dichiarato ammissibile perché due presunti complici di Lastella dichiararono che questi era completamente estraneo all' omicidio.  «Se dopo undici anni la storia è finita bene - dice l' avvocato Gregorio De Palma, del foro di Bari - lo si deve soprattutto all' amore e alla tenacia della compagna dell' imputato. Non lo ha mai abbandonato, ha partecipato a tutti i processi, non ha mai messo di sperare e di lottare».

Un’attenzione a parte merita Taranto: TARANTO: IL FORO DELL’INGIUSTIZIA. ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.

Per gli errori giudiziari non ci sono avvocati locali che hanno il coraggio di mettersi contro i magistrati di Taranto. I Pubblici Ministeri che, presumibilmente, hanno sbagliato, intervengono in processi in cui si dovrebbe acclamare il loro errore e perseguono chi si oppone a questo stato di cose.

"Basta errori giudiziari che distruggono la vita dei cittadini. Basta impunità per i responsabili". Questo dice il dr Antonio Giangrande, Presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha svolto una inchiesta sulla Giustizia in Italia, in generale, e a Taranto, in particolare. Una società civile che permette di tenere in carcere degli innocenti, per essere genuflessa ai poteri forti, è una società collusa e codarda. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un’omissione o un abuso d’atti di ufficio da parte del magistrato che non ha saputo o voluto cercare prove a discarico, così come la legge lo obbliga a fare. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un infedele patrocinio da parte del difensore che non ha saputo o voluto difendere il proprio cliente, spesso dovuto allo stato d’indigenza dell’indagato/imputato".

Il presidente continua: “Secondo l’Eurispes sono 5 milioni gli italiani vittime di errori giudiziari negli ultimi 50 anni, ma a noi interessano i casi concreti. E’ di questi giorni l’ennesima denuncia, riportata da alcuni giornali, contro la violazione della libertà personale presso il Tribunale di Taranto. Succede a Taranto, ma tutta Italia ne parla. E’ una cosa normale? E, soprattutto, è possibile che simili situazioni siano tollerate?

I fatti. Leggendo i giornali si viene a sapere che alcune persone sono detenute (altre, invece, hanno già scontato la pena detentiva inflitta) per una serie di reati per i quali, invece, si ha il reo confesso con tanto di ritrovamento delle prove. Ma per la giustizia italica tutto ciò non è sufficiente ed in carcere si ritrovano un po’ tutti: innocenti (presunti colpevoli) e colpevole (per sua stessa ammissione).

Il Caso Sebai: l’ingiustizia più grande d’Italia.

La vergogna. Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio.

L’umiliazione. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio.

Il 10 febbraio del 2006, Sebai Ezzedine – un 33enne immigrato tunisino - rilascia una confessione al dott. Nobile della Procura di Milano, successivamente confermata dinanzi al P.M. di Taranto Dott.ssa Montanaro, nell'ambito della quale ammette la propria responsabilità in merito all'omicidio di 15 anziane signore. Si tratta di donne sole, sgozzate nelle loro abitazioni, che ricordavano al reo confesso le donne che da bambino lo picchiavano e seviziavano. Sulla decisione del Sebai di confessare la verità e di scagionare persone che egli sapeva con sicurezza essere innocenti ha, senza alcun dubbio, influito il suicidio di Vincenzo Donvito il quale, dopo aver proclamato per anni la sua innocenza, non ha retto al regime carcerario ed al tormento di essere recluso ingiustamente e si è tolto la vita impiccandosi in carcere.

13 agosto del 1995, omicidio di Celestina Commessatti avvenuto in Palagiano (Taranto)– Condannati: Giuseppe Tinelli, Davide Nardelli, Vincenzo Donvito. La confessione del Sebai è supportata da una perquisizione locale effettuata presso un pregiudicato della zona nell'ambito della quale venivano rinvenuti gioielli di sicura appartenenza della Commessatti e che il ricettatore afferma essergli stati venduti da un tunisino rispondente al nome di Fathi Said, pseudonimo di Sebai Ezzedine. Giuseppe Tinelli è recluso presso il carcere di Ivrea da 11 anni, Davide Nardelli ha scontato 7 anni di carcere e Vincenzo Donvito in data 21 luglio 2005, si è tolto la vita all'interno del carcere di Castogno, nei pressi di Teramo, dopo aver scontato 7 anni di carcere. Donvito aveva sempre proclamato, inutilmente, la propria innocenza e si è determinato a togliersi la vita non potendo più reggere il peso di una ingiusta detenzione, nè si era tenuto conto delle testimonianze a discarico.

17 maggio del 1997, omicidio di Pasqua Rosa Ludovico avvenuto a Castellaneta – Condannati: Vincenzo Faiuolo, Francesco Orlandi. Il Sebai nella dichiarazione rilasciata all'autorità giudiziaria afferma la completa estraneità di Faiuolo ed Orlandi ai fatti di sangue per cui sono stati condannati. Uno dei punti fondamentali di questa confessione, e dalla quale si desume l'innocenza degli stessi, è l'individuazione dell'ora esatta della morte della vittima che è avvenuta in un'ora in cui i due fratellastri si recavano nei campi a lavorare e vi rimanevano per tutto il pomeriggio. Alla luce delle dichiarazioni del Sebai veniva emesso decreto di perquisizione locale dell'appartamento di cui il tunisino aveva la disponibilità fino al momento del suo arresto. In data 15.05.2006 il reparto operativo dei Carabinieri di Taranto procedeva ad ispezionare la cantina dove, all'interno di una buca, rinvenivano oggetti che le nipoti della vittima riconoscevano essere appartenuti alla loro zia. In tutti questi casi, il Sebai afferma la completa estraneità dei condannati ai delitti da lui commessi. E, soprattutto, riferisce circostanze precise e pienamente concordanti, relative sia alle modalità che ad i tempi di esecuzione degli omicidi. Le modalità di uccisione delle vittime sono state definite dai periti incaricati del “caso Totaro” come una sorta di “firma dell'autore”. Il Sebai, inoltre, descrive la scena dei crimini con dovizia di particolari dimostrando di essere a conoscenza dello stato dei luoghi in cui i delitti sono stati commessi. Vincenzo Faiuolo (che da 12 anni sconta la propria pena ed attualmente è ristretto presso il carcere di Volterra) e Francesco Orlandi (attualmente in regime di libertà vigilata, dopo aver scontato 11 anni di carcere).

29 luglio del 1997, omicidio di Maria Valente – Condannati: Giuseppe e Arcangela Tinelli, Carmina Palmisano. Il Sebai, già condannato per questo omicidio, confessa di non aver mai conosciuto i coimputati e di aver sempre agito da solo. Anche in questo caso a carico dei condannati non c'è nessuna prova. Infatti in casa della Valente venne rinvenuta solo un'impronta digitale appartenente al Sebai. La procura di Taranto ha rinviato il Sebai a giudizio per l'omicidio della signora Celeste Commesatti e della signora Pasqua Ludovico, ma non per la signora Maria Valente, per il quale il Sebai era già stato condannato unitamente a Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano, ritenendo impossibile processare nuovamente il Sebai per lo stesso omicidio, secondo il principio del ne bis in idem. Non ha però preso in considerazione il fatto che, in relazione a detto omicidio, sono stati condannati anche Giuseppe Tinelli (ad oggi ancora ristretto presso il carcere di Ivrea), Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano. A questo proposito preme sottolineare come la Procura generale di Taranto avrebbe potuto e, secondo lo scrivente, avrebbe dovuto chiedere la revisione penale della sentenza che vedeva condannati ingiustamente, per l'omicidio della Valente, il Sebai unitamente agli altri tre summenzionati imputati, in quanto questi sono stati scagionati dalle dichiarazioni confessorie di Sebai Ezzadine Ben Mohamed, ed alcuni di loro stanno ancora scontando un'ingiusta pena.

L'innocenza dei condannati è ulteriormente suffragata dalla sentenza emessa dal Gup di Lucera in data 15.02.2008 il quale ha rilevato che nessun dubbio è scaturito dalle emergenze processuali “in ordine alla ricostruzione del fatto ed alla sua ascrivibilità ad un'azione cosciente e volontaria del Sebai”. La confessione del serial killer delle vecchiette, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 44 anni, è “pienamente attendibile”: lo scrive il gup del tribunale di Lucera (Foggia) Carlo Chiriaco motivando la sentenza con la quale, il 15 febbraio, ha condannato Sebai a 18 anni di reclusione (con rito abbreviato) per l’omicidio di Celeste Madonna, di 81 anni, uccisa a Lucera il 25 aprile 1996.

A seguito delle dichiarazioni confessorie formulate da Sebai Ezzadine Ben Mohamed, in riferimento alla posizione di Giuseppe Tinelli l'avvocato Claudio Defilippi, difensore di quest'ultimo ha proposto istanza di revisione presso la Corte d'Appello di Potenza, presentata in data 2 settembre 2008, avverso la sentenza n. 05.1998 che lo riteneva colpevole, in concorso con Davide Nardelli e Vincenzo Donvito, dell'omicidio della signora Celestina Commesatti (omicidio avvenuto in Palagiano il 13 agosto 1995) ed una successiva istanza di revisione volta ad ottenere la revoca della sentenza n. 06 del 2002 che lo riteneva colpevole, in concorso col Sebai Ezzedine, in qualità di esecutori materiali dell'omicidio di Maria Valente (omicidio avvenuto in Palagiano il 29 luglio 1997). La prima istanza di revisione è stata rigettata dalla Corte d'Appello di Potenza che ha ritenuto inesistente un contrasto di giudicati, non essendo ancora pervenuti ad una sentenza di condanna definitiva in ordine ai fatti dei quali si è autoaccusato il Sebai. Sulla seconda istanza di revisione l'esito negativo è scontato. Anche in riferimento alle posizioni di Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi l'avvocato Claudio Defilippi ha presentato due istanze di revisione davanti alla Corte d'Appello di Potenza, volte ad ottenere la revoca della sentenza che li ha ritenuti responsabili, in concorso tra loro, dell'omicidio di Pasqua Ludovico. Anche queste istanze di revisione sono state rigettate. Le dichiarazioni confessorie del Sebai Ezzadine Ben Mohamed, a seguito delle quali lo stesso è stato mandato a giudizio per gli stessi fatti, evidenziano la possibilità dell'esistenza di gravi errori giudiziari. Si tenga presente, a questo proposito, che sono già stati comminati a persone presumibilmente innocenti complessivi 100 anni di carcere, con il conseguente pericolo per lo Stato italiano di dover pagare ingenti somme a titolo di risarcimento per detti errori giudiziari, pari a 100 milioni di euro, più spese processuali. Tutto a carico della collettività e non dei responsabili.

