Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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IL DELITTO

 

DI BREMBATE

 

CONDANNA ED APPELLO

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 YARA GAMBIRASIO

MASSIMO BOSSETTI COLPEVOLE PER ANTONOMASIA

 

 

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SOMMARIO

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ASPETTANDO L'APPELLO.

30 GIUGNO 2017. PRIMA UDIENZA DI APPELLO. PAROLA ALL’ACCUSA.

CONSIDERAZIONI A LATERE.

6 LUGLIO 2017. SECONDA UDIENZA DI APPELLO. PAROLA ALLA DIFESA.                         

10 LUGLIO 2017. TERZA UDIENZA DI APPELLO. PAROLA ALLA DIFESA.

14 LUGLIO 2017. QUARTA UDIENZA DI APPELLO. LE REPLICHE.

17 LUGLIO 2017. QUINTA UDIENZA DI APPELLO. LA SENTENZA.

16 OTTOBRE 2017. LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.

E POI…

IL RICORSO ALLA CORTE DI CASSAZIONE.

BOSSETTI E’ INNOCENTE?

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

ASPETTANDO L'APPELLO.

Bossetti, due nuovi consulenti. «Dimostreremo che è innocente». La madre e la sorella di Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, hanno avviato un’indagine alternativa, scrive il 4 ottobre 2016 “L’Eco di Bergamo”. Lo riferisce il settimanale Oggi che nel numero in edicola da mercoledì 5 ottobre pubblica l’intervista a uno dei professionisti incaricati di trovare elementi per far riaprire la fase dibattimentale presso la Corte d’Assise d’Appello di Brescia: «Su un punto siamo in disaccordo con i difensori: riteniamo che il Dna di Ignoto 1 trovato sugli slip e i leggins della vittima sia probabilmente di Bossetti… ma abbiamo trovato riscontri molto forti su una possibile contaminazione». C’è dunque una pista alternativa? «Dimostreremo che Massimo è innocente perché altri avevano più opportunità, più moventi e più ragioni per commettere un delitto così atroce… Abbiamo già molti riscontri che ci dimostrano la validità della nostra pista… Confidiamo nel fatto che al momento opportuno il Procuratore capo di Bergamo non si tirerà indietro per verificare il nostro lavoro e consegnare alla giustizia il vero colpevole».

Intanto…Omicidio Yara: il finto ingegnere consulente di Bossetti, indagato per la laurea fantasma. Ezio Denti è stato protagonista al processo per il delitto della ragazza. Ma non è finita, scrive Piero Colaprico il 18 novembre 2016 su “La Repubblica”. Ingegnere o ragioniere? Consulente tecnico con i titoli adeguati, oppure uno che avrebbe dovuto evitare di inoltrarsi in calcoli difficili, specie in un processo da ergastolo? Le domande riguardano Ezio Denti, detective privato, grande habitué della televisione (Mediaset) e consulente della difesa di Massimo Bossetti, il carpentiere condannato al massimo della pena in primo grado per l’omicidio di Yara Gambirasio. La prefettura di Bergamo ha aperto un fascicolo sui suoi titoli di studio, per vedere se applicare o meno una sanzione amministrativa. L’ha fatto dopo aver ricevuto dalla procura di Bergamo la notizia di altre indagini in corso, avviate sulla base di due articoli del codice penale. Il 372, falsa testimonianza, perché per il sostituto procuratore Letizia Ruggeri l’indagato Denti, parlando come testimone, ha detto il falso a proposito della sua laurea in ingegneria. E per l’articolo 495, perché lo stretto collaboratore degli avvocati di Bossetti ha rilasciato, dice sempre l’accusa, false attestazioni a un pubblico ufficiale sui suoi studi. È possibile ricostruire i fatti. Nei giorni scorsi, la difesa di Bossetti ha presentato appello a Brescia. Secondo i legali Massimo Camporini e Claudio Selvagni il procedimento che li ha visti soccombere «non regge, ci siamo trovati di fronte — sostengono — a una sentenza e a un processo che hanno fatto a stracci il diritto sostanziale, processuale e costituzionale. Abbiamo assistito a un processo dove i consulenti hanno fatto a gara per smentire loro stessi». Parole pesantissime, pronunciate fuori dall’aula. Ma per capire quanto accaduto “dentro” l’aula del processo, viceversa, bisogna tornare indietro nel tempo, allo scorso gennaio, quando Denti ha cominciato a spiegare le sue presunte scoperte investigative sul rapimento e l’omicidio aggravato di Yara, la tredicenne studentessa di Brembate di Sopra: innanzitutto, ha seguito «migliaia di casi, che ho trattato — diceva così — nell’ambito di quelle che sono le investigazioni private, e diverse nell’ambito delle indagini difensive. Nell’ultimo anno mi sono occupato di una decina di omicidi, casi abbastanza di rilevanza nazionale». Al di là dei numeri, senza riscontro, l’avvocato Selvagni s’era rivolto a Denti nelle sue domande chiamandolo “dottore” almeno una decina di volte. Finché, rispondendo alle domande del pubblico ministero, lo stesso Denti aveva ripetuto, piccato, di essersi laureato in «Ingegneria sezione industriale con specializzazione in balistica applicata alla criminologia all’istituto tecnico superiore di Friburgo in Svizzera». Secondo l’ufficio statale italiano, che registra lauree e diplomi, il titolo di Denti si limita a uno striminzito 36/60esimi agli esami da ragioniere e perito commerciale. Repubblica ha chiesto all’università svizzera come stanno le cose, ricevendo questa risposta: per ragioni di privacy non possono fornire dati sui loro studenti, ma — e non c’è bisogno di traduzione — «Pour répondre à votre seconde question, notre université n’est pas une école d’ingénieurs ». A Friburgo, insomma, ingegneria non c’è. «Il dottor Denti non è dottore, è il ragionier Denti», aveva tuonato in aula il pm Ruggeri, dando origine a un alterco con gli avvocati. «La Procura non è capace di smontare le nostre tesi? Risponda con gli aspetti tecnici, la difesa non ha i soldi della procura», aveva replicato tra gli applausi del pubblico l’avvocato Selvagni. Il batti e ribatti aveva convinto la presidente a chiudere in fretta l’udienza e nella successiva, il 19 gennaio, era stata dichiarata dalla corte l’inammissibilità delle «domande sulle qualificazioni professionali o sulle qualità morali del testimone ». In realtà, è sempre più serrata la discussione sul ruolo dei periti tecnici e dei consulenti. E in un campo diverso da quello di Denti, e cioè nella genetica, sono intervenuti con articoli importanti sia il magistrato milanese Giuseppe Gennari, sia alcuni genetisti, per scrivere apertamente che «il giudice dovrebbe essere in grado di stabilire se l’esperto ha prodotto “buona scienza” o “cattiva scienza”». Anni fa, nei processi, ma soprattutto in tv, compariva un sedicente criminologo, che in realtà aveva un altro titolo di studio, meno efficace da citare nelle interviste: geometra. E sui fasulli titoli accademici di altri “criminologi”, spesso invitati in tv a parlare (o meglio, a litigare) da pari a pari con gli avvocati e i giornalisti (i magistrati in servizio che vanno in tv sono rarissimi), c’è molto chiacchiericcio, dietro le quinte dei tribunali. A Bergamo, per la prima volta, invece del bisbiglio, sembra partire una richiesta d’incriminazione che può fare giurisprudenza: nei processi è consentito al consulente vantarsi di un curriculum che non ha? L’avvocato può presentare come esperto un dilettante? E l’imputato che cosa ne pensa?

Massimo Bossetti, il consulente indagato: chi ci va di mezzo è l'imputato, scrive Sara Gizzi il 19 novembre 2016 su "Libero Quotidiano". Sabato scorso, venti minuti prima che chiudesse la cancelleria del Tribunale e scadesse l’ultimo tempo utile per consegnare le carte, lui era con il difensore di Massimo Bossetti, avvocato Claudio Salvagni. Insieme hanno depositato il ricorso in Appello contro l’ergastolo inflitto in primo grado (corte d’Assise di Bergamo, 2 luglio scorso) al carpentiere di Mapello, ritenuto l’assassino di Yara Gambirasio. Lui si chiama Ezio Denti, ragioniere sotto inchiesta perché al processo, nel quale figurava come consulente della difesa, avrebbe sbandierato un titolo falso. Ossia la laurea: «ingegneria con specializzazione in balistica applicata alla criminologia» aveva dichiarato davanti alla Corte il consulente nominato da Salvagni. «Conseguita dove?» domandò il pm Letizia Ruggeri, aggiungendo che «da verifiche non risultava alcuna laurea ma soltanto il titolo di ragioniere», diplomato col minimo: 36 su 60. «A Friburgo. Mi sono laureato a Friburgo, Svizzera» giurò il consulente sentito anche in qualità di testimone. In udienza il magistrato contesta che in Svizzera fanno notare che a Friburgo «non esiste alcuna università d’Ingegneria». Polemiche, schermaglie, il pubblico presente in aula indignato e diviso fra oppositori e sostenitori dell’improbabile ingegnere; incaricato di eseguire l’importante perizia sul furgone dell’imputato. E invitato, per questo, nei salotti televisivi di Mediaset in qualità di criminologo esperto oltre che di ingegnere. Memorabili le sue dichiarazioni «ho seguito migliaia di casi nell’ambito delle investigazioni private e delle indagini difensive. Mi sono occupato di una decina di omicidi nell’ultimo anno, casi abbastanza di rilevanza nazionale». Ora la prefettura di Bergamo apre un fascicolo e ipotizza una sanzione amministrativa. Il provvedimento scatta dopo che la procura di Bergamo ha inoltrato la notizia di altre indagini in corso su Ezio Denti, avviate ipotizzando i reati di falsa testimonianza e falsa attestazione a pubblico ufficiale. A prescindere dalle eventuali conseguenze giudiziarie, ci si chiede se sia lecito che un avvocato in un processo (oltretutto complesso e articolato com’è quello riguardante la fine di Yara Gambirasio e il futuro di Massimo Bossetti), si possa servire di un consulente che non abbia un titolo adeguato al compito che è chiamato a svolgere. Di fatto Ezio Denti (fino a quando scriviamo) resta il consulente della difesa del muratore in prigione e dichiara che: «l’Institut Technique Superieur di Friburgoi ha inviato copia del titolo alla Polizia elvetica, su richiesta della Procura di Bergamo, il resto sono falsità per screditare un consulente della difesa di Bossetti». Denti e Salvagni, in Appello, proveranno a demolire la condanna. Un ricorso di 258 pagine, per dimostrare, come dice la difesa che «la corte d’Assise ha fatto passare degli indizi (come il Dna trovato sulle mutandine della ragazzina) come prove, solo per la posizione in cui sono stati trovati».  «le sferette di metallo e le fibre - aggiunge Salvagni - non valgono, ma per i giudici si trasformano in elementi che vanno in una direzione univoca solo perché c’è il Dna, è inammissibile». La dinamica. Bossetti che carica Yara sul furgone. La storia precedente dello stesso condannato. Questi, di fatto, sono tre buchi neri che la condanna inflitta non colma. Partiamo dal terzo. Fino a prima dell’omicidio di Yara si sapeva che Massimo Bossetti raccontava balle. Menzogne clamorose. Un bugiardo seriale. Mentiva al lavoro: inventando di avere un tumore al cervello per giustificare l’assenza in cantiere. Mentiva alla moglie, negando di fare la lampada. Mentiva ai colleghi dicendo di avere tentato il suicidio per amore della bella consorte, che lo tradiva. Anche in carcere ha raccontato farse mastodontiche, come quella del sequestro di 587 mila euro all’estero, in suo danno. Massimo Bossetti per chi lo conosce bene, prima di essere un assassino presunto, era il Favola. Un Favola però senza un precedente penale, se non fosse (come poi si scoprirà) che il suo computer era zeppo di ricerche a sfondo sessuale al limite con la pedo-pornografia (reato che in ogni caso non gli è stato contestato). Possibile allora che un uomo dal simile profilo, impegnato a lavorare come un somaro, legatissimo ai figli, senza hobby né interessi e con la fedina penale intonsa, possa arrivare a compiere un delitto di tale malvagità come quello che gli viene imputato? Resta poi da chiarire come abbia fatto a caricare Yara davanti alla palestra, quel tardo pomeriggio di novembre 2010? Se è vero che non la conosceva (lo dicono i giudici), come ha fatto a convincerla? Il processo ha dimostrato che la bambina è salita senza ribellarsi. La dinamica non è chiara. Tanto che gli stessi giudici, nelle motivazioni della sentenza, scrivono che «la dinamica del fatto resta in gran parte oscura, ma ciò non scalfisce il dato probante rappresentato dal rinvenimento del Dna su slip e pantaloni della bambina». Ma basterà, in Appello, quel Dna?

Indagato Ezio Denti, era consulente di Giosuè. Accusa di laurea fantasma, la replica: «Ce l’ho e lo dimostrerò». Non collabora più con la difesa Ruotolo e non testimonierà, scrive "Il Messaggero Veneto" il 19 novembre 2016. L’ex consulente della difesa di Giosuè Ruotolo (e di Massimo Bossetti) Ezio Denti è finito nel mirino della Procura di Bergamo. Lo ha rivelato ieri il quotidiano La Repubblica: al vaglio degli inquirenti l’ipotesi di false attestazioni e falsa testimonianza in merito al suo titolo di studi. Durante il processo a Bossetti, Denti aveva ripetuto al pm Letizia Ruggero di essere laureato in «ingegneria sezione industriale con specializzazione in balistica applicata alla criminologia, conseguito all’istituto tecnico superiore di Friburgo in Svizzera». «Lo confermo, ho conseguito proprio tale laurea – ha dichiarato ieri Denti, raggiunto al telefono –. Non ho ricevuto alcun avviso di garanzia, né mi risultano inchieste. Sono tranquillo, non capisco tutto questo accanimento, peraltro in concomitanza con il deposito della richiesta di appello da parte della difesa di Bossetti. Ho parlato con il rettore dell’istituto elvetico, ha già provveduto a inviare copia del mio titolo di studi alla polizia di Friburgo. Posso convalidare la laurea quando voglio in Italia, ma non ne ho bisogno per esercitare la mia professione, che è quella di investigatore privato autorizzato. È proprio in base a tale titolo, rilasciato dall’autorità governativa, che ho lavorato per la difesa di Bossetti: sono abilitato a svolgere indagini difensive a tutto campo. Sono esterrefatto: c’è un’adolescente morta e la Procura pensa ai titoli di un consulente. Se davvero fossi così incapace, perché allora mi avrebbero nominato?». Denti rispedisce al mittente le accuse. «Gli unici mezzi di contestazione del mio operato e delle risultanze tecniche – ha concluso il consulente nell’intervista all’Ansa – portate a seguito dell’attività di indagine, si riducono a una generica quanto del tutto infondata asserzione in ordine ai miei titoli di studio, della cui esistenza e solidità avrò modo e tempo di parlare nelle sedi ritenute più opportune alla tutela della mia persona e della mia onorabilità». Il nome di Denti si affaccia per la prima volta nell’inchiesta sul duplice omicidio a Pordenone in occasione degli esami balistici nei laboratori dei Ris di Parma. È il consulente tecnico Giuseppe Dezzani a fare il suo nome agli avvocati Roberto Rigoni Stern e Giuseppe Esposito. Il suo studio di investigazioni è uno dei più importanti in Italia e dotato di strumentazioni all’avanguardia. All’esito della consulenza tecnica di ottobre, però, la difesa di Ruotolo non aveva confermato l’incarico a Denti e da allora non ci sono stati più rapporti fra gli avvocati del giovane campano e l’investigatore. Il suo nome non figura nemmeno nella corposa lista dei testi depositata dalla difesa di Ruotolo alla Corte di assise di Udine.

Bossetti e la calunnia al collega. Il procuratore impugna l’assoluzione. Pier Luigi Maria Dell’Osso, procuratore generale del distretto di Brescia ha presentato l’impugnazione, scrive il 24 ottobre 2016 “L’Eco di Bergamo”. Il Procuratore generale del distretto di Brescia Pier Luigi Maria Dell’Osso, che ha competenza anche su Bergamo, ha impugnato l’assoluzione per il reato di calunnia nei confronti di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato all’ergastolo per l’uccisione di Yara Gambirasio. L’appello alla sentenza è già stato depositato così come le motivazioni. «La Procura di Bergamo ha fatto un eccellente lavoro. Ho solo dei dubbi sull’assoluzione per calunnia. Potrei impugnare la sentenza solo per quel capitolo» aveva detto Dell’Osso nelle scorse settimane. Ora l’impugnazione ufficiale.

Yara, depositato a Como l'appello contro l'ergastolo di Bossetti, scrive il 12 novembre 2016 “L’Eco di Bergamo”. L'avvocato Claudio Salvagni questa mattina ha presentato a Como l'appello contro la sentenza con cui il primo luglio Massimo Bossetti è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. L'appello è stato presentato presso la cancelleria penale di Como, dove il legale del muratore di Mapello è entrato intorno alle 12.30. Con sé aveva un plico di circa 258 pagine che non si limitano ad attaccare la prova regina dell'accusa - ovvero il dna sugli indumenti di Yara - ma le indagini nella loro globalità. Salvagni è stato accompagnato da due consulenti: il criminologo Ezio Denti e dal professore Sergio Novali. Il ricorso è un attacco frontale alla sentenza di condanna: si mette in evidenza come non sia stata accolta perizia su dna, non siano state prese in considerazione le piste della difesa ma ci sia concentrati su Bossetti. «Bossetti ha ancora fiducia nella giustizia» ha detto Salvagni all’uscita. L’avvocato ha poi attaccato le conclusioni della corte d’Assise di Bergamo: «Il processo non regge. Ci siamo trovati di fronte a una sentenza e a un processo che ha fatto a stracci il diritto sostanziale, il diritto processuale e il diritto costituzionale. E' mancato il coraggio. E' stata scelta la via più breve.Abbiamo assistito a un processo dove i consulenti hanno fatto a gara per smentire loro stessi. Si è letteralmente fuggiti al confronto con la difesa in materia di prova scientifica». Il ricorso, 258 pagine in tutto, è stato depositato a Como per «comodità» in quanto entrambi i difensori di Massimo Bossetti hanno studio in città e hanno «lavorato tutta la notte per concluderlo». In questi 45 giorni di lavoro ci siamo posti il problema: 'siamo noi autoconvinti dell'innocenza?'. Ora più che mai siamo convinti di essere dalla parte giusta. Abbiamo delle cose interessanti che sono state approfondite, portiamo un approccio scientifico al massimo livello. Bossetti è sereno, crede ancora nella giustizia".

Omicidio Yara, il dna e le piste ignorate. Bossetti: processo da rifare. Presentato il ricorso contro l’ergastolo, scrive Gabriele Moroni il 13 novembre 2016 su “Il Giorno”. Esistevano, esistono piste alternative («ce ne sono e valide») a Massimo Bossetti, ma non sono state considerate, nonostante le indicazioni della difesa. Il dna del muratore di Mapello su slip e leggings di Yara è scientificamente attaccabile. E perché non è stata disposta, come chiedeva la difesa, una nuova perizia? I difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini, con i consulenti Ezio Denti e Sergio Novani, hanno trascorso una notte di duro lavoro a limare, rifinire, emendare, integrare, tagliare il loro ricorso. Alle 12.40, venti minuti prima che chiuda la cancelleria penale, Salvagni sale al quinto piano del Palazzo di giustizia di Como per depositare le 258 pagine dell’atto di impugnazione della sentenza con cui, l’1 luglio, la Corte d’Assise di Bergamo ha condannato Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. È stato scelto il tribunale di Como «per comodità» dal momento che entrambi i difensori hanno studio nella città lariana. Il processo d’appello sarà a Brescia. Il dna è anomalo e lo ribadisce il genetista forense Marzio Capra, consulente dei difensori: nella traccia rimasta impressa sugli indumenti di Yara è assente il dna mitocondriale di Bossetti. Una ordinanza del tribunale del Riesame di Brescia parla di «aporia» e «anomalia» e la Cassazione riconosce che il Riesame bresciano «si è fatto onestamente carico» dell’anomalia segnalata dalla difesa. «È la prima volta in Italia - saetta Salvagni - che in un caso del genere non viene disposta una periziasu un aspetto così importante. L’imputato non ha presenziato a nessuna perizia. Sono state recepite in toto solo le tesi dell’accusa. Se alla fine di tutto non dovesse essere rimediata questa stortura, ci sarebbero i presupposti per rivolgersi alla Corte di giustizia europea». Oltre a questo, sui vestiti di Yara sono state individuate anche altre tracce biologiche. Nessuno ha visto la ginnasta tredicenne fuori dal centro sportivo di Brembate di Sopra, la sera del 26 novembre del 2010: si può affermare con sicurezza, si chiede il ricorso, che sia uscita? Nessuno ha visto Bossetti. Nessuno, nonostante siano stati stati censiti ed esaminati migliaia di automezzi, può dire che quello avvistato nella zona della palestra, la sera del rapimento e della morte della piccola Gambirasio, sia il furgone l’Iveco Daily dell’artigiano condannato. «Cosa non regge nella sentenza? Non regge tutto il processo», attacca Salvagni. «Abbiamo trovato una sentenza che ha fatto a stracci il codice penale, il diritto processuale e anche quello costituzionale. I consulenti dell’accusa hanno fatto a gara a smentire se stessi, per ritrattare quanto avevano scritto. Sono sfuggiti al confronto con la difesa. Quelle poche volte che questo c’è stato, Bossetti non è mai uscito da colpevole». «Abbiamo cercato di esaminare tutti i passaggi della sentenza che hanno fatto di mere suggestioni degli indizi, se non delle prove. E per questo motivo abbiamo dovuto valorizzare nell’appello ogni singola parte della sentenza». Al difensore vengono chieste notizie dell’assistito. «Bossetti è sereno, concentrato, motivato. Sono contento di averlo trovato così. Questo è un messaggio importante per quanti credono, vogliono credere nella giustizia».

Omicidio Yara, difesa Bossetti fa appello contro condanna: “Massimo ha ancora fiducia”. Gli avvocati di Massimo Bossetti contestano la validità della prova del Dna e criticano l’indagine sulla morte di Yara Gambirasio che ha portato alla condanna del loro assistito. Il processo d'appello si svolgerà davanti alla corte d'Assise d'Appello di Brescia, scrive il 13 novembre 2016 Susanna Picone su "Fan Page". Gli avvocati di Massimo Giuseppe Bossetti, il muratore di Mapello condannato per l'omicidio di Yara Gambirasio, hanno depositato l'appello contro la condanna all'ergastolo per il loro assistito. “Il processo non regge, ci siamo trovati di fronte a una sentenza e a un processo che ha fatto a stracci il diritto sostanziale, il diritto processuale e il diritto costituzionale”, ha spiegato uno degli avvocati riferendosi alle conclusioni della corte d'Assise di Bergamo. La difesa di Bossetti ha aggiunto di aver assistito “a un processo dove i consulenti hanno fatto a gara per smentire loro stessi”. “Si è letteralmente fuggiti al confronto con la difesa in materia di prova scientifica”, hanno detto ancora. Le 258 pagine del ricorso sono state depositate a Como. “Attacchiamo frontalmente le conclusioni della Corte d'Assise di Bergamo – ha spiegato l’avvocato Paolo Camporini parlando del ricorso – che ha cancellato dal codice la parola dubbio”. Il processo d'appello verrà celebrato davanti alla Corte d'Assise e d'Appello di Brescia. “Massimo Bossetti ha ancora fiducia nella giustizia” –  “Massimo Bossetti ha ancora fiducia nella giustizia perché parte dal presupposto di essere innocente ed è sicuro che prima o poi qualcuno si accorga di questa verità e ne tenga conto”, ha detto ancora a LaPresse l'avvocato Camporini. “Quella di Bossetti è una visione un po' malinconica della giustizia – ha aggiunto il difensore – mentre noi avocati, che leggiamo gli atti e le sentenze e quando vediamo decisioni come queste ci preoccupiamo non solo per il nostro assistito ma anche per tutti gli altri processi”. Secondo l’avvocato la Corte che ha condannato Bossetti come assassino di Yara Gambirasio ha fatto passare degli indizi, come il dna del muratore trovato sulle mutandine della ragazzina, “come prove, solo per la posizione in cui sono stati trovati”. “Tutti gli altri indizi, come le sferette di metallo e le fibre – ha aggiunto – non valgono nulla ma per i giudici si trasformano in elementi che vanno in una direzione univoca perché c'è il dna, è inammissibile. Senza contare che la Corte ha avuto paura del contraddittorio: non ci hanno permesso di fare altri accertamenti e quando abbiamo avuto modo di fare delle verifiche abbiamo visto che i risultati non andavano bene”.

Caso Yara, avvocato Massimo Bossetti: “Mio assistito vittima di opinione pubblica forcaiola”, scrive sabato 19/11/2016 Michela Becciu su “Urban Post". Caso Yara, a Quarto Grado interviene l’avvocato di Massimo Bossetti: l’attacco all’opinione pubblica “forcaiola”, che avrebbe condannato il suo assistito ancor prima dei giudici. Ieri Claudio Salvagni, uno degli avvocati di Massimo Bossetti, è intervenuto, ospite in studio, alla trasmissione Quarto Grado ed è stato intervistato da Gianluigi Nuzzi. Il legale ha anticipato alcuni passaggi di quelli che saranno i punti salienti della linea difensiva del processo d’Appello a carico del suo assistito, che con ogni probabilità avrà inizio nella prossima primavera. Salvagni ha svelato nel dettaglio i contenuti del ricorso in appello, dalla contestazione della prova regina (Il Dna di ignoto 1) al modus operandi degli inquirenti nella fase delle indagini, dando un taglio polemico al suo intervento. “Il processo è stato influenzato e continua ad esserlo da pressioni esterne”, ha sottolineato il legale in merito al processo di primo grado conclusosi con la condanna all’ergastolo per Bossetti, “dirette da un lato ad individuare un colpevole ad ogni costo, dall’altro ad esaltare i metodi d’indagine che hanno portato al presente imputato”. Un’attenzione mediatica esagerata, a detta di Claudio Salvagni, che avrebbe nuociuto al suo assistito: Bossetti finito nel mirino di “un’opinione pubblica forcaiola […] si è voluto creare il mostro, ingenerando nell’opinione pubblica la convinzione che “l’assassino di Yara” (così si era espresso incautamente anche il Ministro Alfano all’atto dell’arresto dell’odierno imputato) fosse proprio il Signor Massimo Giuseppe Bossetti”. La condanna di Bossetti, per il suo avvocato, sarebbe stata emessa prima dai media che dai giudici; la vita privata del muratore di Mapello, in carcere dal 16 giugno 2014, “anche se di nessun rilievo processuale” sarebbe stata resa di dominio pubblico “per colmare con suggestioni un vuoto investigativo”. “Questo imputato, sin dal momento del fermo, è stato trattato come un condannato definitivo, senza dargli alcuna possibilità di difesa”, ha detto Claudio Salvagni.

Caso Yara, Saviano: “Non hanno mai indagato sull’azienda del figlio del boss, inquietante”. Lo scrittore solleva alcuni dubbi personali sulle indagini del caso Gambirasio, in particolare sulle infiltrazioni della criminalità organizzata in Lombardia: "Spero che in Appello si approfondiscano queste piste", scrive "Cronaca Italia" il 23 novembre 2016. "Il padre di Yara Gambirasio ha lavorato per la Lopav, un’azienda di proprietà dei figli di Pasquale Locatelli, superboss del narcotraffico, che aveva anche un appalto nel cantiere di Mapello, ma gli inquirenti non hanno mai indagato in questo senso, a me sembra inquietante", la rivelazione shock sul caso dell'omicidio della 13enne di Brembate di Sopra arriva da Roberto Saviano nel corso di un'intervista al settimanale "Oggi" che sarà in edicola giovedì. Nell'intervista, in cui tocca vari temi anche personali, lo scrittore partenopeo solleva alcuni dubbi personali sulle modalità di indagine condotte dagli inquirenti bergamaschi sottolineando in particolare alcuni filoni di indagine mai sondati che riguarderebbero le infiltrazioni della criminalità organizzata in Lombardia. "A me sembra inquietante che non si sia indagato in quella direzione. Anche perché tutti e tre i cani molecolari usati nelle indagini, sono andati tutti dalla palestra in cui si allenava Yara al cantiere", riflette ancora Saviano rivelando inoltre che "alla festa della Lopav parteciparono tre magistrati della procura di Bergamo". "Spero che in Appello si approfondiscano queste piste" ha concluso lo scrittore in riferimento al processo di appello contro la condanna di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Saviano era già intervenuto sul caso nel suo libro "Zero zero zero", in cui definiva Pasquale Locatelli come "l'archetipo del manager della coca" e per questo era stato querelato dall'uomo, procedimento poi archiviato dai giudici. Saviano sosteneva che il padre di Yara, Fulvio Gambirasio, avrebbe testimoniato in un vecchio processo a Napoli contro Locatelli, lasciando intendere che quest'ultimo aveva buoni motivi per attuare una ritorsione contro la famiglia Gambirasio. Nel corso delle indagini però il giudice ha sentito il padre di Yara, il quale ha assicurato di non aver mai testimoniato in un processo contro Locatelli e di non avere nemici.

Una bomba su Massimo Bossetti: "Cosa tiriamo fuori al processo", scrive “Libero Quotidiano” il 28 novembre 2016. "Nel rileggere tutte le situazioni ho trovato elementi veramente forti che non sono stati presi in considerazione, elementi che potrebbero cambiare tutto...". Il criminologo Ezio Denti, consulente del pool difensivo di Massimo Bossetti, spiega a Radio Cusano Campus che quanto detto da Roberto Saviano deve essere presa in considerazione. E parte dalle persone che ruotavano intorno alla famiglia Gambirasio: "Nei documenti ho letto una dichiarazione del papà di Yara. Alla domanda Sapresti dirmi se Yara avrebbe dato confidenza a qualcuno o meno? lui ha elencato delle persone, facendone i nomi. Ho analizzato la storia delle persone nominate e ho trovato delle cose per le quali non trovo neanche un aggettivo. Ci sarebbe da scrivere un libro, potrebbe interessare a Saviano. Ci sono soggetti che hanno veramente un forte peso in questo caso per i loro precedenti". Al momento però c'è riserbo sulle piste alternative: "Nel momento in cui l'appello dovesse essere accolto allora spareremo questa bomba. Ovvero le piste alternative che abbiamo trovato dopo un lungo lavoro". Intanto, una rivelazione: "Una persona che seguiva le indagini mi svelò un retroscena, prima che entrassi nel pool difensivo. Non si è infatti arrivati a Massimo Bossetti tramite le indagini ma tramite altre vie che non posso ancora esporre. La domanda è come sono arrivati a Massimo Giuseppe Bossetti?". Nessuno riesce a dare una spiegazione. "Lo hanno trovato in tre giorni dopo che, dagli atti che ho in mano in merito ai 4 anni di indagini, non compare mai il soggetto Massimo Bossetti così come la signora Ester Azzuffi. Oggi sono ancora più convinto che Bossetti non c'entri nulla". E conclude: "Va presa in considerazione la possibilità di riaprire il caso e valutare le piste alternative". 

Bossetti torna in aula, comandante del Ris accusato. Diffamazione per il video e falsa testimonianza sui leggings di Yara. Per i legali di Bossetti, Lago avrebbe fatto girare il video del furgone per dipingere l’imputato come un predatore seriale, scrive Michele Andreucci il 3 dicembre 2016 su “Il Giorno”. A distanza di cinque mesi, Massimo Giuseppe Bossetti è tornato nell’aula della Corte d’Assise del Tribunale di Bergamo(presidiata dalle forze dell’ordine e con i vetri oscurati da fogli di carta), dove l’1 luglio scorso, era stato condannato all’ergastolo per il delitto diYara Gambirasio. Ieri mattina, infatti, davanti al gup Federica Gaudino era in programma l’udienza che vede il carpentiere di Mapello parte offesa nel procedimento contro il comandante del Ris di Parma, il colonnello Giampietro Lago, indagato per diffamazione e falsa testimonianza. Lago ieri era assente ed era rappresentato dai suoi legali, gli avvocati Zambelli e Villano. La querela presentata il 29 gennaio scorso da Bossetti (ieri assistito da uno dei suoi difensori, l’avvocato Paolo Camporini), riguarda l’ormai famoso video del furgone, che l’accusa ha sempre sostenuto essere quello di Bossetti, che sarebbe stato visto aggirarsi la sera del 13 novembre 2010 nei pressi della palestra da dove sparì Yara, e gli accertamenti effettuati dagli specialisti del Ris sui leggins che Yara indossava quando venne rinvenuta cadavere. Per quanto riguarda il reato di diffamazione, secondo l’avvocato Camporini, il video del furgone sarebbe falso e facendolo girare Lago avrebbe voluto dipingere il muratore di Mapello come un predatore seriale, offendendo in questo modo la sua reputazione. Il pm Letizia Ruggeri, la titolare del fascicolo per l’omicidio di Yara, ha ribattuto che il video è composto da fotogrammi veri e che non era stato il comandante del Ris a metterlo in giro e a darlo ai giornali alla televisione, bensì l’ufficio stampa dei carabinieri, in accordo con i vertici dell’Arma. E veniamo agli esami sui leggings e all’accusa di falsa testimonianza. Durante il processo, Lago aveva detto che l’esame sui pantaloni era stato effettuato facendone indossare un paio simili ad una capitana dei carabinieri, che era stata poi fatta sedere sul furgone di Bossetti per vedere quali fibre rimanevano addosso. Un collega di Lago, sentito anche lui durante il dibattimento, aveva invece affermato che l’esame era stato fatto per mezzo di tamponi sfregati sui sedili del furgone. Da qui, per l’avvocato Camporini, la falsa testimonianza.Si è trattato, ha ribattutto il pm Ruggeri, solo di un difetto di comunicazione. Il pm ha quindi chiesto l’archiviazione del procedimento contro il colonnello Lago, mentre l’avvocato di Bossetti si è opposto, chiedendo che vada avanti. Il gup Federica Gaudino si è riservata la decisione. 

“Il video del furgone di Bossetti non era taroccato”: archiviazione per il capo dei Ris. In Aula il colonnello Lago aveva ammesso che il filmato era stato consegnato “per esigenze di comunicazione” alla stampa, scrive "Bergamonews" il 13 dicembre 2016. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Bergamo Raffaella Gaudino ha respinto l’istanza di opposizione dei legali di Massimo Giuseppe Bossetti e ha archiviato, come aveva chiesto la procura, l’indagine a carico dell’ufficiale dei carabinieri Gianpietro Lago, querelato con le ipotesi di false informazioni a pubblico ministero, falsa testimonianza, falsa perizia e diffamazione, per la sua deposizione al processo sull’omicidio di Yara Gambirasio. Il caso era nato durante l’udienza del 30 ottobre scorso quando il colonnello Lago, rispondendo alle domande degli avvocati della difesa Claudio Salvagni e Paolo Camporini, aveva ammesso che il filmato era stato consegnato “per esigenze di comunicazione” alla stampa: un video non integrale di tutte le riprese di quella sera ma “montato” in base a passaggi del furgone che su alcuni quotidiani il giorno seguente divenne un “tarocco”. Nessuna diatriba pubblica, con il comandante dei Ris che non ha mai voluto commentare o fare polemica: ora però a tre mesi di distanza, quelli utili per presentare una querela, Lago avrebbe deciso di far valere le proprie ragioni. Le immagini in oggetto sono quelle girate da un videocamera di sorveglianza della ditta Polynt, da un’altra posizionata al distributore Shell di via Locatelli e infine di una banca di via Rampinelli: se il furgone ripreso sia quello di Massimo Bossetti oppure no è stato motivo di ulteriore scontro tra accusa e difesa, con i rispettivi consulenti di parte ad illustrare teorie contrapposte.

Una guardia giurata ha assistito al rapimento di Yara Gambirasio? Mario Torraco, una guardia giurata in pensione, dice di aver assistito al rapimento di Yara Gambirasio, scrive Roberta Amorino, scrittrice, il 14 dicembre 2016 su "Blastingnews". Intervistato dal settimanale "'Oggi", Mario Torraco, guardia giurata in pensione, ha affermato di aver assistito al rapimento di #Yara Gambirasio o meglio di aver sentito una ragazza gridare mentre un uomo la sollevava la notte del 26 novembre 2010. Attualmente in carcere per l'omicidio della piccola Yara, è Massimo Giuseppe Bossetti,condannato all'ergastolo in primo grado. Torraco ha riferito subito agli inquirenti ciò che ha visto ma non è stato ritenuto attendibile, probabilmente perchè il suo ricordo è stato riferito ad un'altra sera. La guardia giurata ha pensato, in un primo momento, che si trattasse di un banale litigio tra fidanzati ma quell'urlo agghiacciante, emesso dalla ragazzina, l'ha fatto rabbrividire. La ragazza ha urlato a squarciagola probabilmente la parola aiuto, mentre l'uomo che la sollevava le ha intimato di stare zitta. Torraco ha riferito al giornale "Oggi" anche i particolari del rapimento, affermando di aver visto un uomo alto e robusto sollevare una ragazzina con indosso un giubbetto scuro. In effetti Yara Gambirasio, com'è stato dimostrato, aveva indosso proprio un indumento del genere la sera della sua scomparsa. Come mai, nonostante tale dovizia di particolari, Torraco non è stato considerato attendibile ai fini della ricostruzione del rapimento della piccola ginnasta di Brembate? Il testimone del fatto, ha ammesso anche di essere costantemente accompagnato da una sorta di rimorso che lo turberà per il resto della sua esistenza. Se fosse intervenuto, Yara si sarebbe salvata? Difficile dirlo. Bisogna prendere atto della realtà che ci rimanda ad una giovane vita irrimediabilmente spezzata, senza alcuna pietà umana. Ormai sono trascorsi sei anni senza la piccola nella famiglia Gambirasio che chiede giustizia per una morte atroce ed immotivata. Il DNA ritrovato sugli indumenti intimi di Yara sembra condurre a Massimo Giuseppe Bossetti, ma la partita che si giocherà in tribunale non è ancora terminata, in quanto si è solo al primo grado di giudizio, conclusosi con una sentenza di condanna all'ergastolo. Riuscirà, la piccola Yara, ad avere giustizia?

Marita Bossetti: “io credo nell’innocenza di mio marito”, scrive il 15 dicembre 2016 Giovanni Terzi su "Il Giornale". Ho provato più volte ad aspettare Marita Comi la moglie di Massimo Bossetti fuori dal carcere di Bergamo dove il muratore bergamasco è rinchiuso da più di un anno accusato, e condannato, in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della piccola Yara Gambirasio. È questa una storia terribile di rara crudeltà dove si è spezzata la vita ed i sogni di una ragazzina di 13 anni (oggi ne avrebbe 19). È una storia complicata dove le risultanze processuali, a mio modo di vedere, non sono esaustive di quell’ “oltre ogni ragionevole dubbio” che il diritto ci impone. Nella prima pubblicazione in vendita da oggi con “Il Giornale” cerco di dare evidenza alle molte contraddizioni emerse nella fase processuale. Proprio la nefandezza del crimine merita una ricerca precisa del colpevole e non di un colpevole ad ogni costo. In questa vicenda drammatica si sono sommati fatti personali ed umani che spesso si discostavano dalla ricerca della verità ma avevano solo la volontà di gettare ombre negative e suggestive sul rapporto personale tra Massimo Bossetti e la moglie. Ho ben chiaro l’interrogatorio a Bossetti del procuratore Ruggeri quando chiede se fosse al corrente del tradimento della moglie. Una domanda inutile ai fini dell’indagine che però aveva il valore di gettare inutile fango e fare pressione al muratore bergamasco. Tornando all’incontro con Marita Bossetti l’ho attesa per più giorni fuori dalla casa di reclusione dove è rinchiuso il marito. Finalmente la vedo arrivare assieme a tutta la sua famiglia. Sguardo triste, capelli raccolti sobria nell’abbigliamento e molto attenta a proteggere i suoi ragazzi che, con lei , stavano andando a trovare il loro papà. Non aveva voglia di parlare Marita e possiamo ben capire il perché; ogni frase che esce dalla sua bocca ha almeno due letture una che può diventare valida per l’accusa ed una per la difesa. Ma ad una domanda non ha saputo trattenere la risposta, spontanea, sincera ed immediata: “crede Marita nell’innocenza di suo marito?” Le ho chiesto “Questo sicuro sempre più convinta” la risposta. Una risposta che fa comprendere quale sia stato l’atteggiamento di Marita. Inizialmente voleva vederci chiaro, non osava credere ad una innocenza “a prescindere”; era troppo drammatica l’accusa. Ma lungo questi anni ha verificato e toccato con mano come le accuse fossero prive di fondamento. Dopo queste poche battute Marita con i suoi figli è entrata nel carcere di Bergamo, un ultimo sguardo al di là del cancello in attesa che la giustizia faccia il suo corso, ma davvero.