A questo punto la “logica” e i precedenti giurisprudenziali vorrebbero che – di fronte all’ammissione di colpa da parte di Sebai Ezzedine ed in base ai riscontri oggettivi – i condannati innocenti venissero scarcerati, almeno coloro che non sono già fuori dopo aver scontato una pena ingiustificata. E invece nulla, perché la giustizia (e la “g” è minuscola non a caso) prima di tirarli fuori dalle patrie galere attende che il tunisino venga condannato in via definitiva di fronte alla Cassazione per i quindici delitti commessi in terra pugliese. Si noti bene, l’attesa secondo i tempi biblici italici. Potenza, competente per il processo di revisione risponde di no. "Sebai è credibile, ma questo non basta”.

Invece a Taranto, dove il 19 dicembre 2008 e l’8 gennaio 2009 si è tenuta l’udienza contro Sebai, questo non è credibile, perché si è autoaccusato dei delitti solo per scagionare i veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. La richiesta di assoluzione per il Sebai è giunta da parte del Pm Pina Montanaro al termine del processo con rito abbreviato per l’uccisione di Grazia Montemurro, di 75 anni (Massafra, 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di 86, (Castellaneta 14 maggio 1997). La stessa richiesta ha fatto il Pm Vincenzo Petrocelli per l’omicidio di Celeste Commessatti, di 73, (Palagiano, 13 agosto 1995).  A sorpresa, però, vi è stata una richiesta di condanna, formulata nel corso dello stesso processo con rito abbreviato, riguardante l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza (Taranto) il 21 agosto del 1997. La richiesta di condanna è stata presentata dal Pm Maurizio Carbone.

A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena.

Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario".  Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.

L’ingiustizia si evidenzia nel fatto che a decidere sulle eventuali responsabilità dei magistrati requirenti sia un collega dello stesso foro. Si palesa, altresì, dal fatto che la procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione. Strano che proprio in quel caso la credibilità non dia seguito ad alcuna conseguenza per i magistrati che hanno sbagliato, non essendoci innocenti in carcere da risarcire. Da tener conto che il pm Vincenzo Petrocelli è stato coinvolto in un altro caso di grave errore giudiziario, in quanto già accusatore di Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente, risarcito con 4,5 milioni di euro, senza contare che era, anche, il Pubblico Ministero procedente al caso di Carmela, la ragazza che si tolse la vita gettandosi dal 7° piano, vittima di abusi sessuali e mai creduta dal Petrocelli.

Per questi motivi l'avv. Luciano Faraon di Venezia, difensore di Sebai, si è rivolto al Premier, al Guardasigilli, al Procuratore generale presso la Cassazione, al CSM e al Procuratore generale di Lecce.

Mentre il difensore di alcuni dei condannati «per orrore», Claudio Defilippi, avvocato di Modena, legale di 6 delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna), ha chiesto al Guardasigilli di inviare gli ispettori per verificare l’operato della procura di Taranto. Tutto lettera morta. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv.Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.

Dei delitti per i quali gli otto sono stati condannati si è successivamente accusato Sebai. Defilippi chiede che il gup di Taranto Valeria Ingenito, dinanzi alla quale è a giudizio Sebai, disponga un confronto all’americana tra i suoi assistiti e il tunisino. E rilancia: “il fatto che i tre pm di Taranto non la pensino allo stesso modo sull'attendibilità di Sebai dovrebbe spingere il ministro della Giustizia a disporre un’ispezione in procura”. Per Defilippi, vi è nel processo una “situazione di incompatibilità dei pm Montanari e Petrocelli”.

“Questi – sottolinea – prima hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio e la condanna definitiva di alcune persone che si proclamano da sempre innocenti (Vincenzo Donvito, poi suicidatosi, Francesco Orlandi e Vincenzo Faiuolo) e successivamente chiedono l’assoluzione per gli stessi omicidi per il serial killer”.

27 aprile 2010. Al contrario della Procura Generale di Potenza, la Procura Generale presso la Corte d’appello di Bari ha espresso parere favorevole al giudizio di ammissione alla revisione del processo per il detenuto Vincenzo Faiuolo, condannato alla pena definitiva di 25 anni di reclusione (13 anni e 6 mesi già scontati) per l’omicidio di un’anziana della quale si è poi accusato il serial killer di anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai.

Faiuolo, in carcere a Volterra per il delitto di Pasqua Ludovico, di 86 anni, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Egli è stato ritenuto esecutore materiale del delitto, per il quale fu processato anche il suo fratellastro, Francesco Orlandi. Questi si ritenne avesse avuto un ruolo secondario, motivo per il quale fu condannato per omicidio a 11 anni di reclusione, pena che ha interamente scontato.

Entrambi hanno confessato il delitto ma tempo dopo hanno spiegato che la confessione era stata estorta con minacce e violenza degli investigatori, tesi questa che ha portato la magistratura barese ad affermare che il caso deve essere riaperto, sia alla luce delle «prove sopravvenute», che sono ritenute «serie», sia in virtù degli elementi di riscontro forniti da Sebai negli ultimi anni: il serial killer si è infatti accusato di aver ucciso 14 anziane tra il 1995 e il 1997, compresa Ludovico.

Sebai ha così scagionato otto persone che erano state condannate negli anni per aver compiuto i diversi omicidi. I magistrati che finora hanno giudicato il serial killer non lo hanno ritenuto credibile perchè – è il ragionamento – egli si è autoaccusato degli omicidi solo per scagionare gli otto veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. Uno di questi, Vincenzo Donvito, si è suicidato in cella a Teramo il 21 luglio 2005 dopo aver proclamato per sette anni la propria innocenza.

La richiesta di revisione è stata presentata da Defilippi sulla base di una serie di elementi. Tra l’altro Faiuolo aveva confessato di aver ucciso la donna con un coltello (recuperato) che si è poi rivelato diverso da quello usato dall’assassino; ha poi spiegato di aver colpito la vittima con fendenti sferrati personalmente con la mano sinistra (perchè è mancino), invece la donna è stata assassinata da un killer destrimano. Ancora: gli anelli che la donna possedeva sono stati trovati nella disponibilità di Sebai, così come un articolo di giornale che parlava del delitto.

"La decisione dei giudici baresi è un successo importante perchè riapre il caso Sebai. L'attenzione ora va agli otto innocenti, di cui uno si è suicidato in carcere, che sono stati condannati a complessivi 100 anni di carcere per delitti che non hanno compiuto. Il silenzio di questi otto innocenti oggi è finalmente finito”. Così l’avv.Claudio Defilippi commenta la decisione della Corte d’appello di Bari di ammettere la revisione del processo per il proprio assistito, Vincenzo Faiuolo, condannato a 25 anni di reclusione per aver ucciso un’anziana.

Del delitto si è poi accusato il serial killer delle anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 46 anni. “Abbiamo trovato a Bari dei magistrati che hanno voluto vedere dentro le cose. Mi auguro – afferma Defilippi – che si possa al più presto verificare la responsabilità di un altro innocente, Giuseppe Tinelli, condannato all’ergastolo per gli omicidi di Celeste Commesatti (Palagiano, Taranto, 13 agosto 1995) e di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997), ma che da sempre si dice innocente”.

“Tinelli – prosegue il legale – ha tentato di suicidarsi per due volte in carcere ingerendo candeggina. Spero che, dopo 15 anni di detenzione, possa ottenere la sospensione della pena per questi due delitti che non ha commesso”. Il legale sostiene inoltre che il giudizio di revisione per Faiuolo, per attrazione, riaprirà anche la posizione processuale dell’altro concorrente nel delitto, Francesco Orlandi, condannato a 11 anni, pena che ha interamente scontato a Trani (Bari) ed è ora libero. Delle otto persone “innocenti”, sei delle quali sono difese da Defilippi, le sole detenute sono Tinelli e Faiuolo.

Dunque cosa è successo dal giorno in cui venne comunicato che la richiesta di revisione era stata accettata?

“E’ successa una cosa molto grave - dice l’avvocato De Filippi a “Il Democratico”. - Prima la Corte di Appello di Bari ha accettato la richiesta di revisione, ma poi mi è arrivato un provvedimento dalla Corte di Assise di Appello di Bari che non c’entra niente e che ha revocato tutto. Ora: cosa c’entra la Corte di Assise di Appello di Bari?! Questo si chiama provvedimento abnorme: cioè quando non c’entra niente!

Praticamente un giudice che non c’entra niente ha fatto un provvedimento che revoca quello emesso dal giudice competente. La Corte di Assise di Appello di Bari non ha nessuna competenza in merito a questo processo”.

Cioè lei sta dicendo che la Corte di Appello di Bari e la Corte di Assise di Appello di Bari sono due cose diverse e sganciate in merito a questo caso giudiziario?

“Assolutamente si. È la Corte di Appello di Bari che ha la competenza del caso, non quella di Assise”.

Ma allora come spiega questo provvedimento? Perché è stato fatto?

“Io non lo so. Non so le ragioni per le quali sia avvenuto tutto questo. Io non so più cosa pensare perché sinceramente ogni mia mossa viene cancellata. Ogni mia mossa viene bloccata: non so cosa pensare”.

Ma lei non ha nemmeno una vaga idea del perché si sia verificato questo ennesimo, improvviso intoppo al normale svolgimento del processo di Faiuolo?

“Questo è il più grosso caso di errore giudiziario della storia d’Italia. Si immagini un po’ se c’è gente che non lo vuole bloccare…Io non so chi sia e cosa faccia, so solo che tutte le cose che faccio mi vengono bloccate sistematicamente. Questo provvedimento qua è assolutamente abnorme, dato da un giudice non competente e che non doveva essere di competenza. Non si capisce perché questo giudice lo abbia fatto. Non si capisce niente!”

Ma quindi ora che ne sarà del processo? E’ stato tutto ‘chiuso’?

“Non è chiuso niente: io ho fatto ricorso in Cassazione contro questo provvedimento, perché è assolutamente abnorme. I provvedimenti abnormi sono tali per cui ci potrebbe essere una responsabilità disciplinare per il giudice che lo ha emesso. Non doveva venire fuori questo giudice, perché è assolutamente incompetente con il caso”.

Come si può commentare tutto questo?

“Dicendo che è una situazione paradossale, assolutamente strana. E il tutto nell’assoluta assenza di media, giornali e tv”.