Omicidio Yara. Avv. Salvagni: “In Rai fatta disinformazione”, scrive Agenpress il 21 dicembre 2016. “Quanto accaduto nel programma Rai “Storie Vere” è grave ed offensivo”. Così l’Avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Giuseppe Bossetti, ai microfoni di Radio Cusano Campus ha commentato le parole della giornalista Cristiana Lodi ascoltate durante il programma Rai “Storie Vere”. Secondo la Lodi, la difesa di Bossetti avrebbe commesso alcuni errori durante il processo. “La difesa di Bossetti ha chiesto di fare una perizia sul risultato ottenuto dall’esame del DNA. La Corte lo ha negato perché non è stato chiesto con tempestività” ha detto la Lodi. “Tutto ciò è grave perché si fa un cattivo servizio di informazione – ha replicato Salvagni – viene intaccata la professionalità della difesa che ha presentato nei termini corretti le richieste di perizie. In questo processo c’è la lesione dei diritti dell’imputato che non si è mai potuto difendere”. Nei giorni precedenti, il genetista Marzio Capra, consulente del pool difensivo di Bossetti, aveva dichiarato di aver lavorato con “armi spuntate”. “È cronaca che a Marzio Capra e alla difesa non sono mai stati neppure mostrati i reperti. La difesa non ha potuto vedere i reperti. Provocatoriamente dissi che volevo vedere tutto, anche i buchi, ovvero i pezzi asportati per fare l’esame del dna. Non abbiamo visto i reperti né mai partecipato ad alcuna indagine scientifica. Spero che la Corte d’Assise d’Appello si accorga di tutto ciò”. Un “avversario” di Salvagni è il giornalista Carmelo abate che, su facebook, ha mostrato dei dubbi in merito alla condanna di Antonio Logli: “Col debito rispetto per le opinioni, qui c’è un doppio pesismo, un garantismo a corrente alterna. Abate ha detto che se non fosse stata concessa la perizia richiesta dalla difesa sarebbe diventato il primo difensore di Bossetti, cosa che mi pare non sia avvenuta”. Logli non andrà in carcere, Bossetti ha subito anni di custodia cautelare: “Bisogna valutare le tre esigenze cautelari: reiterazione, inquinamento delle prove e pericolo di fuga. Il giudice, per Logli, ha valutato che queste esigenze non ci sono, in linea con il codice. La potenza mediatica di un processo e la forza dirompente di alcune situazioni sono importanti. I media hanno effetto su alcuni imputati. Vorrei ricordare che Bossetti è stato libero per anni, fino all’arresto, e non ha mai fatto nulla: come poteva, dopo l’arresto, esserci il pericolo di reiterazione del reato? Ritengo questa situazione al limite della fantascienza”.

Bossetti, Abbate vs Salvagni: il dibattito passa dalla radio ai social, scrive "Tag 24" il 29 dicembre 2016. Continua  a far discutere l’intervista rilasciata ai microfoni di “Legge o Giustizia” del nostro Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus dall’avvocato Claudio Salvagni, uno dei legale di Massimo Bossetti. Salvagni aveva attaccato la trasmissione Rai “Storie Vere” per aver divulgato informazioni inesatte sul processo al muratore di Mapello, in carcere per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’avvocato aveva attaccato anche il “doppio pesismo” del giornalista Carmelo Abbate, convinto da tempo della colpevolezza di Bossetti. Parole pesanti per temi pesanti e la palla ha appena iniziato a girare. Vediamo insieme perché. Quando la discussione appassiona passa sui social. E, non a caso, Abbate scrive sul suo profilo Facebook riprendendo l’intervista rilasciata da Salvagni all’emittente dell’Ateneo romano: “Mi viene il dubbio che l’avvocato Claudio Salvagni non conosca il significato della parola garantismo, come quando in passato mi ha accusato di fare disinformazione. Ma non voglio assolutamente fare polemiche. È la sua opinione su di me, e per quanto io la trovi bislacca, la rispetto.  Approfitto di questa occasione per fare i miei più sinceri (e sottolineo sinceri) auguri di buone feste all’avvocato Claudio Salvagni e alla sua famiglia. Spesso ci siamo trovati su posizioni opposte, ed è molto probabile che succederà ancora, ma anche se non apprezzo toni e modi riconosco all’avvocato Claudio Salvagni la tempra di chi si batte fino all’ultimo respiro per affermare ciò in cui crede. E questa, a prescindere dal merito e dalle posizioni, è una qualità straordinaria. Auguri”. Salvagni ha ripreso il post di Abbate, aggiungendo un suo ulteriore commento: “Si confonde la vicenda processuale di un uomo con un derby calcistico. Qui non ci sono ne vinti ne vincitori, è solo la Giustizia che deve essere affermata e può dirsi giustizia fatta quando è stato concesso all’imputato di difendersi appieno. Questo è garantismo. Questa è la condizione indispensabile per dire di vivere in un paese civile e democratico. A Bossetti non è stata data la possibilità di verificare con una perizia tutte le anomalie che affliggono il dna che lo accusa. Questo è garantismo, non faziosità. Perché ognuno di noi potrebbe trovarsi schiacciato dalla giustizia e sfido chiunque a dire che non avrebbe chiesto di verificare l’affidabilità dei risultati dell’esame sul dna”.

Massimo Giuseppe Bossetti scrive una lettera al padre dal carcere. Padre che è morto un anno fa. Bossetti è stato incarcerato perché accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate Sopra. La lettera è stata pubblicata dall’AdnKronos il 22 dicembre 2016: “Ciao amato papà, il mio pensiero per te in questi giorni si è intensificato, puoi benissimo immaginare il motivo…Si avvicina il Natale, il terzo Natale lontano dalla mia amata famiglia e il primo Natale senza più te papà accanto al mio fianco”, si legge nella lettera in pos dell’Adnkronos. “Natale, dovrebbe essere la festa più grande, più bella, più sentita dell’anno. La festa in cui tutte le famiglie, genitori con figli, figli con genitori, si abbracciano, si baciano, si uniscono con gioia, felicità, serenità (…). Papà, come vedi per me niente è più risentito come un tempo, niente che esista in natura possa a me permettere nel poter gioire e strapparmi un piccolo sincero sorriso”, scrive Bossetti. “Niente di niente può colmare il dolore che resta chiuso in me (…) Come vorrei riaverti di nuovo accanto a me, avverti vicino in questa triste, malinconica, angosciosa ‘stanza’ per riempire questo vuoto dall’amore tuo che mi manca e sentir meno la tua mancanza (…). La tua fede al dito, la tua foto attaccata al muro, è tutto quello che mi resta, so che mi sei vicino (…). Ti voglio bene e mi manchi tantissimo”, firmato con tanto di piccolo cuore disegnato, “dal tuo amato figlio Massy”.

L'autopsia sul corpo di Stefano Cucchi è stata fatta dalla dott.ssa Cattaneo. Conclusione: è morto di fame e di freddo. La dott.ssa Cattaneo ha effettuato l'autopsia sul corpo di Yara Gambirasio, tra anomalie e stranezze. Leggete qui...a voi le considerazioni, scrive Matteo Torrioli sulla sua pagina facebook a presentazione di questo articolo.  Omicidio Yara, Dott.ssa Ranalletta: “Sul delitto Gambirasio la Cattaneo ha raggiunto solide conclusioni su premesse fragilissime”, scrive Luca Bussoletti il 19 gennaio 2017. I delitti irrisolti sono temi sempre molto complessi. Complessi e caldi. Ecco perché i colpi di scena sono dietro l’angolo e le dichiarazioni forti non mancano. Negli ultimi giorni la Procura di Roma ha chiuso l’inchiesta relativa alla morte di Stefano Cucchi. Gli inquirenti hanno accusato i carabinieri di omicidio preterintenzionale con i militari che sono accusati di pestaggio che originò i problemi di salute che condussero alla morte.  Tutto questo è l’opposto di quel che sosteneva la Dott.ssa Cattaneo insieme ad altri 17 esperti che hanno svolto anche l’esame autoptico sul corpo di Yara Gambirasio. Ospite della trasmissione “Legge o Giustizia” di Matteo Torrioli sottolinea questa e non solo la dottoressa Dalila Ranalletta, Primario di Medicina Legale e collaboratrice del pool difensivo di Massimo Giuseppe Bossetti per la parte medico legale. Nessuno è infallibile ma quando di mezzo c’è la giustizia bisogna stare più attenti. E’ un po’ il succo di quanto sostiene a Radio Cusano Campus la dottoressa Dalila Ranalletta, Primario di Medicina Legale e collaboratrice del pool difensivo di Massimo Giuseppe Bossetti per la parte medico legale, che solleva non pochi dubbi sull’operato della collega Cattaneo. Ecco i passaggi più importanti dell’intervista: “Per contestare le conclusione della Dottoressa Cattaneo ho utilizzato la sua stessa relazione. Ho letto la lunghissima relazione di circa 600 pagine, alla quale hanno collaborato 17 persone, e trovavo che per alcuni aspetti si parlava di anomalia, su altri si diceva che le cose potevano essere andate in un modo o in un altro. Poi, nelle conclusione, ciò che poteva essere bianco o nero è diventato nero e le anomalie sono state dimenticate. Sono stati messi da parte tutti quegli elementi che la Cattaneo aveva rilevato come anomali. Questo non è un modo affidabile di lavorare. Se ci sono dei dubbi il medico legale ha l’obbligo di risolverli. Se non ci riesce deve concludere che quelle cose sono dubbiose”. Sulle premesse: “Le premesse sono fragilissime, le conclusioni diventano solide. Ci sono poi degli errori. Ad esempio il famoso “ossido di calcio” che secondo la Cattaneo c’era dappertutto. L’ossido di calcio è la calce viva e non poteva essere. Si concluse che se proprio non era ossido di calcio era comunque un altro composto del calcio, e che si rimaneva comunque nel campo dell’edilizia. Il calcio è invece uno degli elementi più distribuiti e questo collegamento è tutto fuorché immediato. C’è poi un braccio corificato. Il corpo di Yara presentava un braccio che si era decomposto in maniera diversa rispetto al resto. Questo vuol dire che il braccio era esposto in maniera diversa rispetto al resto del corpo. Invece, sul campo dove è stato rinvenuto il cadavere quel braccio era coperto come l’altro. Questa è stata definita un’anomalia: come è possibile? Io devo capire perché. La Cattaneo diceva “come se questo braccio fosse stato per un lungo periodo scoperto dal giubbino”. È palese che quel braccio, per un lungo periodo, non è stato in quella posizione. È la stessa Cattaneo che dice che questo dato non si spiega. La mia opinione è che il corpo di Yara Gambirasio non è stato tutto quel tempo sul campo dove poi è stato ritrovato. Siccome questo non torna con gli altri dati allora si considera un’anomalia e viene dimenticato. Non c’erano elementi per poter affermare con certezza né come è morta né quando è morta la povera Yara Gambirasio. Gli elementi medico legali non hanno fornito elementi utili in tal senso.  Questa era la conclusione logica. Gli unici elementi utili che quella consulenza poteva dare sono quelli che sono stati “archiviati” nella testa della dottoressa Cattaneo e della Corte”. Sul fatto che la difesa di Bossetti abbia già fatto ricorso e si prepara per l’Appello: “Da tecnico neanche mi interrogo se Massimo Giuseppe Bossetti sia colpevole o no. Posso dire che non c’è, dal punto di vista medico legale, un solo elemento determinante che vada a favore della tesi dell’accusa che ha poi determinato la sentenza. Mi sarebbe piaciuto lavorare attivamente sul corpo. Io ho lavorato sulle foto. Avrei desiderato che la Corte ci avesse almeno permesso di vedere i reperti. Io ho contestato anche come sono stati rimossi gli indumenti di Yara Gambirasio, un’operazione svolta in maniera poco delicata. Non mi puoi fare l’analisi all’ultra microscopio sul buco della maglietta di Yara, quando quella maglietta è stata tolta in malo modo, stiracchiandola da ogni parte. Ci sono foto che dimostrano che quel famoso buco sulla maglietta, nel momento in cui era indossato da Yara Gambirasio, aveva una forma. Dopo ne aveva un’altra, come testimoniavano le foto della stessa Cattaneo”.  

L'ultima versione di mamma Bossetti: "Sono stata inseminata a mia insaputa". Dice in tv: «Volevo figli, forse il mio ginecologo ha fatto qualcosa...», scrive Giovanni Terzi, Martedì 14/02/2017, su "Il Giornale". Nuove rivelazioni nel caso di Yara Gambirasio la giovane ragazzina rapita ed uccisa il 26 novembre del 2010 e per cui ad oggi è aperto un procedimento penale a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, il muratore bergamasco condannato in primo grado alla pena dell'ergastolo. Un processo quello su Massimo Bossetti tutto incentrato sui risultati del Dna che hanno, ad oggi, messo all'angolo il muratore bergamasco. Risultanze genetiche su cui molti dubbi sono sorti soprattutto per l'impossibilità da parte della difesa di replicare alle analisi fatte dall'accusa. Ieri sera una rivelazione che potrebbe mettere nuovi dubbi sulla colpevolezza di Bossetti. Intervistata dal giornalista Vito Francesco Paglia per il programma di Luca Telese «Bianco e nero» su La7 la mamma del muratore di Mapello, Ester Arzuffi, ha rilasciato nuove ed esclusive rivelazioni. Se da una parte la signora Ester ha confermato che mai ha tradito il marito men che meno con Giuseppe Guerinoni, dall'altra ha fornito altre indiscrezioni che aprono nuovi ed incredibili scenari. La signora Arzuffi ha infatti confermato la conoscenza con Guerinoni che sarebbe stato l'autista dell'autobus che negli anni 1966-1967 la trasportava al lavoro negando però che ci fosse un legame temporale con la nascita del figlio Massimo Bossetti avvenuta il 28 ottobre del 1970. Incalzata dal giornalista Vito Francesco Paglia che le chiedeva come la scienza non possa in fin dei conti tradire la Arzuffi rispondeva della sua certezza di non aver mai avuto rapporti con Guerinoni «neanche una sveltina» e «neanche una volta in camporella» ricordando però che una volta il suo ginecologo le aveva inserito del «pma del liquido seminale inconsapevolmente». Era questo un liquido freddo in un epoca, l'inizio degli anni settanta in cui la inseminazione artificiale era vietata. «Io - racconta nell'intervista la Arzuffi - rimanevo incinta ma i bambini mi morivano ed il mio ginecologo mi disse di dare una mano agli spermatozoi di mio marito». La Arzuffi racconta di aver sentito «un liquido freddo, freddissimo» e che sapeva che era sotto cura avendo in altre situazioni preso «pastiglie, pastigliette o candelette». Insomma un nuovo incredibile scenario si apre alla vigilia dell'appello del processo su Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio perché se effettivamente Massimo Bossetti, «ignoto 1», fosse frutto della inseminazione artificiale significherebbe che Giuseppe Guerinoni potrebbe aver donato il proprio seme allo stesso ginecologo che magari lo usò in altri casi. Se così fosse, ossia il Guerinoni negli anni Settanta fosse un donatore di seme, potrebbero esserci anche altri «ignoti 1» in giro nella bergamasca, fatto salvo il fatto che, ad oggi la procura della Repubblica non ha ancora dato la possibilità alla difesa di verificare la veridicità della provenienza del dna ritrovato sui leggins di Yara Gambirasio.

Bossetti, il tecnico forense Luigi Nicotera: "Quanti errori contro di lui", scrive di Francesca Carollo il 18 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. Il suo ufficio si trova all' interno di una villa che era l'abitazione del boss della mala del Brenta, Felice Maniero, sequestrata anni fa e consegnata al Comune di Campolongo Maggiore che dal 2008 lo ha dato in gestione ad un'associazione denominata "Affari puliti", un'eccellenza in Italia nell' uso dei beni confiscati alla mafia. Nell' ultimo anno questo è diventato uno spazio affittato a professionisti, un incubatore di imprese. È lì che incontro Luigi Nicotera, tecnico informatico forense, per capirne di più sul valore delle tecnologie nelle inchieste di cronaca. Nicotera è consulente del team della difesa di Massimo Bossetti, l'assassino di Yara Gambirasio, almeno secondo il giudice di primo grado, e in tanti altri casi.

Nicotera, partiamo da una notizia di questi giorni: è stato sbloccato il cellulare di Tiziana Cantone, la 31enne suicidatasi il 13 settembre 2016 a Mugnano (Napoli) dopo la diffusione di alcuni suoi video hard sul web. La notizia dell'apertura del telefono cellulare di Tiziana da parte dei Carabinieri, nell'ambito delle indagini coordinate dalla Procura di Napoli Nord, sarà fondamentale per capire cosa sia realmente successo e di chi siano le eventuali responsabilità. Ma come sono riusciti gli investigatori a farlo, visto che quel cellulare sembrava inviolabile?

«Guardi, oggi si usano tecniche e strumenti certificati per l'uso forense che aiutano l'esperto informatico ad accedere e estrarre le informazioni. Le cose inaccessibili si stanno assottigliando velocemente».

Mi sta dicendo quindi che la tecnologia Apple dell'iPhone non è una tecnologia sicura? Leggenda vuole che sia inaccessibile e che solo da Cupertino possano sbloccare i dati.

«Come ogni tecnologia anche la loro è soggetta a obsolescenza, mi creda, ci sono scoperte ogni giorno nel nostro settore, e anche se oggi non conosciamo ancora la tecnica utilizzata per sbloccare l'iPhone di Tiziana, questo risultato a me non ha stupito, perché so che spesso è solo una questione di tempo. Diciamo che il metodo più plausibile è quello che porta a cercare dei buchi di sicurezza nel telefono o nelle applicazioni. Mi spiego meglio: Apple è attentissima alla sicurezza, ma se io scarico una applicazione non programmata bene o non aggiornata, dei malintenzionati potrebbero avere accesso ai miei dati, proprio partendo dalla singola applicazione scaricata sul mio telefono, anche se il telefono stesso sarebbe, di suo, sicuro. Nel caso di Tiziana Cantone per fortuna ne hanno avuto accesso le forze dell'ordine, ma il concetto è quello».

Ma cosa fa in pratica un tecnico informatico forense, professione che in tempi recenti sembra godere di un grande risalto, visti i numerosi casi di cronaca trattati dai media?

«La nostra figura è quella che aiuta avvocati, giudici, magistrati e investigatori a realizzare, nel modo più scientifico possibile, l'estrazione e l'analisi di dati affinché siano validi in ambito giudiziale. È una figura ben diversa dal tecnico che aggiusta un computer, tanto per essere chiari, e non lo si diventa guardando Csi in televisione. Nel caso di Yara Gambirasio, come consulente per la difesa di Bossetti, mi sono occupato dell'analisi dei tabulati telefonici e della copertura delle celle telefoniche. Sa perché Bossetti è stato condannato, secondo me? Troppi elementi scientifici, di livello elevato, spiegati male e mal compresi. Si è discusso allo sfinimento del Dna, di cui tutti ormai si credono esperti, ma guardi che al processo i genetisti parlavano un linguaggio estremamente diverso e ben più complicato di quello spiegato da giornali e televisioni. Se questi argomenti complessi non vengono correttamente compresi dalla Corte e dalla Giuria, questo può creare incomprensione ai non addetti; ecco cosa ha penalizzato Bossetti. Ci sarebbero voluti dei periti "super partes" un po' per tutte le materie trattate, a partire dal Dna, per far capire a chiunque di cosa si trattava, ma la presidente Bertoja non ha ritenuto opportuno nominarli. Per quanto riguarda il cellulare e i tabulati di Bossetti, sui quali ho lavorato per mesi e mesi, pensi che dalle analisi complete dei tabulati stessi è emerso che in momenti compatibili con la presenza di Massimo in casa (ad esempio il sabato e la domenica) circa il 15 per cento del traffico generato e ricevuto dal suo telefono era fatto agganciando la cella che invece, secondo l'accusa, lo ha incastrato. Cioè quella cella di Mapello "Via Natta - Settore 3" che il suo telefono aggancia il 26 novembre 2010 alle ore 17:45 e che è la stessa che aggancia il telefono di Yara un'ora dopo, ma nel "Settore 1" quindi nella direzione opposta a quella dell'indagato. Questo per noi può indicare che Bossetti era nel tragitto per ritornare a casa, in casa o nelle vicinanze, e non a seviziare la piccola Yara. Invece le celle telefoniche, ed i suoi settori, assieme ad altri elementi, gli sono costati una condanna. Per noi ingiusta».

Passiamo a un altro caso di cui lei è consulente, quello di Isabella Noventa, la segretaria di Albignasego uccisa, secondo la Procura, dal trio diabolico: Debora Sorgato, Freddy Sorgato e Manuela Cacco. Lei appartiene al team che difende Debora, su cosa state lavorando?

«Qui sto lavorando su un doppio binario, ovvero sto analizzando il cellulare di Debora e le celle telefoniche agganciate in quei giorni e in particolare quella notte, ma anche i filmati sulla Golf di Debora, che lei dice di aver prestato al fratello la sera in cui la signora Noventa venne uccisa. Un gioco a incastri, mi creda».

E cosa ci può dire di questi nuovi filmati prodotti dalla Procura, definiti un vero e proprio colpo di scena, nei quali si ipotizza ci siano due persone della Golf, che potrebbero essere proprio Freddy e la sorella Debora, e che aggraverebbero la posizione di Debora, che dice di essere stata in casa quella sera?

«Guardi, siamo ancora in fase di udienza preliminare, pertanto non mi posso esprimere, ma da una primissima analisi non posso che associarmi al parere degli avvocati della signora Sorgato, secondi i quali, senza ulteriori approfondimenti scientifici, risulta molto difficile dire con certezza non solo chi ci fosse in quella macchina, ma sopratutto quante persone. I frame sono davvero poco chiari, lo può vedere anche lei a occhio nudo».

Qual è stata l'operazione più difficile in questi anni?

«Sicuramente lo sblocco dell'Apple Watch di un manager della Moncler, assassinato con tre colpi di arma da fuoco a Piombino Dese. Questo lavoro era utile per accertare i bioritmi e i parametri vitali della vittima nei momenti antecedenti l'omicidio, ma trattandosi di un oggetto - l'Apple Watch - di nuova generazione e non ancora ben definito, c' è stata qualche problematica in più rispetto alle normali attività informatiche».

Cioè quante ore ha impiegato?

«Quanti giorni, vorrà dire. Purtroppo dopo diversi giorni abbiamo dovuto rinunciare perché l'orologio era collegato a un iPhone a quel tempo non sbloccabile. Oggi però, a meno di un anno di distanza, questa operazione è possibile. La tecnologia, come le dicevo, va velocissima. L' attività per sbloccare un telefono nel tempo è diventata sempre più complessa, e non sempre ha successo immediato, ma, le assicuro, è importantissima. Il caso di Tiziana Cantone ne è un esempio, perché ci dirà quali sono stati gli ultimi pensieri della donna e se ci siano dei responsabili per la sua morte. Ormai il cellulare ha la vita di una persona in mano, con i dati contenuti si può ricostruire tranquillamente il 60% delle nostre informazioni tra abitudini, contatti, preferenze, stili di vita».

La vostra professione ha dei requisiti richiesti, o sono in tanti a improvvisare?

«Potremmo aprire una marea di discorsi al riguardo. La nostra professione non è tutelata da albi o ordini quindi in teoria chiunque potrebbe fare il consulente informatico forense. Ma per approcciare questo mestiere al meglio bisogna avere almeno un titolo di studio inerente alla materia, tanta voglia di imparare ed esperienza, anche nelle discipline giuridiche, visto che noi abbiamo a che fare quotidianamente con avvocati e Procure. Allora, vista la necessità continua di evoluzione professionale e il dilagare di persone senza requisiti, qualche anno fa insieme ad altri colleghi ho contribuito a fondare l' "Osservatorio nazionale di informatica forense" che si pone come obiettivo quello di divulgare i criteri e principi della figura dell' informatico forense. Insomma abbiamo creato una piccola comunità scientifica in crescita».

I social network, lo vediamo ogni giorno, possono essere davvero pericolosi. Come possiamo proteggerci?

«Consapevolmente, cioè evitando di scrivere post aperti a chiunque, ma restringendone la possibilità di accesso solo a persone fidate. Molti ignorano una funzione chiamata "privacy", postando foto di figli, vacanze, e scampoli di vita privata, alla mercé di tutti. È così che poi avvengono i furti di identità e la creazione di falsi profili spesso utilizzati per diffamare qualcuno nascondendosi sotto mentite spoglie. E non dimentichiamo che tutti questi post mettono a repentaglio la sicurezza delle persone e dei loro beni. Un esempio semplice: chi va in vacanza e posta foto su foto, dimostra palesemente che la casa è vuota».

Basterebbero dei piccoli accorgimenti, eppure...

«Guardi, il nostro lavoro è davvero importante. Pensi che ho appena finito di lavorare per un caso di reati finanziari importantissimo: analizzando lo smartphone dell'indagato siamo riusciti a ricostruire quasi integralmente la rete di contatti e i luoghi dove si svolgevano gli incontri per lo scambio di mazzette e i luoghi esatti in cui si definivano gli accordi. Scusi, lei prima di entrare qui, l'ha spento il telefono?»

Massimo Bossetti, le nuove rivelazioni del super testimone. E le foto mai viste prima, scrive la Redazione di Giornale Notizie il 3 marzo 2017.  Massimo Bossetti, torna a parlare il super testimone. Ed ecco le foto mai viste prima del muratore condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio pubblicate dal settimanale Oggi. Nelle foto esclusive, si vede un Bossetti mai visto prima. In una, Massimo è in bermuda e ha i capelli tinti: a 21 anni già curava molto il suo l’aspetto fisico e la capigliatura. In un’altra immagine, che risale al 1991, Massimo è con Giovanni Bossetti, che ha sempre considerato suo papà, morto a fine 2015, a 73 anni. E poi ancora è con la futura moglie Marita Comi, quando erano fidanzati: lui aveva 22 anni, lei 18. Si sarebbero sposati sette anni dopo. “Non è la mamma di Massimo Bossetti la giovane donna che Giuseppe Guerinoni aveva messo incinta”, rivela il supertestimone Vincenzo Bigoni su Oggi. Ester Arzuffi ha sempre negato di avere avuto una relazione con il padre naturale di Bossetti e ha di recente rivelato di essersi sottoposta a cure per fertilità durante le quali sospetta di essere stata inseminata, a sua insaputa, con lo sperma di un donatore. A rendere credibile il suo racconto choc interviene ora Bigoni, ex collega e amico di Guerinoni, di cui aveva raccolto le confidenze. Se questo fosse vero, Bossetti potrebbe avere dei sosia genetici, figli dello stesso donatore, e a uno di loro, invece che al muratore bergamasco, potrebbe appartenere il profilo genetico trovato sui vestiti di Yara. 

Bossetti: le parole del genetista e i dubbi su quel DNA, scrive il 28 febbraio 2017 Giovanna Tedde su "it.blastingnews.com". Il consulente della difesa, Marzio Capra, ha spiegato i motivi per cui occorre una nuova perizia sul materiale genetico negli slip di Yara Gambirasio. Un codice che è il più grande enigma nel caso #Yara Gambirasio: 31G20. Una traccia di DNA identificata con un'asettica serie alfanumerica che però, a livello processuale, è stata capace di scatenare una querelle animata che non accenna a placarsi: quel materiale genetico sugli slip di Yara è realmente di Massimo Giuseppe Bossetti? C'è un margine di errore entro cui è possibile trovare la chiave della sua presunta innocenza? La difesa parla chiaro: serve una nuova perizia. Le parole del genetista Marzio Capra, ai microfoni di 'Quarto Grado', sono emblematiche dell'intero scheletro su cui si impianta la tesi difensiva.

Il DNA di Ignoto 2. Nel settore della traccia 31G20, isolata negli slip di Yara, c'è una componente mitocondriale che non rimanda a Ignoto 1. Essa appartiene a un soggetto sconosciuto, Ignoto 2, mai identificato. Su questo aspetto il consulente della difesa, Marzio Capra, non ha dubbi: "Sicuramente c'è un profilo mitocondriale che non è riconducibile a Bossetti e, allo stato degli atti, neanche alla povera Yara". Il mitocondriale in questione non fornisce informazioni sul sesso della persona a cui appartiene, e non è compatibile con le migliaia di profili biologici prelevati nella Bergamasca sottoposti a comparazione. Capra chiarisce che il genoma di Bossetti non è stato ricostruito interamente, spiegando che "è stata ricostruita una parte che, normalmente, viene ritenuta significativa". Solo il DNA nucleare è riconducibile al muratore di Mapello. Il suo mitocondriale non c'è, non è mai stato trovato e su questo si concentrano gli sforzi della difesa: "Una traccia biologica comporta necessariamente il suo nucleare e il suo mitocondriale. Se tu non analizzi il mitocondriale, mi basta anche il nucleare. Ma se lo analizzi e viene diverso, non puoi ignorare questo dato".

Il DNA come un'enciclopedia il perchè di una nuova perizia. I consulenti di #Massimo Bossetti continuano a chiedere che venga fatta una nuova perizia. Lo stesso genetista dichiara che in merito all'anomala presenza del mitocondriale di Ignoto 2 "bisogna chiarire cosa è successo". Per l'esperto ci sono tutti i presupposti perchè vengano condotte nuove analisi su quel DNA. La spiegazione che fornisce su quanto accaduto intorno alla traccia 31G20 che ha inchiodato Bossetti è semplice: "Il DNA è come se fosse un'enciclopedia. Hai un'enciclopedia di 'x' volumi; a questo punto tu vai a prendere 17 capitoli, sparsi nei vari volumi: 2 capitoli del primo volume, del secondo non te ne frega niente, vai sul terzo, vai a prenderne un altro e così via. Alla fine tu sei andato a vedere 17 capitoli su un'enciclopedia fatta di 3 miliardi di pagine e tu sei andato a prendere 17 capitoli, ognuno fatto di 10 pagine, 50 pagine, 100 pagine. E poi dici 'tutta l'enciclopedia è uguale': tu hai preso quelli lì a campione".

Yara, il gesto di un imbianchino: "Mi sono regalato l’auto di Bossetti per il compleanno". Pietro Pagnoncelli dopo avere messo in vendita (senza riuscirci) la Volvo grigia di Bossetti, il giorno del suo compleanno ha deciso di acquistarla in proprio e di devolvere la somma alla moglie e ai figli dell’uomo all’ergastolo, scrive Gabriele Moroni il 4 marzo 2017 su “Il Giorno". La tragedia di Yara Gambirasio riserva, inaspettatamente, anche una pagina di altruismo. La scrive Pietro Pagnoncelli, imbianchino di Capriate San Gervasio. Dopo avere messo in vendita (senza riuscirci) la Volvo grigia di Massimo Bossetti, il giorno del suo compleanno ha deciso di acquistarla in proprio e di devolvere la somma alla moglie e ai figli dell’uomo all’ergastolo per l’omicidio di Yara. Fisico massiccio alla Bud Spencer, grande criniera di capelli grigi, Pagnoncelli ha iniziato a seguire la vicenda dopo l’arresto del muratore di Mapello. Quando si è convinto della sua innocenza, ha conosciuto i familiari e non è mancato a una sola udienza del processo in Corte d’Assise a Bergamo. «Quando- racconta Pagnoncelli - l’auto è stata dissequestrata, lo scorso anno, in accordo con la famiglia, ho pensato di metterla in vendita in internet. Si sono interessati in tanti, ma appena dicevo che si trattava dell’auto di Bossetti si tiravano regolarmente indietro. Avevano paura di essere fermati, controllati o chissà cosa. Ricordo un signore, mi diceva che aveva divorziato dalla moglie e che un’auto gli serviva assolutamente. Quando ha saputo chi era il proprietario, mi ha detto che si era riconciliato con la moglie e la macchina non gli serviva più. Alla fine mi sono stancato e ho deciso. Mi sono fatto un regalo per il mio compleanno. Giovedì ho compiuto 66 anni. L’ho pagata 500 euro, più 440 euro per il passaggio e 350 per altre pratiche che si sono dovute fare per evitare di dover mandare un notaio in carcere e altro. L’ho intestata a mio figlio. Ho fatto tutto solo per amicizia». I sostenitori di Bossetti hanno preso una iniziativa. Hanno raccolto oltre un migliaio di firme con una petizione online lanciata all’inizio dell’anno. La richiesta è la ripetizione del Dna di “Ignoto 1” rimasto su slip e leggings della tredicenne di Brembate di Sopra: secondo l’accusa e la sentenza di condanna al carcere a vita, la piena compatibilità del suo profilo genetico con quello impresso sugli indumenti della piccola vittima è la prova che inchioda l’artigiano bergamasco alle sue terribili responsabilità. L’attacco concentrico al Dna rappresenta anche il fulcro del ricorso presentato dai difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. La data dell’appello a Brescia non è stata ancora fissata.

Dovete ammazzare la giudice". Massimo Bossetti, l'ultimo orrore, scrive il 4 marzo 2017 “Libero Quotidiano”. C'è una pagina Facebook che si chiama Bossetti libero. "Piace" a più di 12mila persone, sulla foto di copertina un'accusa: "Appena uccisa Yara, a Brembate si mormorava che il mostro fosse in palestra e fosse donna. La procura non ha mai indagato quella palestra. Oggi non si mormora, ma tutti sanno chi è l'assassina. Ed è ancora in palestra". Ma non si tratta solo di una pagina in difesa del muratore di Mapello. Su questa pagina si attaccano pesantemente i giudici, siamo quasi all'istigazione a compiere reati: "Forse sono troppo umano, troppo intelligente, troppo superiore a lumache ossigenate e sorci di fogna", si legge, "ma a vedere queste immagini non riesco a fregarmene come loro, mi viene da pensare che una rivoluzione non sarebbe nemmeno tanto sbagliata... coi forconi andare a prendere certe giudicesse e mandarle al cospetto di Dio...".La violenza si scatena anche contro la criminologa Roberta Bruzzone: "Forse Sgarbi la chiamava lumaca per il viscidume... leggete cosa diceva appena catturato Bossetti... era iper garantista col povero muratore... poi la difesa ha scelto un criminologo vero (Denti) e lei è diventata la peggior forcaiola dell'emisfero boreale la lumaca mannara!". E ancora, rispondendo a un commento: "A parte le raccomandazioni vogliono creare questa figura della criminologa. Ci han provato una volta con un'altra sciacquetta in non ricordo quale trasmissione ma Denti la zitti subito e lei sparì per sempre dagli schermi".

Caso Yara, Massimo Bossetti primo incontro in carcere con la moglie Marita, scrive il 25/02/2017 Michela Becciu su "Urban Post". Nella puntata di Quarto Grado andata in onda ieri 24 febbraio 2017, è stato mandato in onda il video inedito del drammatico colloquio tra i coniugi dieci giorni dopo l’arresto di Bossetti, avvenuto il 16 giugno 2014. Il carpentiere è disperato, in preda allo sconforto e piange. Dice a Marita Comi che è innocente, che lui non c’entra niente con l’omicidio di Yara. Sconvolto per l’arresto, parla alla moglie delle incalzanti domande fattegli dai carabinieri, poi di avere paura, e piange continuamente. Marita gli ribadisce di avere fiducia in lui, che lei e tutta la famiglia sono convinti della sua innocenza, ma nel contempo gli chiede, diretta: “Ma ti facevi le lampade? Perché andavi a fare le lampade lì?”. La donna fa riferimento alle indiscrezioni che in quei giorni uscivano in merito alle indagini, che Bossetti, cioè, si recava (senza averglielo mai detto) a fare delle lampade solari proprio in un centro estetico sito nella strada a Brembate che Yara percorreva da casa sua per arrivare in palestra.

Un documento autentico per Claudio Salvagni ospite in studio, che proverebbe la sincerità del suo assistito “perché lui è innocente e non ha ucciso Yara”. “Avvocato, Bossetti recita, è un attore?”, chiede Gianluigi Nuzzi a Salvagni, che risponde: “Risentire e rivedere oggi quel video mi fa un certo effetto e se fosse un attore bisogna riconoscergli un Oscar. Credo nella genuinità di quella intercettazione che per me è la pura e semplice verità”.

Il dibattito sul Dna che ha incastrato Bossetti: c’erano due persone sulla scena del crimine?

Come emerso a Quarto Grado, il Dna sarà cardine anche del nuovo imminente processo d’Appello: i difensori di Bossetti chiederanno una super perizia (mai concessa dalla Corte nel processo di primo grado) per far luce sui dubbi ancora aperti in merito alla traccia genetica che ha portato alla condanna all’ergastolo del muratore di Mapello.

Nella traccia mista (dell’imputato e della vittima) di Dna rinvenuta sui leggings e sugli slip della piccola Yara, infatti, solo il Dna nucleare appartiene a Bossetti. Il Dna di Ignoto 1 è riconducibile infatti a Bossetti solo per la parte nucleare, che è la più importante, perché unica per ciascun individuo e che permette di risalire alla linea paterna e dunque in genetica la sola utilizzata per l’attribuzione di un Dna ad una persona. La parte mitocondriale, che riporta alla linea materna, appartiene ad un Ignoto 2, e non è dunque riconducibile all’imputato. Ma per la Corte che lo ha condannato il Dna mitocondriale è privo di capacità identificativa e dunque totalmente irrilevante nel processo. Una anomalia non spiegata e risolta nel dibattimento in aula, che anche il pubblico ministero ha ammesso, e che la Corte ha riconosciuto nelle motivazioni della sentenza di condanna.

C’è dunque in quel profilo genetico una traccia di Ignoto 2, di chi si tratta? Una traccia genetica “anomala” e che “non esiste in natura” – continuano a ripetere i difensori di Bossetti – giacché ogni Dna deve essere formato da una componente nucleare e una mitocondriale. Il genetista della difesa del muratore, Marzio Capra, ha scoperto che non solo la traccia mitocondriale non è di Bossetti ma appartiene ad una persona mai identificata. Di chi è questo Dna? Come è finito sui leggings della piccola Yara? Potrebbe appartenere a un complice dell’assassino o comunque ad una seconda persona presente sulla scena del crimine? E si trattava di un uomo o di una donna? A questi ed altri interrogativi si cercherà di dare risposta nel processo di secondo grado che avrà luogo a Brescia nei prossimi mesi.

Madre Bossetti inseminazione a sua insaputa: le dichiarazioni dell’avvocato Salvagni. “Conoscevo Giuseppe Guerinoni perché mi portava al lavoro quasi tutti i giorni. Successe tra il 1966 e il mese di marzo del 1967. Bossetti è nato il 28 ottobre 1970, cioè oltre tre anni dopo. Lo so che la scienza non sbaglia, ma io non sono mai stata con Guerinoni. Ve lo giuro. Non ho fatto nulla con lui, non ci sono andata nemmeno in “camporella”. Scusate il termine… Sono sincera, è così, non dico bugie” – queste le parole di Ester Arzuffi a ‘Bianco e Nero’ – “Certo, se non ho avuto rapporti con Guerinoni, qualcosa il mio ginecologo può darsi che abbia fatto. Mi spiego la cosa solo con la procreazione medicalmente assistita, a cui sarei stata sottoposta in maniera inconsapevole”.

Visibilmente stizzito l’avvocato Salvagni ha risposto al conduttore che, ironizzando, ha chiaramente detto di non credere alle parole della madre di Bossetti: “Noi non scartiamo nulla, non ho una supponenza intellettuale. Io credo che non si debba fare della facile ironia: guardi, la Procura ha indagato anche sui cartomanti e i maghi, dico soltanto questo. Quindi non mi sento di fare dell’ironia su quello che ha dichiarato la signora Ester”.

Caso Yara: Massimo Bossetti vittima di errori investigativi? Ecco cosa è emerso, scrive il 19/02/2017 Michela Becciu su "Urban Post".  Caso Yara, Massimo Bossetti è vittima di un errore giudiziario? Numerose le ‘zone d’ombra’ (tra cui la mancata concessione di una perizia sul Dna) rimaste tali durante il processo di primo grado che ha visto condannato all’ergastolo il carpentiere bergamasco, sempre proclamatosi innocente. Non solo la ‘prova regina’ del Dna lo avrebbe inchiodato, ma per la Corte d’Assise di Bergamo un corollario di indizi concordanti ne avrebbe provato la colpevolezza, tra questi i tabulati telefonici e l’aggancio della medesima cella – quella di via Natta a Brembate – da parte di Bossetti e Yara nella stessa fascia oraria.

Massimo Bossetti: i dubbi sulle celle telefoniche che per i giudici lo hanno incastrato. Luigi Nicotera, tecnico forense del team difensivo del muratore di Mapello, su Libero Quotidiano però non la pensa così, e parla di “gravi errori” nelle indagini, negligenze che avrebbero portato a un mancato raggiungimento della verità e, dunque, alla condanna di Bossetti: “Mi sono occupato dell’analisi dei tabulati telefonici e della copertura delle celle telefoniche. Sa perché Bossetti è stato condannato, secondo me? Troppi elementi scientifici, di livello elevato, spiegati male e mal compresi […] ci sarebbero voluti dei periti “super partes” un po’ per tutte le materie trattate, a partire dal Dna […] Per quanto riguarda il cellulare e i tabulati di Bossetti, sui quali ho lavorato per mesi e mesi, pensi che dalle analisi complete dei tabulati stessi è emerso che in momenti compatibili con la presenza di Massimo in casa (ad esempio il sabato e la domenica) circa il 15 per cento del traffico generato e ricevuto dal suo telefono era fatto agganciando la cella che invece, secondo l’ accusa, lo ha incastrato. Cioè quella cella di Mapello “Via Natta – Settore 3” che il suo telefono aggancia il 26 novembre 2010 alle ore 17:45 e che è la stessa che aggancia il telefono di Yara un’ora dopo, ma nel “Settore 1″ quindi nella direzione opposta a quella dell’indagato”. Un dato tecnico che Nicotera spiega così, e che presumibilmente sarà oggetto di dibattito nel processo d’Appello: “Questo per noi può indicare che Bossetti era nel tragitto per ritornare a casa, in casa o nelle vicinanze, e non a seviziare la piccola Yara. Invece le celle telefoniche, ed i suoi settori, assieme ad altri elementi, gli sono costati una condanna. Per noi ingiusta”.

Massimo Bossetti: l’avvocato Claudio Salvagni ribadisce la sua innocenza. Intervistato da Bergamo Post, l’avvocato di Bossetti, Claudio Salvagni, ha ribadito la sua convinzione: “Massimo Bossetti è innocente”. “In un processo come questo per me era importante essere intimamente convinto dell’innocenza di Massimo, perché soltanto così si può dare quel qualcosa in più. Abbiamo lavorato una quantità di ore infinita, giorno e notte. E non per modo di dire, ma davvero. Quando abbiamo depositato il ricorso in Appello, solo per la stesura finale dell’atto abbiamo lavorato trenta ore di fila. Trenta ore” – ha spiegato per argomentare la sua posizione – “Una somma di elementi mi rende certo dell’innocenza del mio assistito: Partiamo dal concetto che il delitto perfetto non esiste. Chiunque commetta un delitto lascia una serie di elementi che, uniti, portano all’individuazione del responsabile. Quali sono gli elementi a carico di Bossetti? Solo ed esclusivamente il Dna, la sua firma dicono. Praticamente ha compiuto il delitto perfetto e poi lo ha firmato. Già questa è una contraddizione. Non hai lasciato tracce, non c’è un punto di contatto, non c’è un movente, non c’è una ricostruzione, sei una sorta di marziano che si è calato in quel momento nella vita di questa ragazzina e l’ha uccisa lasciando unicamente il proprio Dna”.

Caso Yara news, criminologa Bruzzone denuncia pagina Facebook Bossetti libero: “Istigazione alla violenza”, scrive il 6/03/2017 Michela Becciu su "Urban Post".  Caso Yara news: la criminologa Roberta Bruzzone ha segnalato la pagina Facebook in sostegno di Massimo Bossetti – “Bossetti libero” – per istigazione alla violenza. Ecco il lungo post su Facebook pubblicato nelle scorse ore dalla nota dottoressa: “Amici occorre la collaborazione di tutti per far cancellare la pagina “Bossetti Libero”, una vera e propria istigazione alla violenza che ormai non conosce limite…le ultime minacce di morte sono state rivolte (oltre a me, che ho più volte denunciato la cosa e la magistratura sta facendo il suo lavoro) anche ai magistrati che si sono occupati del caso della piccola Yara..segnalate la pagina a FB e passate parola il più possibile…solo così riusciremo a cancellare quel vero e proprio “vomitatoio” di squilibrio mentale…l’istigazione alla violenza non è tollerabile…”. Sulla pagina – seguita da più di 12mila persone – campeggia questa frase nella immagine di copertina: “Appena uccisa Yara, a Brembate si mormorava che il mostro fosse in palestra e fosse donna. La procura non ha mai indagato quella palestra. Oggi non si mormora, ma tutti sanno chi è l’assassina. Ed è ancora in palestra”. Evidenti le accuse alla Procura di Bergamo che ha condotto le indagini sull’omicidio della 13enne di Brembate, e inequivocabili i riferimenti e le accuse ad una non meglio specificata presunta assassina che frequenterebbe la palestra frequentata anche dalla vittima.

Pagina Facebook Bossetti libero: duri attacchi ai giudici. Sulla pagina Facebook a favore del muratore di Mapello, che da sempre dichiara dal carcere la sua innocenza e si prepara al processo d’Appello, pesanti accuse ai giudici che lo hanno condannato in primo grado all’ergastolo: “Forse sono troppo umano, troppo intelligente, troppo superiore a lumache ossigenate e sorci di fogna” – si legge nella pagina ‘Bossetti libero’ –  “ma a vedere queste immagini non riesco a fregarmene come loro, mi viene da pensare che una rivoluzione non sarebbe nemmeno tanto sbagliata… coi forconi andare a prendere certe giudicesse e mandarle al cospetto di Dio…”. Quasi una istigazione a compiere reati.

E contro la criminologa Bruzzone parole che definire insulti sarebbe riduttivo: “Forse Sgarbi la chiamava lumaca per il viscidume… leggete cosa diceva appena catturato Bossetti… era iper garantista col povero muratore… poi la difesa ha scelto un criminologo vero (Denti) e lei è diventata la peggior forcaiola dell’emisfero boreale la lumaca mannara!”.

Caso Yara, Massimo Bossetti e le clamorose rivelazioni fatte dalla madre: “Io inseminata a mia insaputa”. La madre di Massimo Bossetti, Ester Arzuffi, qualche settimana fa ha rilasciato delle dichiarazioni clamorose alla trasmissione di LA7 ‘Bianco e Nero’, che faranno discutere a lungo: “Conoscevo Giuseppe Guerinoni perché mi portava al lavoro quasi tutti i giorni. Successe tra il 1966 e il mese di marzo del 1967. Bossetti è nato il 28 ottobre 1970, cioè oltre tre anni dopo. Lo so che la scienza non sbaglia, ma io non sono mai stata con Guerinoni. Ve lo giuro. Non ho fatto nulla con lui, non ci sono andata nemmeno in “camporella”. Scusate il termine… Sono sincera, è così, non dico bugie” – queste le parole della Arzuffi a ‘Bianco e Nero’ – “Certo, se non ho avuto rapporti con Guerinoni, qualcosa il mio ginecologo può darsi che abbia fatto. Mi spiego la cosa solo con la procreazione medicalmente assistita, a cui sarei stata sottoposta in maniera inconsapevole”. Esternazioni, queste, che ora sono al vaglio dei difensori del carpentiere, come confermato dall’avvocato Salvagni a Quarto Grado: “Noi non scartiamo nulla, non ho una supponenza intellettuale. Io credo che non si debba fare della facile ironia: guardi, la Procura ha indagato anche sui cartomanti e i maghi, dico soltanto questo. Quindi non mi sento di fare dell’ironia su quello che ha dichiarato la signora Ester”. 

Dopo la denuncia della pagina da parte della Bruzzone, la notizia ha avuto una grande risonanza mediatica e l’amministratore si è palesato con un messaggio.

Caso Yara news: avvocato Bossetti interviene in diretta a Pomeriggio 5 e prende le distanze dal consulente Infanti, scrive il 8/03/2017 Michela Becciu su "Urban Post".  Caso Yara ultime notizie sulla madre Ester Arzuffi. “La possibilità che la signora Arzuffi sia stata inseminata a sua insaputa c’è, anche se non ci sono prove certe per dimostrarlo”. Queste parole le ha pronunciate in diretta a Pomeriggio 5 Carlo Infanti, consulente analista incaricato dalla famiglia Bossetti di compiere accertamenti in merito alla presunta inseminazione artificiale subita dalla madre del carpentiere bergamasco alla fine degli anni ’60, e da cui sarebbero nati i due gemelli Massimo e Laura Letizia Bossetti. Ester Arzuffi, che nega di avere mai tradito il marito defunto Giovanni Bossetti, ha infatti spiegato così il fatto che il padre biologico dei suoi figli gemelli è Giuseppe Guerinoni, autista di Gorno deceduto nel ’99 che la portava a lavoro in autobus, come da lei stessa rivelato davanti alle telecamere di ‘Bianco e Nero’ su La7 e come scritto in una lunga lettera allo stesso Infanti. “Conoscevo Giuseppe Guerinoni perché mi portava al lavoro quasi tutti i giorni. Successe tra il 1966 e il mese di marzo del 1967. Bossetti è nato il 28 ottobre 1970, cioè oltre tre anni dopo. Lo so che la scienza non sbaglia, ma io non sono mai stata con Guerinoni. Ve lo giuro. Non ho fatto nulla con lui, non ci sono andata nemmeno in “camporella”. Scusate il termine… Sono sincera, è così, non dico bugie” – queste le parole della Arzuffi a ‘Bianco e Nero’ – “Certo, se non ho avuto rapporti con Guerinoni, qualcosa il mio ginecologo può darsi che abbia fatto. Mi spiego la cosa solo con la procreazione medicalmente assistita, a cui sarei stata sottoposta in maniera inconsapevole”.

Caso Yara, Massimo Bossetti ha un fratellastro? A seguito di alcune indagini commissionate dalla madre di Massimo Bossetti, Carlo Infanti ha fatto alcune scoperte: “Negli anni 1968-69 la signora Arzuffi era in cura da due ginecologi. Inizialmente si sottopose a delle cure non invasive, lievi, a seguito delle quali ebbe due aborti spontanei al quarto mese di gravidanza. Dopo quindi fu sottoposta a delle cure molto più forti. Mi ha poi raccontato che quando il medico le somministrava quel liquido freddo di cui lei ha parlato, prima di procedere con la ‘cura’ il ginecologo faceva uscire tutti dall’ambulatorio, compreso il marito della donna e le infermiere. La cosa strana e particolare è che la signora Arzuffi è in grado di descrivere nei dettagli quello studio medico …”.

Così Infanti, il quale non esclude in maniera categorica che le cose siano andate davvero come la Arzuffi dice. “Potrebbe esistere un terzo (o anche più d’uno) fratellastro di Massimo Bossetti, perché il giorno in cui la Arzuffi partorì (il 28 ottobre 1970 ndr) in quella clinica nacquero altri due bambini”. L’esperto apre ad una ipotesi che ha dell’incredibile: e se anche le madri di questi altri due bambini fossero state sottoposte ad inseminazione (non necessariamente a loro insaputa) con il seme di Guerinoni? 

Massimo Bossetti: i dubbi sul Dna che ha motivato la sua condanna in primo grado all’ergastolo. Nella traccia mista (dell’imputato e della vittima) di Dna rinvenuta sui leggings e sugli slip della piccola Yara, solo il Dna nucleare appartiene a Bossetti. Il Dna di Ignoto 1 è riconducibile infatti a Bossetti solo per la parte nucleare, che è la più importante, perché unica per ciascun individuo e che permette di risalire alla linea paterna e dunque in genetica la sola utilizzata per l’attribuzione di un Dna ad una persona. La parte mitocondriale, che riporta alla linea materna, appartiene ad un Ignoto 2, e non è dunque riconducibile all’imputato. Ma per la Corte che lo ha condannato il Dna mitocondriale è privo di capacità identificativa e dunque totalmente irrilevante nel processo. Una anomalia non spiegata e risolta nel dibattimento in aula, che anche il pubblico ministero ha ammesso, e che la Corte ha riconosciuto nelle motivazioni della sentenza di condanna. Se dunque Bossetti avesse un fratellastro nato nella modalità ipotizzata da Infanti, si spiegherebbe perché il profilo genetico di Ignoto 1 – Guerinoni rinvenuto sugli indumenti di Yara Gambirasio è compatibile con quello di Massimo Bossetti solo nella parte nucleare (linea paterna) e non in quella di madre (Dna mitocondriale).

Così Claudio Salvagni: “Voglio precisare che il signor Infanti, che fa l’attore, non fa parte del team difensivo del signor Bossetti. Non è consulente della difesa di Bossetti: sinceramente sentir parlare di Dna da un attore mi rende perplesso … per cortesia è stata uccisa una bambina, questo processo è una cosa seria. Quelle fatte da Infanti sono ipotesi suggestive, la tesi della difesa di Bossetti è quella espressa nel ricorso in Appello”.

Imbarazzo in studio, e immediata la replica di Infanti: “Io sono stato consulente della famiglia Bossetti fino allo scorso 16 ottobre, dopo aver depositato le relazioni a settembre”.

Caso Yara news: cresce l’attesa per il processo d’Appello a Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo perché riconosciuto responsabile del delitto della 13enne di Brembate. Anche nel processo di secondo grado tutto ruoterà attorno alla traccia genetica che per la procura di Bergamo e la Corte d’Assise ha inchiodato l’imputato. Dna ‘anomalo’ per i difensori di Bossetti, che chiederanno a gran voce una perizia super partes che possa dirimere i dubbi sul profilo genetico di Ignoto 1, dall’accusa attribuito proprio al carpentiere bergamasco. I giudici di Brescia concederanno la nuova perizia? Massimo Bossetti si dichiara innocente, dice di non aver mai visto, incontrato né conosciuto Yara Gambirasio. Ciò rende oltremodo inspiegabile – se davvero lui è estraneo ai fatti – la presenza del suo Dna nucleare sugli slip e i leggings della vittima il cui corpo, lo ricordiamo, fu rinvenuto 3 mesi esatti dopo l’omicidio, completamente vestito.

Massimo Bossetti e lampade fatte in segreto nel Solarium di Brembate. Per la pubblica accusa il fatto che Bossetti si recasse nel centro estetico di Brembate ubicato nella strada percorsa abitualmente dalla ginnasta uccisa è la prova del fatto che l’indiziato avesse adocchiato la sua vittima, frequentando all’apparenza ‘casualmente’ i suoi luoghi, così da vederla e imparare a conoscere i suoi spostamenti e le sue abitudini. Il Solarium in questione – di cui anche Marita Comi dopo l’arresto chiese conto al marito durante i primi incontri in carcere, in quanto all’oscuro della sua abitudine di sottoporsi alle lampade solari – all’epoca dei fatti aveva sede proprio in prossimità dello studio dentistico in cui la piccola Yara si recava una volta a settimana per farsi controllare l’apparecchio ai denti e vicino alla fermata dell’autobus che la 13enne prendeva per recarsi a scuola. Una casualità o un elemento indiziario a carico di Massimo Bossetti? C’è da aspettarsi che anche questo aspetto della vicenda venga nuovamente sviscerato durante il processo d’Appello che avrà inizio a breve.

Caso Yara: “Ignoto 1 ha gli occhi molto chiari”, dettaglio in mano agli inquirenti prima di arrivare a Bossetti, scrive il 13/03/2017 Michela Becciu su "Urban Post".  Caso Yara: “Ignoto 1 ha gli occhi molto chiari”, il pm Letizia Ruggeri ricostruisce l’inchiesta che ha portato a Massimo Bossetti, e spiega quali furono gli elementi in mano agli inquirenti quando ancora si ignorava l’esistenza del muratore di Mapello.

Domenica sera 12 marzo Sky ha trasmesso la prima delle quattro puntate dello speciale realizzato dalla Bbc sul caso relativo all’omicidio di Yara Gambirasio, dal titolo “Ignoto 1 – Yara, DNA di un’indagine”. La più imponente inchiesta sul Dna mai realizzata in Italia, dove l’indagine investigativa della procura di Bergamo partì dal nulla, senza indizi, e per settimane brancolò nel buio prima di intraprendere una pista ben precisa che portò alla individuazione del profilo genetico dell’assassino, ovvero il Dna di Ignoto 1 che per i giudici di primo grado corrisponde alla persona di Massimo Bossetti, il carpentiere bergamasco condannato all’ergastolo per il delitto della 13enne di Brembate.

Un documentario incentrato sulla pm Letizia Ruggeri, titolare delle indagini, che racconta in prima persona tutta la fase dell’inchiesta fin dai suoi albori. Parte da quel 26 novembre 2010 giorno del delitto, e rivive passo per passo tutto il modus operandi seguito per arrivare alla verità e dare giustizia alla povera vittima. La pm si commuove quando descrive il dolore della mamma della Yara il giorno dei funerali, immedesimandosi, da madre quale è, nella sofferenza della donna, privata di una figlia in maniera così brutale ed inspiegabile.

Caso Yara prime fasi delle indagini: i cani molecolari e il profilo genetico del killer. Gli investigatori partirono dall’unico elemento che avevano in mano: le tracce del percorso fatto dal cellulare della 13enne, che alle 18:55 del giorno del delitto diede il suo ultimo segno di vita per poi spegnersi per sempre. A quell’ora, ricostruisce la pm Letizia Ruggeri, Yara era ancora nella zona della palestra di Brembate da cui era appena uscita, probabilmente già in compagnia del suo assassino. Si cercò per settimane un indizio: tre cani molecolari in tre giornate distinte fiutarono le tracce della ragazzina nel cantiere edile di Mapello; era quello il primo dato oggettivo concreto sul quale gli investigatori potevano far riferimento. “Arrivati lì i cani impazzirono”, spiega bene la Pm, e ciò portò ad una deduzione: la piccola Yara prima di essere uccisa fu condotta in quel cantiere. Ci fu poi l’errore della Procura di Bergamo, che portò alla incarcerazione di Mohamed Fikri, il piastrellista marocchino che lavorava in quel cantiere, inchiodato da una frase intercettata e mal tradotta – “Perdonami Allah, non l’ho uccisa io” – arrestato per 3 giorni e poi scarcerato. Fu solo con il ritrovamento accidentale del corpo della vittima, ormai mummificato, il 26 febbraio 2011 che si ebbe la svolta nelle indagini: il profilo genetico di un uomo commisto al Dna della 13enne fu infatti isolato sui leggings e sugli slip di Yara Gambirasio.

La traccia del Dna: Ignoto 1 ha gli occhi molto chiari, la prima certezza degli investigatori. Quella traccia mista del Dna per la Procura e i Ris di Parma era la chiave per risalire all’assassino di Yara Gambirasio. Era la firma del killer, e fu fatta analizzare in diversi laboratori, sia in Italia che all’estero. La pm Ruggeri spiega che proprio in un laboratorio di analisi genetiche degli Stati Uniti si determinò un elemento di quel profilo genetico che poi in futuro – ora lo sappiamo – si sarebbe rivelato esatto. Ignoto 1, ossia l’individuo al quale apparteneva quel Dna, aveva quasi certamente gli occhi molto chiari. Celesti o verdi, ma comunque chiarissimi. La eventualità che ciò fosse vero superava il 94% di possibilità, assicuravano gli esperti americani che avevano analizzato quella traccia di Dna. Era una fase delle indagini, questa, in cui la Procura di Bergamo procedeva a carico di ignoti. Non c’erano indagati né sospettati, ma i primi due elementi concreti sui quali sviluppare un approfondito e fondato filone di indagini sembrava ormai acquisito: l’uomo che aveva stordito Yara colpendola alla testa, per poi ferirla con almeno 9-10 piccoli e poco profondi tagli al solo scopo di seviziarla, per poi abbandonarla nel campo di Chignolo d’Isola e lasciarla morire di stenti e freddo, era in qualche modo legato all’ambiente edile e aveva gli occhi molto chiari. Leggi anche: Caso Yara inchiesta: tutte le prove che hanno portato all’incriminazione e condanna di Massimo Bossetti

A quel punto partì il lavoro titanico degli inquirenti di Bergamo, che non ha precedenti nel nostro Paese: fare il prelievo del Dna a tutta la cittadinanza di Brembrate, partendo dalle persone più vicine alla vittima per poi allargare il cerchio delle ricerche. Verranno analizzati 23mila profili genetici e questa certosina ricerca come sappiamo porterà ad Ester Arzuffi, Giuseppe Guerinoni e Massimo Bossetti. Eccezion fatta per il primo periodo seguito all’arresto, quando ancora non si conoscevano i dettagli delle carte dell’inchiesta e trapelavano sul caso indiscrezioni giornalistiche poco chiare, Marita Comi dubitò effettivamente della innocenza del marito. Poi leggendo gli atti giudiziari, la moglie di Massimo Bossetti dichiarò pubblicamente di essere convinta della sincerità dell’uomo. Intervistata di recente dall’inviato di Quarto Grado, Giorgio Sturlese Tosi, la donna ha confermato che lei e Massi sono uniti più che mai, che il marito è comprensibilmente provato dalla detenzione (Bossetti è in carcere dal 16 giugno 2014) ma che spera di poter dimostrare la sua estraneità ai fatti nell’imminente processo d’Appello: “Lui ci spera, sì. Certo, se potesse affrontare tutto in casa, ai domiciliari, sarebbe più facile per lui, perché avrebbe la sua famiglia accanto”. Le cose come sappiamo non stanno così: a Bossetti è stata infatti negata più volte la richiesta dei domiciliari, in quanto reputato dai giudici un soggetto pericoloso alla luce del concreto rischio di reiterazione del reato di cui è accusato.

Il racconto del reale: Yara, dna di un’indagine, scrive il 12 marzo 2017 la Redazione Tvzap. Il ciclo di SkyTg24 affronta il racconto della più grande indagine scientifica mai svolta in Italia. In onda per quattro domeniche da stasera alle 21:15 su Sky Atlantic Hd e Sky 24 la storia del delitto di Yara Gambirasio raccontata dalla BBC. Un è progetto figlio dei Dig Awards, premio dedicati al giornalismo d’inchiesta che sostiene giovani autori.

Brembate di Sopra, Bergamo. Il 26 novembre del 2010 una ragazzina di 13 anni, Yara Gambirasio, scompare. Tre mesi dopo il suo corpo senza vita viene trovato in un campo abbandonato. La Procura ha solo una traccia di DNA maschile. È l’inizio di una delle indagini più complesse e sorprendenti dei nostri tempi, condotta per quattro lunghi anni seguendo soltanto una traccia di DNA. La storia di questa impresa scientifica senza pari in Europa, portata avanti attraverso lo screening di decine i migliaia di test genetici alla ricerca di un assassino senza nome, è al centro del racconto di “Ignoto 1 – Yara, DNA di un’indagine”, il documentario in quattro parti in onda dal 12 marzo ogni domenica alle ore 21.15, in esclusiva su Sky Atlantic HD e Sky TG24 HD.

Progetto internazionale. Nato da un’idea di BBC e prodotto dall’inglese Amber TV e l’italiana Run to Me Film in collaborazione con Sky e BBC, “Ignoto 1 – Yara, DNA di un’indagine” approfondisce il lungo lavoro di ricerca e analisi scientifica alla base dell’inchiesta relativa al caso Gambirasio. Una produzione impegnativa, curata per BBC dal premio Oscar Nick Fraser e durata ben 2 anni, per la regia di Hugo Berkeley. Il progetto è stato presentato nel 2016 alla seconda edizione del “Dig Awards”, il premio internazionale dedicato al giornalismo d’inchiesta, dove giovani autori possono presentare proposte d’approfondimento per cercare finanziamenti. In quella sede Sky decise di sostenere l’idea.

80 ore di interviste. Tutte le tappe dell’indagine sono raccontate attraverso le voci di chi ha seguito il caso: gli avvocati e i consulenti della difesa, i giornalisti che se ne sono occupati, ma anche, per la prima volta, il PM Letizia Ruggeri, che dal 2010 ha guidato l’indagine e che fino alla fine del processo non ha mai voluto parlare con la stampa, e il suo gruppo di lavoro. Polizia, Carabinieri, genetisti e biologi, che per anni hanno lavorato senza sosta alla ricerca del colpevole dell’omicidio di Yara. Per la realizzazione del documentario sono state raccolte oltre 80 ore di interviste con tutti i maggiori protagonisti della vicenda. La storia è narrata anche attraverso immagini esclusive d’archivio, atti del processo, ricostruzioni d’atmosfera (prive però di parti recitate da attori), e grafiche 3D, per spiegare in modo semplice il complesso lavoro scientifico fatto sul DNA.

L’indagine sul DNA. Yara Gambirasio, 13 anni, scompare nel novembre del 2010. Tre mesi dopo il corpo senza vita della ragazza viene trovato in un campo abbandonato, a pochi chilometri da dove è stata vista l’ultima volta. La Procura ha in mano un solo elemento su cui investigare: sulla salma viene trovata una traccia di DNA maschile, appartenente ad uno sconosciuto, chiamato convenzionalmente Ignoto 1. Il PM che segue il caso, Letizia Ruggeri, coadiuvata dai RIS e dalla Polizia Scientifica, decide di creare un database di DNA degli abitanti della zona e, dopo aver raccolto decine di migliaia di campioni senza risultati, finalmente un giorno trova un profilo genetico in parte compatibile, quello di Damiano Guerinoni. Letizia ricostruisce la storia della famiglia Guerinoni e fa riesumare il corpo di uno dei suoi componenti, Giuseppe Benedetto Guerinoni, autista, padre di tre figli, morto molti anni prima. Emerge che Giuseppe è il padre di Ignoto 1, ma i suoi figli naturali non corrispondono al DNA trovato sul corpo di Yara. C’è solo una spiegazione: Ignoto 1 è un figlio illegittimo di Guerinoni.

Comincia così un’indagine nell’indagine, a caccia della madre del presunto assassino. La polizia ritiene di averla trovata in Ester Arzuffi e rileva il DNA di uno dei suoi quattro figli, Massimo Giuseppe Bossetti. Il profilo genetico dell’uomo sembra coincidere perfettamente con Ignoto 1 e Bossetti viene immediatamente arrestato, per paura che la notizia della sua identificazione trapeli e possa fuggire. La sua famiglia è sconvolta: Massimo è un semplice muratore, un gran lavoratore, padre devoto di tre figli, nessun precedente per violenza. Nelle settimane successive la vita, le amicizie e le frequentazioni di Bossetti vengono esaminate in ogni dettaglio. La squadra dei suoi difensori, insieme con la moglie Marita Comi, cerca di dare di lui un’immagine diversa da quella che i giornali stanno dipingendo. Tutto sembra inchiodarlo, ma sarà il processo a cercare di stabilire la verità. Il dibattito in aula dura un anno intero: la difesa insiste sulla mancanza di prove certe e su possibili errori compiuti dalla Polizia Scientifica e il RIS. Bossetti continua a dichiararsi innocente, mentre fuori e dentro l’aula l’opinione pubblica si divide tra colpevolisti e innocentisti. Genetisti, biologi e medici forensi sfilano davanti alla Corte. All’inizio dell’estate del 2016 la giuria emette la sentenza: ergastolo. La Procura si dichiara soddisfatta, gli avvocati della difesa ricorrono in appello.

Yara, in tv il racconto di un dramma. In onda il documentario che svela le dinamiche delle indagini con testimonianze inedite, scrive Chiara Maffioletti il 4 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Quando uno è giovane è pieno di ideali, il mio era la giustizia». Sono queste le parole con cui il pubblico ministero Letizia Ruggeri inizia il racconto. Ha i capelli più corti rispetto a sette anni fa, quando, da un giorno all’altro, la sua vita è stata sconvolta assieme a quella di una intera comunità per nulla abituata al clamore. Pochi minuti hanno cambiato tutto: i minuti in cui una bambina di 13 anni è sembrata sparire nel nulla. Da allora, il nome di Yara Gambirasio è diventato per tutti familiare, legato per sempre a uno dei fatti di cronaca più complicati e sentiti degli ultimi anni. In molti hanno provato a raccontarlo, ma nessuno mai come ha fatto Hugo Berkeley con Ignoto 1 -Yara. Dna di un’indagine, un documentario dal taglio cinematografico in onda su Sky Atlantic Hd da domenica 12 marzo (alle 23.15) e nelle tre domeniche a seguire. Una produzione durata oltre due anni, nata da un’idea della Bbc. Il contatto con Sky è arrivato attraverso i Dig Awards, premi dedicati al giornalismo d’inchiesta video, che offrono ai reporter i contatti con chi può sostenere le loro produzioni, in questo caso Run to Me, Sky e Bbc, appunto. Per la prima volta sono stati intervistati tutti i protagonisti legati al delitto della piccola: persone che, a partire dal pm Ruggeri, non avevano mai parlato così, davanti alle telecamere. I piani si intrecciano: se da una parte le immagini raccontano il dramma, dall’altra mostrano il contesto. Descrivono lo sgomento della provincia placida che inizia a capire che il male non è per forza lontano ma, anzi, vicinissimo, confuso al suo interno. Seguono il dolore composto dei genitori di Yara. E, come in un clamoroso dietro le quinte, svelano le dinamiche delle indagini dal momento della scomparsa. Cosa ha pensato Ruggeri quando i carabinieri l’hanno avvisata che una bambina non era tornata a casa dopo la lezione di ginnastica ritmica? «Il 26 novembre del 2010 avevo sostituito una collega — spiega —, quello non era il mio turno. Dopo le 8 di sera ho ricevuto la telefonata». Il nastro del tempo si riavvolge, si torna al 2010. Ognuno ha il suo punto di vista. Perché se nell’ufficio del pm accadeva questo, nel frattempo erano al lavoro le forze dell’ordine e i giornalisti (si vedono anche Giuliana Ubbiali e Claudio Del Frate del Corriere), che presto hanno affollato Brembate, la cittadina di 8 mila abitanti dove viveva Yara. Yara che di colpo diventa il fulcro di tante esistenze, distanti e collegate. Perché questa «ragazzina normale, con una famiglia normale, che viveva in un normale paesino di provincia» poteva essere «la figlia di tutti», come ha detto il parroco della comunità in una delle prime prediche dopo la scomparsa. Yara sembrava volatilizzata. Berkeley fa rivivere quei giorni, i passaggi dell’imponente ricerca della ragazza, con le squadre cinofile arrivate dalla Svizzera: tre diversi cani portano sul cantiere di Mapello. Tre mesi dopo, per puro caso, si ritrova il corpo. Ma se questa, fino alla condanna di Massimo Bossetti per l’omicidio della piccola, è storia, il documentario racconta anche quello che hanno provato le persone coinvolte. Come il medico legale, che ha ammesso quanto sia stato doloroso separarsi dal corpo di Yara dopo che, per due mesi, aveva cercato di ricavarne più informazioni possibili: «Era diventato una presenza assoluta». Ma Yara, in fondo, lo era diventata per molti: per la sua famiglia, ovviamente, ma anche per la Procura, la polizia, i genetisti. E, in seguito, per il pool difensivo e i protagonisti del processo. Perché il caso di Yara è anche questo. È anche la storia della più ambiziosa caccia all’uomo su base genetica mai intrapresa finora.

Bergamo, Bossetti prega e lavora da muratore in carcere: i detenuti gli tirano le pietre, scrive di Matteo Pandini il 14 marzo 2017 su “Libero Quotidiano”. È all' inferno ma non sembra bruciarsi. Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo per l'omicidio della 13enne Yara Gambirasio, galleggia invisibile insieme ad altri 17. Sono i dannati, finiti dietro le sbarre per reati a sfondo sessuale. Devono essere protetti dagli altri reclusi: succede in tutte le prigioni italiane. Perfino in galera pedofili e assassini (o presunti tali) non godono di simpatie, soprattutto se le vittime sono minorenni. Infatti è a loro, ai dannati, che pochi giorni fa è stata indirizzata una pietra. Il sasso, scagliato dal cortile dei detenuti comuni, non ha colpito nessuno. Era l'ora d' aria. Bossetti, come al solito, se ne stava per i fatti propri. A prendere il sole. È calmo. Già abbronzato. Non ha mosso un muscolo, quando la pietra ha superato il muro di cinta ed è caduta a pochi metri da lui. Via Gleno. Bergamo. Carcere da 320 posti. I detenuti sono 532. Le celle 190. Gli agenti effettivi 221. Statistiche aggiornate a metà gennaio. Fuori, il muratore bergamasco è «il Bossetti». Nella cittadella carceraria è un invisibile. Uno dei tanti. Poche parole con la polizia penitenziaria, ma sempre educatissimo: buongiorno, buonasera, posso?, grazie. Appena può, butta un occhio alla tv e a qualche rivista. Non fuma. Non parla di calcio. Tre mesi fa, è stata persa una sua raccomandata. Eppure Bossetti non ha fatto reclamo ufficiale. «Non voglio problemi, sono cose che capitano» ha detto. Settimana scorsa ha incontrato la madre, Ester Arzuffi. La signora è tornata a casa senza collezionare altre preoccupazioni. E ha deciso di non rilasciare più interviste, dopo aver detto che no, suo marito non era il padre biologico di Massimo per «una fecondazione assistita a sua insaputa». L'avvocato del carpentiere, Claudio Salvagni, conferma che in via Gleno Massimo «ha un comportamento ineccepibile, come è giusto che sia, e non ha alcun tipo di problema». La stessa opinione di Benedetto Bonomo, il legale della sorella di Bossetti e della mamma. Se proprio c' è tensione, è per l'avvicinarsi del processo d' Appello. Sperano che possa ribaltare la sentenza di primo grado. «Da quando si è allentata la pressione dei media, Massimo sembra davvero più sereno» racconta don Fausto Resmini, il cappellano del carcere. Conosce Bossetti dal giugno 2014, quando venne arrestato in un cantiere a Seriate e trascinato in galera. Ogni sabato, alle 16,30 in punto, i dannati partecipano alla messa. Restano in cella solo i due o tre di fede musulmana. Bossetti va in cappella, prega, ma non chiede un'assistenza spirituale particolare. Piuttosto, partecipa con entusiasmo alle attività lavorative. Dove dimostra una marcia in più. Gli hanno chiesto di abbattere un muro di una cella, per allargare lo spazio dedicato a un salone. Nel giro di poche ore, aveva portato a termine l'impresa. «Puoi anche rallentare...», gli hanno detto gli agenti. In questi giorni, sta operando di cazzuola con alcuni reclusi comuni. In un'altra sezione, diversa da quella dei dannati, ma dove il rischio di ritorsioni è minimo. Bossetti sgobba. Sguardo basso. Poche parole. Un invisibile. Tanto che non è prevista una sorveglianza straordinaria. Ha ancora qualche scambio epistolare, anche se la corrispondenza con un'altra detenuta, Gina, pare si sia rarefatta e forse s' è troncata del tutto. In più, aiuta qualche compagno di cella - meno abile di lui con le parole - a buttare giù qualche riga per comunicare con l'esterno. In particolare, gli è capitato di dare una mano a Giuseppe T. Italiano. Invischiato nella storiaccia del cosiddetto killer delle vecchiette, il tunisino che - tra il 1995 e il 1997 - ammazzò 14 anziane in Puglia e Basilicata prima di essere fermato (è stato trovato morto in cella, a Padova, nel 2012). Giuseppe si proclama innocente: sogna la revisione del processo. Ecco, questo è uno spaccato dell'inferno di Bossetti. In una galera, come molte altre in Italia, dove i problemi non mancano. Non solo per il sovraffollamento o i pochi agenti. Settimana scorsa, tanto per dirne una, il detenuto Andrea P. è stato sottoposto a un intervento chirurgico all' ospedale Papa Giovanni XXIII. Durante l'operazione, i medici sono incappati in un ovulo di cocaina. L' aveva ingerito. Da dove l'ha preso? Mistero. Ma d' altronde, nelle galere circolano addirittura cellulari, caricabatterie, soldi, gioielli. A Bergamo, dall' inizio dell'anno, sono stati scovati almeno cinque telefonini nascosti accuratamente dietro le sbarre. Nel 2016 erano stati più di venti. Non mancano gli iPhone nuovi di pacca. Ultimamente, sono gettonati degli apparecchi di marca cinese. Costano pochi spiccioli e - per comunicare con l'esterno - vanno benissimo. Oltre alla cocaina, recentemente è spuntato anche del comune «fumo». Qualche caricabatteria. Banconote. Gioielli. Tutte cose che i carcerati non dovrebbero avere con sé. E come entra, tutta 'sta roba? Potrebbero essere gli stessi detenuti, quelli che trascorrono all' esterno qualche ora e rientrano in cella per dormire? Ma il viavai è massiccio. Perché oltre agli agenti di polizia penitenziaria ci sono i volontari. Gli operatori del Sert. I medici. Una città nella città. Difficile controllare tutto, perquisire ogni angolo, scovare gli spilli, rilevare anomalie. Anche per questo, uno come Bossetti è un detenuto modello. Un invisibile che non vuole grane e non dà confidenza. Se dentro di sé ha un inferno, lo nasconde bene. E l'inferno che lo circonda sembra non bruciarlo.

Ignoto 1: è giusto parlare di Bossetti, quando è in corso il processo? Scrive Angela Azzaro il 26 Marzo 2017 su "Il Dubbio". La domenica sera Sky trasmette un documentario sul caso di Yara Gambirasio. L’unico punto di vista è quello dell’accusa. «Ci avevano sempre insegnato che i giudici parlano con le sentenze, ma evidentemente, adesso, i giudici parlano anche con la televisione». Aldo Grasso, il principale critico e studioso italiano della televisione, conclude in questo modo, tra l’amaro e il sarcastico, il video editoriale del Corriere della sera dedicato a Ignoto 1, Yara dna di una indagine. E’ il documentario che sta andando in onda su Sky Atlantic e di cui, domenica sera, vedremo la terza delle quattro puntate. Il film, che è nato da una idea della Bbc ed è diretto Hugo Berkeley, ricostruisce con dovizia di particolari l’inchiesta sull’omicidio della piccola Yara Gambirasio, che ha portato a condannare in primo grado Massimo Giuseppe Bossetti.

Yara Gambirasio sparisce da Brembate di Sopra il 26 novembre del 2010. Va in palestra e non torna più a casa. Per tre mesi tutto il paese e tutta l’Italia sperano di ritrovarla viva. Ma le speranze finiscono tragicamente il 26 febbraio: il corpo privo di vita della ragazzina viene ritrovato in un campo abbandonato di Chignolo d’Isola, a circa 12 chilometri dal luogo dove era sparita. Le indagini diranno che la tredicenne è morta lo stesso giorno in cui si sono perse le sue tracce. La desolazione è forte. Non si deve più cercare Yara, si deve cercare l’assassino. Gli inquirenti si concentrano in particolare sul materiale biologico, ritrovato sugli slip di Yara, che non appartiene alla ragazza. Si isola un dna che viene chiamato Ignoto 1, da cui il titolo del documentario. Per tre anni si cerca a chi appartenga finché, attraverso una mappatura effettivamente eccezionale di tutta la zona, non si arriva a identificare chi sarebbe l’ormai famoso Ignoto 1.

La sparizione di Yara diventa subito un caso mediatico. La cronaca, per quanto drammatica, ha alcuni elementi che suscitano un forte interesse per la tragica vicenda in cui ha perso la vita una tredicenne e ha travolto la serenità della famiglia Gambirasio. Più che cronaca, sembra un romanzo su cui puntare l’attenzione voyeuristica degli italiani. Dopo tre anni viene individuato l’Ignoto 1, sarebbe Massimo Giuseppe Bossetti. Sarebbe lui l’assassino. Ma per lui il condizionale non è ammesso. Da subito, nei suoi confronti più che i dubbi valgono le certezze: la sentenza è già stata emessa, la condanna è certa. Bossetti è il colpevole. Lo ha stabilito non il tribunale, ma un processo mediatico diffuso, generalizzato, spietato.

Il 1 luglio del 2016 Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, sposato con figli, viene condannato all’ergastolo per aver ucciso Yara Gambirasio. Contro di lui più che prove, una macchina mediatica che difficilmente una singola persona, peraltro non facoltosa, può vincere da solo. La cosiddetta prova regina è quella del dna, ma molti sono i dubbi a partire dal fatto che, pur avendo la difesa chiesto più volte di ripetere l’esame, questa verifica non è mai stata accolta. Bossetti continua a dichiararsi innocente, ma all’Appello che si terrà probabilmente questa primavera, ci arriva con le armi ancora una volta spuntate. Contro di lui non solo la procura, le televisioni, il giudizio popolare. Ora c’è anche un documentario che sposa completamente il punto di vista della procura che ha indagato.

Le prime due puntate di Ignoto1 sono centrate sul ruolo degli investigatori. Letizia Ruggeri, la pm titolare del caso, che si vanta di aver parlato poco con i giornalisti, nel documentario è invece il filo conduttore che ricostruisce l’intera vicenda. La difesa non è entrata in scena e ancora non sappiamo se accadrà nei prossimi episodi. Solo chi indaga è protagonista. Ruggeri è filmata anche nei suoi momenti di vita personale, descritta non come un pubblico ufficiale ma come una eroina che si batte per la Verità. Il comandante dei Ris, Giampietro Lago, viene fotografato in posa, anche lui eroe in un mondo dove è netta la separazione tra buoni e cattivi. Aldo Grasso, tra le altre critiche, si chiede che senso abbia fare un documentario sul caso forse più raccontato da giornali e tv. La domanda è condivisibile, soprattutto se il documentario in questione non crea scarto rispetto al processo mediatico ma semmai ne accentua i difetti, rendendo la difesa di Bossetti sempre più difficile. Quasi impossibile.

Ormai diversi studiosi sottolineano come il processo mediatico rischi di condizionare fortemente il processo vero e proprio. E se questo vale per la televisione, vale anche per un film compiuto come Ignoto 1: il racconto avvincente, l’utilizzo di una colonna sonora che emoziona, il montaggio come se fosse una fiction, sono elementi che influenzano fortemente lo spettatore. A tal punto che ci si chiede se sia lecito, mentre è in corso ancora il processo, mandare in onda un documentario così fortemente schierato con la tesi dell’accusa. Non si tratta di limitare la libertà di espressione, ma di interrogarsi sui limiti, ormai degenerati, del processo mediatico. E’ una domanda legittima per chi ha a cuore lo Stato di diritto. Ma anche per chi ha a cuore la memoria di Yara Gambirasio, che da tutta questa speculazione rischia di essere travolta o usata per fini che di nobile hanno poco. Forse è il caso di fermarsi, prima che sia troppo tardi.

Caso Yara: “Ignoto 1 ha gli occhi molto chiari”, dettaglio in mano agli inquirenti prima di arrivare a Bossetti, scrive lunedì 13/03/2017 Michela Becciu su "UrbanPost". Caso Yara: “Ignoto 1 ha gli occhi molto chiari”, il pm Letizia Ruggeri ricostruisce l’inchiesta che ha portato a Massimo Bossetti, e spiega quali furono gli elementi in mano agli inquirenti quando ancora si ignorava l’esistenza del muratore di Mapello. Domenica sera 12 marzo Sky ha trasmesso la prima delle quattro puntate dello speciale realizzato dalla Bbc sul caso relativo all’omicidio di Yara Gambirasio, dal titolo “Ignoto 1 – Yara, DNA di un’indagine”. La più imponente inchiesta sul Dna mai realizzata in Italia, dove l’indagine investigativa della procura di Bergamo partì dal nulla, senza indizi, e per settimane brancolò nel buio prima di intraprendere una pista ben precisa che portò alla individuazione del profilo genetico dell’assassino, ovvero il Dna di Ignoto 1 che per i giudici di primo grado corrisponde alla persona di Massimo Bossetti, il carpentiere bergamasco condannato all’ergastolo per il delitto della 13enne di Brembate.