Quello di Vincenzo Faiuolo potrebbe essere, a tutti gli effetti, un grave caso di malagiustizia. La riapertura delle indagini e la revisione del processo, infatti, potrebbero testimoniare l’esistenza di plurimi errori giudiziari fatti dal foro competente (quello di Taranto) che all’epoca condannò Vincenzo Faiuolo ed altri con l’accusa di omicidio. Qualora tali ipotetici errori giudiziari venissero dimostrati, infatti, un gran numero di giudici e magistrati verrebbe a trovarsi in seria difficoltà poiché dovrebbe rispondere e giustificare il perché di tali errori. In più c’è da considerare che questo è un caso, complessivamente, da 100 anni di carcere: risarcire 100 anni di carcere costerebbe moltissimo allo Stato.

Nonostante ciò, i Magistrati di Taranto hanno denunciato presso la Procura di Potenza il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr. Antonio Giangrande, il collegio difensivo del Sebai ed altri testimoni perché questi hanno espresso dubbi di legalità riguardo il Processo Sebai, ossia il “killer delle vecchiette”. Il reato contestato: calunnia nei confronti della difesa, per essersi permessi di contestare con atti di rito le sentenze avverse; false dichiarazioni rese a difensore nei confronti dei testimoni. In quest'ultimo caso la denuncia non è stata fatta dal difensore, ma dai magistrati. Bah!!

Continua la battaglia dei Magistrati di Taranto contro l’Associazione Contro Tutte le Mafie ed il suo presidente. “Non contenti di aver archiviato tutte le mie denunce e dei miei clienti, fino a che mi hanno permesso di fare l'avvocato, compresa quella ricevuta da altra procura e nella quale gli stessi magistrati di Taranto erano denunciati, ed accolte tutte quelle contro di me, pur pretestuose, come quella di calunnia per aver proposto come avvocato di terzi opposizione ad una archiviazione - dice il dr Antonio Giangrande - alcuni Magistrati di Taranto, prima mi hanno denunciato a Potenza perché ho pubblicato sui miei siti le interrogazioni parlamentari e gli articoli di stampa, che parlavano degli insabbiamenti delle inchieste presso il foro di Taranto, poi mi hanno denunciato a Potenza, assieme al collegio difensivo del Sebai, per aver rilevato abnormi anomalie riguardo il processo al killer delle vecchiette. Le anomalie sollevate erano che il foro di Taranto, magistrati giudicanti ed inquirenti, non doveva occuparsi, per conflitto di interesse, dei delitti di cui il Sebai si dichiarava autore e per i quali i giudici di Taranto avevano già condannato altri imputati. In quel processo il Sebai si accusava di 14 delitti, dando dovuti riscontri. A Taranto è stato creduto solo per un delitto, guarda caso, per quello dove non si è mai trovato un colpevole. Gli esiti di quel processo potevano far emergere responsabilità dei magistrati che si erano prodigati a far condannare dei presunti innocenti e per questo si urla che era poco opportuno che gli stessi dovessero intervenire, più che sulle sorti dei detenuti, sulle conseguenze della loro presunta negligenza od imperizia.”

Su questi fatti, silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Le denunce penali presentate dal presidente dell'Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, contro la Procura di Taranto, inviate a Potenza, sono rimaste lettere morta. A seguito dell'indifferenza della Procura di Potenza le denunce penali contro la Procura di Taranto sono state inviate presso altre Procure. Queste hanno reinviato a Taranto le denunce ricevute. Risultato: la Procura di Taranto da denunciata ha archiviato con abuso, in conflitto di interessi, le denunce contro se stessa.

Silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Così come è per tutte le interrogazioni parlamentari che hanno sollevato problemi di etica giudiziaria e forense di quel foro. Interrogazioni che sono state presentate non da Parlamentari tarantini. Nemmeno l'On. Franzoso ha avuto il coraggio di ribellarsi, se non per altri, almeno per se stesso. Come molti ricorderanno, l'on. Pietro Franzoso, tarantino, all'epoca non ancora deputato ma assessore regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato come un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una cosca mafiosa. Il Tribunale di Taranto lo ha assolto dalla infamante accusa ma la stampa ha riservato alla notizia poco spazio e pochissimo risalto.

Nella problematica è da segnalare l’astensione alla lotta della classe forense tarantina contro i magistrati di quel foro per procedimenti di declaratoria di errori giudiziari.

Il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ricorda altri casi.

Gronda ingiustizia la storia della strage della barberia, così come è stata rivisitata dalla Corte di Appello di Potenza. Quella Corte ha scagionato quattro innocenti, condannati come feroci killer per la mattanza dell’1 ottobre del 1991. Il punto di non ritorno della guerra di mala. Quel maledetto giorno i sicari della mala irruppero nella barberia di Giuseppe Ierone, all’imbocco di via Duomo. Spararono all’impazzata con mitra e pistole. Poi fuggirono lasciandosi alle spalle quattro morti e due feriti. Cercavano i boss rivali, invece, inchiodarono al suolo innocenti che con quella guerra tra bande non avevano nulla a che fare. Il primo di una lunga serie di tragici errori. Nelle ore successive alla mattanza, le indagini imboccarono la strada sbagliata. In carcere finirono cinque persone.

A distanza di sedici anni la Corte di Appello di Potenza ha definitivamente scritto che quattro erano innocenti. Giovanni Pedone, Massimo Caforio, condannati a trent’anni come esecutori materiali, e Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati ad undici anni come fiancheggiatori. Con quel tremendo delitto non c’entravano. Ma la Corte di Potenza, nel motivare la revisione va oltre il verdetto, svelando definitivamente particolari che inducono a riflettere. Un aspetto su cui oggi si è soffermato l’avvocato Carlo Petrone che in questa brutta vicenda ha assistito Giovanni Pedone, noto con il soprannome di “fafetta”. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. Collaboratori di giustizia del calibro di Francesco Di Bari avevano parlato, adombrando il sospetto di un depistaggio messo in atto da un boss che a suo dire era vicino ai servizi segreti. Ma quando quelle dichiarazioni furono portate in Appello, la Corte le bollò come un tentativo di inquinamento probatorio. E fa specie leggere che quel secondo grado del procedimento cominciò e si concluse in un giorno a dispetto della complessità del caso. Come dire che se la giustizia è lenta l’ingiustizia in quel caso fu rapidissima. Così come rapidi giunsero gli arresti per il quadruplice omicidio. A spianare la strada sbagliata agli uomini della Squadra Mobile un confidente. “Quel confidente - scrivono i giudici di Potenza - fu messo in camera di sicurezza con Aiello e Bello i quali si decisero poi a parlare”.

«E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini».

Continua il dr Antonio Giangrande, parlando del caso Morrone.

“Domenico Morrone un terzo della sua vita l'ha spesa dietro le sbarre. 16 anni. Ingiustamente. Lo avevano arrestato nel 1991 e condannato a 21 anni, perché, secondo l'accusa, aveva ucciso a colpi di pistola due ragazzini davanti a una scuola media di Taranto. Non era vero. E la verità è saltata fuori. Grazie alle confessioni di due pentiti e ad una revisione del processo, la Corte d'Appello di Lecce l'ha assolto. La stessa Corte gli ha riconosciuto 4,5 milioni di euro: soldi che pagheranno i cittadini italiani e non i responsabili dell'errore.

In base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri, coordinati dal pm del tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli, Morrone, poche ore dopo i fatti, fu sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Ad incastrarlo - secondo l'accusa - c'erano le testimonianze di alcune persone. Sia al momento del fermo sia durante i processi a suo carico, l'imputato ha sempre detto di essere estraneo ai fatti, ma nessuno gli ha creduto.

«Questo processo è stato caratterizzato da lacune immense - denuncia l'avv. Defilippi - e i giudici di merito non hanno mai tenuto conto dell'alibi che Morrone aveva, che era stato confermato sin dal primo annullamento con rinvio della sentenza da parte della Cassazione. L'imputato ha sempre detto che al momento del delitto si trovava nell'appartamento dei coniugi Masone, che vivevano sullo stesso pianerottolo dell'abitazione della sua famiglia. I Masone hanno confermato l'alibi del giovane durante il processo ma sono stati condannati per falsa testimonianza, così come è stata condannata la mamma del giovane che aveva riferito la stessa circostanza: «Queste persone - conclude il legale - sono cadute nella fossa dell' inferno solo per aver detto la verità».

A Taranto si deve subire e si deve tacere. Potenza agevola. Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.

Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.

La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.

I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.

Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.

Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.

La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.

Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.

Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero di farlo condannare per diffamazione per aver pubblicato le inchieste sulle consulenze o perizie false; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.

Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. La procura di Taranto, investita per competenza, ha reiterato il sequestro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo, e alla pagina di Taranto, le prove sugli insabbiamenti della Procura locale.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro il giudice di Manduria, che condanna sempre quando il Giangrande o un suo assistito è imputato, ovvero assolve sempre quando il Giangrande o un suo assistito è persona offesa. Questo sempre in contrasto alle prove acquisite.

Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale. Situazione che non assicura una adeguata difesa.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere, per sè e per gli altri. Peggio è capitato ad un ispettore di polizia che è stato denunciato, condannato e trasferito in pochi giorni: la sua colpa aver denunciato i malaffari istituzionali. A Taranto si deve subire e si deve tacere !!!”

PARLIAMO DI OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite.

Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.

La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare.

Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione.

Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso".

Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi.

Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.

Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo».

È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente».

Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti».

«Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore.

Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo.

Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.

Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea.

L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo.

«È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ».

Vanacore scrisse quella lettera dopo l’ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.

All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa».

Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale».

«In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».

Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!»

La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza.

Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.

Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare.

La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa.

Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.

Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.

PARLIAMO DI INSABBIAMENTI.

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

Quando la legge non è uguale per tutti.

Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010.

"Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller (coinvolto nello scandalo P3), il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (coinvolto nello scandalo P3) ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi. Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro (indagato sullo scandalo G8 Sardegna), si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone (coinvolto nello scandalo P3) chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti. E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo. Logge, cappucci e grandi vecchi. Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia."

Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto: nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia contestata ai denuncianti !!!!

Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.