Un documentario incentrato sulla pm Letizia Ruggeri, titolare delle indagini, che racconta in prima persona tutta la fase dell’inchiesta fin dai suoi albori. Parte da quel 26 novembre 2010 giorno del delitto, e rivive passo per passo tutto il modus operandi seguito per arrivare alla verità e dare giustizia alla povera vittima. La pm si commuove quando descrive il dolore della mamma della Yara il giorno dei funerali, immedesimandosi, da madre quale è, nella sofferenza della donna, privata di una figlia in maniera così brutale ed inspiegabile.

Gli investigatori partirono dall’unico elemento che avevano in mano: le tracce del percorso fatto dal cellulare della 13enne, che alle 18:55 del giorno del delitto diede il suo ultimo segno di vita per poi spegnersi per sempre. A quell’ora, ricostruisce la pm Letizia Ruggeri, Yara era ancora nella zona della palestra di Brembate da cui era appena uscita, probabilmente già in compagnia del suo assassino. Si cercò per settimane un indizio: tre cani molecolari in tre giornate distinte fiutarono le tracce della ragazzina nel cantiere edile di Mapello; era quello il primo dato oggettivo concreto sul quale gli investigatori potevano far riferimento. “Arrivati lì i cani impazzirono”, spiega bene la Pm, e ciò portò ad una deduzione: la piccola Yara prima di essere uccisa fu condotta in quel cantiere. Ci fu poi l’errore della Procura di Bergamo, che portò alla incarcerazione di Mohamed Fikri, il piastrellista marocchino che lavorava in quel cantiere, inchiodato da una frase intercettata e mal tradotta – “Perdonami Allah, non l’ho uccisa io” – arrestato per 3 giorni e poi scarcerato.

Fu solo con il ritrovamento accidentale del corpo della vittima, ormai mummificato, il 26 febbraio 2011 che si ebbe la svolta nelle indagini: il profilo genetico di un uomo commisto al Dna della 13enne fu infatti isolato sui leggings e sugli slip di Yara Gambirasio. Quella traccia mista del Dna per la Procura e i Ris di Parma era la chiave per risalire all’assassino di Yara Gambirasio. Era la firma del killer, e fu fatta analizzare in diversi laboratori, sia in Italia che all’estero. La pm Ruggeri spiega che proprio in un laboratorio di analisi genetiche degli Stati Uniti si determinò un elemento di quel profilo genetico che poi in futuro – ora lo sappiamo – si sarebbe rivelato esatto. Ignoto 1, ossia l’individuo al quale apparteneva quel Dna, aveva quasi certamente gli occhi molto chiari. Celesti o verdi, ma comunque chiarissimi. La eventualità che ciò fosse vero superava il 94% di possibilità, assicuravano gli esperti americani che avevano analizzato quella traccia di Dna. Era una fase delle indagini, questa, in cui la Procura di Bergamo procedeva a carico di ignoti. Non c’erano indagati né sospettati, ma i primi due elementi concreti sui quali sviluppare un approfondito e fondato filone di indagini sembrava ormai acquisito: l’uomo che aveva stordito Yara colpendola alla testa e ferendola con almeno 9-10 piccoli e poco profondi tagli al solo scopo di seviziarla, per poi abbandonarla nel campo di Chignolo d’Isola e lasciarla morire di stenti e freddo, era in qualche modo legato all’ambiente edile e aveva gli occhi molto chiari.

Caso Yara, l’arresto di Bossetti e il passato della madre: la ricostruzione dettagliata dei momenti cruciali dell’inchiesta, scrive martedì 28/03/2017 Michela Becciu su "UrbanPost". Domenica 26 marzo Sky Atlantic ha trasmesso la terza delle quattro puntate del documentario della Bbc dal titolo “Ignoto 1 – Yara, DNA di un’indagine”. Era il giugno del 2014 e la procura di Bergamo si apprestava a prelevare il dna di donne della bergamasca che in qualche modo avessero potuto avere rapporti confidenziali con Giuseppe Guerinoni; lo scopo era quello di trovare la madre di Ignoto 1, ovvero la donna che diede alla luce un figlio concepito fuori dal matrimonio con il padre biologico dell’assassino di Yara Gambirasio. La pm Letizia Ruggeri quando tutto sembrava perduto decise di tentare l’ultima carta, ovvero affidare a Carlo Previderè e la sua assistente Pierangela Grignani, genetisti dell’Università di Pavia, l’incarico di effettuare gli accertamenti scientifici sul profilo genetico di Ignoto 1 e compararli con i Dna delle donne possibili madri dell’assassino di Yara, prima che allo scadere dei tre anni di indagini si arrivasse alla loro archiviazione. Ciò che balzò agli occhi dei due scienziati fu un particolare importante: nel Dna nucleare di Ignoto 1 c’era una variante poco diffusa tra la popolazione della bergamasca. L’allele 26 era una caratteristica genetica assente nel profilo di Giuseppe Guerinoni, che non presentava quella variante, e per deduzione si ipotizzò dunque che l’allele in questione ad Ignoto 1 era stato trasmesso dalla madre. Attraverso l’analisi del Dna nucleare del killer della 13enne i due scienziati arrivarono ad una certezza: il Dna della madre ancora sconosciuta di Ignoto 1 aveva l’allele 26. E così fu. Furono prelevati i Dna a 532 soggetti femminili e consegnati nel febbraio 2014 al laboratorio di Pavia. Iniziò la comparazione dei profili e giunti al Dna 321 i due genetisti arrivarono alla svolta: il profilo di una signora chiamata ‘Ester Arzuffi’ aveva l’allele 26 e il suo Dna aveva una ‘piena compatibilità’ con quello di Ignoto 1. Previderè e la sua assistente stabilirono il rapporto di maternità tra Ester Arzuffi e Ignoto 1 e alle 20 del 13 giugno lo comunicarono alla pm Ruggeri: “Vedendo le colonne dei marcatori genetici di Guerinoni, Arzuffi e Ignoto 1 messi a confronto anche un profano della materia avrebbe notato che Ignoto 1 aveva metà del padre e metà della madre”, queste le sue parole.

Il pm Letizia Ruggeri dispose accertamenti sulla signora Arzuffi, al fine di ricostruire il suo passato e conoscere la sua vita. Si scoprì che la donna aveva tre figli: il più giovane Fabio, e due gemelli, Laura Letizia e Massimo Giuseppe. Ester aveva vissuto insieme al marito a Ponte Nossa, proprio nella stessa via in cui visse anche Giuseppe Guerinoni e famiglia. Per chi indagava non poteva essere l’ennesima coincidenza. Il secondo passo fu quello di capire chi tra i figli della donna era quello che interessava le indagini: Massimo Bossetti fu pedinato perché prima di esporsi e procedere con il fermo occorreva trovare certezze, capire le sue abitudini e conoscere qualcosa di più sulla sua vita. Fu allora che gli investigatori scoprirono che il soggetto lavorava nell’edilizia: Massimo Bossetti era un muratore e lavorava il ferro. Come non ricollegare questo importante particolare al primo indizio di questa indagine che anni prima indirizzò da subito l’inchiesta nel cantiere edile di Mapello? Seguirono altri indizi emersi nelle indagini e riconducibili a Massimo Bossetti: la dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologa che aveva eseguito l’autopsia sul corpo di Yara, isolò sugli indumenti della vittima polveri di calce e sfere metalliche. Questo fu un ulteriore elemento che convinse gli inquirenti che non si trovavano di fronte a mere coincidenze, bensì a veri indizi di colpevolezza a carico di Bossetti. A quel punto si attuò il passaggio più importante dell’indagine: il prelievo del Dna al muratore attraverso un posto di blocco in prossimità della sua abitazione, finalizzato a sottoporre gli automobilisti di passaggio all’alcoltest. Accadde il giorno prima dell’arresto di Bossetti: lui transitava a bordo della sua Volvo insieme alla moglie Marita Comi e i tre figli, e venne bloccato per il controllo con l’etilometro che fu ripetuto due volte. Lui scherzava, sicuro del risultato negativo del test, e dopo il controllo si allontanò in auto tranquillo e sorridente.

Nel laboratorio di analisi dell’Università di Pavia ci fu dopo poche ore la conferma: il suo Dna con quello di Ignoto 1 coincidevano perfettamente. Contestualmente alla scoperta il pm avrebbe voluto approfondire la posizione di Bossetti e inserirla ancor meglio in quel quadro probatorio, osservare il suo comportamento, ma “la notizia era impossibile da tenere segreta, usciva fuori” e giunse alla stampa che, letteralmente, ‘impazzì’ e assediò la Procura. Si procedette dunque con l’arresto di Bossetti.

Massimo Bossetti fu tratto in arresto il pomeriggio del 16 giugno 2014, mentre lavorava alla ristrutturazione del tetto di una villetta. Quando i carabinieri in borghese giunsero in prossimità del cantiere edile notarono che l’uomo alla loro vista “diventò particolarmente irrequieto, si comportava quasi come un animale accerchiato”, diversamente dagli operai suoi colleghi che stavano lavorando sul posto insieme a lui. Il carabiniere che salì sull’impalcatura per bloccarlo racconta che “Bossetti incrociò i miei occhi, si mise a correre infilandosi nella botola per scendere giù ma lì fu bloccato dai miei colleghi. Era piccolo, inerme, spaventato … ma consapevole che eravamo lì per lui”.

Nell’immediatezza dell’arresto Bossetti era come pietrificato e incredulo, all’avvocato d’ufficio che gli era stato assegnato si limitò a dire che lui non c’entrava niente con il delitto di Yara Gambirasio, dando per scontato che di lì a poco sarebbe tornato a casa. Il muratore non sapeva di essere un figlio illegittimo, e la madre Ester, pur smentita dalla Scienza, negò – e continua a farlo – questa evidenza. Ma non era così: il suo Dna sugli slip e sui leggings della vittima andava prima spiegato, capito, risolto, e pesava su di lui come un macigno. Durante il primo interrogatorio Bossetti su consiglio del suo legale si avvalse della facoltà di non rispondere, ma successivamente rispose a tutte le domande del Gip e del Pm. “Diede risposte evanescenti e strampalate”, commenta così il pm Ruggeri quell’interrogatorio. Bossetti il giorno del delitto lavorò nel cantiere al Palazzago solo di mattina, poi si allontanò alle 14:30 per acquistare materiale edile e non vi fece più ritorno. Bossetti alle 17:45 del 26 novembre 2010 era a Brembate con il suo furgone, a quell’ora agganciò la stessa cella telefonica del centro sportivo dove si trovava Yara, dunque vittima e presunto carnefice erano vicini. Dopo quella telefonata Bossetti spense il cellulare per riaccenderlo l’indomani alle 7:34. A collocare l’indiziato nei pressi della palestra anche i filmati delle telecamere di videosorveglianza, che immortalarono il ripetuto passaggio (interrotto subito dopo la scomparsa di Yara) di un furgone cassonato Yveco che il processo ha stabilito essere proprio quello in uso al carpentiere all’epoca dei fatti.

A dieci giorni dall’arresto entra a far parte del pool difensivo di Bossetti l’avvocato Claudio Salvagni, la cui testimonianza è raccolta nel documentario di cui in oggetto. Il legale ha evidenziato la mediaticità del caso innescata a suo dire dal tweet dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, che il giorno dell’arresto di Bossetti scrisse un post in cui riferendosi a lui usò le parole “assassino di Yara”, dimentico della presunzione di innocenza per qualunque indagato fino al terzo grado di giudizio. Un episodio che a suo dire influenzò irreversibilmente l’opinione pubblica colpevolista nei confronti del suo assistito. “Tante cose non quadrano in questa indagine scientifica. Una su tutte la mancanza del Dna mitocondriale (linea materna ndr) nel profilo genetico di Ignoto 1. Nel nostro caso non è stata trovata una parte di Dna: quello ritrovato è un pezzo di Dna non quello completo”, così Salvagni.

Un ragionevole dubbio, scrive Rodocarda il 3 aprile 2017 su “La Valle dei Templi”. Alla terza su quattro puntate del caso “Yara” in onda su Sky comincio ad avere i brividi. Avevo seguito come tutti il caso, e come tutti con interesse e attenzione, ma mi mancavano molti dettagli. E ora tremo al pensiero che ancora una volta una persona possa essere stata condannata all’ergastolo senza prove sufficienti. Il docufilm, che probabilmente vuole essere celebrativo dell’impegno con cui le forze dell’ordine hanno cercato e trovato il presunto colpevole, in realtà ottiene – almeno in me – sensazioni opposte. A fronte di una incredibile e per certi aspetti stupefacente capacità professionale e investigativa di Polizia, Carabinieri e laboratori scientifici, c’è ancora una volta un’incapacità di base di applicare metodi veramente scientifici alla ricerca della “verità”. C’è una poco opportuna celebrazione della personalità del PM, che forse poteva evitare di farsi riprendere mentre arriva in procura in canotta e motocicletta, come fosse Starsky e Hutch. C’è un continuo mantra da parte di tutte le protagoniste femminili “anche io sono mamma”, come se questo fosse una garanzia di maggiore attenzione mentre io lo leggo come un tasso di emotività pericoloso. C’è un’ostinazione senza precedenti, giustificata con la necessità e la promessa di dare alla famiglia una risposta, ma che diventa in realtà un puntiglio professionale personale di tutte le parti in gioco, e anche l’obbligo di giustificare i soldi spesi in una caccia all’uomo durata 4 anni. C’è un’insopportabile “fishing expedition” condotta su larga scala dalla magistratura con la catalogazione del DNA di centinaia se non migliaia di persone. E poi c’è Massimo Bossetti, un muratore di 44 anni, incensurato, con una bella famiglia. Un uomo tranquillo, mai un problema, con una sorella gentile ed educata, una madre e un padre anziani. C’è la procura che cerca pezze d’appoggio per supportare una prova debole, quella del DNA, e monta un filmato in cui si vede un camion come quello del Bossetti ripreso più volte da telecamere di sorveglianza, ma poi si scopre che era a scopo dimostrativo, che non sono riprese dello stesso camion e non ci sono prove che sia del Bossetti. C’è Bossetti che nega anche dopo mesi e mesi di isolamento di avere ucciso Yara e non riescono a farlo crollare mai. E non parliamo di un genio del male, parliamo di un povero muratore, un uomo semplice. C’è il DNA che dice che la madre di Bossetti avrebbe avuto una storia con tale Guerinoni, e insomma gli dicono che è figlio di una poco di buono, ma lei nega, e la moglie di lui conferma che era a casa il giorno del delitto ma nessuno crede alla famiglia di Bossetti. C’è il DNA mitocondriale, che non si sa dove sia finito, visto che non si trova mai. Ci sono decine e decine di altri DNA trovati sul corpo della povera Yara che non si sa di chi siano, indice di una contaminazione evidente. Alla fine c’è una condanna all’ergastolo, in primo grado. E poi ci sono io, che spengo la televisione, e tutte le mie certezze si trasformano in dubbi e mi chiedo perché gli stessi dubbi non ce li abbia chi deve decidere della vita o della morte delle persone.

Caso Yara Massimo Bossetti: il movente del delitto e il furgone nei pressi della palestra, lo scontro accusa/difesa, scrive martedì 4/04/2017 Michela Becciu su "UrbanPost". Domenica 2 aprile Sky Atlantic ha mandato in onda la quarta ed ultima puntata del documentario sul caso Yara Gambirasio realizzato dalla Bbc dal titolo “Ignoto 1 – Yara, DNA di un’indagine”. La ricostruzione dei fatti parte dal 26 febbraio 2011, quando fu ritrovato il cadavere di Yara. La giovane vittima stringeva tra le mani dei ciuffi d’erba, per gli inquirenti la prova del fatto che la sua agonia avvenne proprio lì, nel campo di Chignolo. Il filmato si incastra con i giorni successivi all’arresto di Bossetti e i suoi incontri in carcere con la moglie: Marita Comi in carcere incalza il marito e gli chiede perché il suo furgone è stato ripreso circolare ripetutamente intorno al centro sportivo dove si trovava Yara: “Sei passato lì, ti vedono passare per 55 minuti …” ma Bossetti continua a negare ogni coinvolgimento nella vicenda e ripete di non aver mai visto né conosciuto la 13enne. Viene dato largo spazio e voce, in questa quarta ed ultima puntata del documentario, alla tesi del pool difensivo del muratore bergamasco, intervistati suoi protagonisti e analizzate le obiezioni mosse al quadro accusatorio messo in piedi dalla Procura. Inizia l’avvocato Claudio Salvagni: “Da subito l’opinione pubblica fu quasi completamente convinta della colpevolezza del signor Bossetti … per difenderlo abbiamo chiesto, lavorando tutti gratis, la collaborazione di professionisti in ciascun settore”. Continua l’avvocato: “Il genetista Marzio Capra, perché l’asse su cui ruotava l’inchiesta e il processo era il Dna; il criminologo investigativo Ezio Denti, esperto in informatica e computer; e Roberto Bianco”, coordinatore della Difesa incaricato di fare da tramite fra la parte legale e quella tecnico-scientifica. Il collega avvocato Paolo Camporini rimarca l’assunto dal quale il team difensivo partì per dare corpo alla sua strategia: “Quella traccia genetica non basta, non è sufficiente per condannare Bossetti”.

Dopo l’arresto la Procura volle approfondire la conoscenza della vita, delle abitudini e personalità dell’indagato: furono sequestrati diversi oggetti in casa del muratore, in primis il suo furgone, un Yveco Daily, dove la Scientifica – erano ormai trascorsi 4 anni dal delitto – non trovò tracce biologiche della vittima. La Procura era alla ricerca di un possibile movente dell’omicidio. Il pm Ruggeri contestò a Bossetti anche le aggravanti della crudeltà e delle sevizie: “Compì uno scempio, Yara fu uccisa per uno scarico d’ira dell’assassino, probabilmente da lei rifiutato durante un maldestro tentativo di approccio sessuale”. Letizia Ruggeri tuttavia rimarca l’impossibilità di accertare con elementi oggettivi il movente sessuale di questo delitto, rimasto dunque solo ipotizzato e presunto. “Si è trattato di un omicidio compiuto in modo ‘sgangherato’ …”, spiega la pm alla luce della natura delle ferite della vittima, colpita con arma da taglio ma non per essere uccisa, in quanto la morte della piccola Yara giunse dopo ore di agonia e per il freddo. “Sui pc di Bossetti abbiamo visto che a partire dal giugno 2010 (data dell’acquisto del computer) fino al 16 giugno 2014 (giorno dell’arresto di Bossetti e del sequestro dei suoi dispositivi elettronici) c’erano ricerche su Google di siti pedopornografici, ragazzine giovani, ragazzine con capelli rossi, ragazzine vergini. Molte di queste ricerche erano state fatte nel maggio 2014, prima dell’arresto”. Per quanto invece riguarda le scene di sesso consultate via web da Massimo Bossetti, spiegano gli inquirenti, esse “avevano come protagoniste femminili donne che simulavano di essere più giovani di quanto fossero in realtà, ma non veramente minorenni”, materiale pornografico, dunque, ma non pedopornografico. Ipotesi e accuse queste sempre radicalmente contestate dalla Difesa, che descrisse Bossetti come padre e marito modello “che mai avrebbe potuto macchiarsi di un omicidio di questa natura”. Argomentazioni, le loro, ritenute dalla pm Ruggeri inconsistenti e affatto convincenti, come lei stessa spiega: “Tutto detto per fare teatro … hanno cercato di dimostrare che un uomo come Bossetti non poteva aver commesso quel tipo di omicidio e invece no, a lui piacevano le ragazzine ed era assettato dal sesso …”.

Un altro aspetto irrisolto e mai chiarito dalle indagini né dal processo di primo grado è la modalità secondo la quale Massimo Bossetti avrebbe fatto salire o caricato Yara Gambirasio sul suo furgone. Nessun elemento a suffragio di ciò è stato infatti mai raccolto e anche la pm nella sua arringa finale al processo ammise questo ‘pezzo mancante’ nella inchiesta. Yara conosceva Bossetti e salì sua sponte sul furgone oppure – sempre parlando per ipotesi ed entrando nell’ottica dell’accusa – Bossetti la caricò sul mezzo a forza? E se sì come, quando e in quanto tempo? Proprio su questi buchi investigativi la Difesa ha fatto sentire la sua voce, rimarcando la farraginosità dell’impianto accusatorio, e la farà sentire ancor di più nel processo di secondo grado che avrà inizio il prossimo 30 giugno. Molto discusso anche il video del furgone ‘confezionato’ – su ammissione stessa dei carabinieri – per esigenze di comunicazione alla stampa in cui vennero giustapposti i vari passaggi del mezzo di cui a detta della difesa non si può dire con certezza fosse quello in uso al Bossetti. “Quel filmato non è un falso, ma una collazione dei vari spezzoni dei video”, ha precisato la pm.

Processo Bossetti, Avv. Salvagni: “La data dell’appello l’ho saputa dai media. Chiederemo perizia sul dna”, scrive il il 30 marzo 3017 "Tag24”. Senza fine. Il delitto Yara Gambirasio non sembra volgere al termine. Si trascina tra alti e bassi e colpi di scena. L’ultimo fa un percorso inverso, cioè parte dai media invece di approdarci. Cos’è? Lo ha raccontato l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei legali di Massimo Giuseppe Bossetti, che è intervenuto ai microfoni della trasmissione “Legge o Giustizia” del nostro Matteo Torrioli. Ecco di cosa si tratta, cosa ha dichiarato in diretta su Radio Cusano Campus, l’emittente ufficiale dell’ateneo. La data del processo d’apello di Bossetti è uscita. Ma dove? Sui giornali! Non ha molto gradito questo iter l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei legali dell’imputato. Ecco come ha commentato il fatto su Radio Cusano Campus: Per il fatto di aver appreso da giornali e tv la data del processo d’appello fissato per il 30 giugno: “Questa mattina sentendo il tg regionale ho appreso che la Corte d’Assise d’Appello di Brescia ha fissato l’udienza per l’apertura dell’appello al 30 giugno. Credo sia ufficiale perché noi, di ufficiale, non abbiamo nulla. Non riesco a descrivere il mio stato d’animo. La forma diventa sostanza. Siamo un Paese democratico, dove tutti invocano il rispetto delle regole, dove il procuratore generale ha chiesto misure più ferree nel rapporto tra tribunali e media, e poi si leggono sui giornali notizie che dovrebbero essere conosciute in primis dagli addetti ai lavori”. Circa la tutela del suo assistito: “Non è un atteggiamento rispettoso per l’imputato e per i professionisti che lavorano a questo caso. La giustizia è una cosa seria. Per me il processo è un momento sacro. Quanto accaduto fotografa, purtroppo, l’Italia”. Un nuovo appello sulla perizia sul dna: “Saremo pronti per reiterare tutte le nostre istanze. Siamo convinti che, quanto meno, andrebbe accordata una perizia sul dna per fare chiarezza su tutte le anomalie che ci sono”.

Yara, Bossetti sfida la Corte: non ho paura di un altro test del Dna. L’avvocato Salvagni e l’ipotesi di un’altra mamma di Ignoto 1 che non sia Ester: «In carcere Massimo è convinto che sarà trovato il vero colpevole», scrive Giuliana Ubbiali il 30 marzo 2017 su “Il Corriere della Sera”. Poche udienze oppure almeno tre mesi. La durata del processo a Massimo Bossetti, per l'omicidio di Yara Gambirasio, dipende da una risposta: sì o no alla perizia sul Dna chiesta dalla difesa. Deciderà la Corte d’Assise d’Appello presieduta dal giudice Enrico Fischetti, a latere il consigliere Massimo Vacchiano e sei giudici popolari, che si riunirà il 30 giugno. Potrebbe risolversi tutto in un paio di udienze: dopo il giudice relatore, parleranno il sostituto procuratore generale, gli avvocati della famiglia Gambirasio, i difensori dell’imputato. Ore o giornate. La Corte entrerà in camera di consiglio per uscire con la sentenza o un’ordinanza sulla perizia. Dove la Corte del primo grado indica certezze, l’avvocato Claudio Salvagni solleva di nuovo dubbi.

C’è ancora materiale per nuove analisi?

«Certo, è stato confermato in udienza».

È lo stesso isolato dai campioni di slip e leggings già analizzati, oppure è su altri frammenti di indumenti dove la quantità e la qualità potrebbero essere inferiori?

«Dovrebbe essere materiale già estratto dagli stessi campioni, ma uso il condizionale. Solo la Procura lo sa, noi non abbiamo visto nemmeno i reperti».

Se la Corte d’Appello disponesse la perizia ma non emergesse nessun risultato, perché il materiale non basta, che cosa accadrebbe?

«Lo dice il diritto: nel momento in cui viene disposta una perizia, significa che le anomalie sollevate dalla difesa meritano una risposta. Se la risposta non vene data, non si può condannare residuando, appunto, il dubbio».

Sull’assenza di Dna mitocondriale, che secondo voi significa che c’è solo mezzo profilo genetico, le motivazioni della condanna all’ergastolo sono tranchant: «La Corte ritiene che il mancato rinvenimento del mitocondriale non sia in grado di inficiare l’univoco risultato delle analisi sul Dna nucleare».

«Il processo è tutto in questa riga. Se questa evidenza processuale non inficia un risultato scientifico va spiegato perché, altrimenti è solo un’affermazione di principio laddove noi obiettiamo che in natura non si è mai verificato un caso simile».

La Corte lo spiega scrivendo che il Dna nucleare, l’unico che identifica, è di Bossetti: «Ogni volta che sugli slip e sui pantaloni è emerso un profilo maschile accanto a quello della vittima è sempre stato unicamente dell’imputato».

«Aggiungo: unicamente per la componente nucleare. Come è vero che il nucleare serve a identificare, è altrettanto vero che il mitocondriale serve per escludere».

Quindi di chi è il Dna sugli indumenti della vittima?

«Io non sono la Procura, che deve indagare. Io dico che, o a questa anomalia viene data una risposta soddisfacente, o è inaccettabile. Vado oltre e dico: nessuno ha preso in considerazione che il professor Giardina non abbia sbagliato?»

In che senso?

«Ha confrontato i Dna di 532 donne della Valle Seriana con quello di Ignoto 1 per trovare la mamma, ma non è emersa. Dunque abbiamo una certezza: indagando sulla traccia 31G20 la mamma di Ignoto 1 non è Ester Arzuffi (era nelle 532 donne ndr). Mi domando allora come Massimo Bossetti possa essere Ignoto 1».

Non è emersa attraverso la comparazione del mitocondriale. Analizzando invece il nucleare, dato al 50% dal padre e al 50% dalla madre, Ester Arzuffi risulta la mamma di Ignoto 1.

«Ma la madre non può dare solo un pezzo. I nostri genetisti, e altri anche di fama internazionale, confermano l’assunto difensivo: se in Italia passerà questo concetto, saremo gli unici al mondo a dare valore scientifico a un risultato così anomalo».

Allora che ipotesi fate? Il vostro consulente Marzio Capra in tivù ha detto che in astratto potrebbe esserci un altro figlio illegittimo di Guerinoni e figlio di un’altra donna.

«Il famoso allele tanto raro (scoperto a Pavia, caratterizza il Dna di Ester Arzuffi ndr.), appartiene a 2 donne sulle 532. Dunque 4 su 1.000».

Dunque?

«Ci potrebbe essere un’altra donna con un Dna estremamente simile a quello della signora Arzuffi che ha avuto un figlio da Guerinoni e quello è il vero Ignoto 1. In questa vicenda, se c’è una cosa certa è il padre; è la mamma incerta».

Allora vale anche il ragionamento contrario: quella donna avrebbe dato a Ignoto 1 il mitocondriale ma non il nucleare, che è di Ester.

«No, perché potrebbe avere questo mitocondriale e un nucleare molto simile».

Pare che il vostro investigatore Ezio Denti bazzichi in valle. State svolgendo indagini difensive alla ricerca di questa altra presunta donna?

«Sarebbe come cercare una Maria in tutta Italia».

Ma lo state facendo o no?

«Non lo so, ma non metto limiti all’indagine di Denti. In questo momento, le attività collaterali di ricerca di un ipotetico altro Ignoto o di piste alternative non interessano alla difesa. Il ricorso si basa su una sentenza e su un atto d’appello, il resto rimane fuori e potrebbe tornare utile in una ipotetica richiesta di revisione post Cassazione».

Mette le mani avanti?

«No, dico che questa è una difficilissima partita a scacchi in cui non bisogna sbagliare nessuna mossa».

Che cosa pensa dell’uscita di Ester Arzuffi (la possibile inseminazione artificiale a sua insaputa ndr)?

«Non mi permetto di giudicare. A noi non cambia nulla».

A giugno è passato quasi un anno dalla sentenza di condanna. Bossetti come sta aspettando l’appello?

«Non ha mai avuto un tentennamento. Dice che se fosse stato lui avrebbe confessato subito. Il fatto che chieda la perizia dovrebbe far pensare. Ne ho parlato tanto con lui e gli ho detto: “Massimo, i reperti ci sono ancora, vuoi che la chiediamo, sei sicuro? Se lì dentro ci sei tu e si scopre che non c’è nessun errore buttano la chiave”. Lui ha detto: “Voglio farla, perché non ho paura della verità”».

Bossetti ha messo in conto che potrebbe finire di nuovo con l’ergastolo?

«Sì, ha l’ha messo in conto, ma che cosa può fare? Dice: “Confido che mi concedano la perizia e vengano date risposte. Sono convinto che si troverà il vero colpevole”».

In quel caso, con il senno del poi, tornando indietro chiederebbe l’abbreviato?

«No, non sarebbe cambiato nulla. Avrebbe preso comunque l’ergastolo, non ci sarebbe stato spazio per la difesa e per quello che è emerso in dibattimento. L’appello dopo un abbreviato è con le armi spuntate».

Quindi avanti fino anche a una eventuale revisione del processo?

«Faremo sempre di tutto e di più per dimostrare la sua innocenza».

Caso Yara, Bossetti ai giudici: "Non insabbiate le prove". E chiede la Super Perizia. Il muratore di Mapello scrive una lettera alla Corte d'Appello, in vista del processo che inizierà il prossimo 30 giugno, scrive il 31 marzo 2017 “Il Giorno”. Il 30 giugno inizierà il processo d'Appello per Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo in primo grado per l'omicidio di Yara Gambirasio. In vista di questa data, il muratore di Mapello ha inviato una lettera ai giudici della Corte. "Signori giudici - si legge nella missiva che va in onda questa sera nella trasmissione televisiva 'Quarto Grado' - vi chiedo (...) di non accecarvi, occultando, insabbiando, ormai evidenze, prove tangibili sotto gli occhi del mondo intero e se veramente come me avete sete di verità e giustizia, allora dimostratemelo". E ancora: " Concedetemi la visione di tutti i reperti in possesso delle autorità competenti che ancora oggi alla mia difesa non è mai stata consentita la possibilità nel visionarli e garantitemi (...) di poter effettuare una Super Perizia affidandola ad analisti che non siano né dell'accusa, né della difesa, ma imparziali, affinché si possa fugare ogni ombra di dubbio e garantirvi la certezza nella mia innocenza ed estraneità ai fatti". "La società - ha concluso Bossetti - ha sete di verità se non volete farlo per me, facciamolo tutti per Yara, la povera Yara, l'angelo di tutti noi, che malvagiamente, sadicamente è stata strappata dalla sua innocente quotidianità".

Yara, lettera di Bossetti: "Serve la super-perizia". In vista del processo d'Appello per l'omicidio di Yara il prossimo 30 giugno, Massimo Bossetti ha scritto una lettera ai giudici, scrive Franco Grilli, Sabato 01/04/2017, su "Il Giornale". Massimo Bossetti continua a dichiarare la sua innocenza. In vista del processo d'Appello per l'omicidio di Yara il prossimo 30 giugno, il muratore di Mapello ha scritto una lettera ai giudici. Il contenuto del messaggio è stato rivelato durante l'ultima puntata di Quarto Grado su Rete 4: "Non insabbiate prove tangibili sotto gli occhi di tutti, concedete la visione dei reperti in possesso delle autorità, fate effettuare una superperizia", "fatelo per Yara", scrive Bossetti. Poi aggiunge: "Possiate una volta per tutte far luce, chiarezza, trasparenza su tutto. In me c'è tanta sofferenza, la sofferenza pura di chi si interroga e non trova risposte se non altro dolore". Bossetti poi parla delle indagini: "Vi chiedo di non accecarvi occultando e insabbiando evidenze, prove tangibili sotto gli occhi del mondo intero. Se veramente come me avete sete di verità e giustizia, allora dimostratemelo", "concedetemi la visione di tutti i reperti in possesso delle autorità competenti che ancora oggi alla mia difesa non è mai stata consentita la possibilità di visionare e garantitemi col massimo vostro rispetto di poter effettuare una superperizia affidandola ad analisti che non siano né dell'accusa né della difesa, ma imparziali, affinché si possa fugare ogni ombra di dubbio e garantirvi la certezza nella mia innocenza ed estraneità ai fatti". Infine parla esplicitamente di Yara: "La società ha sete di verità se non volete farlo per me facciamolo tutti per Yara, la povera Yara, l'angelo di tutti noi che malvagiamente, sadicamente, è stata strappata dalla sua innocente quotidianità privandola di tutto quello che lei amava e a distanza di anni, lunghi anni ancora oggi lassù aspetta il suo dovuto riposo in pace". "Spero e mi auguro che la verità, qualunque sia, possa trionfare senza la minima ombra di dubbio. Lo si deve a Yara e anche a tutti noi, che abbiamo trepidato per la sua sorte".

Massimo Giuseppe Bossetti, legali: “Forse ha avuto un contatto con Yara Gambirasio”, scrive la Redazione di Blitz Quotidiano il 7 aprile 2017. Massimo Giuseppe Bossetti potrebbe aver avuto un contatto con Yara Gambirasio. I legali del muratore di Mapello, condannato all’ergastolo per l’omicidio della ragazzina di 13 anni di Brembate di Sopra, spiegano che nel processo potrebbe esserci stato un errore di valutazione e che il contatto tra Bossetti e Yara potrebbero esserci stato, ma non implica che sia lui il violento assassino. Gli avvocati di Bossetti parlano col settimanale Giallo e spiegano le motivazioni del ricorso in appello, basate sull’assenza di valutazione della pluralità di indizi trovati sul corpo della vittima. Dicono i legali: “Non c’è stata una valutazione della pluralità di indizi alternativi rinvenuti sul corpo della vittima, trasformando così, senza alcun altro riscontro, un possibile contatto in un’aggressione omicida”. Una frase che però nasconde una grande contraddizione, secondo il settimanale, dato che viene ammesso per la prima volta la possibilità di un contatto tra il condannato e la vittima: “Nel caso in esame, elementi certi riferibili alla collocazione e alla qualità della traccia, per nulla degradata a differenza del contesto in cui è stata rinvenuta, fanno ritenere un contatto successivo, e non di poco, al contesto omicidiario”. Secondo gli avvocati ci sarebbero addirittura delle mail tra i carabinieri che hanno condotto le indagini e una società e si chiama Hacking Team dove si parlerebbe di creazione di Dna artificiale, con lo scopo di incastrare Bossetti. Proseguono poi una serie di punti nel ricorso: come il furgone di Bossetti, la presenza di materiale edile nei vestiti di Yara, elementi che sono stati verificati più e più volte in passato, e hanno sempre condotto al muratore, ma che i suoi legali sostengono poter essere riferibili ad altri soggetti, come la famiglia della ragazzina, la sua insegnante di ginnastica e il custode della palestra. E per ultimo, i legali sostengono che il muratore di Mapello sia stato torturato durante le indagini dagli inquirenti, tanto da invitarli a “aprire i codici e spegnere le tv”.

Caso Yara: Massimo Bossetti ha un fratellastro assassino? La tesi della sua difesa, scrive martedì 11/04/2017 Michela Becciu su "Urban Post". Massimo Bossetti è innocente e ci sarebbe un suo fratellastro assassino in giro per la Bergamasca. Questa l’ipotesi avanzata dai legali del muratore bergamasco che verrà esposta in aula nel processo d’Appello che avrà inizio il Corte d’Assise a Brescia il prossimo 30 giugno. Tutto ruoterà – anche nel processo di secondo grado – sulla traccia genetica rinvenuta sugli slip e sui leggings della vittima: il Dna di Ignoto 1 che per la Corte di Bergamo appartiene a Massimo Giuseppe Bossetti. Come obiettano i difensori del carpentiere, di quel profilo genetico solo il Dna nucleare (linea paterna) corrisponde a quello dell’imputato, in quanto la parte mitocondriale – che dovrebbe corrispondere cioè ad Ester Arzuffi – non è stata rinvenuta. In quella traccia c’è sì un Dna mitocondriale, ma appartiene ad un soggetto femminile tutt’oggi sconosciuto. Per fugare questi dubbi la difesa di Bossetti chiederà dunque una super perizia sul Dna: l’ipotesi è che il Ignoto 1 sia sì figlio di Guerinoni, ma abbia una madre diversa dalla Arzuffi. Un altro figlio illegittimo dell’autista di Gorno morto nel ’99, dunque, che aveva la fama di essere un Don Giovanni e avrebbe messo incinta diverse donne in quanto coinvolto in diverse relazioni extraconiugali. Per i difensori del muratore di Mapello, dunque, la linea che sarà portata avanti nel processo che sta per iniziare metterà non solo in discussione la validità delle indagini svolte dalla Procura di Bergamo, ma anche l’attendibilità del dato sul Dna nucleare di Ignoto 1, giudicato compatibile con quello di Bossetti al 99,999% (delle 34 regioni genetiche corrispondenti fra i due profili solo 17 sarebbero state giudicate valide e prese in considerazione nel processo di primo grado, come specificato dal genetista consulente di Bossetti il 9 aprile, durante la diretta di Quarto Grado), ma che per gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini non sarebbe sufficiente a dimostrarne la piena corrispondenza: quella percentuale, infatti, proverebbe che in quella traccia genetica potrebbero esserci almeno altre 20 donne. L’avvocato Claudio Salvagni, ospite in studio a Quarto Grado – La domenica, domenica 9 aprile ha parlato della straordinaria mole di coincidenze che sono emerse dalle indagini, ribadendo che per lui e i colleghi del pool difensivo questa inchiesta si fonda su un madornale errore che tiene ingiustamente in carcere dal giugno 2014 il suo assistito, Massimo Bossetti. “Questa vicenda è veramente incredibile, questa storia ha rivelato tanti colpi di scena e noi difensori crediamo che ci sia stato un clamoroso errore. Lo diciamo così, non per difendere a spada tratta il signor Massimo Bossetti a prescindere dai dati oggettivi, ma perché crediamo nella giustizia. La nostra richiesta di giustizia va in direzione della difesa di Bossetti ma anche di qualunque altro imputato”. Salvagni ha inoltre rivelato che Bossetti è sì provato dal carcere ma nel contempo si mostra combattivo e fortemente convinto che nel processo alle porte i nuovi accertamenti che la Corte dovrebbe accordare alla difesa faranno emergere la verità e la sua totale estraneità ai fatti contestati.

Massimo Bossetti, la lettera della madre Ester Arzuffi a Papa Francesco: "Santità, pregate per lui", scrive il 16 Aprile 2017 "Libero Quotidiano". "Santità, pregate per mio figlio, pregate per me". Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti, l'uomo in carcere per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha scritto una lettera a Papa Francesco. Un appello che poi è stato postato anche sulla pagina Facebook della figlia Laura Letizia, gemella dell'uomo condannato al carcere a vita in primo grado. La lettera della Arzuffi è scritta a mano, e vi si legge: "Chi si permette di scriverVi è una madre. Una madre che da anni vive, senza nessuna tregua né requie, ore e giornate interminabili di dolore, ansia, angoscia. Sono la mamma di Massimo Bossetti. Mio figlio è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio della piccola Yara Gambirasio. Ora è in attesa del processo d'appello. Io prego e trepido per lui - sottolinea -, ma la speranza non mi ha abbandonato". Il punto è che la Arzuffi afferma di credere "fermamente" che "su questa terra esista ancora una giustizia. Soprattutto credo nella completa innocenza di mio figlio. Gli ho dato la vita. Insieme con mio marito l'abbiamo cresciuto con tutto il nostro amore, senza mai venire meno ai nostri doveri di genitori. Ho sempre conosciuto i pensieri, i sentimenti, l'animo di mio figlio. Per questo sono assolutamente sicura di lui". Dunque, la madre di Bossetti specifica: "Non chiedo alla Santità Vostra niente che non sia la preghiera. Mi affido alle Vostre preghiere. Nell'imminenza di questa Santa Pasqua, Festa di pace e di amore, mi affido a Voi, Santità, con tutto il mio dolore, la mia ansia, la mia speranza. Affido mio figlio, un uomo buono e generoso, perché venga restituito ai suoi affetti". E ancora: "Vi offro e Vi supplico di accogliere tutte le mie sofferenze perché Voi, Santità, possiate benignamente pregare per Massimo, per me, per tutti coloro che amiamo e ci amano". Un disperato appello, quello di una madre che ha visto il figlio condannato all'ergastolo. Un modo per trovare un briciolo di speranza nel fatto che all'appello, fissato per il 30 giugno, il suo Massimo possa tornare a casa.

Fratellastro Bossetti: chi è la donna con cui Guerinoni avrebbe avuto relazione clandestina, scrive sabato 29/04/2017 Michela Becciu su "Urban Post". Ipotesi fratellastro Massimo Bossetti: chi è la donna con cui Guerinoni, padre biologico del carpentiere condannato in primo grado per il delitto, avrebbe avuto relazione clandestina? Caso Yara Gambirasio, a Quarto Grado delle novità relative alla ipotesi secondo la quale Massimo Bossetti potrebbe avere un fratellastro, nato dall’unione fra Giuseppe Guerinoni e un’altra donna della bergamasca che non è Ester Arzuffi, madre del muratore condannato in primo grado all’ergastolo per il delitto della ginnasta di Brembate. Come emerge dalle carte dell’inchiesta, l’ex parroco di Gorno (piccolo paese della Val Seriana dove il padre biologico di Bossetti visse) sarebbe a conoscenza di fatti che potrebbero svelare l’arcano, in quanto anni fa avrebbe raccolto la confessione di una donna che gli disse di aver dato luce ad un figlio nato dalla relazione clandestina proprio con l’autista morto nel ’99. Una verità spinosa e ingombrante, che il sacerdote avrebbe scelto di non rivelare alla magistratura per rispettare il segreto confessionale e che molto probabilmente il religioso mai renderà nota. Chi è questa misteriosa donna che avrebbe dato alla luce un altro figlio di Guerinoni? Sturlese Tosi per Quarto Grado l’avrebbe scoperto attraverso approfondite indagini sul territorio: la donna in questione sarebbe conosciuta in zona con il soprannome La frissina o La trissina, originaria della zona di Riso, vicino Gorno, apparterrebbe ad una famiglia già attenzionata dagli inquirenti nella fase di indagine in cui gli abitanti della zona venivano sottoposti al prelievo del Dna nucleare per la comparazione. L’esistenza di questa donna emerge anche dalla intercettazione ambientale fatta alla moglie di Guerinoni che pare fosse al corrente di presunte scappatelle del marito, una delle quali fu proprio lui a confidarle (“Mi disse: Laura, scusami, ho fatto lo scemo”). Se questa presunta paternità di Guerinoni dovesse essere accertata in futuro, anche alla luce del processo d’Appello che avrà inizio il prossimo 30 giugno, tuttavia non inficerebbe il dato oggettivo che ad oggi inchioda Massimo Bossetti: qualora infatti esistesse un suo fratellastro (o anche più d’uno) ciò non eliminerebbe la presenza del suo Dna nucleare (che le indagini e la scienza hanno appurato essere per il 50% corrispondente al Dna di Guerinoni e per l’altra metà a quello di Ester Arzuffi) sugli slip e sui leggings della vittima. Il dato, fino a prova contraria, sarà sempre incontrovertibile.

Difendo la mia categoria! Difendo la categoria dei biologi e, nel particolare, la categoria dei biologi forensi!!! Scrive il 29 aprile 2017 Eugenio D’Orio sul suo profilo facebook. Nel post di seguito, il giornalista non si limita a "riportare fatti" come dovrebbe, bensì si "lancia" in discussioni e deduzioni proprie della materia di genetica forense. Ciò è inammissibile! Una cosa è il diritto all'informazione, altra cosa (ben diversa) è l'uso della stessa in maniera faziosa e soprattutto imprecisa. Vista la peculiarità e complessità delle materie di biologia forense e genetica forense, queste vanno trattate solo da appartenenti alla categoria, onde non fare disinformazione. Solo noi biologi e genetisti forensi abbiamo le certificate competenze per trattare la suindicata materia in primis nelle aule di Giustizia ed, in secundis, qualora si voglia farlo, ai microfoni o sui social o su testate giornalistiche. Premesso ciò, quanto affermato dal giornalista risulta essere, da un punto di vista genetico-forense, parzialmente esatto allorquando afferma che i fratellastri hanno profili genetici in STR diversi tra loro; tuttavia le differenze potranno essere minime o di elevata entità e vanno necessariamente valutate caso per caso. Invece è GRAVISSIMO allorquando il giornalista afferma: "“proprietario" di quella traccia (ma gli venne assegnata una precisa identità scientifica, con il rischio di non trovarlo mai), è al mille per mille l'assassino della piccola Yara.... Massimo Bossetti rimarrebbe sempre e comunque sulle mutandine di Yara nel momento in cui Yara viene uccisa..." Ricordo che il dato genetico forense ha limiti intrinsechi, ossia non può mai dire momento e modalità di deposizione della traccia biologica da cui si origina!!! E non mi risulta (com'è anche ben documentato nelle motivazioni della sentenza) che sia mai stato disposto un accertamento specifico, tramite perizia, atto ad accertare la contestualità temporale nonchè la compatibilità spaziale della traccia 31g20 con l'atto dell'aggressione. Lo scrivente biologo forense auspica che nell'Appello si disporrà anche una perizia su tale aspetto…ma staremo a vedere....Tutto ciò configura un'erratissima e faziosa informazione espressa al pubblico la quale scaturisce da una manifesta ignoranza della materia sulla quale ci si esprime! Senza parlar del fatto che si dovrebbe attendere l'esito dell'Appello (o quantomeno il suo inizio) prima di pronunciarsi ancora nel merito di questi fatti. Tale modo di informazione è manifestamente volto a creare nel popolo un "sentimento giustizialista" che fa malissimo alla celebrazione del Giusto Processo!

Ne ho lette e sentite di ogni in queste ultime settimane, e francamente mi sono stancato di ascoltare favole, scrive il 29 aprile 2017 Carmelo Abbate sul suo profilo facebook. Sul presunto fratellastro di Bossetti (che in ogni caso non esiste, perché si tratta soltanto di suggestioni, e questo spero sia chiaro a tutti), o sui presunti fratellastri (mai porre limiti alla divina provvidenza), si sta alzando volutamente polvere, che vedrete verrà spazzata via alla velocità della luce dai giudici del processo d'appello che si terrà presto a Brescia. Perché stiamo parlando del nulla. Del nulla più assoluto. E spiego perché. Perché se anche Guerinoni avesse avuto mille figli con mille donne diverse, ciò non toglie che il papà di Ignoto uno rimane sempre Guerinoni, e che la mamma di Ignoto uno rimane Ester, e che Ignoto uno si sovrappone perfettamente con Massimo Bossetti. Questa è scienza, tutto il resto è fantascienza. Ignoto uno, ricordiamo, è la traccia di dna trovata sugli slip della povera Yara. Ignoto uno, che venne chiamato così proprio perché non si conosceva il “proprietario" di quella traccia (ma gli venne assegnata una precisa identità scientifica, con il rischio di non trovarlo mai), è al mille per mille l'assassino della piccola Yara. Un eventuale altro figlio di Guerinoni con donna diversa da Ester, avrebbe generato un profilo di dna completamente diverso da quello di ignoto uno. Questa è scienza, tutto il resto è fantascienza. Quindi, Ester è la mamma di ignoto uno, ed è la mamma di Massimo Bossetti. Ignoto uno per la scienza è Massimo Bossetti. Per la fantascienza potrei essere anch'io.

Se anche Ester non fosse stata fisicamente a letto con Guerinoni, se non si fosse concessa con lui i piaceri carnali del sesso ma fosse stata inseminata artificialmente con lo sperma di Guerinoni, non cambia nulla di nulla. il figlio concepito è sempre Massimo Bossetti, il quale ha il dna scientificamente sovrapponibile con certezza assoluta a Ignoto uno. Quindi nell'eventuale caso della provetta sarebbe salvo l'onore di mamma Ester, che non sarebbe andata a letto con Guerinoni, ma il figlio Massimo Bossetti rimarrebbe sempre e comunque sulle mutandine di Yara nel momento in cui Yara viene uccisa. Questa è scienza, tutto il resto è fantascienza.

Yara, perizia sulla felpa può ribaltare la sentenza del processo Bossetti, scrive "Affari italiani" Mercoledì, 24 maggio 2017. Sulla felpa di Yara potrebbe esserci la prova che il corpo della povera ragazza non è rimasto per tre mesi nel campo di Chignolo, come sostenuto dall'accusa nel processo contro Massimo Bossetti. Lo riferisce il settimanale OGGI, nel numero in edicola da domani, basandosi sulla relazione medico-legale (470 pagine) sulla quale l’anatomopatologa Cristina Cattaneo lavorò dal 28 febbraio all’11 agosto 2011 prima di consegnarla alla Procura. Su quella felpa, indossata sotto il piumino e sopra la maglietta, mancano due importanti elementi: le lacerazioni provocate dagli animali, in particolare i roditori, e la polvere di ossido di calcio. Elementi che invece sono presenti sul piumino, la maglietta azzurra, i leggins e i calzini che Yara indossava quando scomparve, la sera del 26 novembre 2010. Tutti presentano segni evidenti del passaggio di animali e della polvere di calce. Perché, chiede il settimanale, da questa aggressione si è salvata solo la felpa? Se fosse presa in considerazione una ipotesi alternativa a quella ufficiale, cioè se dopo la morte a Yara fossero stati sfilati il giubbino, la felpa e addirittura le scarpe e fosse stata rivestita prima dell'abbandono in quel campo, cambierebbe lo scenario ricostruito dagli inquirenti. E crollerebbe una delle colonne portanti dell’Accusa. Le tabelle illustrative sulle lesività rilevate sugli abiti della vittima, che OGGI pubblica, dimostrano che le lesioni tafonomiche (cioè le lesioni causate da agenti esterni all’organismo dopo la morte) compaiono due volte sul piumino, 11 sulla maglietta, sette sui pantaloni e due volte sulle calze. L’unico indumento a salvarsi è stata la felpa. Non appare una sola lacerazione. Figurano solo lesioni da taglio. Inoltre sulla felpa non c’è una sola traccia di sangue, neppure nel punto corrispondente a quello della maglietta (il fianco destro) intriso di sostanza ematica. Se i due indumenti fossero stati indossati assieme dovrebbero essere macchiati nello stesso punto.

La mamma di Bossetti: “Confermo, nessuna scappatella: Massi concepito dal ginecologo”. La madre e la sorella del carpentiere di Mapello condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio hanno parlato alla trasmissione "Iceberg Lombardia", scrive Mauro Paloschi il 26 maggio 2017 su "Bergamo News".  Tornano a parlare Ester Arzuffi e Laura Letizia Bossetti. La madre e la sorella del carpentiere di Mapello condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, hanno rilasciato una lunga intervista alla trasmissione di Telelombardia “Iceberg Lombardia”, in cui hanno toccato vari temi: dalle condizioni di Bossetti in carcere, al desiderio di incontrare la mamma di Yara, fino al discusso tema della paternità e della presunta scappatella con Giuseppe Guerinoni. “La mamma di Yara l’ho sempre pensata, è lei che tante volte mi dà coraggio – racconta Ester Arzuffi –. A me dispiace tanto, io posso ancora abbracciare mio figlio almeno un’ora al mese. Mi piacerebbe incontrare la signora Maura Panarese, le cose da dire sono tante. Mi piacerebbe sedermi con la signora Gambirasio e parlare con lei faccia a faccia: io sono disponibile a incontrarla quando vuole”. La donna ha parlato poi delle condizioni di suo figlio, rinchiuso nel penitenziario di via Gleno a Bergamo da 16 giugno 2014: “In vista dell’appello ho un messaggio per lui: forza Massimo cerca di essere forte come cerchiamo di esserlo tutti noi. Ringraziamo le guardie carcerarie che gli hanno permesso di fare alcuni lavoretti. Massimo è stanco e distrutto, gli mancano i suoi figli, tutto. Lui fa coraggio a me, mi dice sei sola, mi dice di andare avanti e di essere forte. Fa la persona forte, ma si vede che soffre. Quando vado a trovarlo in carcere e ci salutiamo si aggrappa al mio collo, soffre, soffre… non è più il mio Massimo, fisicamente non lo riconosco più, molto magro. Cerca di lottare ma soffre”. Poi il capitolo più discusso, quella sulla paternità di Massimo e della sorella gemelle Laura Letizia: “Penso proprio che ci sia qualcosa del genere dietro la mia gravidanza di Massimo e Laura. Al mio ginecologo non chiedevo mai nulla circa le cure a cui mi stava sottoponendo all’epoca, avevo quasi vergogna. Gli avevo solo detto di aiutarmi ad avere dei figlio perché dopo vari tentativi non arrivavano. E il dottore mi rispondeva: “tranquilla che i figli arrivano”. Per aver Massimo e Laura sono stata a letto 9 mesi. Mio papà Giuseppe mentre ero a letto in quei mesi mi faceva giocare a carte e mi disse: “se nasce un bambino chiamalo Giuseppe”. Sono stufa di sentire che ho messo il nome di Guerinoni”. “Mio marito mi aveva comprato una bici per andare al lavoro – prosegue –, ma avevo il soffio al cuore. Una mattina mi sono sentita male proprio per il soffio al cuore, sono svenuta e sono caduta dalla bici. Mio marito non voleva più che prendessi la bici per questo al bar chiese a Guerinoni (che conosceva lui e non io) di darmi un passaggio… Così ho conosciuto Guerinoni. Ma non ci siamo mai appartati: in dieci minuti mi accompagnava ed al lavoro non ho mai fatto tardi una volta. Io non ho mai pagato Guerinoni per il passaggio al mattino, lo faceva come favore a mio marito. Guerinoni con me si è sempre comportato divinamente e l’ho sempre visto come una brava persona, ma con lui non c’è mai stato nulla”. Anche la sorella Laura Letizia è tornata a parlare della paternità: “Per me mio papà è Bossetti Giovanni, quando ho saputo però che mio papà era Guerinoni, dopo 44 anni sapere di essere figlia di un altro papà è stato un colpo. Ho chiesto: mamma è vero questo? Lei ha detto di no e io credo sempre a mia mamma. Dopo tanto sono andata a cercare la signora Laura Poli, moglie di Guerinoni, ho parlato con lei: è una persona di cuore, avrebbe tanto da dire su questa vicenda, dovrebbe dire tante cose, si è sentita attaccata. Non mi sento parte della famiglia Guerinoni, ma sono contenta di aver fatto questo gesto. Sono andata a trovare mio papà Guerinoni al cimitero. Avrei voluto parlare con lui, avrei voluto parlargli per sapere cos’era successo. Mi manca il fatto di non essere riuscita a conoscere Guerinoni per parlargli”.

Parla l’avvocato Salvagni: «La verità giudiziaria va cercata senza paura e senza patemi». Massimo Bossetti non è il “mostro” che la stampa ci ha propinato, scrive Elena Ricci il 26 maggio 2017 su "Puglia Press". Gogna mediatica. Tutto ruota intorno a questo fenomeno per il quale il social, divenuto un moderno mezzo di informazione (con i suoi pro e i suoi contro), ha contribuito tantissimo. Quando la gogna si insinua in un percorso giudiziario, è allora che ci ritroviamo difronte a due processi paralleli: quello in un’aula di Tribunale e quello mediatico che non lascia scampo. La rete costruisce eroi, li demolisce e costruisce mostri. E quando per la rete sei un mostro, lo resti per sempre, anche se la legge decreta la tua innocenza. Ne abbiamo parlato su queste pagine relativamente ad altri casi giudiziari, ne continueremo a parlare, puntando su una sorta di “controinformazione” scevra da qualsiasi forma di ideologia o asservimento, perché crediamo nella verità, quella che rende liberi. Il caso Bossetti è l’apoteosi della gogna mediatica. Massimo Bossetti è stato condannato in primo grado all’ergastolo, poiché accusato della morte della piccola Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa il 26 novembre del 2010 da Brembate e ritrovata morta tre mesi dopo, a febbraio 2011. Bossetti, un muratore incensurato, oggi 47enne, fu arrestato nel giugno del 2014, ed è considerato l’unico colpevole. Il caso, come abbiamo già detto, ha raggiunto una rilevanza mediatica incredibile, riconducibile anche ad altri casi simili, come ad esempio quello della 15enne di Avetrana, Sarah Scazzi. Il tutto, come ci spiega l’avvocato Claudio Salvagni, legale difensore di Massimo Bossetti, parte da un tweet di un Ministro (ecco il ruolo dei social network) che avrebbe dato proprio un’impronta a questo processo. «Da lì in avanti è successo di tutto e di più – spiega Salvagni – la cosa forse è passata anche in silenzio, ma in udienza abbiamo sentito raccontare veramente delle cose da accapponare la pelle e al limite della falsa testimonianza, della calunnia e della diffamazione. Vogliamo parlare dei famosi furgoni che dovevano essere dell’assassino e che sono stati montati in un video per esigenze di comunicazione tra l’altro, dai Ris in accordo con la Procura. Basterebbe già questo per dire che questo processo è tutto anomalo». Esigenze di comunicazione dunque, in netto contrasto con la realtà processuale. E questo perché? Ci poniamo sempre lo stesso interrogativo: cosa fa davvero notizia e qual è il vero senso di giustizia in Italia? Da quello che ci riferisce l’avvocato Salvagni, la giustizia in Italia risponde non ad esigenze di giustizia, ma di giustizialismo. Si cerca necessariamente un colpevole per accontentare l’opinione pubblica, oramai deviata da una cattiva informazione. «Si costruisce una commedia che deve corrispondere e stare su con degli attori che recitano e imbastiscono delle cose per esigenze di comunicazione. Questo è, e bisogna prenderne atto – continua l’avvocato Salvagni – Per prima la stampa, per primi i giornalisti, che dovrebbero essere coloro che fotografano la situazione e la riportano ai cittadini per essere obiettivi, per fargli capire cosa succede, ma se per prima la stampa è asservita al potere, dove vogliamo andare? Manca del tutto una comunicazione seria, un’informazione seria e questo è un dato oggettivo – prosegue ancora – Io che ho partecipato al processo come difensore, posso dire che del processo è uscito si e no il 20%, scritto da pochissimi. Un colonnello comandante del Ros, è venuto in udienza a dire il falso quando parlava dell’erba tenuta nella mano della povera Yara. Alla domanda se l’erba fosse radicata al suolo oppure no, ha risposto sì. Ma perché? Perché con quel sistema si poteva ancorare il cadavere a quel terreno, la ragazza sarebbe oggettivamente morta lì. Poi però, nell’udienza successiva, un medico legale primo e unico che ha messo le mani sul cadavere, ha detto che l’erba non era radicata al suolo e ci sono le foto a dimostrarlo. Perché è stato fatto passare questo messaggio, dicendo che lui stesso aveva delle foto aggiuntive dove si vedeva l’erba radicata al suolo? Questa contraddizione non è uscita sulla stampa, eppure i giornalisti c’erano. Io credo che prima di fare giudiziaria bisognerebbe domandarsi se si vuole essere dei cittadini o dei sudditi. Se vogliamo essere cittadini abbiamo bisogno di una informazione seria, di una informazione corretta. Né pro difesa, né pro Procura perché la ricerca della verità deve essere qualcosa di più alto. Non è un braccio di ferro, non è un derby. E’ la ricerca della verità. La verità giudiziaria va cercata senza paure, senza patemi». E a proposito di ricerca della verità, l’avvocato Salvagni continua ad invocare la concessione di una perizia. A quanto pare non è mai stata fatta una perizia per accertare il dna, ma solo consulenze di parte che, in quanto tali, hanno la stessa dignità della difesa. «Chi ha paura di fare questa perizia? Perché questo ostracismo nei confronti di questa perizia? La perizia è stata chiesta dal primo momento, perché ci sono delle anomalie talmente grandi che mi fanno sospettare ci sia qualcosa di molto losco – e prosegue – Di fronte a questo timore, al timore che venga comminato un ergastolo troppo allegramente e soprattutto ad un innocente. Una cosa che farebbe orrore. Perché temere questa perizia? Perché avere paura di un accertamento ulteriore di qualche migliaio di euro a fronte di milioni di euro spesi. Cosa cambia un mese di tempo in più? La domanda è senza risposta». Questo lascerebbe pensare, perché se è l’imputato a chiedere la perizia, questo già denota la buona fede: «Lui mi ha detto che vuole questa perizia perché non ha mai visto, conosciuto questa ragazza. Figuriamoci se l’ha uccisa. Nel momento in cui è l’imputato a chiedere la perizia o è un pazzo o un innocente». Secondo quanto ci dice l’avvocato Salvagni, molti detrattori sostengono che Bossetti chieda la perizia perché i reperti sono stati consumati, ma a quanto pare ciò non corrisponde a verità, in quanto (come confermato anche dal Ris), i reperti ci sono ancora, e si potrebbe benissimo condurre l’accertamento. Ma chi è davvero Massimo Bossetti? Quello che la rete e l’opinione pubblica oramai concepisce come un mostro? Cosa non è stato mai detto? Massimo Bossetti, come ci racconta il suo avvocato, è un uomo assolutamente normale, mite, un padre di famiglia, papà di tre figli, un lavoratore che non ha mai avuto problemi con la giustizia. La sua era una famiglia serena, non manifestava alcuna problematica. Un uomo normale che si dedicava alla casa e al lavoro. Un uomo normale che urla la sua innocenza, che chiede una perizia e che improvvisamente diventa un mostro. Se nel corso del processo dovesse emergere la sua innocenza e dovesse essere assolto, potrà mai riscattare la sua dignità? «È impossibile riscattare la dignità se dovesse essere assolto. È stato massacrato a tal punto che credo che il suo cognome verrà associato per sempre, insieme ai suoi figli, a questo processo, anche se fosse scagionato. Anche da assolto, la gogna mediatica sarà indelebile. Non c’è riscatto né per lui né per i suoi figli». È questa l’opinione dell’avvocato Claudio Salvagni, il quale sostiene anche che non sono state osservate quelle minime regole di rispetto civile che dovrebbero essere garantite a qualsiasi persona che è considerata costituzionalmente non colpevole fino a sentenza definitiva. Ma nel corso del processo abbiamo assistito alla divulgazione di diverse notizie, effettivamente non rilevanti ai fini processuali, come ad esempio le sue origini, questioni legate al suo padre biologico. «Cosa importa alla gente di tutto ciò? È puro gossip». Si è detto poco su chi fosse davvero Massimo Bossetti, su che padre e marito fosse o di quanto amasse la sua famiglia. Si è teso però a sottolineare una identità da predatore sessuale, che faceva ricerche pedopornografiche, quando relativamente alla questione pedopornografia, in udienza vi fu una precisa domanda della difesa ai consulenti del Pubblico Ministero, ovvero capire se nella cronologia del computer di Bossetti vi fossero ricerche di questo tipo e la risposta fu negativa. «Una informazione distorta, nonostante la risposta fu che nel computer di Bossetti non vi erano né ricerche né materiale pedopornografico». Come precisa l’avvocato Salvagni, non si tratta della difesa a tutti i costi di un cliente. Nel caso di specie, si rischierebbe di condannare un innocente (è tale in assenza di condanna definitiva) all’ergastolo, non tenendo conto della condanna più grande già inflitta a lui, alla sua famiglia, ai suoi figli: l’essere messi alla gogna. E per quel ‘giudizio’ non esistono purtroppo assoluzioni.

Yara, perché Bossetti è colpevole. Nessun dubbio per inquirenti e giudici sulle prove contro il muratore bergamasco: dal dna sulle mutandine di Yara agli "elementi indiretti di conforto", scrive Carmelo Abbate il 19 giugno 2017 su "Panorama". Il dna non è una prova scientifica dotata di valore assoluto. Ogni dna ha un suo particolare peso probatorio. E quello che ha portato alla condanna all'ergastolo in primo grado di Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio è destinato a pesare come un macigno anche nel processo d'appello che si apre nei prossimi giorni a Brescia. Carabinieri, polizia, procura, Tribunale del Riesame, Cassazione, corte d'assise di Bergamo. Nessuno degli inquirenti, magistrati, avvocati di parte civile e giudici che in questi anni si sono confrontati con gli atti di indagine ha mai avuto alcun dubbio: il muratore bergamasco è l'assassino della tredicenne che la sera del 26 novembre 2010 scomparve nel nulla all'uscita della palestra di Brembate di Sopra. Proviamo a capire da dove deriva questa convinzione.

Il dna. Il punto di partenza è che Yara è stata uccisa da colui che ha lasciato la sua traccia sulle sue mutandine. Da qui è impossibile scostarsi, per un paio di ragioni.

Primo: la traccia è mista, nel senso che contiene materiale genetico della vittima e del suo aggressore.

Secondo: la posizione della stessa, ovvero in prossimità del taglio delle mutandine, dimostra non un semplice contatto, ma la partecipazione alla fase omicidiaria del "proprietario" di quella traccia.

Per intenderci, la traccia dell'allenatrice di Yara, Silvia Brena, trovata sulla manica del giubbotto, può essere finita lì in mille occasioni e modalità lecite, a partire da un banale contatto degli indumenti in palestra. Mentre la traccia di un uomo depositata sulle mutandine quando le stesse vengono tagliate in un contesto di aggressione a sfondo sessuale, uomo che è totalmente estraneo al mondo di Yara e che non frequenta gli stessi posti, non può avere altra spiegazione se non quella del coinvolgimento nell'omicidio.

L'identità genetica. Stabilito che l'assassino è il proprietario di quella traccia, si tratta ora di risalire a chi appartiene. L'operazione di estrazione di una identità genetica da quel materiale biologico è stata fatta dai Carabinieri del Ris di Parma, nei cui laboratori si è svolto soltanto questo passaggio: dalla traccia all'individuazione di un profilo che non risultava già schedato, quindi sconosciuto, tanto che è stato chiamato "Ignoto Uno". Durante questo percorso scientifico, va sottolineato, il dna di Massimo Bossetti non è mai entrato nei laboratori del Ris, fattore che ci porta a escludere ogni eventuale rischio di contaminazione, e pure che l'indagine genetica possa essere stata in qualche modo indirizzata a monte su un obiettivo predeterminato. L'assassino è Ignoto uno, dunque, ma noi non sappiamo chi sia, dicono i Carabinieri del Ris. Sappiamo soltanto che non è figlio di suo papà, ma anche se lui adesso non lo sa, l'uomo che l'ha concepito è un autista di pulmann che risponde al nome di Giuseppe Guerinoni e che in passato ha avuto una relazione sessuale con sua mamma. Il percorso investigativo e genetico che porta da un frequentatore della discoteca accanto al campo dove è stata trovata Yara è lungo e travagliato. Fatto sta che a un certo punto si arriva alla signora Ester Arzuffi e da lei al figlio Massimo Bossetti.

Come si arriva a Bossetti. Il dna del muratore bergamasco, preso attraverso un finto controllo alcolemico, viene portato nel laboratorio di genetica forense dell'università di Pavia dove il direttore responsabile, il professore Carlo Previderè, lo mette accanto a quello di Ignoto Uno che gli hanno fornito i Ris e stabilisce che si sovrappone in maniera certa, assoluta. Non può esistere altra persona al mondo con quel profilo genetico: Massimo Bossetti è Ignoto uno. C'è la prova scientifica, ma durante il processo di primo grado arriva anche la controprova scientifica, perché l'intera famiglia Bossetti si sottopone a esame del dna in un laboratorio di Torino e viene confermata la via senza uscita che avevano imboccato i Ris: lo sconosciuto "proprietario" di quella traccia scoprirà di non essere figlio del padre che l'ha cresciuto.

Gli altri elementi di conforto. Ma la portata probatoria del dna viene ulteriormente rafforzata da quelli che la corte d'assise di Bergamo nelle motivazioni della condanna di Bossetti definisce "elementi indiretti di conforto".

Il "proprietario" di quella traccia la sera del 26 novembre 2010 poteva trovarsi in qualsiasi città d'Italia o del mondo, invece era proprio lì nel momento in cui Yara scompare. I tabulati telefonici infatti "hanno consentito di escludere che l'imputato il giorno dell'omicidio fosse altrove" scrivono i giudici di Bergamo, i quali evidenziano come nelle ore in cui viene commesso l'assassinio il telefono di Bossetti non soltanto si trova lì, ma non genera alcun tipo di traffico. Non è la prova, per i giudici, ma l'indizio che rafforza la prova. Come la calce trovata sulla pelle e le ferite di Yara, compatibile con l'attività professionale di Bossetti, le sfere sui vestiti, compatibili con quelle dell'autocarro del muratore: elementi singolarmente privi di capacità individualizzante ma convergenti nella stessa direzione, ovvero quella di rafforzare ulteriormente la portata probatoria del dna. Ogni indizio, scrivono i giudici nella sentenza, è per sua natura ambiguo, suscettibile di una pluralità di spiegazioni alternative, altrimenti sarebbe una prova. Non va dunque considerato una prova, con pretesa di autosufficienza ed esaustività probatoria, ma va valutato insieme con gli altri elementi di indagine.

Il movente sessuale. Infine il movente sessuale dell'omicidio, che si ricava dal reggiseno slacciato, le mutandine tagliate e che trova riscontri nelle ricerche sul computer di casa Bossetti e nelle lettere scritte in seguito dal carcere a un'altra detenuta di nome Gina. Sono diverse e ripetute le navigazioni sui siti con minorenni, tredicenni, e particolari sessuali. In aula c'è stata battaglia tra i periti dell'accusa e quelli della difesa, e perfino la moglie di Bossetti, Marita Comi, con grande coraggio si è intestata gran parte della navigazione sui siti pornografici. Ma alla domanda se aveva mai digitato nel motore di ricerca le parole "ragazzine con vagina rasate", la donna non ha risposto. Ed è proprio questa che per gli inquirenti può essere ascrivibile con certezza a Bossetti la mattina del 29 maggio 2014 alle 9,55, quando i suoi figli sono a scuola e lui non è andato al lavoro. Quanto basta, per i giudici, ad assegnare un valore indiziario anche alle altre ricerche su particolari anatomici (rosse, poco pelo) associate a ragazzine che guarda caso si ritrovano nelle lettere scritte di suo pugno e indirizzate a Gina, dove Bossetti dimostra propensione per la rasatura degli organi genitali maschili e femminili. Secondo i giudici un ulteriore indizio anche della sua incapacità di controllo, perché non puoi scrivere cose di questo genere se sei accusato di un delitto di questo genere e sai che sul tuo computer sono state trovate cose dello stesso genere.

Il libro di Sollecito «con dedica» a Massimo Bossetti. E dalla difesa altri motivi per l’appello. L’avvocato Salvagni: novità interessante, scrive Giuliana Ubbiali il 16 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera”. «Sì, ho fatto una dedica a Massimo Bossetti su una copia del mio libro». Raffaele Sollecito risponde via chat. Il giovane arrestato assieme ad Amanda Knox e condannato a 25 anni in Appello, per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher, nel 2015 è stato assolto in Cassazione. Definitivo. In carcere era rimasto per quattro anni, per i quali ha chiesto un risarcimento di 516 mila euro per ingiusta detenzione. Ma i giudici hanno detto no. Il ponte tra Sollecito e Bossetti, 3 anni di carcere oggi, è stato l’avvocato Claudio Salvagni, che ha appena depositato 102 pagine di motivi aggiunti alle 260 già consegnate alla Corte d’Appello di Brescia. Lo scorso aprile il difensore di Bossetti era a Todi, relatore ad un convegno. «Era presente anche il dottor Raffaele Sollecito. Al termine del convegno ho acquisto due copie del suo libro (Un passo fuori dalla notte ndr). Una per me e una per Massimo. Abbiamo chiacchierato, gli ho detto per chi era la seconda copia, allora lui ha voluto scrivergli la dedica». Il contenuto «è una questione privata» alza il muro l’avvocato. Così come sui motivi aggiunti dell’appello, «che da un lato serviranno per spiegare meglio il ricorso e dall’altro per aggiungere qualcosa». Anticipa che «sì, ci saranno ulteriori richieste. Una, una novità, è molto interessante». Un altro esame o un nuovo testimone? «Non dico niente». Qualsiasi sia la novità, dovrà riguardare le motivazioni. L’Appello è su quelle. Se, cioè, i giudici della Corte d’Assise di Bergamo hanno o no ben spiegato perché hanno condannato Massimo Bossetti all’ergastolo ritenendolo l’assassino di Yara Gambirasio, uccisa sette anni fa, il 26 novembre. La difesa del carpentiere di Mapello avrà la possibilità di cambiare il finale del processo di secondo grado solo se farà dubitare i giudici della Corte d’Assise d’appello di Brescia presieduta da Enrico Fischetti. Il sostituto procuratore generale non è stato ancora scelto ufficialmente. Nulla vieta al pm del primo grado di sostenere l’accusa anche in Appello, anzi nei processi complessi capita. E questo è complicato per i tecnicismi scientifici della battaglia sul Dna. Allo stato, però, non risulta che a Brescia ci sarà il pm Letizia Ruggeri. Il Dna, appunto. Novità, nuove richieste, altri ragionamenti della difesa. Alla fine, però, il cuore della discussione sarà ancora quello. Il profilo genetico isolato sugli slip e sui leggings della vittima, tredici anni appena, in corrispondenza di una ferita. Ignoto 1 per tre anni e mezzo, Massimo Giuseppe Bossetti dal 16 giugno 2014, secondo l’accusa prima e secondo i giudici di primo grado poi. Cosa che contesta la difesa per via dell’assenza della componente mitocondriale. Secondo l’accusa conta solo quella mitocondriale, l’unica che identifica. Ma gli avvocati hanno chiesto una nuova perizia. Difficile che la Corte d’Appello lo decida alla prima udienza, il 30 giugno.

Bossetti Avvocato Salvagni: “Senza perizia difesa tecnicamente impossibile”, scrive il 20 giugno 2017 "TG24". Bossetti Avvocato Salvagni non sta con le mani in mano. Il presunto assassino di Yara Gambirasio non ha mai smesso di dichiarare la sua innocenza e per questo motivo ogni pista battibile in tal senso è battuta. Tutto passa, come detto, da Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Giuseppe Bossetti, che è intervenuto ai microfoni di “Legge o Giustizia” di Matteo Torrioli. Ecco le sue nuove interessanti dichiarazioni rilasciate su Radio Cusano Campus, emittente dell’università Niccolò Cusano. Bossetti Avvocato Salvagni. E’ ora di parlare del processo d’appello fissato per il 30 giugno per Bossetti. Lo fa il suo legale Avvocato Salvagni e lo fa nel format condotto da Matteo Torrioli. Ecco le sue denunce circa le difficoltà incontrate dalla difesa durante il processo di primo grado in diretta su Radio Cusano Campus.

Sui bastoni in mezzo alle ruote per la difesa: “In questi processo non si è mai consentito alla difesa di poter interloquire sui dati scientifici. Noi abbiamo potuto analizzare dei risultati a valle mentre dobbiamo vedere cosa sia successo a monte. Per potersi difendere, il signor Bossetti dovrà poter usufruire di una perizia. Altrimenti la difesa, in questo processo, diventa tecnicamente impossibile, credo sia una lesione gravissima del diritto di difesa se questa perizia non dovesse essere concessa”.

Sul fatto che sono state aggiunte 102 pagine a quelle già depositate nella richiesta d’appello: “Senza anticipare perché qualche elemento di sorpresa ce lo teniamo per l’udienza, abbiamo argomentato e ragionato in maniera ancora più approfondita su questione legate al DNA. Poi ci sono esami anche di altri elementi. Sul DNA qualche piccola sorpresa ce la riserviamo”.

Sul fatto che Vincenzo Mastroberardino, compagno di cella di Bossetti per dieci mesi, si sia convinto dell’innocenza del muratore: “Ho conosciuto questa persona perché ha voluto parlare con me. Mi sembra una persona genuina ed offra del signor Bossetti un immagine che non è quella veicolata e stereotipata da una stampa un po’ orientata. Mi ritrovo in quello che dice Mastroberardino dato che conoscono Bossetti da tre anni. Bossetti è una persona genuina, semplice. Nel mio ultimo incontro mi ha detto “mi facciano fare questa perizia perché sono convinto che dentro non ci posso essere io e se ci sono io taccio per sempre”.

Sulla riforma del processo penale, che ha rimandato ancora la questione della separazione delle carriere: “E’ evidente che il giudice ed il pubblico ministero sono parenti, vanno a braccetto, a pranzo insieme tutti i giorni. Questo non è tollerabile. Deve esserci una netta separazione della carriere. Il giudice deve essere terzo a tutti gli effetti come lo è l’avvocato della difesa. Si doveva fare molto di più in questa riforma del processo penale.

Massimo Bossetti. La madre Ester Arzuffi: "E' una persona buona, lo hanno incastrato". Continua la presenza mediatica di Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti: a Quarto Grado, la donna parla della sua presunta relazione con Giuseppe Guerinoni, scrive l'11 giugno 2017 Morgan K. Barraco su "IlSussidiario.net". L'intervista rilasciata nei giorni scorsi dalla mamma di Massimo Bossetti, Ester Arzuffi, ha riacceso l'annoso dibattito che ha diviso in due l'opinione pubblica. È realmente il muratore di Mapello il vero assassino di Yara Gambirasio? Un quesito che non ha mai visto dubbiosa Ester Arzuffi, la quale alla trasmissione Quarto Grado ha asserito: "Massimo non farebbe male a una mosca, è la persona più buona della terra e lo hanno incastrato". Ma incastrato da chi? Cercherà di fare chiarezza su questo punto la sua difesa, in vista dell'inizio del processo di secondo grado, in partenza dal 30 giugno. Intanto, la madre dell'imputato, condannato alla pena dell'ergastolo in primo grado, ha ribadito l'impossibilità del figlio ad accompagnarsi con una 13enne: "Ma le sembra che con la moglie che ha possa andare con una ragazzina?", ha detto in diretta tv. Non ha dubbi, dunque, nel sostenere che il vero assassino della povera Yara Gambirasio sia ancora a piede libero ed ha smentito, nel corso della sua intervista televisiva, che Massimo Bossetti possa avere dei nemici proprio per il suo essere stato sempre una persona molto tranquilla. La domanda, dunque, ritorna centrale: chi avrebbe potuto incastrare Bossetti e soprattutto, per quale ragione ed in che modo?

(Aggiornamento di Emanuela Longo). Massimo Bossetti è colpevole oppure è stato incastrato? L'Italia si spacca ancora una volta in due, in attesa del processo d'appello che riporterà il muratore sul banco degli imputati per l'accusa dell'omicidio di Yara Gambirasio. A credere fermamente che il figlio sia innocente è la madre Ester Arzuffi, che dopo mesi e mesi di silenzio ha iniziato a partecipare a diverse trasmissioni televisive. In un faccia a faccia con Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto Grado, la madre di Massimo Bossetti ha parlato anche della sua presunta relazione con Giuseppe Guerinoni. Un tassello importante, che si collega direttamente alla famosa prova regina che ha permesso agli inquirenti di risalire fino al muratore di Mapello. E' infatti il DNA di Ignoto 1, ritrovato sugli indumenti di Yara Gambirasio, a stringere il cerchio attorno a Bossetti. Eppure Ester Arzuffi è sicura di non aver mai avuto rapporti di alcun tipo con Giuseppe Guerinoni. Come si spiega quindi il test condotto dalle autorità e che confermano senza dubbi la paternità dell'autista? 

Secondo Ester Arzuffi sarebbe avvenuto qualcosa durante i suoi tentativi di rimanere incinta. Solo così la madre di Massimo Bossetti riesce a spiegarsi come mai Giuseppe Guerinoni risulti essere il padre del muratore. Nella lunga intervista a Quarto Grado, la donna rivela alcuni particolari intimi della sua vita matrimoniale. "La scienza dice che è possibile che mi abbiano fatto qualcosa, se non son stata con lui", sottolinea più volte. Sembra che all'epoca Ester Arzuffi abbia avuto molti problemi a rimanere incinta, motivo che la spinse a richiedere l'aiuto di un ginecologo. Possibile che ci sia stata una contaminazione di qualsiasi tipo e che per un fatale errore Giuseppe Guerinoni sia diventato il padre di quei due figli tanto attesi dalla donna? Un'ipotesi che nessuno potrà smentire o confermare in via definitiva e che alla Arzuffi non interessa nemmeno di chiarire. La madre di Massimo Bossetti è infatti certa di essere sempre rimasta fedele al marito Giovanni, al contrario di Marita Comi, la moglie del muratore, che avrebbe sempre dubitato della suocera. 

 “Massimo Bossetti ha tentato il suicidio in carcere: l’abbiamo salvato per miracolo”. Il racconto choc del compagno di cella, scrive il 14 giugno 2017 "Oggi". Il settimanale Oggi in edicola raccoglie la testimonianza shock del compagno di cella del muratore di Mapello. Svelando molti particolari inediti. Massimo Bossetti ha tentato il suicidio in carcere. Ed è stato salvato per miracolo. Lo racconta, in esclusiva al settimanale Oggi in edicola dal 15 giugno, Vincenzo Mastroberardino, meccanico pavese e compagno di cella per dieci mesi del muratore di Mapello in carcere per l’omicidio di Yara gambirasi. «Tre anni di carcere con quasi 5 mesi di isolamento lo hanno distrutto», dice Vincenzo Mastroberardino al settimanale Oggi. «Arriva al processo stremato. Ho paura per lui. Vuole la superperizia sul Dna. È sicuro che quel profilo genetico non sia il suo. “Altrimenti”, me l’ha ripetuto mille volte, “sarei un pazzo a chiederla”. Se non la concedono, potrebbe fare una follia. Ci ha già provato e l’abbiamo salvato per miracolo». Alla domanda se abbia mai chiesto a Bossetti la verità, Mastroberardino risponde: «In carcere non si fanno domande. Non ne ho avuto bisogno. Massimo è un libro aperto. Quando parla ti guarda negli occhi. Non riesce a nascondere nulla, non ti volta mai le spalle. E quando non parla prega e piange affondando la testa nel cuscino. L’ho sentito piangere di notte e di giorno. Quando riceve le lettere della mamma e della sorella, quando guarda le foto dei suoi bambini che ha incollato alla parete della cella, quando parla di suo padre Giovanni… La sua angoscia sono i figli. Teme di perderli». E cosa fa in cella Massimo Bossetti? Nell’intervista a Oggi, in edicola da domani, Mastroberardino risponde: «Legge, scrive molto e riceve tanta corrispondenza… Poi guarda la tv, non perde una trasmissione di cronaca e siccome in cella si ricevono solo quattro canali ci siamo fatti un’antenna artigianale che abbiamo infilato fra le sbarre della finestra. Aspetta le visite di Marita e cucina, con due piccoli fornellini: fa anche la polenta e soprattutto è molto bravo con i dolci. Ne prepara di squisiti. Ma la cosa migliore che mangiavamo era il salame bergamasco che gli fa avere Pietro, il suo grande amico».