L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia. Lorenzo Nicastro, divenuto assessore regionale dipietrista con la Giunta di Vendola, ha indagato su Fitto fino al giorno prima di candidarsi alle regionali pugliesi nel distretto in cui operava. A sollevare perplessità sulla candidatura del pm è stato il presidente dell'Anm, Luca Palamara, ribadendo che "il tema della credibilità della magistratura non può essere disgiunto da quello dell'inopportunità della partecipazione alla vita politica dei magistrati nei luoghi dove abbiano esercitato la giurisdizione, per evitare il rischio di indebite strumentalizzazioni dell'attività svolta". Roberto Rossi, è stato eletto nel Consiglio superiore della magistratura. Roberto Nitti, l’unico a essere rimasto nell’organico della Procura di Bari. Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie su Berlusconi. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.

L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari a fini politici verso alcuni organi di stampa".

"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto e al contempo deputato al Parlamento, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”.

Lecce come Potenza.

La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce il 12 luglio 2010 ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.

IL CASO GIANGRANDE. Il Dott. Antonio Giangrande, Presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie e autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” ha presentato il seguente ricorso ai 950 Parlamentari italiani: nessuno si è degnato a dare riscontro.

“PREMESSO CHE

da 15 anni sono vittima di bocciature ritorsive al concorso forense;

il 16, 17, 18 dicembre 2008 ho partecipato alla prova scritta del concorso forense presso la Corte di Appello di Lecce;

il 26 marzo 2009 la commissione presso la Corte di Appello di Reggio Calabria si è riunita per la correzione dei 3 elaborati: IN FORMA ILLEGITTIMA;

il 24 giugno 2009 (dopo 3 mesi) si sono pubblicati i risultati: giudizio identico negativo, 25, 25, 24;

il 3 luglio 2009 si visionano i compiti, i verbali e i criteri di correzione: SI OTTIENE PROVA CHE I COMPITI NON SONO STATI LETTI E CORRETTI E IL GIUDIZIO RESO E’ FALSO;

l’8 luglio 2009 si presenta istanza di ammissione al gratuito patrocinio con gli allegati probatori presso la Commissione del Tar di Lecce per poter presentare ricorso al TAR per manifesta irregolarità dei giudizi;

il 7 agosto (dopo un mese e a pochi giorni dalla decadenza del ricorso) si riceve diniego dalla Commissione: MANCA IL FUMUS;

il 12 agosto 2009 si presenta esposto penale ed amministrativo con gli allegati probatori a: Presidenza della Repubblica; Presidenza del Consiglio; Ministero della Giustizia; Ministero degli Interni; Ministero della Funzione Pubblica; Ministero del lavoro; Ministero dei giovani; Ministero Pari opportunità;  Presidenti di Camera e Senato; Commissioni Giustizia di Camera e Senato; Direzione Nazionale Antimafia; Antitrust; Consiglio Superiore della Magistratura; Consiglio Nazionale Forense; Consiglio di Stato; Avvocatura dello Stato; Corte dei Conti; Procura Generale ed ordinaria di Lecce, Taranto, Bari, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria; Prefettura di Lecce e Taranto; Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e Taranto

RISULTATO: TUTTO LETTERA MORTA.

DOMANDA: E’ PIU’ SCANDALOSO L’ABUSO O L’OMISSIONE ?!?!

Tanto premesso si chiede alla S.V. di intervenire in questa vicenda che tocca varie competenze amministrative ed istituzionali, per mezzo di una interrogazione ai soggetti interessati.

Giusto per sapere se merito giustizia e per non vergognarmi di essere italiano.

Il far passare la vittima per mitomane o pazzo, non disobbliga l’autorità adita ad un doveroso riscontro. Sempre che si sia in un paese civile e giuridicamente avanzato.”

Già in precedenza era stato presentato un esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, a cui nessun riscontro è seguito.

“dal 10 aprile 2001 ad oggi, ha interpellato il Ministero della Giustizia per ben 36 volte, chiedendo la verifica dell’operato degli Uffici Giudiziari di Taranto, Potenza e Bari circa gli insabbiamenti delle denunce presentate; il Sottosegretario alla Giustizia di Francavilla Fontana (BR), anziché rispondere al Dr. Antonio Giangrande come la legge gli impone, ha diffidato pubblicamente il medesimo di continuare ad “alluvionare” il suddetto parlamentare con le segnalazioni di malagiustizia; a questo si aggiunge la risposta del capo di gabinetto del Ministro che, in data 25/01/2006, prot. 201/4244 (G), gli dice di attendere l’esito istruttorio dei procedimenti ministeriali attivati molti anni prima;

dal 2 agosto 2004 ad oggi, ha interpellato il Ministero della Funzione Pubblica per ben 8 volte, chiedendo la verifica dell’operato degli Uffici Ministeriali interpellati circa gli insabbiamenti dei ricorsi presentati;

il Presidente della Repubblica, U.G. 551/2003 prot. SGPR 25/02/2003 0022081 P, UAG 197/2006 prot. SGPR 28/06/2006 0075602 P, più volte ha investito del problema il Consiglio Superiore della Magistratura, a cui è conseguito un naturale nulla di fatto;

a Strasburgo, la Corte Europea dei Diritti Umani ha aperto un procedimento, n. 11850/07, GIANGRANDE contro ITALIA, per l’insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi. La maggior parte delle lettere morte sono avvenute presso le Procure della Repubblica di tutta Italia, senza che sia conseguita l’obbligatoria azione penale, o l’obbligato perseguimento per calunnia, ovvero l’accusa di mitomania, nei confronti del Dr. Antonio Giangrande ed altri denuncianti, nonostante che alcuni esposti contenessero l’accusa di associazione mafiosa per avvocati e magistrati.”

Invece di ricevere giustizia, si è aperto a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.

La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.

I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.

Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.

Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.

La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.

Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.

Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.

La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.

Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.

Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.

Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo.

Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale. Istanza rimasta lettera morta, impedendo la regolare nomina di un difensore e la sua strategia difensiva.

Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.

Non capita quasi mai. Quasi. E infatti è capitato che a Taranto la giustizia-lumaca ha preso a correre come un treno. L’eccezione che conferma la regola è nell’incredibile vicissitudine giudiziaria capitata a Franco Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato per aver sollevato accuse scomode.

È capitato tutto in un giorno: la querela nei suoi confronti è approdata in procura la mattina stessa in cui è stata presentata; il suo fascicolo è stato immediatamente assegnato dal Procuratore Capo; prima del calar del sole da neoquerelato si è ritrovato iscritto nel registro degli indagati; tempo due giorni e ha subìto un sequestro preventivo prontamente autorizzato, notificato a casa e convalidato.

Roba da guinness. Da far strabuzzare gli occhi ad avvocati e magistrati di mezzo Stivale: una piccola luce di speranza per migliaia di uomini e donne in attesa di un giudizio da anni.

Non succede mai, ma è successo. A Taranto, in quella stessa Procura finita a novembre 2006 in un’inchiesta dei colleghi potentini per un sospetto «rallentamento» nelle indagini, accuse di insabbiamento con incartamenti al vetriolo su intrecci tra politica e malaffare, con Asl e Comune nel mirino.

Certi faldoni, secondo un’interrogazione parlamentare di Pino Lezza, ex deputato di Forza Italia, ora a capo di un'associazione cattolica liberale, sarebbero stati messi appositamente in sordina, con un andamento lento, molto lento.

Ecco invece che, oggi, a presentarsi in Procura per rispondere di diffamazione arriverà puntuale il poliziotto-sindacalista. Tre dei quattro procedimenti penali a suo carico sono stati aperti con velocità supersonica e abnegazione esemplare.

Il tutto nasce da un esposto dell’ex questore Eugenio Introcaso, risentitosi per certe affermazioni. Non sappiamo com’è, ma le carte contro Maccari sono arrivate a destinazione a velocità ipergalattica. «Con rapidità decisamente inusuale - commenta Giuseppe Salvatore Cutellè, legale di Maccari - tanto da averci indotto a scrivere al Csm e al Procuratore generale di Cassazione. Questo doppio passo della giustizia ci lascia quantomeno perplessi».

Nel corso dell'attività di sindacalista, Maccari prende di petto alcune scelte gestionali dell'ex numero uno della questura tarantina, lo fa riempiendo comunicati destinati all'ufficio relazioni sindacali del Viminale, poi pubblicati sul sito internet del sindacato.

La prima querela per diffamazione è del 13 gennaio 2006. Il 30 dello stesso mese la squadra mobile redige il verbale d'elezione a domicilio e nomina dell'avvocato. Il 28 febbraio scatta il sequestro preventivo del sito www.coisp.it, sequestro subito convalidato ed eseguito a Roma il 6 marzo dagli agenti della Digos appositamente inviati da Taranto. Quindi, la denuncia del 13 luglio, trasformata in avviso di garanzia nel corso di una stessa mattinata.

Procedura lampo anche per la denuncia del 17 luglio 2006. «Circostanze - afferma Maccari - che evidenziano senza ombra di dubbio una corsia preferenziale che ci lascia quantomeno perplessi. Pare incredibile che in una Procura oberata dalla mole di lavoro come quella di Taranto, tutto passi in secondo piano rispetto a una semplice querela di diffamazione. Vi sono denunce per reati ben più gravi che restano ferme nei cassetti per mesi. Eppure nel mio caso, e per più di una volta, tutto si è svolto con una celerità che ha del paradossale. Per questo chiediamo al Csm di controllare se non vi siano i presupposti di incompatibilità ambientale e, nel caso, di avviare dei procedimenti disciplinari».

Ma questo non succede solo a Taranto.

Ci sono voluti 28 anni, dal 1972 al 2000, per mettere in piedi il San Salvatore, e pochi minuti per mandarlo al tappeto: i costi sono stati nove volte più del previsto. I giornali ci parlano che il progetto dell'ospedale porta la data 1967. Spesa inizialmente prevista 11.395 milioni di lire. Costi lievitati fino a quota 214 miliardi e 222 milioni. Ma lo scandalo nello scandalo è un ospedale senza agibilità in piena zona sismica. E’ lo scandalo dell’Aquila dove la struttura è stata evacuata subito dopo il terremoto perché pericolante. Ora un ispettore di polizia rivela ai microfoni di “Studio Aperto”, il telegiornale di “Italia 1”, del 14 aprile 2009 edizione delle 12,20 che l’ospedale dopo l’inaugurazione del 2000 non ha mai ricevuto il certificato di agibilità perché mancava l’accatastamento.

“Pare che non siano stati fatti neanche gli atti di vendita dei terreni- dice il poliziotto- e quindi non stando tutti gli atti di vendita, non la possono neanche accatastare, quindi come fai ad accatastare una struttura su un terreno che comunque non è tuo?”.