MASSIMO BOSSETTI. L’ultima difesa prima dell’Appello: “Non confesserò un delitto che non ho commesso”. Massimo Bossetti, ultime news: intervista esclusiva per Panorama alla vigilia dell'Appello e la disperata difesa. Appello ai giudici, alla moglie ed ai figli, scrive Emanuela Longo il 15 giugno 2017 su "Il Sussidiario". Mancano solo 15 giorni all'inizio del processo d'Appello a carico di Massimo Bossetti, l'uomo in carcere e condannato in primo grado all'ergastolo, accusato di aver ucciso la piccola Yara Gambirasio nel novembre 2010. Alla vigilia di una data così importante, il settimanale Panorama dedica oggi la storia di copertina proprio all'uomo che ha diviso in due l'Italia, tra innocentisti e colpevolisti. Una vicenda che vede ancora numerosi lati oscuri sui quali la difesa di Bossetti farà di tutto per dimostrare, nel secondo grado, la totale innocenza del proprio assistito rispetto ad un delitto che ha commosso e fatto indignare un Paese interno ma che non smette di creare interrogativi su dinamiche e soprattutto movente (mai confermato ma solo ipotizzato) ma anche sulle tante contraddizioni emerse nel lungo processo conclusosi con la condanna all'ergastolo. Al settimanale Panorama, Massimo ha deciso di aprirsi e raccontare, in esclusiva dalla sua cella nel carcere di Bergamo, la sua vita da detenuto, i suoi pensieri, senza tralasciare un appello indirizzato ai giudici, alla moglie ed ai suoi amati figli. Si tratta di una lunga intervista realizzata dal giornalista Giovanni Terzi, ieri ospite della trasmissione La vita in diretta, durante la quale ha anticipato e commentato alcune dichiarazioni del presunto assassino di Yara Gambirasio, che continua a difendersi dalle pesanti accuse. E' un Massimo Bossetti determinato, quello che emerge dalla lunga intervista rilasciata al settimanale Panorama, al quale si ritiene disposto a restare in carcere ma non ad ammettere un delitto che non ha mai commesso. "Lui in qualche modo è convinto di andare avanti con la sua difesa, dove ci sono sicuramente una serie di lacune che ho cercato di evidenziare anche attraverso questa intervista", ha commentato il giornalista Giovanni Terzi alla trasmissione di Rai 1. Nel corso dell’intervista al presunto assassino di Yara Gambirasio, si è ripercorso anche il momento del processo in cui furono messe in luce le presunte scappatelle della moglie di Massimo Bossetti. Il collegamento con il delitto emerso dall’impianto accusatorio, era legato all’idea di una famiglia, quella dell’imputato, che in qualche modo avesse delle grosse lacune (a partire dal materiale pornografico). Lacune però prontamente smentite dall’imputato e dai figli. “Credo che la volontà della procura era quella di mettere in evidenza una vita quantomeno disordinata”, ha commentato il giornalista. Nell’intervista esclusiva, Bossetti torna a fare un appello importante ai giudici: “Voi siete liberi di crede e non credere ma ribadisco la mia innocenza. Sono disposto a restare in carcere per il resto dei miei giorni, ma nessuno mi convincerà a confessare un delitto che non ho commesso. Nessuno!”. L’uomo ha ribadito di non aver mai fatto nulla di male, né che ci siano prove della sua colpevolezza. “C’è la traccia di Dna incompleto che non può essere assolutamente attribuito a me”, aggiunge, non capacitandosi di come proprio quella traccia, trovata sugli abiti di Yara Gambirasio, oggi continui ad essere attribuita a lui “visto che io non sapevo neppure chi fosse, mai incontrata, mai vista”. Dopo essersi rivolto ai giudici bresciani, Massimo Bossetti ha destinato anche un appello molto sentito alla moglie, Marita Comi: “Amore mio, un giorno mi chiederai scusa per aver dubitato della mia innocenza. Ti ringrazio che alla fine non ti sei lasciata condizionare facendoti trascinare da chi con forza e in tutti i modi possibili ha tentato di staccarti da me”. L’uomo ha quindi ribadito l’immenso amore nei confronti della moglie e madre dei suoi figli, riconfermando la stima nei suoi confronti. Ai suoi “cuccioli di vita”, i figli, ha infine dedicato un ultimo messaggio umanamente forte e commovente: “Papà è stato colpito da un’ingiustizia terribile, un grandissimo errore giudiziario”, dice, manifestando il dolore per la sofferenza provocata dalla sua assenza. “Non sentitevi mai soli, papà vi è sempre accanto con il cuore, il pensiero e la mente”, ha chiosato, certo di poter vincere questa grande guerra in corso e lanciando un messaggio importante: “Mai arrendersi per la propria innocenza”.

Parla Massimo Bossetti: "Il mio incubo da mostro innocente". All'ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, racconta a Panorama la sua vita in famiglia e le giornate in carcere: "Ho anche tentato il suicidio", scrive il 14 giugno 2017 Panorama. «Sono disposto a rimanere in carcere per il resto dei miei giorni, ma nessuno mi convincerà a confessare un delitto che non ho commesso. Nessuno!». Sul numero di Panorama in edicola da giovedì 15 giugno, parla in un’intervista esclusiva Massimo Bossetti, il muratore bergamasco condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio, avvenuto il 26 novembre 2010. Alla vigilia del processo di Appello che si aprirà il 30 giugno prossimo, Bossetti si difende dalle accuse e con Panorama ribatte – dettaglio su dettaglio – all’impianto accusatorio che l’ha condannato alla massima pena: la sua presenza sul luogo del delitto, la spiegazione delle tracce genetiche sugli indumenti della vittima, il materiale pornografico trovato sul computer di casa. Bossetti rivela poi come, detenuto in carcere in questo periodo, abbia tentato il suicidio: «Era sabato, il giorno successivo all’udienza in cui la Pm in modo sgarbato e disumano mise al corrente il mondo intero di possibili scappatelle di mia moglie. Il pensiero mi consumava il cervello. Da un momento all’altro è come se si fosse spenta la luce nei miei occhi, un buio totale…». Nella lunga intervista, Massimo Bossetti, racconta le lunghe giornate in carcere, dove per lui è diventato importante il rapporto epistolare con l’esterno: «Persone sconosciute, che dal momento dell’arresto mi hanno dimostrato la loro solidarietà con lettere accorate, affettuose, che sono riuscite ad aprire uno spiraglio di luce nelle mie giornate più buie e disperate…». Con particolari e giudizi, Bossetti si concentra anche sulla famiglia, non soltanto sull’infedeltà della moglie, ma anche sulla scoperta di non essere figlio legittimo e sulla madre che ha dichiarato di essere stata inseminata artificialmente a sua insaputa. E afferma: «Mi ha ferito scoprire molte cose sulla mia famiglia... Mi ha ferito non poter assistere agli ultimi istanti di vita di mio papà: lui mi voleva accanto e mi è stato disumanamente impedito di esserci. E poi sono stato profondamente ferito con una condanna ingiusta, un ergastolo». E aggiunge: «Hanno detto che sono malvagio, sadico, con doppia personalità. Tutte accuse che chi mi conosce sa che sono lunari. Mi ritengo un uomo mite che vive per la sua famiglia».

Intervista di Giovanni Terzi a Massimo Bossetti: le sue verità dal carcere. A Panorama il muratore bergamasco racconta la sua vita in famiglia, le verità di cui è venuto a conoscenza dopo l'arresto e le sue giornate in carcere, scrive il 21 giugno 2017 Panorama.  Condannato un anno fa all'ergastolo, il muratore bergamasco Massimo Bossetti dal 30 giugno tornerà in aula per il processo d'Appello. A Panorama racconta la sua vita in famiglia, le amare verità di cui è venuto a conoscenza dopo l'arresto, le giornate in carcere. Ecco che cosa manda a dire ai giudici, a sua moglie, ai suoi figli e alle decine di persone che gli scrivono in carcere.

Come vive l'attesa del processo di appello, signor Bossetti?

«Vorrei che tutto questo tempo passasse veloce, e venisse presto il giorno della sentenza».

Immagini di essere davanti ai giudici, cosa direbbe loro per convincerli della sua innocenza?

«Signori Giudici, Voi siete liberi di credere e non credere, ma vi ribadisco la mia innocenza. Sono disposto a rimanere in carcere per il resto dei miei giorni, ma nessuno mi convincerà a confessare un delitto che non ho commesso. Nessuno!»

Ha fiducia che la sentenza di primo grado possa essere ribaltata?

«Certamente. Non ho mai fatto nulla di male in vita mia. Non esiste nessun tipo di prova evidente contro di me che indichi una mia colpevolezza. C'è una traccia di Dna incompleto che non può essere assolutamente attribuito a me e ancor oggi non riesco a capacitarmi del fatto che quella parziale traccia genetica trovata isolata sui vestiti della povera Yara, debba essere attribuita a me, visto che io non sapevo neppure chi fosse, mai incontrata, mai vista».

Non aveva mai incontrato Yara o la famiglia Gambirasio prima di sapere della sua scomparsa dai telegiornali?

«Prima che venissi accusato dell'omicidio di Yara non sapevo neppure chi fosse, mai incontrata in vita mia. Avevo incontrato una volta Fulvio Gambirasio per lavoro nel cantiere di mio cognato a Palazzago».

Perché il suo cellulare risulta inattivo da poco dopo le 17 del 26 novembre 2010 fino alla mattina del giorno successivo?

«Il telefono veniva subito acceso, la mattina, appena giunto in cantiere anche se spesso ero obbligato ad attaccarlo al quadro elettrico per lo scarso mantenimento della carica. Nei cantieri, era soggetto a cadute accidentali nell'acqua o nel cemento, per cui potete ben immaginare anche qui l'efficacia della batteria».

Come mai ricorda tanti, tantissimi piccoli dettagli ma su quel 26 novembre ha un vuoto?

«Non è che io abbia un vuoto, semplicemente per me era un giorno come tutti gli altri. Certo che se ci fosse stato qualcosa che io potevo aver fatto in particolare, un evento, sicuramente me ne sarei ricordato».

Ci sono intercettazioni nelle quali lei parla di un campo con una struttura "impalcata". Come faceva a sapere questo dettaglio? Solo chi quella sera era stato lì poteva sapere.

«Infatti non potevo sapere in che stato si trovasse quel campo, visto che non sapevo neppure dove si trovava. E se non mi crede chieda pure anche a mia moglie perché quando Yara fu trovata tentammo di recarci sul posto e sbagliammo pure strada. In un colloquio con gli avvocati mi venne riferito lo stato del campo raccontandomi le condizioni climatiche di quel giorno, piovose e forse nevose. In un momento successivo, in un colloquio con mia moglie, riferii ogni singola cosa riportata dai miei legali. Questa è la verità. Bisognerebbe, durante le telefonate e i colloqui familiari, estrapolare l'intera frase, l'intero commento dall'inizio alla fine e non solo quello che interessa agli investigatori».

Come ha vissuto il fatto di scoprire che suo padre era un'altra persona?

«Malissimo. Venni a saperlo durante un interrogatorio dal magistrato che mi mise bruscamente sotto il naso un giornale con la notizia, dicendomi che il mio vero padre era un altro e non la persona che pensavo. A nessuno auguro di scoprire la paternità o la maternità di un genitore nelle stesse modalità come in cui io sono venuto a scoprirlo».

Cosa pensa dell'ultima rivelazione di sua madre in televisione sull'inseminazione artificiale a sua insaputa? 

«Tutto può starci, anche perché in quegli anni esisteva la banca dello sperma, ma non era conosciuta legalmente, e quindi tutto era possibile e fattibile. Però dei dubbi sorgono anche a me».

Perché?

«Perché una donna che si reca per fare una visita dal ginecologo e dice di sentire un liquido freddo mentre gli viene iniettato non si pone certe domande e le rivolge allo stesso ginecologo? Forse era davvero inconsapevole che il ginecologo l'avrebbe inseminata, com'è successo anche con la successiva gravidanza nella nascita di mio "fratello" Fabio. Ma molti dubbi mi rimangono».

È stato dipinto come un predatore sessuale. Che rapporto ha con le donne?

«Solo predatore sessuale? Hanno detto che sono malvagio, sadico, con doppia personalità. Tutte accuse che chi mi conosce sa che sono lunari. Sono un uomo mite che vive per la sua famiglia. E sui rapporti con le donne bisognerebbe chiedere a mia moglie che da anni è la mia unica compagna».

Eppure l'ha tradita.

«È stata un'altra terribile prova che mi sono trovato a superare. Un'accusa terribile, verità private sui miei genitori e poi il magistrato che mi sbatte in faccia che mia moglie mi tradiva. È stata una mazzata che, dopo le altre, mi ha spinto a pensare di farla finita. Ci sono arrivato vicino».

Sua moglie è ancora al suo fianco. E i suoi figli le sono molto vicini, come si sente con loro?

«Come mi sento? Decisamente fortunatissimo. Dopo tutto quello di cui sono stato accusato, è una gran fortuna che io oggi abbia ancora tutti loro vicino. Devo ringraziare Dio che non si sono fatti condizionare dai mass media, per tutto quello che continuamente mi vomitavano addosso e ancora mi vomitano senza un minimo di rispetto per la mia persona. I miei cari sanno da sempre che sono un padre e marito amorevole, affettuoso, buono, sincero, onesto e soprattutto fedele».

Andava spesso a vedere film hard su internet.

«Ma quale spesso, non facevo a tempo a sedermi sul divano, che crollavo, mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza dopo una giornata in cantiere. Li guardavo insieme a mia moglie per intrattenerci in un momento di intimità, come due persone che si amano, e soprattutto quando i figli erano già mandati a letto».

Che vita faceva?

«Ho sempre condotto una vita assolutamente normale, tra le mura domestiche e i cantieri. Nessun hobby, nessun vizio, solo un unico pensiero: quello di essere felice e utile per la famiglia, con l'obiettivo di non farle mai mancare il necessario. Cercavo lavori di ogni genere pur di non restare fermo e assicurare sempre il pane a casa. Era una vita stupenda, bellissima, finché un giorno qualcuno decise di rovinarmela definitivamente. E tutto questo immenso amore quotidiano, fisico, mi è stato tolto senza un senso».

Quante volte usciva con sua moglie la sera?

«Pochissime, per via dei figli. E quando mi capitava di uscire con mia moglie alla sera, era perché eravamo invitati da amici o parenti, per una cena, oppure perché bisognava andare a far la spesa, e comunque sempre insieme ai figli, perché non mi è mai piaciuto lasciarli a casa. Li ho voluti, li ho cercati tantissimo, li amo, per cui ogni volta che io e mia moglie dovevamo uscire loro ci seguivano. La famiglia deve essere sempre unita, sia dentro sia fuori casa, se davvero tieni ad essa».

Quando è stato arrestato che cosa pensava di aver fatto?

«Niente, ero incredulo, spaventato, pensavo che si stessero sbagliando, ero terrorizzato da tutte quelle forze dell'ordine. Non capivo niente, tanto che chiesi al carabiniere che mi stava arrestando che cosa stesse facendo mentre lui mi intimava di inginocchiarmi. Gli dissi: "Ma perché mi devo inginocchiare, mi dia una spiegazione, non ho fatto niente di male". E lui mi disse con voce furiosa, cattiva: "Si inginocchi e stia zitto, abbassi lo sguardo e non mi guardi in faccia". Perché hanno agito così crudelmente, umiliandomi di fronte alla mia famiglia, ai miei figli, di fronte al mondo intero, quando bastava chiamarmi in caserma?»

Com'è cambiato in carcere?

«Non ho mai cambiato il mio buon modo di essere. Certo vivo con profonda rabbia l'ingiustizia di cui sono vittima».

In questi anni ci sono dei pensieri che ripetutamente le sono passati per la testa?

«Il primo pensiero, intenso, quotidiano, è quello rivolto alla mia famiglia, per come tutti loro riusciranno a sostenere le difficoltà economiche. Il secondo pensiero è per domandarmi se prima o poi la giustizia si renderà davvero conto della mia assoluta estraneità ai fatti».

Parliamo ancora del suo tentato suicidio.

«Mi trovavo in isolamento, una terribile detenzione che non auguro a nessuno. Mi sentivo solo, abbandonato da tutti come un bambino che aveva perso la mamma nella folla. Grazie a Dio il pensiero della mia amata famiglia, e quella loro foto che tenevo in cella, mi ha permesso di lottare. Quella foto è stata la mia salvezza. Come ho raccontato prima, una volta però il suicidio l'ho davvero tentato. Era sabato, il giorno successivo all'udienza in cui la Pm in modo sgarbato e disumano mise al corrente il mondo intero di possibili scappatelle di mia moglie. Il pensiero mi consumava il cervello. Da un momento all'altro è come se si fosse spenta la luce nei miei occhi, un buio totale. Riprendendomi mi accorsi di essere seduto di fronte al lavandino con la testa nell'acqua, pian piano capii e sentii che sul collo avevo qualcosa che mi stava soffocando. Ho tentato il suicidio mettendomi una cintura al collo, senza pensare che dietro a questo dramma ce n'era un altro a cui pensare, quello di tre stupendi figli che tanto mi vogliono bene e non vedono l'ora di riavermi con loro».

Come passa le giornate in carcere?

«Le passo come meglio posso, attraverso quelle piccole opportunità, mansioni lavorative, che il contesto mi offre. Cerco di impegnare il tempo, l'unico vero nemico qui in carcere. Al mattino eseguo le pulizie della cella, l'ordine e la pulizia per me sono una cosa maniacale. Guardo la televisione, leggo, scrivo e rispondo alle lettere. Le tante lettere che mi esprimono conforto e solidarietà mi tengono tantissima compagnia. Quando posso, scendo all'aria e sto qualche ora al sole, l'unico mio vero, grande, caloroso amico che mi scalda la pelle e mi migliora l'umore, la mente e il cuore. Resto per un momento in tranquillità con me stesso. Se mi viene offerto del lavoro partecipo con entusiasmo, soprattutto se rientra nelle mie competenze edili. La maggior parte del tempo sto per i fatti miei senza creare e avere problemi con nessuno di chi mi sta intorno, agenti e detenuti. Cerco di rendermi utile quando posso e di rendermi invisibile dove è necessario che lo sia».

Riceve molte lettere? Di che tipo sono?

«Sì, tantissime, da ogni parte d'Italia e anche da fuori, tutte piene di tanto affetto, solidarietà e immensa vicinanza. Devo dire grazie a queste persone, umanissime e di gran cuore. Persone sconosciute, che dal momento dell'arresto mi hanno dimostrato la loro solidarietà con lettere accorate, affettuose, che sono riuscite ad aprire uno spiraglio di luce nelle mie giornate più buie e disperate. Un grazie di cuore lo devo poi a tutti gli amici che mi sono accanto con il pensiero quotidiano e soprattutto grazie di esistere anche per me».

Legge in carcere?

«Leggo quotidiani, settimanali di gossip, libri».

Che libro sta leggendo?

«Leggo libri di persone che narrano la propria storia, inciampate in ambienti malavitosi e finite in carcere. Leggo storie di persone colpite da un'ingiustizia che devono subire, come è capitato a me. L'ultimo libro letto è stato quello di Raffaele Sollecito intitolato Un passo fuori dalla notte. Un bellissimo libro che narra la sua storia e del dover far conto un giorno dell'ingiustizia che sta intorno a noi. Ringrazio immensamente il mio avvocato Claudio Salvagni che mi ha regalato questo bellissimo libro. Raffaele me lo ha dedicato firmandolo personalmente».

Cosa l'ha ferita più di tutto in questi anni?

«L'avermi privato della libertà, sequestrandomi e allontanandomi dagli affetti familiari. Mi ferisce essere accusato ingiustamente di un orrendo delitto nei confronti di una povera bambina che poteva benissimo essere mia figlia. Mi ha ferito scoprire molte cose sulla mia famiglia, la storia della mia paternità e quella dell'infedeltà di mia moglie. Mi ha ferito non poter assistere agli ultimi istanti di vita di mio papà: lui mi voleva accanto e mi è stato disumanamente impedito di esserci. E poi sono stato profondamente ferito con una condanna ingiusta, un ergastolo».

Un messaggio per sua moglie: che cosa le direbbe adesso?

«Mary amore mio (disegna un cuoricino, ndr) un giorno mi chiederai scusa per aver dubitato della mia innocenza. Ti ringrazio che alla fine non ti sei lasciata condizionare facendoti trascinare da chi con forza, in tutti i modi possibili, ha tentato di strapparti da me. Tu e soltanto tu sai quanto bene ti ho sempre voluto e quanto tutt'ora ne nutro per te, per cui sappi che ti stimo profondamente per quanto, con immensa fatica e intense sofferenze, ti prendi cura di tutto e di tutti. Ma soprattutto con grande amore e molta protezione dedichi tutta te stessa alla cura nell'importante crescita quotidiana dei nostri meravigliosi amori, figli, cuccioli di vita. Un giorno spero di riaverti nuovamente accanto e forse in una vita ancora migliore di quella passata. Mary, amore mio, con te ho condiviso tutto il mio passato, condivido il mio presente e mi auguro di poter condividere il mio futuro. Grazie Amore mio!!!»

Ai suoi figli, cosa direbbe adesso?

«Figli, cuccioli, amori miei, papà è stato colpito da un'ingiustizia terribile. Un grandissimo errore giudiziario e mi dispiace moltissimo che a farne le spese non sono solo io, ma soprattutto voi che soffrite ingiustamente la mia assenza, la mancanza dell'affetto paterno. Dovete essere sempre forti non preoccupatevi mai di niente e soprattutto non sentitevi mai soli. Papà, anche se ora fisicamente non è con voi, vi è sempre accanto, con il cuore, con il pensiero e con la mente, più di quanto non immaginiate. Dài che papà è forte, ve lo sta dimostrando come un vero guerriero e alla fine vincerà anche questa grande guerra. Ci vuole tempo come tutte le cose. Anche voi tre state dimostrando di essere veri guerrieri, state crescendo e reagendo bene. Bravi, sono orgogliosissimo di tutti voi, l'importante è combattere e saper fronteggiare con coraggio ciò che incontrerete nel vostro cammino di vita e ricordatevi sempre da veri guerrieri: mai arrendersi per la propria innocenza. Figli amori, cuccioli miei, papà mai vi lascerà, mai vi abbandonerà, perché siete il primo e ultimo pensiero della mia giornata. Vi voglio un immenso bene e vi amo più di quanto io non abbia mai amato una persona!»

Bossetti verso il processo d’appello. Parla la moglie Marita: «Su di lui dubbi solo all’inizio». L’intervista a Gente: «Non gli chiedo più cosa aveva fatto quella sera». La parte civile (i Gambirasio) aveva incalzato l’imputato su quei dubbi. La moglie del detenuto parla anche della suocera Ester Arzuffi: «Rapporti rovinati, non c’è stata nel momento del bisogno», scrive il 24 giugno 2017 “Il Corriere della Sera”. In un’intervista a Gente, in edicola oggi, Marita Comi ribadisce la convinzione che suo marito Massimo Bossetti sia innocente e non c’entri con l’omicidio di Yara Gambirasio. «Perché nelle motivazioni della sentenza parecchi fatti non ci sono — dice Marita —. Non c’è un movente chiaro e non si spiega come è avvenuto l’omicidio». Il giornalista incalza più volte Marita sui presunti dubbi che avrebbe nutrito, almeno in passato, sul conto di Massimo. «Quando va in carcere gli chiede ancora “cosa hai fatto quella sera”?». «È argomento superato, via. Era un dubbio iniziale», risponde la moglie dell’artigiano della Piana di Mapello. In realtà il tema dei dubbi della moglie aveva avuto una posizione di primo piano durante le battute finali del processo di primo grado (Bossetti era stato condannato all’ergastolo il primo luglio 2016). Durante la sua arringa l’avvocato di parte civile dei Gambirasio, Andrea Pezzotta, aveva detto apertamente di essere sobbalzato sulla sedia leggendo alcune intercettazioni ambientali di Marita e Massimo durante un colloquio in carcere. La moglie diceva al marito: «Anche prima non mi hai mai detto cosa hai fatto quella sera, ti ricordi?». E quell’anche prima, secondo la parte civile, significava prima dell’arresto, cioè prima che i riflettori dei mass media, della procura e del tribunale venissero puntati sul carpentiere di Mapello. Secondo la parte civile quella domanda era da interpretare, in realtà come una «confessione extragiudiziale». Affermazione poi contestata dalla difesa di Bossetti. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, nel frattempo hanno già presentato i cosiddetti «motivi aggiunti» per sostenere il loro ricorso in appello. Il processo inizierà a Brescia venerdì 30 giugno, tra sei giorni. Al momento, tra le carte della difesa, non ci sarebbero — ma si tratta di indiscrezioni — riferimenti a quanto sostenuto in più interviste da Ester Arzuffi, mamma di Massimo Bossetti, sul sospetto di un’inseminazione avvenuta a sua insaputa alla fine degli anni ‘60. Le indagini, com’è noto, sono passate attraverso una ricostruzione genetica complessa: ancor prima di identificare Massimo Bossetti i consulenti della procura avevano scoperto che la traccia di Ignoto 1 corrispondeva a un figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni, autista di pullman in Val Seriana, morto nel 1998. Dopo l’arresto Massimo Bossetti e la sorella Laura sono effettivamente risultati figli di quell’uomo e non del padre anagrafico. In un passaggio della sua intervista Marita parla anche della suocera, Ester. E spiega che i «rapporti si sono rovinati, ma non la sera dell’arresto di Massimo (quando le disse «Potevi dirlo che non era figlio di Giovanni»9. «È stato dopo, che si sono rovinati — spiega Marita — perché nel momento del bisogno lei non c’è stata».

Massimo Bossetti, la moglie Marita: "Non lo lascerei neppure se il test del Dna confermasse la traccia. Hanno sbagliato", scrive il 24 Giugno 2017 "Libero Quotidiano". Massimo Bossetti è in carcere, e a pochi giorni dal processo d'appello per l'omicidio di Yara Gambirasio, torna a farsi sentire la moglie, Marita Comi, che ha rilasciato una lunga intervista al settimanale Gente. La donna ha voluto mandare un messaggio chiarissimo al carpentiere di Mapello: gli crede e non ha intenzione di abbandonarlo. "Non chiederò il divorzio". Inoltre, la Comi rilancia la richiesta di ripetizione del test del Dna e accetta di parlare anche di argomenti scomodi, quali i tradimenti coniugali, le lettere di Bossetti a una detenuta, le ricerche su siti porno di cui si discusse al processo di primo grado, dei rapporti con la suocera Ester Arzuffi, ormai interrotti perché, spiega, "nel momento del bisogno più acuto né io né i miei figli abbiamo potuto contare su di lei". La moglie di Bossetti, come accennato, confida che mai divorzierà dal marito, "neppure se l'ergastolo fosse confermato sia in appello sia in Cassazione". La fiducia di Marita è assoluta. Quando le chiedono cosa farebbe nel caso in cui il test del Dna ripetuto confermasse che la traccia sugli slip di Yara appartiene al marito, ripete che non lo lascerebbe: "Vorrebbe dire che lo sbaglio è altrove".

Bossetti, l'urlo della madre ai giudici. "E' innocente: rifate il test del Dna". "Non ha ucciso Yara. Sua moglie? Fra me e Marita non è più come prima", scrive Gabriele Moroni il 27 giugno 2017 su "Quotidiano.net". È un perno, un cardine, un passaggio obbligato, nella storia terribile di Yara Gambirasio. Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti. Una vita privata, un equilibrio familiare, sconvolti e squadernati in pubblico dalla rivelazione genetica che il figlio Massimo e la gemella Laura Letizia non erano figli del marito Giovanni ma di Giuseppe Benedetto Guerinoni, conducente di autobus di Gorno. Massimo arrestato, inquisito, processato, condannato al carcere a vita per l’omicidio di Yara Gambirasio, 13enne di Brembate di Sopra. Il marito scomparso dopo una lunga lotta contro il male. La saga dei Bossetti è l’altra faccia di questa tragedia bergamasca. Venerdì Massimo Giuseppe Bossetti sarà davanti alla Corte d’Assise d’appello di Brescia per il giudizio di secondo grado.

Signora Arzuffi, come vive la vigilia di questo nuovo processo?

«Cerco di essere la mamma forte di sempre. Finora lo sono stata, devo esserlo ancora. Sono tirata, ma faccio finta di niente. Adesso voglio vedere, voglio capire tutto».

Rimane certa dell’innocenza di suo figlio?

«Sicuramente. E lo sarò sempre. So che è innocente. Lotto, combatto, perché so che mio figlio è innocente».

Ha mai pensato che potrebbe essere confermata la condanna all’ergastolo?

«Non ci penso minimamente. È fuori da ogni mio pensiero. L’assassino non è Massimo. L’assassino è fuori. Non è Massimo. Non è Massimo, lo dico ancora. Lo conosco. Io e mio marito lo abbiamo fatto e cresciuto: è un bonaccione, un buono, incapace di fare del male. Nel modo più assoluto. Lo dico perché conosco mio figlio».

Per lei sarà sempre innocente anche in caso di condanna?

«Non sarà: è innocente. E basta. Non voglio pensare a nient’altro».

Cosa vorrebbe dire a chi lo giudicherà?

«A questi giudici voglio dire solamente che guardino bene prima di condannare una persona».

Si riferisce alla perizia sul Dna?

«Solo quello. Chiediamo la ripetizione dell’esame, che venga approfondito proprio bene. Soltanto con il Dna uscirà la verità. È troppo facile dire: è lui, è Massimo Bossetti. Sono tre anni che Massimo è dentro e sono tre anni che chiede la ripetizione dell’esame. Lo chiede Massimo, lo chiediamo noi. Perché non lo fanno? Di cosa hanno paura? Vogliamo chiarezza. Si fa in fretta a condannare. Bisogna valutare tutto. Ci sono tante incongruenze».

Quali?

«Per esempio ci sono tanti altri Dna. E poi vogliamo parlare dell’arresto di Massimo? Una cosa allucinante. Peggio di Totò Riina».

L’ha visto di recente?

«È molto stanco. Stanchissimo. Però è molto forte, combattivo. Pensa ai figli. Vuole dimostrare ai figli che il papà non c’entra niente, che è la verità. Guai se non avesse i figli. Gli danno una grande forza. E ci sono la mamma e la sorella che combattono per lui. E perché esca finalmente la verità».

E di sé, signora Arzuffi, cosa vuole dire?

«Ci ho messo la faccia da subito. Mi hanno detto di tutto. Voglio capire molte cose. La mia verità rimane una sola».

Allude a Guerinoni?

«Guardi, con mio marito dicevamo una cosa: sono i nostri figli. Nostri e di nessun altro».

I suoi rapporti con Marita, sua nuora, la moglie di Massimo?

«Non è più come prima, ma non voglio giudicare. Ha tre figli, ha i suoi problemi. Io ho i miei. A parte la mancetta ai nipoti non posso fare altro. Non è più come prima. Con Massimo in carcere, ci siamo un po’ persi. Io penso a mio figlio. E ai miei nipoti. Ognuno dica quello che vuole».

Andrà al processo?

«Certo. Prima non potevo esserci perché dovevo assistere mio marito che stava male. Soffrivo, ma dovevo rimanere con lui. Adesso, purtroppo, mio marito non c’è più. Non mancherò a nessuna udienza. Sarò sempre in aula con mia figlia. Per Massimo».

Caso Bossetti. Li vedete anche voi i vestiti nuovi dell’imperatore? Scrive Gilberto Migliorini il 13 maggio 2017 su "Albatros Volando Contro Vento". La celebre favola di Andersen - forse ispirata da una storia spagnola - evoca immagini e interpretazioni nell’attualità della cronaca. La letteratura talvolta ci offre dei suggerimenti insperati e ci illumina riguardo alla realtà in cui viviamo ancor meglio di un trattato di sociologia. La storia è nota. Due imbroglioni fanno credere ad un sovrano di possedere un nuovo tessuto dalle sorprendenti caratteristiche, oltre ad essere sottile e leggero è invisibile agli uomini che non sono all’altezza della carica (nobiliare e professionale). Si tratta dunque di una stoffa che risulta impercettibile agli stolti e agli indegni. Di fatto nessuno riesce a vedere il mirabolante tessuto. Tutti, compresi i cortigiani, per non essere giudicati degli stolti, fanno le lodi della stoffa e ne esaltano la magnificenza. L’imperatore immagina che con abiti indosso confezionati con tale stoffa gli sarebbe stato facile distinguere gli stupidi dagli svegli tra i suoi sudditi e cortigiani. Il sovrano fa dunque confezionare un abito ai due sarti utilizzando il tessuto impalpabile come seta e dai caratteri sorprendenti. Sia il ministro e sia il funzionario incaricati di visionare e relazionare il lavoro, pur di non passare per stupidi, fanno gli elogi della creazione sartoriale anche se sui telai non vedono un bel niente. I due truffatori invece descrivono la loro creazione con enfasi facendo notare colori e disegno di pantaloni, giacchetta, mantellina… Quando al sovrano viene presentato il superbo lavoro di sartoria neppure lui riesce a vederlo ma finge di mostrarsi estasiato e compiaciuto per il nuovo vestito con il quale darà sfoggio della sua augusta persona. L’imperatore sfila dunque in abito adamitico, nudo come mamma l’ha fatto, di fronte a una folla di cittadini che applaudono e lodano l’eleganza della mise dai colori e dal disegno davvero originali, vedendo sì la nudità del sovrano, ma preoccupati di non dover confessare di essere indegni. I sudditi finiscono dunque per convincersi della bellezza e maestosità dell’abito, fingono di non vedere che il re è nudo. L’autoinganno talvolta rende ciechi, sordi… bravi sudditi e ottimi spettatori di un reality... Ovviamente se lo dice l’autorità che per vedere l’abito occorre essere intelligenti… non c’è dubbio che tutti finiranno per vedere anche quello che non c’è. Cortigiani, supporter, cicisbei, perbenisti e farisei finiranno per far le lodi sperticate del magnifico vestito nuovo dell’imperatore anche se nessuno lo vede… anche se il sovrano ha solo gli slip, e magari non indossa neanche le mutande. Solo un bambino (la voce dell’innocenza) osa rompere l’ipocrisia, gridando “il sovrano è nudo”, rendendo palese che l’imperatore non ha niente addosso. Per carità, niente di scandaloso, si vive in società dove siamo monitorati e scannerizzati, dalla carta fedeltà fino alle telecamere che ci seguono anche al cesso e probabilmente abbiamo un chip in quel posto senza saperlo, per lo screening del colon-retto a scopo preventivo... Ma la nudità del sovrano… oibò… un fatto da coprire immediatamente, se non con un vero vestito almeno con una informazione ad hoc che ci racconti come lo strascico, retto dai ciambellani, cade bene, le tinte sono appropriate e il disegno impeccabile, insomma una toilette inoppugnabilmente bella e aggraziata. Solo una favola? Non proprio. Sono state pubblicate varie fotografie di Massimo Bossetti e di Guerinoni, ci hanno detto che quello è il suo vero padre e che la genetica lo ha dimostrato in modo inequivocabile. Tra le due persone non esiste la ben che minima somiglianza, niente richiama i due volti. Inoltre la signora Arzuffi già da tempo, molto prima del concepimento, si era trasferita. Eppure, visto che lo dice una fonte autorevole, nessuno osa passare per stolto... anzi, tutti si dimostrano ben informati riguardo ad alleli, mitocondri, nucleotidi e quant’altro... motivo per cui i media informati dal palazzo danno la notizia come fatto acquisito perché ai piani alti si considera la cosa già archiviata. Guardando le fotografie del padre legale Giovanni Bossetti si nota invece la somiglianza con il figlio Massimo. È palese che non può essere di natura casuale, per chi vuol vedere è del tutto evidente che il padre legale è anche padre biologico sulla semplice logica del fenotipo. È pur vero che l’abito invisibile fatto di mitocondri ed alleli è riservato allo specialista di genetica molecolare, nessuno osa contraddire la sovranità della scienza e l’aura di infallibilità decantata da cultori, esegeti, ermeneuti e sacerdoti dell’episteme, anche se in realtà la fantomatica prova non esiste o non è visibile proprio come la stoffa del vestito nuovo dell’imperatore. E poi con quel mantra sparato a gran voce, la scienza non sbaglia, chi mai oserebbe fare la figura dello sprovveduto e dello sciocco? Proprio come i sudditi di sua maestà, quelli della favola, son tutti concordi a ritenere che per l’evangelo della scienza mediatico-forense il carpentiere è figlio di un autista e la signora Arzuffi per il bene del Bel Paese, per preservare la castità e la fedeltà, non sua ma quella delle sacre istituzioni, deve adattarsi a figurare come fedifraga e immolarsi come adultera... ah, se invece di ribellarsi stesse al gioco! Perché continuare a contrastare la scienza quando tacendo potrebbe sperare di ricevere, nel giorno in cui tutti si saranno dimenticati di lei, una benemerenza o un riconoscimento? Certo, nel caso malaugurato che con un test genetico uscisse fuori che per disgrazia Massimo è figlio di Giovanni... insomma, sarebbe un poco imbarazzante per il sistema. Comunque le promozioni non si negano a nessuno nel Bel Paese. Il problema sarebbe per le ipostasi come Giustizia e Verità. Nel caso ipotetico la credibilità della Dea bendata si troverebbe in affanno e il prestigio delle istituzioni verrebbe un tantino appannato. I documenti depositati servono a poter procedere a una verifica da parte di chiunque ne abbia interesse. Non è solo questione di trasparenza, quando un ricercatore pubblica un suo esperimento su una rivista scientifica è perché un suo collega lo possa replicare. Questo perché capita che molti risultati scientifici, pubblicati anche dalle maggiori riviste, una volta verificati da altri scienziati siano smentiti. E ciò significa che i risultati non sono riproducibili. Riprodurre un risultato significa controllarne fattualmente i metodi utilizzati e interpretarne i dati alla luce delle procedure più accreditate. Spesso i risultati che con successo superano il test di riproducibilità sono inferiori al 70%. No, la scienza non è una fede che si accetta ad occhi chiusi dato che comporta sempre la possibilità di una verifica e l’esistenza di potenziali falsificatori. L’errore fa parte dei suoi protocolli in una situazione controllata delle variabili, dipendenti e indipendenti. Può anche accadere che vengano rilevati refusi, vuoi nella metodologia o vuoi nell'interpretazione dei dati. In assenza di un documento, le parole anche di un illustre genetista vanno prese con beneficio di inventario. Nella storia della biologia abbiamo tante controversie scientifiche relative al metodo e alla interpretazione dei risultati. In mancanza di documentazione replicata nulla ha valore e dargliene significa fare atto di fede verso il santone di turno. Ci saranno carte visibili prima o poi, dato che anche un qualsiasi disconoscimento di paternità prevede il deposito di un documento con tutte le informazioni analitiche relative all'esecuzione del test? Perché l’accusa non ha effettuato un test di raffronto col padre legale come auspicato dal Gip? E se l’ha fatto, perché non risulta agli atti? Siamo di fronte a una versione aggiornata della famosa fiaba danese? La spesa di milioni di euro può essere una spiegazione al mancato deposito della prova di paternità? Quello che colpisce è la reazione dell’opinione pubblica, del tutto analoga con la folla di cittadini che applaudono l’eleganza del re col suo vestito nuovo. Oggi per i media la scienza è diventata un atto di fede, anche quando viene solo evocata dai media. Eppure siamo agli ultimi posti nella libertà e obiettività dell’informazione in Europa. Ci raccontano una favola, altro che il favola! Non esiste agli atti alcuna prova di paternità (un test analitico, documentato e riproducibile eventualmente da un altro laboratorio) che dimostri che Massimo Bossetti non è figlio biologico del padre legale Giovanni Bossetti. Nulla ci è stato mostrato, però ci viene decantato il tessuto invisibile sotto forma di una prova di paternità accertata che dimostrerebbe in modo inequivocabile l’adulterio della signora Arzuffi... o in alternativa che Massimo Bossetti in un modo o in un altro è figlio di un altro uomo. La premessa della paternità Guerinoni viene affermata come un assioma senza essere provata e documentata. È inutile che ci dicano che la prova a disconferma è stata fatta e che il risultato è che il carpentiere non è figlio di Giovanni. Le prove sono documenti da allegare agli atti altrimenti sono solo dichiarazioni, affermazioni senza riscontri, entità immaginifiche come l’araba fenice. La favola mediatica così ben ispirata con il nuovo tessuto genetico possiede caratteri organolettici che hanno ispirato una digressione puramente letteraria? Una spesa colossale è ben servita a confezionare le vicende della famiglia Guerinoni in una saga familiare dove realtà e fantasia si mescolano in un vestito confezionato con alleli e mitocondri? L’abito nuovo dell’imperatore assomiglia molto al presunto padre di Massimo Bossetti. I romanzi d’appendice piacciono al lettore, come i reality e le telenovele piacciono allo spettatore amante di qualche isola dei famosi. Il target deve aver considerato eccitante la divagazione ricca di pathos e intrisa di tradimenti, trame oscure, coup de théâtre. Gli ingredienti piccanti e morbosi piacciono all’audience, soprattutto quando ci raccontano che la paternità è acclarata, che esiste prova che Massimo non è figlio di Giovanni. La prova però è invisibile proprio come il vestito nuovo dell’imperatore…L’effetto scenico e la sorpresa per l’improvvisa rivelazione stupefacente del figlio illegittimo, fa perfino dimenticare l’omissis che agli atti il documento non c’è, c’è solo uno sponsor pubblicitario come la vendita di una saponetta con lo sconto e il premio fedeltà. Il capitolo Guerinoni ha spessore letterario… la storia è così coinvolgente che si è pronti a seguire le istruzioni per l’uso a scatola chiusa…Peccato che nel caso non ci sia il documento, la controprova, la riproducibilità come in ogni esperimento pubblicato su una rivista scientifica o depositato agli atti in un processo. La resa letteraria è comunque suggestiva, un romanzo con quelle belle vicende tra il pittoresco e il fantastico, intrisa di folclore e mistero. La vicenda con tradimenti e figli illegittimi potrebbe essere solo una digressione letteraria, un reality che c’entra come i cavoli a merenda col delitto? Che Massimo non è figlio di Giovanni è senza riscontri. Tutta la vicenda del vero padre potrebbe risultare solo un espediente narrativo, bello e suggestivo proprio come quel Dna sopravvissuto per mesi alle intemperie nel campo dei miracoli. Il re è nudo? Con le mutande confezionate con quella stoffa di cui è fatto il vestito nuovo dell’imperatore?

Caso Bossetti... e agli asini spuntarono le ali...,scrive Gilberto Migliorini il 2 maggio 2017 su "Albatros Volando Contro Vento". Il caso del muratore di Mapello è la dimostrazione, se ancora ci fosse bisogno di prove, che agli asini sono spuntate le ali, nottetempo, una rivoluzionaria mutazione genetica, darwiniana, una di quelle che non passano inosservate ai potenti sistemi di calcolo e agli osservatori imparziali. La notizia l’abbiamo appresa appena svegli al notiziario delle sette. Sullo smartphone subito dopo ci è stata confermata. Appena acceso il computer l’abbiamo appreso dal quotidiano on-line dove già sbocciavano i commenti dei lettori. Al supermercato, nei bar e sul posto di lavoro già tutti ne parlavano, era ormai di dominio pubblico che gli asini erano perfettamente in grado di volare e qualcuno già asseriva di averne visti che veleggiavano in formazione tra le nuvole, che in cielo ce ne fossero stormi proprio come i gabbiani. Di lì a pochi giorni era verità conclamata che la variazione cromosomica era davvero avvenuta, opinionisti e consulenti ne parlavano nei format e per quanto non ci fossero ancora le immagini in diretta era palese che il cambiamento epocale veniva confermato da tutte le fonti attendibili, descritto in tutti i suoi risvolti genetici, rappresentato mediante tabelle numeriche su un foglio elettronico. Non esisteva ancora la registrazione visiva degli asini volanti, documentata mediante immagini in diretta, ma era solo questione di tempo, si sarebbe fatta quanto prima anche una verifica che non esistessero asini senza le ali. Il fatto era lapalissiano, evidente ai sofisticati sistemi di analisi: a tutti gli asini indistintamente erano spuntate le appendici aeree. Se qualche scettico insisteva a dire che ancora non avesse visto un somaro volare, era per spirito di contraddizione, uno di quegli sprovveduti o bastian contrari che diffidano delle notizie per malcelato spirito complottista. Il caso Bossetti costituisce esempio emblematico di come si formano le opinioni, con quella che in psicologia sociale va sotto il nome di profezia che si autoadempie e che rappresenta la radiografia dell’Italia attuale, una cartina al tornasole delle sue istituzioni, del connesso sistema informativo e della mentalità dell’utente mediatico. L’informazione segue la logica della vendita di un prodotto editoriale senza remore etiche o teoretiche, in funzione del sistema del consenso di cui è parte rilevante e strumento essenziale. Sembra che l’Italia sia agli ultimi posti in Europa nella qualità dell’informazione, a gomito con paesi che non brillano per libertà di stampa e garanzie costituzionali. Qui nel Bel Paese le guarentigie di solito sono evocate nelle cadenze comandate, nei discorsi altisonanti e nella classica retorica edificante. Passata la festa coi gagliardetti e il tricolore, si torna al vecchio e inossidabile manuale Cencelli, alla propaganda con nobili intenti e alla demagogia da salotto. Qui nel blog si è sistematicamente segnalato che l’affaire paternità Bossetti è perfino più strano degli asini che volano. Tutto normale, guai a dire che gli asini non volano, si passa per "gomblottisti", ridicolizzati perché tutti sarebbero in grado di vedere in cielo i somarelli svolazzanti, in perfetta formazione come i cormorani. In internet, ovunque si possa commentare, viene costantemente ridicolizzata qualunque presa di posizione che richieda, prima di credere alle certezze massmediatiche, i riscontri documentali a fronte di notizie che si replicano come fotocopie senza la parvenza di una prova. Infatti, la grande informazione, a parte qualche voce isolata fuori dal coro, senza mostrarci nulla di scritto ci ha detto - sistematicamente imbeccata da fonte autorevole - che Massimo Bossetti è figlio di un tale Giuseppe Guerinoni... tutti i media, quelli che contano, hanno strombazzato che il carpentiere di Mapello non è figlio biologico del padre legale Giovanni, come invece la signora Arzuffi ha continuato ad affermare ben sapendo che non aveva mai avuto nessuna tresca con l’autista di Gorno. Sono riusciti a convincere a tal punto la signora Arzuffi che il figlio Massimo fosse figlio di Giuseppe Guerinoni - il suo vero padre a detta della nomenclatura mediatico-forense - che per darsi una spiegazione plausibile la madre del carpentiere ha dovuto supporre che fosse intervenuta a sua insaputa una inseminazione artificiale. È da precisare che la signora Arzuffi non ha mai detto che il marito fosse sterile, e nemmeno che abbia voluto ricorrere ad una procreazione medicalmente assistita. La madre del carpentiere ha solo supposto di averla eventualmente subita, per darsi ragione di quanto le veniva detto come verità assodata e conclamata, come qualcosa della quale non esistesse alcun dubbio. La cosa sorprendente è che il sarcasmo dei commentatori mediatici non ha riguardato il fatto che la paternità Guerinoni venisse affermata senza alcuna prova, ma che la signora cercasse di darsi ragione di qualcosa che era in contraddizione con i fatti della sua vita, la realtà dei suoi vissuti, la sua esperienza e la sua storia di donna sempre rimasta fedele al marito. Si tratta proprio di una vicenda come gli asini che volano: esiste un diffuso si dice, testimonianze e visioni, anche oniriche, ma senza che nessuno strumento di registrazione abbia ancora visto gli equini volare in cielo. Ma si sa che bisogna aspettare il momento opportuno per immortalare i ciuchi nel loro perfetto pattern di volo, magari intanto ci si accontenta di tutti quei testimoni, e sono davvero tanti, che li hanno descritti nella loro classica formazione a V, quasi come a descrivere la doppia elica del Dna. Ce l’hanno raccontato in tutte le salse come un fatto acquisito, che Massimo Bossetti è figlio di Guerinoni, come se si trattasse di un dogma di fede sul modello di un Gesù Bambino con un padre putativo. Non fa niente che al momento del concepimento, in un mese invernale, la madre del carpentiere vivesse da molti mesi a sessanta chilometri di distanza da Guerinoni; non fa niente che le fotografie di Massimo Bossetti abbiano tutti i tratti somatici del padre Giovanni; non fa niente che la donna abbia sempre ribadito con forza di non aver mai aver avuto una relazione con Giuseppe Guerinoni; non fa niente che la testimonianza dell’amico Vincenzo Bigoni smentisca che sia stata Ester Arzuffi la giovane donna che Guerinoni aveva messo incinta. Che Massimo Bossetti non sia figlio del padre legale viene comunque dato per certo e acquisito sulla base del si dice. Come per gli asini che volano la conferma viene dal sistema mediatico… da fonti autorevoli, purtroppo senza riscontro documentale, senza prova visiva, proprio come gli asini volanti, ai quali ci viene assicurato che sono spuntate le ali. Il Gip aveva preventivato una verifica di paternità sul padre legale. Nessun documento è però mai stato presentato (né dall’accusa e né dalla difesa) a smentire la paternità biologica del padre legale. Come per i ciuchi volanti fa fede l’ipse dixit del sistema mediatico, ribadito con allusioni e circonvoluzioni, e ovviamente fanno fede le ali che a detta di tutti, opinionisti e commentatori, sono per davvero spuntate sul dorso degli equini. Ci hanno perfino raccontato che anche il terzo figlio sarebbe il risultato di un adulterio. Sorge il sospetto che anche ai cavalli potrebbero essere spuntate le appendici alate. Come siano giunti alle conclusioni genetico-evolutive dei ciuchi volanti e di una emblematica paternità putativa sembra un mistero mariano, eppure ribadito così convintamente da risultare un dogma. La notizia, imboccata dagli inquirenti, ha imperversato su tutti i canali informativi, data per certa ed acquisita anche senza la benché minima prova documentale, senza il supporto di una prova genetica presentata in contraddittorio. A un’audience di bocca buona l’informativa senza accertamento va bene lo stesso, come nella pubblicità basta la parola, lo slogan fa da supporto. Per l’utente medio una conferma è semplicemente la dichiarazione di una qualunque autorità o parte in causa, basta la parola.... Anche quando sembra evidente che nessun documento sarà allegato agli atti - a riprova dell’adulterio della signora Arzuffi o comunque della non paternità biologica del padre legale -  i media, quelli che contano, non fanno una piega, non si pongono qualche interrogativo, non sollevano il dubbio che la storia della paternità possa essere una bufala.  Si è perfino usata la motivazione della privacy - dopo aver sputtanato la signora Arzuffi - si è ricorsi allo stendiamo un velo pietoso, non inferiamo su una povera madre. Una pietas su una verità scabrosa, quella di un fantomatico adulterio, o una copertura su una notizia totalmente inventata? La formula figlio di un altro padre ha poi tutta l’indeterminazione di una locuzione enigmistica, sembra l’indovinello dove ciascuno può liberamente interpretare...un omissis con un colpo di gomito o una strizzatina d’occhio d’intesa…Siamo ancora qui ad attendere quel benedetto documento con tanto di firma in calce di un genetista che ci dica che Massimo Bossetti non è davvero figlio biologico di Giovanni Bossetti, finalmente ce ne faremmo una ragione. Uno strano presentimento ci suggerisce però che la paternità non verrà mai messa in discussione con un documento ufficiale, rimarrà così… un cogito cartesiano. Si è potuto affermare che Massimo Bossetti non è figlio del padre legale senza la ben che minima documentazione di quanto si è andato strombazzando ai quattro venti con l’assistenza di tutti i canali informativi. L’adulterio della signora Arzuffi è diventato conclamato, certificato, assodato ed evidente senza il ben che minimo supporto di una ‘carta canta’ che lo comprovasse mediante una firma in calce, una relazione resa pubblica con la possibilità di una prova di controllo. Eppure basterebbe guardare delle fotografie, senza pregiudizio, per trovare ispirazione e suggerimenti circa l’albero genealogico. Figuriamoci cosa può fare un apparato propagandistico anche senza il supporto di riscontri documentali semplicemente dando per buono quanto una fonte istituzionale dichiara dall’alto della sua autorità e in forza dei suoi metodi persuasivi. Dal niente di una notizia - magari inventata di sana pianta - il sistema massmediatico può… creare illusioni da fata morgana, effetti Pigmalione, telenovele... L’organigramma informativo può mostrare davvero gli equini volare nel blu dipinto di blu, semplicemente gridando le news, presentandole nel modo giusto e replicandole con l’ausilio di persuasori più o meno occulti. Un fatto diviene vero, assodato e certificato non in quanto documentato, ma in quanto scaturito da fonte attendibile, riprodotto da canali autorevoli, commentato da opinionisti di rango, certificato da indiscrezioni affidabili, suggerito da una autorità indiscutibile e lubrificato da tutto un sistema di consulenze prestigiose. Paradossalmente proprio con la proliferazione dei canali informativi, la loro distribuzione capillare e gli strumenti telematici di ultima generazione, la capacità di indottrinare l’utenza ha progredito in modo esponenziale a tutti i livelli e in tutti gli interstizi sociali. Il target è avvolto e pervaso da un flusso di informazioni in ogni momento della giornata. La ridondanza ha come effetto la certezza del vero in una sintonia ripetitiva che persuade. L’orchestra mediatica replica ad libitum la sua canzone: per il consumatore è la prova che alla notizia ribadita come un mantra corrisponde la realtà vera. Il pluralismo informativo, sistema di fotocopie e decalcomanie, rappresenta l’evidenza della verità delle news. Ma se un giorno, mettiamo il caso in ipotesi, dovesse venir prodotto un fantomatico documento - la prova di paternità - che attesti senza ombra di dubbio che Massimo Bossetti è figlio genetico del padre legale Giovanni Bossetti? Cosa dovremo dedurre, se questa improbabilità dovesse accadere, se non...

a) Che l’informazione del Bel Paese è solo un sistema di illusionismi e di marketing, un sistema che si perde nei dettagli insignificanti e negli escamotage (il fantasma del fratellastro di Bossetti) e perde sistematicamente di vista l’essenza dei fatti che contano davvero.

b) Che una madre e moglie è stata fatta passare per adultera, che a dei figli è stato fatto credere di essere illegittimi, che intere famiglie sono state messe alla berlina sulla base di notizie inventate, che a un marito e a un padre morente già debilitato, preoccupato per la sorte del figlio accusato di un delitto, è stato instillato il sospetto e il dolore di essere stato tradito. Ci auguriamo che non sia così, anche se tutto lascia credere, fino a prova contraria, che quella della paternità potrebbe essere una balla colossale. Un'indagine partita male e approdata a un colossale nulla di fatto ha messo in galera la persona sbagliata trascurando moltissimi elementi che avrebbero potuto portare in altre direzioni senza far spuntare le ali agli asini...

Caso Bossetti... l’uscita di sicurezza, scrive Gilberto Migliorini l'1 giugno 2017 su “Albatros Volando Controvento". Forse neppure il trentenne Truman Burbank così pieno di vita e ignaro d’essere l'attore protagonista di uno spettacolo televisivo, il Truman Show, poteva immaginare che anche il finale fosse già scritto nel rassicurante epilogo dello schiavo liberato come nel mito platonico. Nel mito però lo schiavo fa ritorno nella caverna e rischia il linciaggio per il fatto che racconta che “il re è nudo” per dirla alla Hans Christian Andersen... Ci sono verità pericolose, cose che non si possono dire, meglio la metafora abbastanza generale da lascare tutti in braghe di tela... Per quelli duri d’orecchio non serve nemmeno il cornetto acustico, sono come le scimmiette: non vedo, non sento e non parlo. L’antefatto - spiegato dal regista demiurgo - ci riporta alle note biografiche… Truman, prelevato da una gravidanza indesiderata, è ignaro di vivere fin dalla nascita in un gigantesco studio televisivo dove perfino il giorno e la notte sono artificiali, un’isola circondata da un mare artefatto e un tessuto sociale dove tutti sono attori professionisti. Lui però non lo sa. Sembra un déjà vu… di quei talk show televisivi dove solo apparentemente si recita a soggetto… con gli opinionisti che ti scodellano i verbo scientifichese. Insomma una vita perfettamente pianificata dalla regia per rendere il più possibile di successo lo show, seguitissimo dagli affezionati telespettatori. Il protagonista, lui non sta recitando, è convinto che la sua sia una vita vera, non sa di trovarsi in un grande teatro con le telecamere e i microfoni, i fondali scenografici… e naturalmente il pubblico là fuori affezionato al suo personaggio. Chissà, forse oggi gli avrebbero perfino impiantato un chip, non si sa dove, perché il pubblico possa seguire in ogni dettaglio le puntate in diretta. Una inquietudine e un’ombra di sospetto cominciano però a serpeggiare nella mente di Truman, inizia a capire… e a nutrire un desiderio di evasione. Medita la fuga. Compito della regia e degli sceneggiatori è allora quello di dissuaderlo… perché the show must go on e perché il copione non contempla il forfait del protagonista. Chissà, forse ha un contratto da onorare. La chiusa è quella del lieto fine delle favole. Truman nonostante la sua paura dell’acqua si avventura sul finto mare dentro una barchetta ormai consapevole dell’inganno. Va a cozzare contro gli scenari teatrali e trova l’uscita. Si sottrae alla finzione del reality con il suo classico «Casomai non vi rivedessi... buon pomeriggio, buonasera e buonanotte!» Lo spettatore esulta per il lieto fine. Lo schiavo del più famoso mito di Platone si è finalmente liberato, anche se rimane il sospetto che forse Truman potrebbe essere meno ingenuo di quanto si immagini.  Che anche lui faccia parte del gioco? Che sia il telespettatore il vero Truman che stanno prendendo per i fondelli? Si spegne la tivù con la sensazione che forse l’inganno è più sottile e ci coinvolga tutti... che l’uscita di Truman sia un’uscita di sicurezza ben preparata dalla regia, giusto per illudere che è tutto a posto, rassicurando l’audience che finalmente la verità è venuta alla luce, che possiamo stare tranquilli perché l’imbroglio è stato smascherato...Nel Bel Paese il genere reality si è evoluto. Il geniale film diretto da Peter Weil - interpretato da Jim Carrey candidato a tre Premi Oscar nel 1999 e premiato con Golden Globe - è stato ormai surclassato da un reality di nuova concezione. Noi abitanti del Bel Paese quando vogliamo ci sappiamo fare, il neorealismo cinematografico trova nuova linfa con attori non professionisti, talvolta ignari di trovarsi sul set. Il vecchio virtual reality è ormai andato in pensione, a parte i nostalgici dell’isola dei famosi che ancora riescono ad appassionarsi alle vicende soporifere degli illustri naufraghi. Nel caso del carpentiere di Mapello, il genere spettacolo della realtà ha ormai superato il ristretto perimetro dello schermo, in una sceneggiatura che coinvolge opinione pubblica, istituzioni e sistema mediatico. Il nuovo reality non è più confinato su un’isola-teatro, è direttamente implementato nei fatti di cronaca con omicidi veri. Nel nuovo genere neorealista, un reality spregiudicato e innovativo, il confine tra realtà e fiction è sempre più mobile e indeterminato, creativo e spettacolare, innestato sulla cronaca. Lo schema del reality show, da Survivor al Big Brother, è rimasto apparentemente intatto con tutti gli elementi mediatici che coinvolgono il pubblico, le nomination, i giudici, le eliminazioni, il commento degli opinionisti e la critica con l’epilogo di un vincitore. Quello che accomuna tutte le formule è la presenza di sistemi di registrazione (telecamere e microfoni) in grado di seguire i protagonisti nella loro intimità (più o meno virtuale). Tutta l’operazione che riguarda la sceneggiatura e le istruzioni di regia rappresenta invece la parte occulta, la più complessa, quella che pianifica la narrazione e costruisce la storia per il target che sovente crede davvero che il reality sia come il mondo del dismagamento e del disincanto. In tutte le varianti il confine tra realtà e finzione è indeterminato, contaminato e mescolato per rendere il serial suggestivo e coinvolgente. Nel caso Bossetti il reality ha definitivamente superato la ristretta location del teatro, quella angusta relativa alla situation comedy, una ambientazione che caratterizza i personaggi e la loro interazione emotiva, il recinto ristretto dove le telecamere indugiano sulla nudità psicologica di un attore nature. La soap opera con la fidelizzazione dello spettatore, il tema monocorde della telenovela… sono modelli obsoleti. Il reality è entrato nel vivo del Paese senza più remore di privacy né confini di genere letterario, in una contaminazione di stili narrativi. La sceneggiatura è diventata a tutto campo, con un interprete consapevole di trovarsi a recitare come protagonista involontario e suo malgrado. Il nuovo Truman è senza contratto. Il caso Bossetti è un nuovo modello di reality con la sua brava sceneggiatura a partire dagli oggetti di scena, quei reperti (nanogrammi di materiale genetico) che per esistere hanno bisogno di una regia e di un bravo scenografo. Per quanto si possa essere profani si sa che alle intemperie per mesi la doppia elica del Dna non solo ha qualche défaillance, non soltanto diventa illeggibile, ma forse perfino passa a ‘miglior vita’. L’acido desossiribonucleico di un muratore, per quanto possa essere risultato di una peculiare evoluzione darwiniana, non esiste in natura come un ‘nucleotide d’amianto’, di ottima qualità dopo mesi in un campo all’aperto. È un theatrical property che lo scenografo predispone per offrire l’input narrativo e per dare il ciak si gira. Che poi si voglia di dimostrare che sia o non sia il Dna del carpentiere - quello che la fiction fa trovare sul cadavere della povera ragazza - fa parte delle varianti di un copione ancora in fieri e con tutta la suspense di un acido nucleico che, per quanto impossibile, è parte indispensabile per sviluppare il film e offrire tutto il supporto di effetti speciali, opinionisti, genetisti, nomination.... La fiction ha i suoi nessi e i suoi percorsi collaterali, le sue uscite di sicurezza, proprio come Truman, nel caso il telespettatore cominciasse a subodorare il finale e la storia perdesse tutta la suspense. E poi, nell’ottica dello spettacolo, non sembra così importante trovare i veri assassini, anche perché in un reality la verosimiglianza basta e avanza per un telespettatore in cerca d’emozioni. Il tema della paternità con la storia del vero padre, digressione sul modello manzoniano – una monaca di Monza o un Innominato – costruisce il nuovo reality su base genetica, un assommoir con tutto l’albero genealogico e la saga di una famiglia nel suo sviluppo storico, come in tanta letteratura verista e naturalista. La fiction è davvero intrigante, ricca di colpi di scena con i classici ingredienti che suscitano sdegno e commiserazione, un romanzo dove provette, alambicchi e agitatori molecolari la fanno da padrone con il contorno di alleli, mitocondri e nucleotidi, un versante ricco di ricadute scientifiche, di onorari e di contratti commerciali. Lo spettatore del reality viene informato che la prova di paternità dimostra inequivocabilmente che il protagonista non è figlio del padre legale. Il fatto è ribadito in ogni puntata del serial, ricordato agli smemorati, riconfermato con l’enfasi di un fatto rilevante per comprendere la storia in tutte le sue sfaccettature e i suoi percorsi narrativi collaterali. Per seguire il reality occorre almeno una infarinatura di ‘geografia della cellula’. La madre del protagonista è esposta alla gogna come adultera e fedifraga, fa parte del copione, anche lei assoldata nel reality senza contratto. In un reality ovvio che non serve che la prova di paternità sia stata fatta davvero o che vengano trasmessi i risultati del test. All’audience è stato detto che il protagonista non è figlio del padre legale, confermato geneticamente, ribadito mediaticamente, è di pubblico dominio.  Qualcuno subodora che potrebbe trattarsi di un bluff perché non c’è riscontro documentale, solo parole e suggestioni, allusioni e circonvoluzioni? Sono i soliti complottisti, i san Tommaso che ci vogliono sempre mettere il naso, che perdono di vista il nucleo narrativo e si smarriscono in quisquiglie e pinzillacchere. Al telespettatore deve bastare e avanzare la comunicazione di servizio. Un reality non ha bisogno di un naturalismo letterario alla Zola con il suo J’accuse. Il nuovo genere letterario, mediatico-genetico-forense, forse sta per arrivare a conclusione. La storia prevede il lieto fine come il Truman show? La sceneggiatura è top secret. I bene informati sussurrano che l’uscita di sicurezza c’è, che gli sceneggiatori l’hanno trovata.... Altri sono convinti che il reality può riservare ancora molte sorprese proprio come in un romanzo avvincente e imprevedibile…

Appello Massimo Bossetti. A Brescia si proietteranno ancora favole comiche da cinema muto? Scrive Gilberto Migliorini giovedì 29 giugno 2017 su “Albatros. Volando Controvento”. Non c’è da nascondersi dietro a un dito. La sentenza di secondo grado non può che decretare un verdetto di colpevolezza: quella di Massimo Bossetti o quella di un tribunale che ha condannato un innocente senza uno straccio di prova, senza una parvenza di indizio e senza nemmeno la scusante di un errore giudiziario. Riconoscere che Massimo Bossetti è completamente estraneo all’omicidio della povera Yara sarebbe un giudizio che non cerca né compromessi né virtuosismi sull’asse di equilibrio. Per quanti salti mortali si possano fare nelle motivazioni e per quanto si vogliano salvare capra e cavoli, in una mediazione da funambolici camminatori sulla fune, l’assoluzione del carpentiere di Mapello sarebbe un atto di accusa verso tutti coloro che hanno fatto di Bossetti un pedofilo assassino e il protagonista di un film di pura invenzione. Il cinema muto, coi sottotitoli a didascalia per lo spettatore catturato dalla magia della lanterna magica, è in grado di creare illusioni da fata morgana, di proiettare con una semplice candela l’immagine dipinta, un pre-cinema con l’imbonitore che spiega a un pubblico ancora acerbo e incapace la sequenza delle lastre disegnate, illustrandone il significato e dando loro valore esplicativo e… probatorio. Lo spettacolo della lanterna magica, tra didattica e intrattenimento, è un accostamento di immagini vere e immagini di fantasia nell’incerta demarcazione tra scienza e suggestione, tra realtà e immaginario, tra riscontri documentali e superstizioni. È un delitto quello della povera Yara ancora tutto da decifrare... e non è detto abbia davvero una matrice sessuale. Nel caso che l’imputato risulti prosciolto non ci sarebbero formule, anche le più arzigogolate da prestidigitatore del diritto, che possano alleviare le responsabilità di una sentenza di primo grado costruita sul niente, nella più assoluta mancanza di riscontri se non quelli di un illusionismo di movimenti con immagini di fantasia. Sarebbe del tutto evidente che la condanna in primo grado è stata comminata su un teorema tanto inverosimile quanto capzioso, senza neppure una parvenza di logica e di consequenzialità, costruito con l’ago e il filo a cucire insieme un vestito da arlecchino, assemblando in modo allusivo le pezze di una vita irreprensibile e senza macchie e gli scampoli di un acido desossiribonucleico più miracoloso dell’acqua benedetta e più immutabile della sacra sindone... anche se immerso nell’acqua e nel fango. Si è costruita una commedia dell’arte con frammenti di vita di un uomo del tutto banalmente normali con quei nanogrammi di reperti monchi e sorprendentemente integri per mesi nel campo dei miracoli, zecchini di una improbabile favola collodiana. Che tutta la storia del carpentiere assassino sia solo una silloge inverosimile ce lo dice la sceneggiatura del delitto secondo la ricostruzione dell’accusa, uno slapstick tra il comico e l’horror, credibile come il cretinetti di André Deed o il personaggio di un Buster Keaton dal talento acrobatico nei continui ribaltamenti di senso, circonvoluzioni e salti mortali, capovolte, flic e rondate. È un copione quello che vede per protagonista il muratore di Mapello che potrebbe tranquillamente far concorrenza al teatro dell’assurdo, una storia tra Kafka e Beckett, più incongrua e paradossale di una patafisica delle soluzioni immaginarie. La ricostruzione del delitto ha il gusto illusionista del film-giocattolo, del non-sense, unagag visionaria ed evocativa con un montaggio di camioncini farlocchi, di lampade solari e di sabbia per marciapiedi… olte a tutti quegli ingredienti che l’apparato massmediatico è riuscito a inserire in una narrazione continuamente aggiornata sui canoni del gossip e della notizia (più o meno inventata) dell’ultima ora. Pressioni sull’onda dell’indiscrezione e del pettegolezzo, scambi epistolari rivelatori ed emblematici per indurre a confessare il delitto, per magari dare poi all’imputato pentito e folgorato dal ravvedimento uno sconto di pena con un colpo al cerchio e quell’altro alla botte come nella migliore tradizione della giustizia italica. Tutta la ricostruzione del delitto appare una parodia involontaria, una digressione onirica tanto inverosimile quanto suggestiva, a cominciare da una ragazzina che salirebbe - forse volontariamente, forse sedotta con l’inganno o forse a viva forza - sul torpedone del carpentiere senza che nessuno lì attorno si sia accorto di niente, senza nemmeno il sentore di un grido o di un lamento. O forse la povera Yara, come han detto alcuni, è stata folgorata all’idea di un muratore alla guida di un camioncino che qualsiasi adolescente troverebbe davvero intrigante? Sembra l’ambientazione di un sogno, la classica sceneggiatura da cinema muto, evanescente e fantastica dove realtà e finzione si mescolano per un pubblico che cerca evasione nell’immaginario di una pellicola. L’azione del ciack si gira è quella di un film con il clown assassino alla It di Stephen King in una azione surreale e inquietante di un immaginario romanzesco lugubre e pernicioso. Una ragazzina che appena in vettura avrebbe potuto scendere all’istante mentre il suo supposto sequestratore non faceva in tempo a mettersi alla guida e innestare la marcia: una ricostruzione dove le azioni elementari e ovvie diventano complesse e quelle impossibili, come caricare da solo sul camioncino la vittima designata e costringerla sul sedile (o sul cassone?), diventano facilissime senza che la povera Yara non chiami aiuto né scappi via. Nella profondità di campo si insinua quella contraddizione tra primo piano e sfondo: l’uscita dalla palestra che nessuno ha visto diviene la premessa per l’inquadratura che vede la povera ragazza, volente o nolente, sul furgone di Bossetti: tutto in una visione, in un sogno che per magia diviene realtà. Se non fosse che di mezzo c’è un omicidio sembrerebbe l’azione di un Larry Semon (Ridolini) con lo slow burn, o quella dei cartoni animati alla Tom e Jerry, o Wile il Coyote che cattura Beep Beep: uno splatterstick con i Keystone Cops (poliziotti sciocchi) che inseguono sempre la persona sbagliata. La rappresentazione fantozziana non è solo surreale, sembra di entrare nello schermo dove personaggi del cinema muto acquistano credibilità per il ritmo della pantomima suggestiva più che per la storia del tutto inverosimile e di un contorsionismo funambolico messa insieme come un meccano in cui i pezzi non combaciano nemmeno a tenerli insieme con il mastice, imbullonati ad una scultura d’arte moderna dove gli elementi sono assemblati con una fisica puramente concettuale. Il carpentiere di Mapello più che un personaggio reale appare come un diabolico gatto Silvestro, un cartoon o un fumetto che grazie a un Dna monco e d’amianto diventa protagonista di una sceneggiatura surreale e inverosimile. Se non fosse che c’è di mezzo un delitto, la rappresentazione dell’accusa avrebbe la cadenza visionaria di una parodia. Un carpentiere onesto e lavoratore viene trasformato in pedofilo e assassino... un po’ come la Queen Kelly, film maledetto del cinema muto di Eric von Stroheim, dove Gloria Swanson da giovane educanda si riduce a regina di un bordello. Nonostante la seriosità e la tragicità con la quale ci viene raccontato di quei nanogrammi che inchiodano, tutta la rappresentazione - così come ci viene descritta - appare il copione di un film senza capo né coda, una storia ‘verista’ costruita con la lanterna magica di fumetti. Nella celebre opera di Escher, in una tavola sono raffigurate due mani impegnate a disegnarsi l'un l’altra... un enigma irrisolvibile quello di capire quale delle due mani disegna e quale sia disegnata. Come irrisolvibile è l'arcano creato a Bergamo: quale scenario descrive quel Dna monco e indistruttibile? Le accuse al carpentiere sono formulate in una ricostruzione nella quale non manca la drammaticità in una profilazione del personaggio ricca di spunti biografici, di notazioni psico-caratteriali e diagnosi antropologiche. Stemperando però tutti gli elementi puramente virtuali, sottraendo tutto quello che è pura invenzione narrativa, fantasia e diceria - una visione supportata solamente da congetture e induzioni – rimangono solo nanogrammi ‘singolari’... e indiscutibilmente rimane la comicità dello slapstick, dell’umorismo di una ricostruzione assurda e improbabile di un film da cinema muto. Senza quel Dna impossibile, una bobina dove si è immagazzinato tutto intero lo script, rimangono soltanto gli elementi surreali di una ricostruzione puramente immaginaria, senza alcun riscontro che non sia un mero opinare non buono da accettare in tribunale. Tutto il film è basato su illazioni, dall’uscita dalla palestra fino al ritrovamento in quel campo di Chignolo con tutte le contraddizioni di una scena del delitto per niente credibile: un corpo che sarebbe sempre rimasto lì, non avvistato per mesi, né dai pendolari del sesso a pagamento né dei trasvolatori ed elicotteristi, né dai runner né dalle coppiette in cerca di intimità, né dagli addestratori di cani. Sarebbe rimasto lì con quel giubbino che resta integro e pressoché immacolato per mesi alle intemperie nella brughiera. Tutto il copione Bossetti sembra cavato fuori da un’opera di animazione, vignette con lo storyboard, i dialoghi e il timing, tutto concentrato, implementato nei famosi nanogrammi sulle mutandine, la lanterna magica in grado di proiettare tutto intero un film con i dialoghi in didascalia, descrivendo perfino nel dettaglio perversioni e crudeltà del protagonista. Che quel Dna non sia coevo all’omicidio, ma che sia finito colà, sulla biancheria intima, dove è più facile immaginare lo scenario teatrale, solleva più di un dubbio in quel film che il carpentiere di Mapello è obbligato a interpretare suo malgrado. Ma perché un acido desossiribonucleico monco? Ci dicono che in fondo è proprio il nDna quello che conta davvero, come dire che se anche non trovo la pistola dell’assassino sono i proiettili quelli che fanno la differenza, e di sicuro, ci dicono, sono di quell'arma. Non sarà che la pistola di fabbricazione, come una moneta fresca di conio, aveva un look troppo balisticamente avveniristico, troppo smaccatamente e ballisticamente neologista, fin troppo nuovo di pacca? Siamo ai titoli di coda di un film dove tutto, anche l'impossibile, è diventato possibile. Un film diretto da un regista "forte" che ha propagandato al massimo il suo prodotto commerciale. Il film, a detta dei produttori, è venuto bene e la critica, quella che conta davvero nei format, si dice entusiasta della resa spettacolare - salvo qualche distinguo. Il Dna, parola magica di uso corrente come lo spazzolino e il dentifricio, è ormai entrato nell’immaginario collettivo come l’elemento che inchioda. Qualcuno dice solo che lava più bianco... come un detersivo. L’acronimo ha la stessa potenza evocatrice di quelli che un tempo erano le formule magiche come abracadabra o apriti sesamo. Le incongruenze e le contraddizioni al di là di ogni ragionevole dubbio non trovano consonanza in quella che è solo una finzione, senza pretesa di rispecchiare la realtà. Proprio come nel cinema muto il montaggio narrativo sposta la vecchia inquadratura unica introducendo più inserti, dettagli e soggettive, il regista diventa il ‘narratore invisibile’. Il personaggio principale è solo uno dei tanti elementi della storia, il lupus in fabula o, come nel celebre saggio di Umberto Eco, un lector in fabula... Perché, ovviamente, è sempre il lettore (telespettatore) il vero protagonista... quello che fruirà delle fantasie scenografiche e le farà sue...

Yara, processo d’appello, Brescia chiude le strade, scrive il 26.06.2017 "Brescia Oggi". A un anno dalla condanna in primo grado all’ergastolo, venerdì mattina, 30 giugno, al palazzo di giustizia di Brescia si aprirà il processo d’appello a Massimo Giuseppe Bosetti, il carpentiere di Mapello che, secondo i giudici di Bergamo, ha ucciso Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni rapita venerdì 26 novembre 2010 fuori dalla palestra di via Locatelli a Brembate Sopra e trovata senza vita esattamente tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011, in un campo di Chignolo d’Isola. Contro Bossetti c’è una prova che i giudici della Corte d’Assise di Bergamo hanno definito «granitica», che sarebbe sufficiente, da sola, a giustificare il massimo della pena inflitta all’imputato: ovvero il suo Dna sugli slip di Yara. Ma ci sono contro Bossetti, che secondo i giudici ha agito in modo «crudele» abbandonando Yara incosciente nel campo di Chignolo, anche altri «elementi di natura indiziaria». Tra questi la presenza del suo furgone nella zona di Brembate Sopra in un orario compatibile con quello del rapimento di Yara, la presenza sul corpo della tredicenne di sferette metalliche tipiche del lavoro edilizio e i tabulati telefonici che localizzano Bossetti in quella zona negli orari in cui Yara veniva allontanata per sempre dalla sua famiglia. Bossetti si è sempre dichiarato innocente, sostenendo di non aver mai conosciuto Yara né di averle mai fatto del male. I suoi avvocati hanno sempre chiesto in primo grado e lo faranno, si presume, anche a Brescia, la ripetizione della prova del Dna, perché convinti vi sia stato un errore. A lui si arrivò tramite il Dna della madre, Ester Arzuffi che ha sempre difeso il figlio, così come la gemella di Bossetti, Laura Letizia. Anche la moglie del carpentiere (la coppia ha tre figli) ha sempre difeso il marito: in una recente intervista ha dichiarato che non divorzierà mai, «nemmeno se l’ergastolo dovesse essere confermato», perché crede nella sua innocenza. Intanto Brescia si prepara all’invasione: nelle scorse sere sono comparse le prime telecamere davanti al Palazzo di Giustizia per il racconto nelle principali trasmissioni nazionali dell’attesa di quello che viene considerato il processo dell’estate. Ma è venerdì il giorno da bollino rosso, da tutto esaurito e posti in piedi nell’aula dove inizia il processo d’appello a carico di Bossetti. E non sarà un giorno come tutti gli altri, almeno per quanto riguarda la gestione sicurezza. «Telecamere e macchine fotografiche vietate in aula», ha stabilito il procuratore generale di Brescia Pierluigi Maria Dell’Osso dopo un sopralluogo con il presidente della Corte d’Assise d’appello Enrico Fischetti. Le telecamere delle televisioni potranno rimanere solamente in strada, lungo la via del tribunale che venerdì sarà chiusa al traffico proprio per favorire il posizionamento dei furgoni-regia delle tv. Il processo sarà aperto al pubblico, alla stampa, ma nessuna immagine è stata autorizzata e Massimo Bossetti sarà fatto entrare in aula dall’ingresso sotterraneo. «L’ho visto in carcere pochi giorni fa. È carico e convinto di riuscire a far emergere la sua innocenza», ha riferito il legale dell’imputato, Claudio Salvagni.

Bossetti, via al processo d'appello. La difesa punta sulle foto dal drone. "Un mese prima della scoperta il corpo della ragazza non c'era", scrive Venerdì 30/06/2017 "Il Giornale". Sentenza oppure ordinanza con la riapertura del processo attraverso una nuova perizia sul Dna. Sono questi gli scenari possibili del processo che si apre oggi davanti alla Corte d'Assise di Brescia per Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello condannato il 30 giugno dell'anno scorso all'ergastolo per aver ucciso Yara Gambirasio. Lui è fiducioso: «Ora avrò finalmente giustizia». La difesa punta tra l'altro su immagini dall'alto riprese da un drone che potrebbero svelare nuove verità e tempistiche sulla scena del crimine: cioè il campo in cui fu ritrovato il corpo della 13enne. Le immagini proverebbero infatti che un mese prima, in quel campo, il cadavere non c'era. Yara venne rapita il 26 novembre del 2010 fuori dalla palestra di via Locatelli a Brembate Sopra e trovata senza vita tre mesi esatti dopo, il 26 febbraio del 2011, in un campo di Chignolo d'Isola. Contro Bossetti c'è una prova che i giudici della Corte d'Assise di Bergamo hanno definito «granitica», che sarebbe sufficiente, da sola, a giustificare il massimo della pena inflitta all'imputato, cioè la presenza del suo Dna sugli slip di Yara. Proprio dalla traccia genetica la difesa vorrebbe invece ripartire per ribaltare il primo grado e in aula ribadirà la richiesta di una perizia, come già anticipato nel ricorso in appello nel quale gli avvocati Claudio Salvagni e Michele Camporini scrivevano che «si è ritenuto di poter giungere alla responsabilità penale di un imputato valorizzando un unico elemento (la traccia del dna) in rapporto solo alla sua collocazione (leggins e slip), senza alcuna considerazione in ordine alle ragioni e alle modalità dell'azione, senza alcun raffronto con tracce ben più significative attribuite ad altri, trasformando arbitrariamente, senza alcun riscontro, un possibile contatto in aggressione suicida». Il processo d'appello si aprirà con la relazione sulle indagini e sul primo grado letta dai giudici e l'intervento del sostituto pg che chiederà la conferma del carcere a vita. La Corte, poi, ha già stilato un calendario che prevede altre udienze il 6, il 10 e il 14 luglio, quando, se tutto filerà liscio, i giudici potrebbero uscire dalla camera di consiglio con una decisione. Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, sarà presente in aula, dove invece mancheranno i genitori di Yara, rappresentati dai legali. Nei giorni scorsi, i giudici hanno deciso con un'ordinanza di impedire l'accesso alle telecamere rilevando che, in questo caso, «non risulta sussistere un interesse sociale particolarmente rilevante alle riprese audiovisive». Sulla pressione mediatica puntano il dito i legali di Bossetti secondo i quali «il processo è stato influenzato e continua a esserlo da pressioni esterne dirette da un lato a trovare un colpevole a ogni costo e dall'altro a esaltare i metodi dell'indagine che hanno portato ad accusare Bossetti».