L’ispettore di polizia aveva presentato una denuncia in questura  il 28/12/2008. Nel documento si parla anche dei lavori alla filiale interna all’ospedale della Cassa di Risparmio dell’Aquila, spostata per fare un favore alla banca. I locali non avrebbero mai ricevuto l’agibilità.

“I poteri forti sono la banca – continua il poliziotto - la Cassa di Risparmio, che è comunque presente in tutto il territorio dell’Aquila ed anche dell’Abruzzo e fuori. E comunque c’hanno potere e l’ASL. Questi sono i poteri forti che ti tagliano le gambe. Quindi tu quando vai a toccare questi poteri………..”

La questura fa sapere che ci sono indagini in corso. La procura assicura controlleremo tutto.

Ma dopo questa denuncia per il poliziotto è iniziato l’inferno.

“Mi sono trovato il trasferimento d’ufficio in Questura. Morale della favola: alla fine hanno trasferito solo me d’ufficio. Quando ho fatto questa segnalazione, ho chiesto comunque che mi delegassero a fare le indagini e naturalmente non l’hanno fatto. Lo dico con tutto il cuore, fanno letteralmente schifo.”

La magistratura è matrigna: è pronta nel perseguire; è omissiva nell’aiutare.

Vorrebbero far passare per mitomane o pazzo chi è pronto a non essere omologo al sistema socio-mafioso italiano. Purtroppo qualcuno si arrende.

Pietro Palau Giovannetti, oltre ad essere il coraggioso Direttore Responsabile del giornale on line “La voce di Robin hood”,  è tra i padri fondatori del "Movimento per la Giustizia Robin Hood" e della rete di "Avvocati senza Frontiere", organizzazioni no profit che, da oltre 20 anni, si battono per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera dagli interessi delle mafie e delle corporazioni, sostenendo quella parte sana e assolutamente minoritaria della magistratura, che non si presta a legittimare gli abusi che quotidianamente vengono perpetrati nelle aule di giustizia, dai poteri dominanti nei confronti dei cittadini più deboli e indifesi.

A fronte del suo impegno civile e delle sue coraggiose denunce nei confronti dei cd. "poteri forti" Pietro Palau Giovannetti ha subito oltre 750 procedimenti penali con le accuse più disparate e capziose per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle sue stesse denunce, mai esaminate, o dai suoi taglienti articoli giornalistici, i cui procedimenti nella stragrande maggioranza dei casi si sono conclusi con assoluzioni con formula piena o, con archiviazioni de plano per manifesta infondatezza delle notizie di reato.

Tra i tanti "procedimenti-farsa" sollecitamente istruiti a suo carico a tempi di giustizia scandinava dalle Procure e Corti di Appello di mezza Italia (da Torino, Treviso, Milano, Brescia, Trento, Trieste, Venezia, Alessandria, Bologna, Firenze, Roma, Palmi, Reggio Calabria), si registrano anche due singolari richieste di "perizie psichiatriche", da parte delle Procure di Milano e di Torino, nonché dalla Procura Generale di Milano, proprio come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est.

Per la mole di attività persecutorie a cui è stato sottoposto la sua figura è stata paragonata a quella di Danilo Dolci (pacifista nonviolento) che, come lui, dal 1952, dedicò la sua vita alla causa delle persone più deboli, in Sicilia, venendo ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca tutt'oggi asservita agli interessi della politica e della mafia siciliana.

La condanna venne infatti laconicamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato i maggiori intellettuali e Premi Nobel dell'epoca e l'arringa fosse stata pronunciata dal grande giurista Piero Calamandrei, tra i padri della Costituzione.

Ma non sono i soli.

Questa è la trascrizione, in esclusiva sull’Espresso, dell'ultima lettera di addio del professore universitario messinese Adolfo Parmaliana, prima del suicidio avvenuto l’1 ottobre 2008, gettatosi giù da un viadotto.

"La mia ultima lettera. La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito di servitore dello Stato e docente universitario.

Non posso consentire a questi soggetti di farsi gioco di me e di sporcare la mia immagine, non posso consentire che il mio nome appaia sul giornale alla stessa stregua di quello di un delinquente. Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi.

Non glielo consentirò, rivendico con forza la mia storia, il mio coraggio e la mia indipendenza. Sono un uomo libero che in maniera determinata si sottrae al massacro ed agli agguati che il sistema sopraindicato vorrebbe tendergli.

Chiedete all'Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al senatore Beppe Lumia chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all'Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo.

Mi hanno tolto la serenità, la pace, la tranquillità, la forza fisica e mentale. Mi hanno tolto la gioia di vivere. Non riesco a pensare ad altro. Chiedo perdono a tutti per un gesto che non avrei pensato mai di dover compiere.

Ai miei amati figli Gilda e Basilio, Gilduzza e Basy, luce ed orgoglio della mia vita, raccomando di essere uniti, forti, di non lasciarsi travolgere dai fatti negativi di non sconfortarsi, di studiare, di qualificarsi, di non arrendersi mai, di non essere troppo idealisti, di perdonarmi e di capire il mio stato d'animo: Vi guiderò con il pensiero, con tanto amore, pregherò per voi, gioirò e soffrirò con voi.

Alla mia amatissima compagna di vita, alla mia Cettina, donna forte, coraggiosa, dolce, bella e comprensiva: ti chiedo di fare uno sforzo in più, di non piangere, di essere ancora più forte e di guidare i ns figli ancora con più amore, di essere più buona e più tenace di quanto non lo sia stato io.

Ai miei fratelli, Biagio ed Emilio, chiedo di volersi sempre bene, di non dimenticarsi di me: vi ho voluto sempre bene, vi chiedo di assistere con cura e amore i ns genitori che ne hanno tanto bisogno. Alla mia bella mamma ed al mio straordinario papà: vi voglio tanto bene, vi mando un abbraccio forte, vi porto sempre nel mio cuore, siete una forza della natura, mi avete dato tanto di più di quanto meritavo. A tutti i miei parenti, ai miei cognati, ai miei zii, ai miei cugini, ai miei nipoti, a mia suocera: vi chiedo di stare vicini a Gilda, a Basilio ed a Cettina. Vi chiedo di sorreggerli.

Ai miei amici sarò sempre grato per la loro vicinanza, per il loro affetto, per aver trascorso tante ore felici e spensierate. Alla mia università, ai miei studenti, ai miei collaboratori ed alle mie collaboratrici sarò sempre grato per la cura e la pazienza manifestatemi ogni giorno. Grazie. Quella era 1° mia vita. Ho trascorso 30 anni bellissimi dentro l'università innamorato ed entusiasta della mia attività di docente universitario e di ricercatore.

I progetti di ricerca, la ricerca del nuovo, erano la mia vita. Quanti giovani studenti ho condotto alla laurea. Quanti bei ricordi.

Ora un clan mi ha voluto togliere le cose più belle: la felicità, la gioia di vivere, la mia famiglia, la voglia di fare, la forza per guardare avanti.

Mi sento un uomo finito, distrutto. Vi prego di ricordarmi con un sorriso, con una preghiera, con un gesto di affetto, con un fiore. Se a qualcuno ho fatto del male chiedo umilmente di volermi perdonare.

Ho avuto tanto dalla vita. Poi, a 50 anni, ho perso la serenità per scelta di una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente. Questo sistema l'ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni.

Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita.”

Omicidio Claps. Gildo scrive ad Elisa: «Mia cara sorellina...»

«Stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene»: lo ha scritto Gildo Claps il 9 aprile 2010 in una lettera alla sorella, Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993, quando aveva 16 anni, il cui cadavere è stato trovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della canonica della chiesa della Santissima Trinità, a Potenza.

La lettera, affidata da Gildo Claps all’ANSA e riportata da tutta la stampa, comincia con un commovente «mia cara sorellina» e prosegue con un tono delicato: «Stavolta un rimprovero devo proprio fartelo...», ha aggiunto il fratello di Elisa, chiedendole «come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta». Subito dopo, però, la lettera assume un tono ironico e polemico, se non di aperta accusa, nei confronti di chi indagò sulla scomparsa di Elisa: «Pensa – scrive Gildo – a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare». Non mancano riferimenti a Danilo Restivo, unico indagato nell’inchiesta, al padre, «un notabile amico di notabili», al questore che a Natale del 1993 «mise alla porta» la madre di Elisa («Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla»), ai depistaggi: «E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo», ha scritto Gildo alla sorella, facendo considerazioni critiche sul vescovo e sui sacerdoti della Santissima Trinità sul ritrovamento ufficiale del cadavere e sul fatto che, invece, era già stato trovato quasi due mesi prima.

IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA

«Mia cara sorellina, stavolta un rimprovero devo proprio fartelo: ma come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta; e come se non bastasse te ne sei stata lì per 17 anni invece di prendere le tue poche cose e allontanarti con garbo ed in silenzio fino farti inghiottire per sempre dalle nebbie del tempo. Ti rendi conto che così facendo hai messo in imbarazzo tutti? Capisco che ti hanno toccato il cuore le lacrime di mamma e di papà, posso comprendere che hai voluto dare a me e Luciano (altro fratello) un segno tangibile che questi anni non sono trascorsi invano, ma potevi farlo in modo diverso e soprattutto evitando di mettere tante persone che contano nelle condizioni di dover spiegare i loro comportamenti davanti ad un paese intero.

Pensa adesso a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare; come faranno a far capire alla gente che non sono mai entrati in quella chiesa a cercarti se non dopo tanti anni e peraltro senza trovarti. Hai messo in difficoltà anche noi che dobbiamo chiarire come mai a poche ore dalla tua scomparsa, ci precipitammo in chiesa ma non riuscimmo a salire fin sopra perchè le chiavi di quella porta le aveva solo il parroco che in quel momento non era presente.

Capisci, adesso dovremo spiegare come mai due ragazzi e pochi amici avevano avuto l'intuizione di andare a guardare lì, e investigatori di provata esperienza se ne sono semplicemente dimenticati. E poi sorellina mia, dovevi incontrarti proprio con Danilo (Restivo, indagato per la morte di Elisa) quel giorno? Hai messo di nuovo in difficoltà quel bravo magistrato e ancora una volta noi stessi. Ti rendi conto che abbiamo dovuto scavare nel passato di quel povero ragazzo, far venir fuori tutta una serie di episodi spiacevoli che lo riguardavano? Ci hai costretto ad accusarlo fin dal primo giorno, ma con l’intuizione dei grandi investigatori ci diedero dei pazzi, NOI. E poi era pur sempre il figlio del direttore della Biblioteca Nazionale, un notabile amico di notabili, dico io, non potevi incontrarti con il figlio di un operaio in cassa integrazione? Sarebbe stato tutto più semplice.

Ti rendi conto sorellina – prosegue la lettera di Gildo Claps alla sorella – che ora dovranno spiegare il motivo per cui non andarono ad interrogarlo quel giorno stesso, non sequestrarono i suoi vestiti, non acquisirono i tabulati telefonici? Quale imbarazzo per persone che negli anni hanno continuato a fare il loro 'dovere' mentre noi ci si consumava piano nel vuoto della tua assenza.

E ricordi quando mamma fu messa alla porta dal questore poco prima di quel Natale del 1993, il primo senza di te, ricordi le sue parole esatte: 'signora basta, non può venire ogni giorno qui con i suoi figli a disturbare, sua figlia è scappata di casa, lo vuole capire o no?' Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla. E quando gli avvocati di uno degli indagati, attingendo a fonti confidenziali, ci dissero che eri in Albania? Noi pensammo subito ad un ennesimo depistaggio, ma da lassù sono certo che avrai visto per un attimo una scintilla negli occhi di mamma, era il riflesso sepolto della segreta speranza di saperti ancora in vita.

Pensa adesso se a qualcuno venisse in mente di andare a chiedere loro quali erano queste fonti confidenziali, capisci sorellina quale imbarazzo sarebbe per due stimati professionisti dover dare spiegazioni su questa vicenda? E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo. Il vescovo, il parroco, il vice e giù fino all’ultimo anello della catena sono ora costretti a spiegare come, quando, chi? E già, sarebbe stato tutto così semplice, lineare, se fosse stato vero che un’impresa edile, nell’effettuare lavori di riparazione, avesse casualmente scoperto il tuo corpo. Invece no, tutto complicato in questa maledetta faccenda e ancora una volta tutto così imbarazzante. Forse sono state prima le donne delle pulizie, no scusa, il viceparroco, no lui non ne sapeva niente, era gennaio, no febbraio, sì, ma di quale anno? Il vescovo dice di non sapere, non ammette oggi di aver saputo ma non pensava che fossi tu (come se ciò facesse la differenza), però il giorno dopo il ritrovamento, con il suo avvocato si affretta a rassicurare i fedeli che la chiesa riaprirà presto al culto (era sicuramente questa la cosa che la città sconvolta voleva sapere per prima); il parroco sfida chiunque a dimostrare che lui sapesse, il vice sapeva ma se n'era dimenticato.

Da ultimo proprio ieri ho saputo sorellina, che qualcuno circa un anno fa, nei bagni del Gran Caffè aveva scritto più volte con un pennarello, Elisa Claps è nella Trinità, un altro matto certamente. Sai sorellina, sembra quasi che nessuno volesse trovarti ma che tanti sapessero dov'eri, forse devono aver fatto un pensiero profondamente cristiano, è stata buttata lì per tanti anni, anno più anno meno che cosa cambia? Oggi sorellina rischi di mettere in imbarazzo la parte buona di questa città, quella che non si è mai arresa, quella che si è stretta intorno a te e ha pianto con noi, quella che gridava verità e giustizia, quella che ripudia i compromessi, il quieto vivere, le consorterie e gli intrallazzi, quella che ha il coraggio di chiedere conto a tutti, che siano uomini di chiesa o di potere. Ti lascio, ma solo per il momento, e stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene».

IL MISTERO USTICA. Il 27 giugno 1980, alle 21 circa, i radar cessavano bruscamente di registrare la traccia dell'Itavia 870, un Dc-9 in volo tra Bologna e Palermo con a bordo 81 persone di cui 13 bambini. L'aereo sembrava scomparso, ma dopo alcune ore, spese in frenetiche quanto false ricerche, si raggiungeva la certezza che era caduto in mare a nord dell'isola di Ustica. Nessun superstite tra gli 81 passeggeri.

IL MISTERO BOLOGNA. Trenta anni di indagini e sentenze.

Ecco un riepilogo della lunga inchiesta giudiziaria, tra depistaggi di servizi deviati e colpi di scena, su quel 2 agosto 1980, quando una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna causando 85 morti e 200 feriti. Quello di Bologna è stato l'attentato più grave della storia italiana ed è avvenuto poco più di un mese dopo la strage di Ustica sull'aereo partito da Bologna.

28 AGO 1980: arrestate diverse persone sulla base delle rivelazioni del pentito Giorgio Farina. Gli ordini di cattura sono 47 in tutto. Nella primavera del 1981 per competenza territoriale Bologna passa a Roma le indagini su 44 dei 47 indagati. Nell'aprile 1986 Roma scagiona tutti dall'accusa di associazione sovversiva.

6 FEB 1981: arrestato Giuseppe Valerio 'Giusva' Fioravanti, accusato anche di concorso nella strage di Bologna.

1 GIU 1981: si forma l'Associazione dei familiari delle vittime della strage.

5 MAR 1982: arrestata Francesca Mambro, colpita, tra le altre accuse, da un mandato di cattura per concorso nella strage. Lei e il suo compagno Fioravanti sono stati accusati da Massimo Sparti.

14 GIU 1986: 20 persone sono rinviate a giudizio per la strage.

19 GEN 1987: comincia a Bologna il processo di primo grado. L'11 luglio 1988 la seconda corte d'assise condanna all'ergastolo per il reato di strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco, per calunnia pluriaggravata a 10 anni di reclusione Licio Gelli (cinque anni condonati), Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte (tre anni condonati ciascuno). Otto le condanne per banda armata.

25 OTT 1989: comincia il processo d'appello. Il 18 luglio 1990 la corte d'assise d'appello annulla i quattro ergastoli inflitti in primo grado a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco e li assolve dall'accusa di essere gli autori materiali della strage. La sentenza condanna per concorso nel reato di calunnia Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte a tre anni di reclusione ciascuno, tutti condonati. Per banda armata Valerio Fioravanti è condannato a 13 anni, Francesca Mambro a 12 anni, Gilberto Cavallini a 11 anni ed Egidio Giuliani a otto anni.

12 FEB 1992: la Corte di Cassazione a sezioni unite annulla la sentenza d'appello con rinvio ad un processo d'appello bis.

16 MAG 1994: una sentenza della prima corte d'assise d'appello di Bologna condanna all'ergastolo per la strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco, mentre assolve Massimiliano Fachini. Per il depistaggio delle indagini la corte condanna a dieci anni per calunnia aggravata da finalità di terrorismo Licio Gelli e Francesco Pazienza, a otto anni e cinque mesi Pietro Musumeci e a sette anni e 11 mesi Giuseppe Belmonte. Cinque le condanne per banda armata.

23 NOV 1995: le sezioni penali unite della corte di Cassazione confermano la sentenza d'appello che condanna all'ergastolo Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, confermate anche l'assoluzione per Massimiliano Fachini e le condanne per Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Per Sergio Picciafuoco la corte di Cassazione dispone l'annullamento della sentenza con rinvio a Firenze.

18 GIU 1996: la corte d'assise d'appello di Firenze assolve Sergio Picciafuoco ''per non aver commesso il fatto'' dall'accusa di strage. Il 15 aprile 1997 la Cassazione conferma l'assoluzione.

30 GEN 2000: una sentenza del tribunale dei minori di Bologna assolve Luigi Ciavardini, ex appartenente ai Nar, dall'accusa di aver partecipato alla strage, ma lo condanna a tre anni di reclusione per banda armata. Ciavardini all'epoca della strage aveva 17 anni.

17 NOV 2005: la procura di Bologna conferma di aver dato vita ad un'inchiesta bis sulla strage, nata dalle risultanze della commissione Mitrokhin. Al centro dei nuovi accertamenti (il fascicolo è contro ignoti) il terrorismo palestinese e due personaggi: il terrorista internazionale Carlos, conosciuto anche come 'lo sciacallo', e Tomas Kram, delle 'Revolutionaere Zellen' tedesche, esperto di esplosivi e legato a Carlos, che pernottò a Bologna nella notte tra l'1 e il 2 agosto, peraltro registrandosi in albergo col proprio nome.

11 APR 2007: la sentenza della Cassazione chiude la stagione dei processi contro Ciavardini. Per la Suprema Corte, che conferma la condanna di Ciavardini a 30 anni di carcere, l'ex Nar ha aiutato Mambro e Fioravanti nell'esecuzione della strage e vi ha partecipato materialmente. Il 24 marzo 2009 a Ciavardini è concessa la semilibertà.

APR 2009: al termine dei cinque anni di libertà condizionata che ha estinto la pena, Fioravanti torna in libertà. Il 7 ottobre 2008 il tribunale di sorveglianza di Roma aveva concesso la libertà condizionale alla Mambro fino al 2013. Mambro e Fioravanti hanno sempre negato di aver messo la bomba alla stazione di Bologna.

IL MISTERO MATTEI. Lunedì 27 ottobre 2008, nel palazzo dell'Associazione Nazionale Partigiani Cristiani di Piazza Adriana 3 in Roma, si è svolto un convegno dedicato a Enrico Mattei nel 46° anniversario della sua morte, dal titolo: La straordinaria 'vicenda Mattei' fra oblio e occultamento. Questo in occasione dell’inizio del master dell’'Istituto Enrico Mattei Alti Studi in Vicino e Medio Oriente presieduto dal prof. Moffa, che è ormai noto per la sua instancabile ricerca della verità storica di contro alle "verità storiche rivelate" del politicamente corretto, strumentalizzate a fini di controllo del pensiero.

In quella sede vi era il magistrato Enzo Calia, autore dell'inchiesta sull'attentato aereo di Bascapé in cui morì Mattei. E' la prima volta che il pubblico ministero Enzo Calia parla diffusamente della sua inchiesta, archiviata nel 2005 ma con importante risultato certo: quello in cui morì Mattei fu attentato e non "incidente", come ufficialmente ripetuto per decenni dopo il 1962.

Cominciamo dalle fondamenta, che è allo stesso tempo cronaca dei nostri giorni, l'economia mondiale in crisi, la rovina di tantissimi lavoratori e famiglie, i timidi o difficili tentativi di reazione del capitalismo industriale produttore di ricchezza reale, ai contraccolpi borsistici della finanza transnazionale. Una dialettica oggi forte e eclatante, dopo che alla svolta del secolo il rapporto fra capitale industriale e capitale finanziario ebbe raggiunto il gap di 1 a 10, ma vecchia quasi quanto il capitalismo e già esistente al tempo di Enrico Mattei: figura eccezionale – il fondatore e presidente dell'ENI - di capitalista di stato, sostenitore del sistema misto pubblico-privato, produttore come pochi capitani d'industria italiani di "ricchezza reale" per il benessere e lo sviluppo del suo paese: a cominciare, ma non solo, dalla metanizzazione dell'apparato produttivo nazionale.

IL MISTERO MORO. Sono stati - e sono destinati a restare - i 55 giorni più misteriosi dell’intera storia dell’Italia repubblicana.

Ancora oggi soltanto rievocare il caso Moro vuol dire preparasi ad entrare in un ramificato tunnel di segreti e interrogativi, di domande senza risposta e di inconfessabili trame.

Il tempo che corre non solo ci allontana dalla completa verità sulla strage di via Fani, la lunga detenzione di un uomo politico di primo piano e la sua orrenda fine, ma rende tutto più complesso.

Il trascorrere degli anni che sempre più ci fa apparire lontano quel tragico evento, anziché semplificare il quadro di insieme della vicenda, tende ad aggiungere nuovi tasselli ad un mosaico che appare ormai infinito. Aldo Moro, presidente della DC, per almeno vent’anni personaggio centrale della politica italiana, viene sequestrato da un commando delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, alla vigilia del voto parlamentare che – per la prima volta dal 1947 - sancisce l’ingresso del partito comunista nella maggioranza di governo.

Per rapirlo la sua scorta, composta da cinque uomini, viene sterminata. Il gruppo armato che s’impadronisce di Moro afferma di volerlo processare, per processare  tutta  la Democrazia Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba ad alto potenziale. I 55 giorni in cui Moro sarà detenuto in un "carcere del popolo" apriranno infatti una serie di enormi contraddizioni in seno all’intera classe politica italiana, mentre i brigatisti finiranno col dimostrarsi – con i loro documenti miopi e vetusti - completamente avulsi dalla realtà storica del paese.

La fine di Moro è nota: il 9 maggio 1978 Mario Moretti, capo dell’organizzazione armata, lo ucciderà, "eseguendo la sentenza", così come scritto nell’ultimo comunicato delle BR. Quel colpo di pistola, con tanto di silenziatore, risulta assordante ancora oggi.

Cinque diversi procedimenti giudiziari con più di una decina di sentenze, una sesta inchiesta avviata (" Il Moro sesties"); i particolareggiati racconti dei brigatisti rossi ("pentiti" o dissociati); il lungo lavoro di una commissione parlamentare d’inchiesta (la commissione Moro); l’impegno di un altro organismo parlamentare (la commissione stragi); almeno una ventina di libri. Eppure l’ombra di Aldo Moro continua a muoversi nelle segrete stanze del potere con il suo fardello di misteri, di punti non chiariti, di dubbi ed interrogativi.

Anche se il tempo passa e ci allontana sempre più da quei tremendi 55 giorni, il caso Moro continua a rappresentare il nodo dei nodi dei misteri d’Italia.

Sommersi dallo stillicidio di notizie – spesso contraddittorie – che da quasi un quarto di secolo ci vengono propinate con ossessiva regolarità, è sempre più facile giungere ad una conclusione: nell’affaire Moro la volontà di attacco allo Stato di un manipolo di terroristi si è perfettamente intrecciata con la capacità di quello stesso Stato di gestire l’intera, tragica vicenda a proprio vantaggio.

A distanza di tanti anni ancora non sappiamo: quanti brigatisti parteciparono all’assalto di via Fani; se tra loro ci fossero elementi esterni; se quell’attacco fu, in qualche modo, teleguidato; dove Moro fu custodito; cosa effettivamente il prigioniero raccontò ai suoi secondini; chi decise effettivamente di ucciderlo e, soprattutto, perché; che fine hanno fatto "le rivelazioni integrali" (il famoso memoriale Moro).

Non sappiamo neppure se quella delle forze dell’ordine chiamate a liberare il prigioniero fu solo clamorosa inefficienza oppure occulta connivenza con i sequestratori. Sappiamo però che sia gli uomini dei servizi segreti, sia quelli della P2 nel caso Moro ebbero un ruolo per certi versi determinante.  

L’eco suscitato dalle clamorose dichiarazioni rilasciate dall’On. Giovanni Galloni, Vice Segretario Vicario della DC ai tempi del rapimento di Aldo Moro, aprono squarci nuovi su cosa accadde in quella primavera del 1978.

Dice Galloni: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo".

Altre inquietanti testimonianze intervengono a a dissipare la nebbia disinformativa.

La testimonianza di Francesco Fonti raccolta da Riccardo Bocca.

Il pentito della 'ndrangheta Francesco Fonti rivela come, dietro richiesta di parte della Democrazia cristiana, cercò la prigione di Aldo Moro durante il suo rapimento: dai contatti con il Sismi a quelli con la banda della Magliana e Cosa Nostra. Fino all'incontro con il segretario Dc Benigno Zaccagnini.

Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome rimbalza tra giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione nazionale antimafia, pubblicato da "L'espresso" nel 2005, i magistrati della Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre 2009, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive. Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita organizzata."Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività", lo definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici). E sempre Fonti decide di rivelare all’espresso  un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice, affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc. Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane, pubblicato da “L’espresso” del 22 settembre 2009.

"Il mattino del 20 marzo 1978 si presenta nel mio appartamento a Bovalino, sulla costa jonica in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Romeo, fratello del boss Sebastiano che in quel momento è al vertice della famiglia di San Luca: "Sebastiano ti vuole incontrare immediatamente", dice Giuseppe. E sono parole che non prevedono repliche. Sebastiano non è soltanto il mio capo, ma anche uno degli uomini più potenti della 'ndrangheta. Dunque non discuto e obbedisco, ritrovandomi poco dopo seduto al tavolo ovale del suo salone. Sono preoccupato, non so cosa aspettarmi, ma lui non perde tempo: "Ciccio, hai visto questa brutta storia di Aldo Moro?", dice. "Ecco, dobbiamo intervenire. Devi salire di corsa a Roma. Devi individuare, tramite i nostri paesani e i contatti che hai con questi cazzi di servizi segreti, dove si nascondono i brigatisti che hanno rapito il presidente".

Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall'allarme nazionale procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra organizzazione. "Ho ricevuto pressioni a due livelli", spiega: "Mi hanno chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia cristiana calabrese), ma anche certi personaggi da Roma...". Non precisa chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.

 

Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all'hotel Palace di via Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni sulla gerarchia interna della 'ndrangheta. Visto il solido rapporto tra me e Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro. Un'ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.

Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat 130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l'agente Pino, che nel frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo, alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto. Specificando: "In mano devi tenere la "Gazzetta del sud"", di cui mi consegna una copia. "In questo modo, il segretario ti riconoscerà facilmente".

Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico operativo gestito dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale all'appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto circa dieci minuti. Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un'occhiata attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: "È un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico", inizia senza neppure avermi detto buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a incontrare uno come me. "Mi creda", prosegue, "non avrei mai immaginato un giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio garante, saprà sdebitarsi". Poi sorseggia un sorso d'acqua, si alza per andarsene e aggiunge: "Noi non ci siamo mai incontrati... Se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona, le dirà all'agente Pino".

La mia risposta, visto l'atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili. E aggiungo: "Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno comunicate da me in prima persona". Parole che pronuncio con convinzione. Non posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche per me sorprendenti.

A partire dall'incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome di "Cinese" per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi utile: "Quelli sanno tutto?", dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all'individuazione dei carcerieri di Aldo Moro. "So bene che le promesse dei politici non vengono mantenute", mi dice, "ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere l'annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini". Da parte mia, ho forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente. Ci vediamo il 25 marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: "Lo sanno tutti dove sono nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!", ride. Impugna un boccale di birra da un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale affollatissimo: "I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli, dalle parti della Cassia", dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso non ha dubbi: "Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi lo vo' trovà, a quello?", conclude con un'altra risata.

Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si comporta il Cinese, dall'altra temo di buttare il mio tempo. Com'è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un 'ndranghetista di Sant'Eufemia D'Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi notizie interessanti. Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un 'ndranghetista di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola cicatrice sullo zigomo. Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli, annuisce: "Voi potete stare sicuro che qualcosa c'è, in via Gradoli", dice. "Mi hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente c'entra con Moro".

A questo punto, capisco che l'indicazione datami in prima battuta dalla banda della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l'agente Pino, gli faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant'è che dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare con l'appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all'ambasciata di Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso, in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l'intervento di Giovannone). "Balestra ha ottime fonti", dice l'agente Pino. E non sta esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra) negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell'Alberone, dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di Pino. Il discorso dell'appuntato Balestra è chiarissimo: "Io sto dando l'anima", dice, "per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo. Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto. In più c'è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran parte della Dc che finge di volerlo liberare". Poi sussurra: "In questo covo di cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo: sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle Br,dove l'inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati)". In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i brigatisti, anche se non sono stati fermati.

È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i covi delle Br, non viene appoggiato. Anche se è una persona seria come il democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel 1999); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il deputato parla con un certo Salvatore Varone, 'ndranghetista che noi chiamavamo Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni delle quali non conosco i particolari.

Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l'onorevole Cazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare "sta impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro". Fisso quindi un incontro con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi 'ndranghetisti abbiamo festeggiato il compleanno dell'affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve e teso, e si svolge in presenza degli 'ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese, Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: "Sostiene", mi dice Cazora, "che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e perciò possono controllare il territorio'. Io, dentro di me, penso che sono strane frasi, per uno come Varone che nella 'ndrangheta conta come il due di picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico, per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui risponde: "Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle vostre amicizie". Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più drammatica. Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell'Interno Cossiga. Il 4 aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l'angosciante missiva in cui Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente scrive: "Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone"). È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro diminuiscono, mi ricontatta l'agente Pino per farmi sapere che Giuseppe Sansovito, numero uno (piduista) del Sismi, ha espresso il desiderio di parlarmi. E così accade. Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro". In ogni caso, aggiunge congedandomi, "teniamoci in contatto tramite Pino".

La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo. Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i brigatisti, ma c'è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della futura liberazione del presidente Moro. Quando però incontro Sebastiano, lui ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz'ora, dopodiché mi stronca: "Sei stato bravo", riconosce. "Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Una frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte l'intera classe politica. Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un 'ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per accedere al massimo livello dell'organizzazione), ma sono anche una persona che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte. Dopo l'incontro con Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi al centralinista come Rocco. "Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96", scandisco, "e troverete i carcerieri di Aldo Moro". "Da dove sta chiamando?", domanda il centralinista allarmato. "Chi parla? Chi è lei?", insiste. Ovviamente non rispondo; abbasso la cornetta e provo a non pensarci più.

Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d'acqua. Dei brigatisti, come logico viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c'è stata la volontà di agire. C'è invece, molti anni dopo, nel 1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano) con il capo delle Br Mario Moretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica. I nostri rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia gli consegna una busta e annuncia: "Moretti, c'è la solita lettera". Lui la apre senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo all'ufficio conti correnti che permette l'incasso, e mi dice: "Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell'Interno". Frase che all'istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando. Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare soldi a Moretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo mistero tra i misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia tragica.

“Doveva morire”. Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell'inchiesta racconta.

Libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato.

Il caso Moro è una tragedia per la quale non tutti hanno pagato le loro colpe. Perché il suo sacrificio e quello dei cinque uomini della scorta non sia vano, scrivono gli autori, occorrono ulteriori indagini e l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale, formata da giuristi indipendenti. Dopo decenni, nonostante il tempo abbia portato a naturale declino molti dei motivi ispiratori di quella triste stagione, resta a noi la sensazione di un cammino incompiuto della democrazia nel nostro Paese. Un Paese che non sa fare i conti con il proprio passato cammina a rilento, circondato da troppe ombre e da troppi fantasmi.

«Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano….perchè uno può dire li perdono e io nel profondo li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e vado dall'altra parte». Nella breve intervista posta a conclusione del libro-inchiesta scritto dal giudice Ferdinando Imposimato e dal giornalista Sandro Provvisionato, Eleonora, moglie di Aldo Moro, lo statista democristiano sequestrato e assassinato dalle Br, non pronuncia mai i nomi dei "quattro stupidi mascalzoni" le cui "perverse mire" hanno causato la morte di un innocente. Ma quei nomi ricorrono nelle oltre 350 pagine di minuziosa ricostruzione di uno dei grandi misteri mai compiutamente risolti della storia italiana del dopoguerra. I nomi non sono solo "di quei poveretti" che gli hanno sparato, ma anche e soprattutto dei dirigenti DC, Andreotti e Cossiga in testa, che nulla fecero, meglio tutto misero in atto per impedire l'apertura di un canale di trattative per liberare l'amico di Partito, simbolo non solo del gruppo dirigente democristiano, ma responsabile dell'apertura al Pci, del tentativo di cancellare " il fattore K " ovvero l'esclusione pregiudiziale dei comunisti da qualsiasi ipotesi di governo o di maggioranza.

" Doveva morire ". A partire dal titolo, il libro di Imposimato e Provvisionato indica con nettezza una tesi. Aldo Moro è stato volutamente abbandonato al suo destino dal gruppo dirigente DC e non per la superiore " ragion di stato ", ovvero la volontà di non cedere al ricatto terrorista. La sua morte dopo il sequestro, a giudizio degli autori, non aveva alternative "per stabilizzare la situazione interna e salvare milioni di italiani dal comunismo". Non solo: l'allora ministro degli Esteri conosceva troppi segreti, dall'organizzazione paramilitare Gladio allo scandalo Lockheed, dai finanziamenti occulti della Dc all'affare Montedison fino ai veri burattinai di quel processo di destabilizzazione che tenne sotto scacco per troppo tempo il nostro Paese, passato sotto il nome di strategia della tensione.

Libro di parte, dunque. Imposimato è uno dei magistrati incaricati dell'indagine poi arenatasi per l'incomprensibile decisione di avocare l'inchiesta alla procura generale, togliendo ogni capacità investigativa ai giudici istruttori. E' lui "la voce narrante" dell'inchiesta, cucita dalle abili mani di un cronista di razza, Sandro Provvisionato, responsabile degli speciali del Tg 5 e con alle spalle una lunga carriera e dodici anni trascorsi all'Ansa, da praticante fino a capo della redazione politica. La tesi non è perciò frutto di un generico anatema, ma la puntigliosa ricostruzione dei cinquantacinque giorni del sequestro e dei fatti che precedettero e seguirono il tragico evento. Un'inchiesta densa di fatti, documenti, testimonianze che fanno da supporto all'ipotesi istruttoria. Il filo da dipanare si presenta con tale groviglio che non tutti i nodi si sciolgono al termine della disamina. Ci sono parti, soprattutto relative al coinvolgimento di servizi segreti di altri paesi o ai legami del terrorismo internazionale, che si fermano sulla soglia di ipotesi, sia pure plausibili. Sono invece le pagine dedicate alla ricostruzione del sequestro che si presentano con un impianto di indiscutibile robustezza.

Una particolare citazione merita il capitolo delle occasioni mancate, ovvero delle opportunità di giungere alla prigione dove era tenuto Aldo Moro o all'arresto di carcerieri e complici. Il 18 marzo 1978, solo due giorni dopo la strage di via Fani, i poliziotti bussano alla porta di via Gradoli, dove vivono il capo delle BR Mario Moretti e la sua compagna Barbara Balzerani, due dei brigatisti che componevano il commando di via Fani. Gli agenti non ottengono risposta e se ne vanno. La base brigatista verrà scoperta trentadue giorni dopo il rapimento. La prigione di via Montalcini viene ufficialmente trovata solo nel 1980. Ma l'Ucigos, struttura di servizi alle dirette dipendenze del ministro degli interni, c'era arrivata due anni prima raccogliendo significative testimonianze degli inquilini rimaste senza esito. Infine l'incredibile vicenda dell'appartamento di Via Monte Nevoso 8 a Milano, forse la ricostruzione più completa e ricca di documentazione tra le molte proposte di questi anni sul caso. Nello stabile i carabinieri fanno irruzione il primo ottobre 1978, a ridosso della nomina del generale Dalla Chiesa a capo dei reparti speciali antiterrorismo. Nel blitz vengono catturati i brigatisti Nadia Mantovani, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, ma soprattutto viene trovato il memoriale Moro. Tutto? No, perché a dispetto di cinque giorni di attento scandaglio, ai militari stranamente sfugge una parte dei manoscritti, celata dietro un pannello in cartongesso che verrà rimosso dodici anni dopo dai nuovi inquilini. Dietro quel fragile paravento verranno fatte trovare le carte più scottanti del memoriale, le risposte dello statista DC alle domande scritte di Moretti. Guarda caso, quelle domande riguardano proprio i misteri prima ricordati, da Gladio in poi, che rendevano crudelmente improponibile il ritorno alla libertà di Aldo Moro.

Il duro j'accuse contro i dirigenti DC alla guida del governo in quei giorni drammatici, Andreotti e Cossiga in testa, è condotto con rigore documentale. «Nella storia del delitto Moro la prudenza è d'obbligo- scrive Imposimato nelle conclusioni- Occorre evitare di passare da una verità di comodo a una scarsamente dimostrata. Ma occorre anche evitare l'errore opposto: pretendere prove matematiche e assolute, granitiche per dimostrare un fatto. La verità non è facile da scoprire, ma non è possibile chiudere gli occhi di fronte a una storia che ha nei documenti occultati e fortunosamente ritrovati il suo fondamento indiscutibile. Con l trascorrere degli anni e l'acquisizione di nuove prove – afferma Imposimato – e soprattutto dopo il lavoro di redazione di questo libro mi appare chiara una cosa: il sequestro Moro, partito come azione brigatista alla quale non è estranea l'appoggio della Raf e l'interessamento, per motivi opposti, di Cia e Kgb, è stato gestito direttamente dal Comitato di crisi costituito presso il Viminale. Il delitto Moro non ha avuto una sola causa. Ma ha rappresentato il punto di convergenza di interessi disparati. In questa operazione perfettamente riuscita, sono intervenuti la massoneria internazionale, agenti della Cia (Ferracuti, criminologo che tracciò il profilo del Moro non più Moro dentro il covo delle Br), del Kgb (l'agente Sokolov presentatosi a Moro come studente borsista), la mafia (Pippo Calò che si interessò con i suoi contatti con la Banda della Magliana per scoprire il covo) ed esponenti del governo (Cossiga ministro dell'interno ed Andreotti presidente del Consiglio), gli stessi inseriti nel comitato di crisi. Tutti questi dopo il 16 marzo 1978, hanno vanificato le opportunità emerse per salvare la vita di Moro, spingendo di fatto le Br ad ucciderlo».

IL MISTERO SULLA MASSONERIA. L’inchiesta portata avanti da De Magistris probabilmente tocca quello che a nostro parere è il problema più grosso del nostro stato, da decenni: i rapporti tra criminalità organizzata, politica e finanza. Pochi si ricordano dell’inchiesta che nel 1992 Cordova fece sulla massoneria calabrese. E pochi hanno notato le similitudini con l’attuale inchiesta di De Magistris. Vale la pena ricordarle.

IL MISTERO PEDOFILIA. Quanto ha svelato la maxi-inchiesta di Torre Annunziata sulla pedofilia via Internet, va al di là di ogni immaginazione. Centinaia, forse migliaia, di piccoli seviziati. Bambini stuprati, uccisi e filmati. L’allarme, tuttavia, era stato lanciato da tempo. Un numero incredibile di persone sparisce ogni giorno nel nulla, soprattutto giovanissimi. Molti di loro si trovano, di altri non se ne sa più niente. E’ come se si fossero volatilizzati, spariti. Nel mondo spariscono ogni anno molte migliaia di persone. Ogni anno in Italia sono dichiarati scomparsi oltre 2000 minori. Alcuni di loro tornano a casa da soli, altri vengono ritrovati dalle Forze dell'Ordine, altri ancora non hanno mai fatto ritorno.

IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE. Il mostro di Firenze: quella piovra insinuata ai vertici dello Stato. Una strage di Stato mai chiamata come tale. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette.

IL MISTERO MOBY PRINCE. Si delineano nuovi sconcertanti scenari per la tragedia del Moby Prince, il traghetto sulla rotta Livorno - Olbia che appena uscito dal porto alle 22:27 del 10 aprile 1990, entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, provocando la morte di 140 persone bruciate vive perché rimaste per un'ora senza il minimo soccorso.

Il legale di parte civile, avrebbe scoperto prove mai esaminate nel corso delle numerose inchieste che si sono succedute negli anni attorno alla vicenda che, per il muro di omertà che la circonda ed i suoi risvolti internazionali, è stata definita “Ustica del mare”.