Bossetti gioca le sue carte in appello. Una foto e il luminare inglese del dna, scrive "L'Eco di Bergamo" Giovedì 29 giugno 2017. Una foto satellitare e il parere di un luminare inglese della genetica, il professor Peter Gill, docente dell’Università di Oslo (Norvegia). Sono le carte che la difesa di Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, giocherà al processo d’appello al via venerdì mattina a Brescia. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini le hanno inserite nelle cento pagine di motivi aggiuntivi con cui hanno farcito la richiesta di appello. L’immagine - la cui notizia è stata anticipata ieri dal Fatto Quotidiano - è stata recuperata dai satelliti e si riferisce al campo di Chignolo d’Isola dove l’adolescente fu trovata morta il 26 febbraio 2011, tre mesi esatti dopo la scomparsa da Brembate Sopra. Questo non sposterebbe nulla in merito al profilo genetico di Ignoto 1, la cui attribuzione a Bossetti, secondo la Corte d’assise di Bergamo che ha condannato il muratore di Mapello all’ergastolo «è in termini di certezza». Il Dna è la prova «granitica», secondo i giudici di primo grado, che l’imputato è l’autore dell’omicidio. Il dettaglio della foto, però, per i difensori, servirebbe a minare l’impianto accusatorio, perché - sostiene Salvagni - «la Procura ha sempre sostenuto di non poter disporre di foto satellitari di quel campo, mentre noi dopo indagini difensive lunghe e complesse abbiamo trovato questa immagine e l’abbiamo prodotta a supporto della richiesta di perizia su più elementi».

30 GIUGNO 2017. PRIMA UDIENZA DI APPELLO. PAROLA ALL’ACCUSA.

Caso Yara, al via l'appello per Bossetti: tribunale assediato, strada chiusa e curiosi in fila. Una sessantina di persone in attesa già prima dell'apertura del tribunale di Brescia. In apertura la richiesta del sostituto pg che chiederà la conferma dell'ergastolo, scrive "La Repubblica" il 30 giugno 2017. Il furgone blindato con a bordo Massimo Bossetti è arrivato al palazzo di giustizia di Brescia pochi minuti prima delle 9. Ma a quell'ora già da tempo c'era una folla in fila per entrare in tribunale dove si celebra un vero e proprio evento mediatico: il processo di appello a Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio. Vista la mole di curiosi, giornalisti, telecamere e fotografi, la strada che porta al palazzo di giustizia è stata chiusa al traffico. Bossetti, per voce dei propri avvocati, ha dichiarato di essere "fiducioso di avere giustizia in appello". I legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini per i giudici di secondo grado hanno prodotto un'immagine satellitare "scattata il 24 gennaio 2011 che ritrae la zona del campo di Chignolo d'Isola dove successivamente, il 26 febbraio, è stato trovato il corpo della ragazzina" e da cui si evincerebbe che "il corpo quel giorno di fine gennaio non era là". La fotografia ora, secondo il difensore, "dovrà essere interpretata e guardata, ma a nostro avviso dall'immagine non emergerebbe la presenza del corpo un mese e due giorni prima del suo ritrovamento in quel punto del campo". E se il cadavere non era là, mentre secondo accusa e giudici sarebbe rimasto nel campo per tre mesi (Yara è scomparsa ed è stata uccisa il 26 novembre 2010, ndr), secondo il legale di Bossetti ora la sentenza andrebbe comunque riscritta. In aula sono previsti la lettura della relazione del processo di primo grado e poi l'intervento del sostituto pg Marco Martani che chiederà di condannare il carpentiere di Mapello anche per aver calunniato un collega (accusa che cadde a Bergamo). Nelle udienze successive (6 e 10 luglio) parleranno parte civile e difesa e la sentenza della Corte d'Assise d'appello bresciana (sentenza o ordinanza di riapertura del processo) potrebbe arrivare in un'udienza di metà luglio, o il 14 o il 17. Intanto la difesa ha ingaggiato come consulente il numero uno della genetica forense, Peter Gill, britannico che lavora all'Università di Oslo, per dimostrare, tra le altre cose, che il profilo genetico rintracciato, l'ormai famoso Ignoto 1 poi attribuito a Bossetti, avrebbe potuto resistere all'aperto e in quelle condizioni solo poche settimane.

Yara, al via il processo d’appello. La difesa di Bossetti gioca la carta di una foto satellitare, scrive il 30/06/2017 “La Stampa”. È iniziato il processo di appello per l’assassinio di Yara Gambirasio, davanti alla Corte d’Assise di Appello di Brescia. Unico imputato, Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo. È accusato di aver caricato Yara sul suo furgone a Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, mentre la ragazzina stava tornando a casa dalla palestra, e di averla uccisa il 26 febbraio 2010. Il corpo della giovane è stato ritrovato solo tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola, a pochi chilometri dal suo paese. Bossetti, invece, è stato arrestato nel giugno del 2014 dopo una lunga e complicata indagine condotta dal pm di Bergamo Letizia Ruggeri. All’inizio dell’udienza i suoi legali hanno chiesto alla Corte la possibilità che il loro assistito sedesse al banco della difesa, anziché all’interno della gabbia riservata agli imputati. La Corte lo ha concesso e Bossetti, uscendo dalla gabbia ha salutato con un sorriso e una stretta di mano la moglie Marita Comi presente in aula, così come la madre Ester Arzuffi e la sorella Laura Bossetti, e seduta subito dietro gli avvocati. Non sono in aula i genitori di Yara come accaduto anche in primo grado, mentre una folla di curiosi si è messa in fila presto per trovare posto nello spazio riservato al pubblico dell’aula. La capienza è di poco più di 200 posti, cronisti compresi. L’ordinanza disposta dal procuratore generale vieta la presenza in aula di telefoni cellulari, macchine fotografiche e telecamere. I difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno chiesto di depositare agli atti una fotografia acquisita dai satelliti che porta la data del 24 gennaio 2011, un mese e due giorni prima del ritrovamento del corpo di Yara nel campo di Chignolo d’Isola. Secondo gli avvocati l’immagine mostra l’esatto punto del ritrovamento del corpo della vittima che, tuttavia, parrebbe non essere identificabile. L’obiettivo della difesa è dimostrare che il corpo, al contrario di quanto sostenuto dall’accusa, non è rimasto tre mesi nel campo, ma è stato portato lì in un secondo momento. Il Procuratore generale e le parti civile non si sono opposte all’acquisizione del documento, mentre la corte si è riservata. Al termine delle procedure preliminari il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Brescia, Enrico Fischetti, ha iniziato a leggere la relazione sintetica, quella completa, di 142 pagine, è stata precedentemente inviata alle parti via mail. La Corte ha, inoltre, reso noto il calendario delle udienze: 6, 10 e 14 luglio, con un’udienza di riserva fissata per il 17 luglio. Sostiene l’accusa il sostituto procuratore generale Marco Martani, 62 anni compiuti lo scorso 15 giugno che si trova ad affrontare un altro caso mediatico. È infatti in Procura generale a Brescia da un anno dopo essere stato procuratore capo a Pordenone dove ha coordinato le indagini sul duplice delitto di Trifone Ragone, ucciso a colpi di pistola il 17 marzo 2015 insieme alla sua fidanzata, Teresa Costanza, nel parcheggio del palazzetto dello sport della città friulana. È il sostituto pg a parlare per primo con la requisitoria per chiedere la conferma della condanna all’ergastolo. Poi spazio alle parti civili: Andrea Pezzotta, che cura gli interessi della madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, dell’avvocato Enrico Pelillo, legale del padre della 13enne, Fulvio Gambirasio e della sorella della giovane vittima, Keba. La quarta parte civile è invece Massimo Maggioni, collega di Bossetti e presunta vittima di calunnia da parte del muratore di Mapello. È assistito dall’avvocato Natale Sala, del Foro di Milano.

Inizia il processo d’appello a Bossetti. Cosa prevede la prima udienza, scrive "L'Eco di Bergamo" Venerdì 30 giugno 2017. Inizia davanti alla Corte d’Assise d’appello di Brescia il processo di secondo grado a carico di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. La difesa del muratore di Mapello proverà a ribaltare il verdetto puntando su una riapertura del dibattimento e sull’accoglimento della richiesta di una perizia sul Dna trovato sugli abiti della tredicenne. Il presidente della corte d’assise è Enrico Fischetti, il giudice a latere Massimo Vacchiano più sei giudici popolari. In tribunale a Brescia sono arrivate anche Laura Letizia Bossetti, sorella di Massimo, e la mamma Ester Arzuffi, accompagnate dall’avvocato Benedetto Maria Bonomo. Presente anche la moglie di Bossetti Marita Comi. Il furgone blindato della polizia giudiziaria con a bordo Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, è da poco entrato al Palagiustizia di Brescia dove verso le 9.30 inizierà il processo d’appello. Nell’udienza di oggi dovrebbe parlare, dopo la lettura della relazione del processo di primo grado, il sostituto pg Marco Martani per chiedere la conferma dell’ergastolo inflitto al carpentiere di Mapello un anno fa, ma anche il riconoscimento dell’accusa di calunnia caduta in primo grado. Non saranno in aula, invece, i genitori di Yara come accaduto anche in primo grado. Sono già arrivati in Tribunale i legali Salvagni e Camporini che assistono Bossetti. Molte persone si sono messe in coda già prima delle 7 di venerdì per prendere posto in aula. «A che ora inizia domani? Abbiamo preso un giorno di ferie e vogliamo essere presenti». È quanto si sono sentite chiedere le guardie agli ingressi del Palazzo di Giustizia di Brescia. La domanda è stata formulata da madre e figlia che vogliono assistere alla prima udienza. Saranno 250 i posti a disposizione nell’aula 64 del tribunale bresciano dove sarà vietato entrare con telefoni cellulari, telecamere e macchine fotografiche. Già prima delle 7 alcune persone che vogliono assistere all’udienza si sono posizionate in coda di fronte all’ingresso del tribunale.

Pg: «Indizi e Dna, non lasciano dubbi». Bossetti sbotta in aula: «Dice idiozie», scrive "L'Eco di Bergamo" Venerdì 30 giugno 2017. «Viene qua a dire idiozie». Così Massimo Bossetti ha protestato per alcuni secondi, alzandosi dal banco degli imputati e richiamato dalla guardie penitenziarie, contro un passaggio dell’intervento del sostituto Procuratore generale Marco Martani nel processo d’appello per l’omicidio di Yara Gambirasio. Già da alcuni minuti Bossetti lasciava vedere di non gradire l’intervento in aula del magistrato, che sta andando avanti dalla mattina di venerdì 30 giugno. Diverse volte, infatti, seduto a fianco dei suoi legali e sorvegliato dagli agenti di polizia penitenziaria, si era girato lasciandosi andare a qualche commento rivolto anche alla moglie seduta nelle file dietro. Quando, però, il Pg Martani, affrontando la parte «degli elementi indiziari che aggiunto alla prove del Dna danno sicurezza della responsabilità di Bossetti», ha chiarito che le fibre trovate sul corpo di Yara combaciano con quelle del furgone del muratore, Bossetti è scattato in piedi e ha detto: «viene qua a dire idiozie». Ha continuato a protestare per pochi secondi e poi si calmato e si è seduto. Il presidente della Corte gli ha fatto presente che potrà poi rilasciare dichiarazioni spontanee nel corso del processo. Il pg ha affrontato, ad uno ad uno, gli elementi «di fatto rilevanti per la responsabilità dell’imputato», tra cui il fatto che «l’uccisione della ragazzina e l’abbandono del cadavere sono avvenuti nello stesso luogo», ossia nel campo di Chignolo d’Isola. Una serie di elementi sono stati messi in luce per contrastare l’ipotesi della difesa, basata sulle fotografie satellitari, che il corpo di Yara possa non essere rimasto per tre mesi nel campo prima del ritrovamento. «Nella mano di Yara - ha spiegato tra le altre cose Martani - c’era un ciuffo di erba di quel campo, perché nell’agonia probabilmente si è attaccata a quel ciuffo». Nella foto satellitare portata dalla difesa, ha proseguito, «è vero che non si vede niente, né il cadavere di Yara, né qualsiasi altra persona, ma la risoluzione di questa foto è di una qualità tale che non è certo fatta per cercare un ago in un pagliaio come era quel corpo».

Bossetti stringe la mano alla moglie. Il procuratore: «Sentenza ineccepibile», scrive "L'Eco di Bergamo". Si sono stretti per pochi secondi le mani Massimo Bossetti e la moglie Marita Comi all’inizio dell’udienza del processo d’appello sull’omicidio di Yara Gambirasio, per il quale il muratore di Mapello è stato condannato in primo grado all’ergastolo. I giudici della Corte d’assise di secondo grado hanno infatti concesso che l’imputato stia seduto a fianco ai suoi difensori e quando il muratore è passato dalla gabbia al banco ha stretto per un attimo la mano alla moglie, seduta nelle file dietro. I legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno chiesto ai giudici di poter integrare i motivi aggiunti d’appello depositando, tra le altre cose, una chiavetta con un file contenente una fotografia satellitare che, secondo la difesa, potrebbe dimostrare che il cadavere della ragazzina non è rimasto nel campo di Chignolo d’Isola per tre mesi prima del ritrovamento. La sentenza che in primo grado ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio «è ineccepibile», presenta «una motivazione coerente, logica, completa e dà puntualmente conto delle acquisizioni processuali». Così il sostituto Pg di Brescia, Marco Martani, all’inizio del suo intervento nel processo di secondo grado. Il pg ha inoltre chiarito che con l’accesso di fotografi e operatori tv in aula ci sarebbe stata soltanto «una spettacolarizzazione» del procedimento. Dagli accertamenti e dalle analisi scientifiche che hanno attribuito il profilo genetico di ’Ignoto1’ a Massimo Bossetti è arrivata una «probabilità statistica di assoluta certezza» in relazione «alla responsabilità dell’imputato» per l’omicidio di Yara Gambirasio. Lo ha spiegato in un altro passaggio del suo intervento nel processo d’appello il sostituto Pg Marco Martani, il quale ha anche chiarito che il nuovo elemento portato dalla difesa del muratore, ossia le fotografie satellitari del campo dove fu trovato il cadavere, «non provano nulla». Raramente, ha aggiunto il magistrato, «ho visto dati statistici così rassicuranti sui livelli di probabilità come in questa indagine, qua infatti si può dire che non esiste tra i miliardi di persone sulla terra un altro soggetto con il Dna di ’Ignoto1’ attribuito a Bossetti». È «oltre il limite del grottesco l’ipotesi che si sia fatto ricorso ad Hacking Team», una società di investigazione, «per la costruzione di un Dna sintetico» per incastrare Massimo Bossetti, come sostiene la sua difesa. È un passaggio dell’intervento del sostituto pg Marco Martani nel processo d’appello in corso a Brescia per l’omicidio di Yara Gambirasio. I l pm ha spiegato che questa tesi proposta nei motivi d’appello dai difensori del muratore lascia anche «sottese accuse gravissime al Ros dei carabinieri che nell’ipotesi della difesa avrebbero contatti con soggetti esterni per costruire prove false». Il magistrato, invece, ha sottolineato come l’indagine che ha portato all’arresto e alla condanna all’ergastolo del carpentiere «non ha tralasciato assolutamente nulla, ed è stata uno sforzo raro e unico nella storia investigativa italiana». Il processo di secondo grado è iniziato con la lettura della relazione del procedimento che si è concluso il primo luglio 2016 a Bergamo. Bossetti, che indossa jeans e una camicia bianca, siede a fianco ai suoi legali in un’aula che contiene poco più di 200 persone, tra pubblico e cronisti. Qualche sedia vuota, tuttavia, si nota nella zona riservata ai giornalisti. Il presidente della Corte Enrico Fischetti, in prima battuta, ha letto l’ordinanza con cui sono state vietate in aula le riprese televisive e le immagini poiché «non risulta sussistere un interesse sociale particolarmente rilevante». Sulla produzione integrativa della difesa, tra cui anche una bibliografia e dei dati di riferimento sull’immagine satellitare, non si è opposto nemmeno il legale della famiglia Gambirasio, l’avvocato Enrico Pelillo, pur facendo notare, così come il sostituto Pg, che i motivi aggiunti sono stati depositati dalla difesa fuori termine. Sulla questione la corte si è riservata di decidere. Dopo la lettura della relazione, prenderà la parola il sostituto Pg. Altre udienze, come precisato dai giudici, sono state fissate per il 6, il 10 e il 14 luglio, quando potrebbe arrivare una decisione. Un’udienza di riserva è stata fissata anche per il 17 luglio. Molte persone si sono messe in coda già prima delle 7 di venerdì per prendere posto in aula. «A che ora inizia domani? Abbiamo preso un giorno di ferie e vogliamo essere presenti». È quanto si sono sentite chiedere le guardie agli ingressi del Palazzo di Giustizia di Brescia. La domanda è stata formulata da madre e figlia che vogliono assistere alla prima udienza. Saranno 250 i posti a disposizione nell’aula 64 del tribunale bresciano dove sarà vietato entrare con telefoni cellulari, telecamere e macchine fotografiche. Già prima delle 7 alcune persone che vogliono assistere all’udienza si sono posizionate in coda di fronte all’ingresso del tribunale.

"L’ergastolo? Verdetto ineccepibile". E Bossetti urla in aula: idiozie. Al via l’Appello per l'omicidio Yara, il muratore si alza e protesta contro il pg, scrive Gabriele Moroni l'1 luglio 2017 su "Il Giorno". «Se vengono qui a dire queste idiozie». Massimo Bossetti si alza di scatto. Abbronzatura d’ordinanza, camicia bianca di lino, senza colletto, jeans, scarpe da ginnastica, capello tagliato di fresco, l’uomo condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio di Yara Gambirasio, insorge alle parole dell’accusa, sostenuta dal avvocato generale presso la Corte d’Appello di Brescia, Marco Martani. Impassibile nei momenti precedenti, impassibile poco dopo, quando il rappresentante dell’accusa chiederà la conferma dell’ergastolo il muratore di Mapello non regge, invece, e insorge quando sente parlare della compatibilità fra le fibre dei sedili del suo furgone e quelle trovate sul corpo e gli indumenti della piccola vittima. Il presidente della Corte d’Assise d’appello di Brescia, Enrico Fischetti, è pronto a riprenderlo con severità: «Bossetti, si metta a sedere. Poi farà dichiarazioni spontanee, se vorrà. È l’ultima volta». Carcere a vita per la morte di Yara Gambirasio, ginnasta tredicenne di Brembate di Sopra, pluriaggravato per la crudeltà e le sevizie e per la «minorata difesa» della piccola vittima. No alle attenuanti generiche. In primo grado a Bergamo, l’artigiano era stato assolto per la calunnia nei confronti del compagno di lavoro Massimo Maggioni, che aveva tentato di coinvolgere. Il procuratore bresciano chiede la condanna anche per questo reato e quindi l’aggiunta di sei mesi di isolamento diurno. Il tono di Martani, nelle sei ore della requisitoria, è pacato, le parole sono grevi. «Per la responsabilità di Bossetti – è l’esordio – la sentenza di primo grado è logica, coerente, completa e dà completamente conto delle acquisizioni processuali». Il procuratore generale analizza punto per punto. Primo, il Dna. Il codice genetico di Ignoto 1 perfettamente sovrapponibile a quello di Bossetti, che compare in sedici punti degli slip, tagliati, della ragazzina, e in due dei leggins. «I test, ripetuti 71 volte, hanno dato sempre lo stesso esito», scandisce Martani. «Il reperto complessivamente è consumato. Non pare possibile estrarre altro materiale», dice Martani, quasi anticipando quella che sarà la richiesta cardine della difesa: la ripetizione del test genetico. Definisce «al limite del grottesco» la ricostruzione della difesa che ha evocato un mail scritta da David Vincenzetti, titolare della società informatica Hacking Team, in cui si faceva riferimento ai carabinieri del Ros che indagavano sul caso Yara e a un gruppo israeliano in grado di produrre Dna artificiali. «È una richiesta che sottende accuse gravissime ai nostri carabinieri. Non c’era nessuna intenzione di incastrare Bossetti». Non solo. Altro ancora accusa l’imputato. Mancanza di un alibi per il pomeriggio del 26 novembre 2010, quando Yara sparisce e muore. La presenza del suo autoarticolato Iveco Daily nella zona. Fibre e sferette metalliche su Yara. La povere di calce. Le ricerche hard fatte dall’uomo nel pc quando era solo in casa, per esempio la mattina del 29 maggio 2014, poco prima di essere fermato: «Bosseti era affascinato dalle ragazzine. Yara non era più una bambina, era una giovane donna». L’accusatore tenta una ricostruzione di quella fosca serata. «L’aspetto del muratore che guidava un camioncino era rassicurante. Anche se non si conoscevano, era possibile che lui e Yara si fossero incrociati. La ragazzina deve avere visto un uomo che assomigliava a quelli che frequentava il padre, geometra nei cantieri. Questo ha fatto cadere le sue difese. Una vota che Yara è salita a bordo del furgone può essere successo qualsiasi cosa. Come sono andati o fatti può dirlo solo Bossetti, ma a questo punto, temo, non lo dirà mai». Il 6 luglio parleranno i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Nei motivi aggiunti hanno prodotto una fotografia satellitare del campo di Chignolo d’Isola, scatatatnel gennaio del 2011: il corpo di Yara non appare. In sintonia con la richiesta dell’accusa gli avvocati della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta.

Il procuratore rincara la richiesta: “Ergastolo e 6 mesi di isolamento per Bossetti”, scrive Mauro Paloschi l'1 luglio 2017 su "Bergamo News".  “Con la prova del Dna c’è la certezza della responsabilità e da una serie di circostanze ed elementi indiziari abbiamo la sicurezza di aver trovato il colpevole: la condanna in primo grado all’ergastolo per l’imputato è, dunque, una sentenza ineccepibile e incontrastabile”. Ne è certo il sostituto procuratore generale di Brescia Marco Martani, che al processo d’Appello ha confermato la richiesta del carcere a vita per Massimo Bossetti, condannato un anno fa dalla Corte d’Assise di Bergamo, e ha rincarato la richiesta con 6 mesi di isolamento diurno per aver “incolpato ingiustamente un collega, Massimo Maggioni”. Si è chiusa così la prima giornata del procedimento di secondo grado per il brutale delitto di Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate di Sopra il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Il carpentiere di Mapello si è presentato in aula come sempre abbronzatissimo e sicuro di sé. Ha salutato sorridendo la moglie Marita Comi, la mamma Ester e la sorella Laura Letizia. Ma durante il lungo e dettagliato intervento di oltre 6 ore della pubblica accusa, ha manifestato segnali di nervosismo: “Non posso star qua a sentire queste idiozie”, ha sbottato a un certo punto, prima di essere calmato dalle guardie giurate e redarguito dal presidente della Corte Enrico Fischetti. Lo sfogo è arrivato mentre Martani stava parlando delle fibre ritrovate sul cadavere della 13enne, compatibili con quelle dei sedili del furgone Iveco del carpentiere. Secondo la ricostruzione, Yara sarebbe salita sul mezzo quella sera con l’invito di un passaggio da parte di Bossetti, che poi l’avrebbe colpita probabilmente dopo un’avances sessuale respinta. Un movente comunque mai chiarito, che “solo la povera vittima e l’imputato conoscono, ma che lui non ci dirà mai”, ha proseguito il procuratore. “Le fibre – ha spiegato – rappresentano comunque uno degli indizi a contorno della prova regina del Dna”, quello di Ignoto 1, il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni, con il quale Ester Arzuffi avrebbe avuto una relazione. Materiale genetico che venne rintracciato su slip e leggings della tredicenne e “con assoluta certezza attribuibile a Bossetti”. I legali dell’imputato, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno invece provato la carta di una fotografia satellitare del campo di Chignolo scattata nel gennaio 2011: secondo la difesa dimostrerebbe che il cadavere di Yara non si trovava lì e che quindi sia stata uccisa da un’altra parte per poi essere trasportata in un secondo momento, da qualcuno che non era Bossetti. “Un finto colpo di scena”, lo hanno bollato Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo, avvocati della famiglia Gambirasio, che anche stavolta ha preferito non presenziare all’udienza. La prossima udienza è stata fissata per giovedì 6 luglio, con la relazione del pool difensivo di Bossetti: Salvagni e Camporini hanno annunciato altre sorprese.

CONSIDERAZIONI A LATERE.

ADIKEMATOFILIA E ADIKEMATOGENESI NEGLI ORGANI DI INDAGINE E DI GIUDIZIO. Di Manlio Tummolo.

A titolo di premessa, devo spiegare che cosa significano i termini, di derivazione greca, che ho posto nel titolo: traggo ispirazione da Quintiliano che, nella sua “Institutio Oratoria”, parla di àgrapha adikèmata quali argomenti di discussione nelle Scuole Forensi della prima età imperiale romana, ovvero sul come considerare quei crimini che non vengono definiti dalle leggi, un crimine non scritto, argomento più da filosofia del Diritto che non di giurisprudenza tradizionale. Non è un caso che tale argomento sia espresso in greco, piuttosto che in latino, essendo la filosofia una scienza approfondita più dai Greci che non dai Romani anche nel campo della legislazione e della politica. Che cos’è un crimine “non scritto”? Secondo il Diritto e la giurisprudenza tradizionali, un crimine per essere definito come tale, deve esserlo dalla legge di natura penale, ossia in un atto vietato per il quale, violando il divieto, ci si merita una certa pena (null’altro è il Diritto penale, se non l’indicazione di una punizione, esattamente quantificata e qualificata, per la violazione di una norma di legge: così deve essere descritto dalla legge tanto il divieto, quanto la correlativa pena: altrimenti, il crimine, o più esattamente il reato, non sussiste o non è punibile: sottilizzando ancora, non basta il divieto, seppure esplicito, ma occorre anche la previsione scritta della pena correlativa, affinché la definizione di reato sia efficace). Nondimeno, la legge non può non riconoscere la natura aggressivamente negativa di un atto che, senza motivazioni difensive o senza ordini di chi ne abbia la legittimità, per propria iniziativa danneggi in modo maggiore o minore un’altra persona, che ne diventi quindi vittima risarcibile. Sebbene il Diritto tradizionale (di derivazione romana) non riconosca formalmente il “crimine non scritto”, nondimeno tale atto aggressivo esiste di per sé, seppure in forme e modalità non previste dalla legge (fino a qualche tempo fa, i reati informatici non erano riconosciuti per legge, quindi, seppure esistenti, non erano considerati come tali, e pertanto non erano punibili; da quando vengono definiti per legge “reati”, essi lo sono di fatto e di diritto, quindi diventano punibili). Siamo arrivati pure al ridicolo per cui, se un atto non è descritto con termine inglese quale “mobbing, stalking” e simili, esso non è considerato reato, sebbene già la legge prevedesse la perseguibilità di azioni persecutorie e di minaccia, ma siccome la loro formulazione era più generica, ecco che i buoni magistrati, tutta gente notoriamente corretta e legata alle formalità rituali, a criteri comodamente interpretati, lasciavano correre escludendone la perseguibilità penale. Dunque, in sintesi, perché ho usato il termine adikèmata anziché il più semplice e conosciuto “crimini”? Un motivo è di natura filologica: è sempre meglio utilizzare un’etimologia unica piuttosto che un’etimologia ibrida (ovvero, mezzo latina e mezzo greca). Un secondo motivo è che le scienze tendono sempre ad assumere nomi ad etimologia greca piuttosto che latina, che pure abbondano nel campo del Diritto e della giurisprudenza, in cui i Romani avrebbero brillato più di ogni altro popolo. La cosa è storicamente discutibile, in quanto le leggi romane e la giurisprudenza romana trovarono sì maggiore sviluppo ed approfondimento nelle distinzioni scritte, teoriche e pratiche, ma non certo una maggior razionalità o scientificità rispetto al Diritto greco o al Diritto ebraico, ad esempio, fondandosi tutti essenzialmente su un costume religioso, imposto da classi sacerdotali. Per ragioni storico-politiche (l’Impero Romano), il Diritto romano ebbe netta prevalenza nella tradizione giuridica europea, sebbene non del tutto slegata da quella greca ed ebraica (quest’ultima a causa dei rapporti storici tra mondo ecclesiastico cristiano e mondo ebraico). Il terzo motivo è, con una certa mia malizia, il fatto per cui, altrimenti, fin dal titolo qualche lettore si sarebbe messo in allarme, magari giudicandolo “eversivo o sovversivo o violento” o che altro. Così, nella sua maliziosa oscurità, costringe il lettore a leggere ciò che segue prima di giudicare dal solo titolo. Infatti, se avessi detto immediatamente che il sistema di indagine e di giudizio (comunemente ma erroneamente chiamato “giustizia”, che è invece concetto etico-religioso riferito all’onniscienza e all'onnipotenza divina, in quanto l’umanità è caratterizzata dalla sua molteplice capacità  di errore, così involontario come voluto ed intenzionale, dal fraintendere spesso l’azione giusta  con l’azione consuetudinaria)  si guarda bene dall’attuare una giustizia in senso proprio, preferendo semplicemente un’amministrazione giudiziaria, ovvero quale ordinamento e quale procedura, quasi sempre rivolta alla tutela del potere politico ed economico: bada ad interessi (materiali), non a princìpi (morali, spirituali); predilige chi è più potente o tale considerato, piuttosto che la vittima di un determinato abuso: ciò avrebbe spaventato tanti “benpensanti”, anche se “malfacenti”.

Un’altra premessa è necessaria prima di entrare nel merito della questione: l’esigenza scientifica, derivata  dall’Illuminismo e da questo trasmessa soprattutto al Positivismo ottocentesco, volendo porre basi più solide all’individuazione del crimine, alla sua natura e alle sue cause, oltrepassò i puri limiti giuridici e formali e, parallelamente allo sviluppo dello studio psicologico empirico e “sperimentale”, cominciò  a studiare il comportamento criminale: nacquero in effetti due scienze o due diverse denominazioni di una stessa scienza: l’antropologia criminale e la criminologia. A rigore di logica e di metodo, sono due scienze con oggetti diversi: l’antropologia criminale dovrebbe occuparsi del comportamento della persona criminale da un punto di vista psicologico generale, e più specificamente psicoanalitico e psichiatrico, la criminologia dovrebbe occuparsi solo di atti criminali, della loro definizione (che cos’è il crimine?), della loro modalità e delle loro distinzioni. L’antropologia criminale presuppone di per sé che esistano persone “malate” che compiono “crimini”, ma il crimine (soprattutto l’atto aggressivo violento)  dovrebbe esistere di per sé, e non correlativamente ad una legge che lo definisce, dovrebbe essere atto sostanziale, e non solo formale: sarebbe “naturale” la persona criminale,  come sarebbe naturale e sostanziale l’atto criminale in quanto tale,  non semplicemente come violazione materiale di un divieto formale e scritto: così torniamo a quegli “atti ingiusti non scritti”, di cui si è parlato. Ma ciò verrebbe negato dal Diritto tradizionale, che non può presupporre l’esistenza di reati che non siano previsti per legge. E poi, appunto, che cos’è il crimine? Faccio un esempio che oggi apparirebbe assurdo. Christian Wolff, il filosofo leibniziano primo maestro di Kant, nelle sue lezioni si era permesso di sostenere (nella Prussia protestante, che tanti hanno vantato come esempio di “tolleranza”!), come del resto nella Francia cattolica fece il Bayle, che anche l’ateismo poteva esprimere una concezione etica della vita. Come, una morale senza presupporre l’esistenza di Dio! Ah, delitto! Lo si minacciò di pena di morte (nel Settecento, non nel Medioevo o sotto la Controriforma). Con Kant ci si limitò a minacciarlo di espulsione dall’Università, come poi successe realmente a Fichte, ma a Wolff addirittura di “pena di morte”! Certamente, sul piano puramente filosofico possiamo ben discutere se la negazione dell’esistenza di Dio e l’affermazione della pura esistenza di leggi fisiche di attrazione e repulsione degli atomi e dei loro aggregati possano giustificare in qualche modo una Legge morale, ma per quanto la tesi appaia illogica ed incoerente, non pare solo per questo meritevole di morte o di una qualche pena: si tratta del terreno pertinente al puro dibattito teorico. Di fatto, o ci si comporta secondo leggi morali o non ci si comporta in tal modo, ma a puro piacimento, indipendentemente dalle dichiarate convinzioni teoriche positive o negative. Possiamo trovare un ateo materialista del tutto onesto ed un teista del tutto disonesto. Ebbene, se si crede crimine il semplice sostenere un’eventuale etica atea, come sostenere un’antropologia criminale non fondata su un concetto di “crimine non scritto”? Dunque, l’antropologia criminale non partendo chiaramente da una definizione di “crimine” in quanto tale, indipendentemente dalla legge che lo descrive, non ha alcun fondamento. Un unico riferimento a crimini “naturali”, ovvero sostanziali e di per sé ontologicamente e non soltanto giuridicamente qualificati, vien fatto da Concetta Macrì e Mauro Marzi in una breve nota del loro saggio “Facce dell’usura”, mentre tale concetto andrebbe ben sviscerato, sia a fini scientifici, sia a fini giuridici. Ne deriva anche la questione della punibilità e dell’eventuale retroattività della stessa: ma in quale misura o in quali forme punire un crimine non-predefinito dalla legge? Così pure la criminologia che, per definizione, dovrebbe dirci in che cosa si distingue scientificamente il “crimine” da un qualunque altro atto legittimo, e si occupa invece di elencare e descrivere delitti e delinquenti, ma non quel che sia il crimine in generale: poniamo che, in uno Stato utopico, non vi siano Codici penali o civili, non siano previsti reati, delitti, contravvenzioni, dove tutto sia lecito e nulla di punibile, anche uccidere senza ragione così tanto per passare il tempo, quale sarebbe il “crimine” e chi sarebbe “criminale”? Né si venga a dire che tutto ciò è pura fantasia filosofica: infatti, in guerra, al soldato è lecito uccidere, e talvolta doveroso, per cui potrebbe essere penalmente perseguito se non lo facesse (viltà e diserzione di fronte al nemico, o simile). La criminologia pare non saper distinguere il crimine, in quanto “convenzione”, atto descritto dalla sola legge e quindi perseguibile solo su questa base, e il crimine in quanto fatto ontologico, materiale, ovvero come iniziativa violenta non motivata da fatto altrui precedente, come danno fisico e morale inflitto senza ragione ad altri. Ovviamente se è perseguibile è punibile solo il fatto  definito dalla legge, che può in tempi successivi essere cancellato (cfr. il noto “plagio” su persone in quanto soggiogamento psicologico delle stesse, poi considerato vago e ambiguo, quindi abrogato come reato; da non confondersi con l’illecito civile della copiatura sotto altro nome di un’opera precedente), è pur vero che, almeno sul piano scientifico andrebbe esaminato il caso di un danno oggettivo e negativo procurato ad altri,  sebbene non previsto dalla legge, anche affinché il legislatore lo definisca e lo inserisca nel sistema penale. In sostanza, solo se ci si occupa di questa problematica, antropologia criminale (come psicologia di chi vìola la legge o fa violenza agli altri) e criminologia (come studio del crimine in quanto tale e dei crimini in quanto previsti o non previsti dalla legge) possono acquistare natura di scienza epistemologicamente fondata, e non semplicemente elencazione e descrizione di persone e di eventi criminali.

Perché considerare gli Organi di indagine e di giudizio, in uno Stato o Regime qualunque, “amanti” del crimine e dei criminali, e perché essi stessi generatori di crimini? Poniamo ancora che, per pura ipotesi, in uno Stato utopico, o meglio eu-topico (di buon luogo), esistano leggi veramente adeguate alla Giustizia, dove il crimine, se vi fosse, verrebbe non solo individuato e perseguito, ma adeguatamente punito sempre, chi mai farebbe il criminale? Nessuno, almeno non persone ragionevoli. Compirebbero crimini soltanto coloro che sono pazzi o completamente idioti, ossia persone di facile individuazione, e piuttosto assoggettabili a cure psichiatriche, che non alle repressioni di poliziotti e giudici. Dunque, legislatori ed esecutori della legge perderebbero i loro posti di lavoro, dovendosi delegare la persecuzione del crimine solo a medici ed infermieri psichiatrici, non ad agenti d’Ordine pubblico e a magistrati. In un certo senso il criminale è il datore di lavoro di colui che deve individuarlo, giudicarlo, punirlo. C’è dunque, tra le due classi sociali, una stretta correlazione, quasi un rapporto affettivo, come tra ragazzi vi è amicizia tra chi gioca al ladro e chi gioca alla guardia. L’operatore anti-crimine necessita del criminale come giustificazione della propria esistenza, del proprio lavoro, del proprio stipendio, e sa che se si riuscisse a soffocare ogni crimine egli diventerebbe superfluo nella società. Egli dunque agisce in modo da contemperare la lotta contro criminali e crimini, con l’esigenza che questi continuino ad operare. Di qui le leggi e le interpretazioni della legge sempre ingarbugliate e tendenti piuttosto alla clemenza, che non alla corretta punizione del reato. Di qui il limitato interesse per la vittima (morta o sopravvissuta che sia) e tutta l’attenzione verso il criminale, un continuo sforzo a giustificarne l’esistenza. Si mira piuttosto a colpevolizzare la vittima che non a colpire l’autore dei reati. Non è un caso che in criminologia si dia spazio crescente alla “vittimologia” (ovvero, quella scienza che si occupa dei meccanismi, soprattutto psicologici, per cui una persona diventa vittima di un reato come se lo volesse subire o trovare apposta, una sorta di giuridico masochismo): alla fine, la vittima subisce quello che desiderava, o desidera, se non è morta, e talvolta non viene neppure civilmente risarcita. Non basta: sia la criminologia, sia l’antropologia criminale, sia perfino la psicologia generale, qualificano coloro che presentano più denunce (cfr. casi di mobbing e stalking, ma anche ogni altro che si ripeta più volte ad opera di una o più persone) come sofferente di querulomania o, stante il Dizionario di Psicologia di Amedeo Dalla Volta, di paranoia querulante, ovvero manìa di presentare querele, malgrado quasi sempre queste vengano presentate tramite avvocati, che si fanno pagare professionalmente per tali atti. Poniamo pure che chi presenti più querele per un certo motivo (es., manìa di persecuzione), abbia problemi psichici di un certo rilievo, ma è questo un motivo per ignorarlo, per trascurarlo, per deriderlo? Non direi: tra tanti gridi di “al lupo al lupo” ingiustificati, potrebbe capitarne uno giustificato, in cui il “lupo” è apparso veramente E anche se si trattasse sempre di false percezioni della realtà, sarebbe piuttosto il caso di capirne i motivi psicologici, spesso inconsci, e curarli piuttosto che limitarsi ad ignorarli. In fin dei conti la legge penale prevede anche la prevenzione del reato, e non solo la punizione dello stesso, quando si realizza. Un indice inconscio di tale rapporto adikematofilo o criminofilo lo si trova nell’attributo “criminale” dato a certe Polizie, specialmente di lingua germanica: “Kriminalpolizei”, ovvero “Polizia Criminale”, è la denominazione adottata in questi Paesi, ma è evidentemente ambigua: “criminale” perché si occupa di crimini e criminali o è criminale perché compie crimini? Noi, almeno in questo campo, siamo più furbi e parliamo di “gruppo o sezione, o che altro, anticrimine”, così almeno una volta tanto noi Italiani sfuggiamo all’ambiguità semantica. La trascuratezza verso le denunce, salvo che queste non interessino poi la pubblica informazione, specialmente  televisiva (soprattutto nel caso di delitti truculenti o di reati compiuti da uomini celebri, il che produce fama e gloria, tanto care alla vanità di quei personaggi), di cui darà alla fine due esempi recentemente vissuti, non è che la manifestazione di questo “amore” verso il crimine, un rapporto di “solidarietà”, per non dire addirittura di complicità, tra gli operatori giudiziari e i singoli o associati rei. Qualche volta l’ “amore” si trasforma in vera complicità, quando si tratta di tutelare i propri informatori che cooperano da doppiogiochisti con la Magistratura o con la Polizia. Processarli ed arrestarli implicherebbe spesso perdere un’importante fonte di informazione su altri criminali non cooperanti (la politica premiale verso chi collabora è un vecchio strumento delle Polizie di tutto il mondo), e quindi si evita apertamente di indagarli, ed ancor più di processarli per eventuali reati da essi commessi.

Come appare evidente l’esistenza di adikematofilia in chi si occupa professionalmente di crimini, quasi per una certa interdipendenza tra la “guardia e il ladro”, così appare altrettanto evidente che esista un’adikematogenesi o criminogenesi costituita dai medesimi Organi che dovrebbero invece opporvisi, combatterla, ridurla al minimo possibile se non annientarla del tutto. E questo non nel semplice senso affrontato spesso dai criminologi, di crimini commessi per abuso di potere, come omissione o violenza fisica e psichica commessa dai medesimi operatori giudiziari nello svolgimento delle loro funzioni, ma proprio perché i loro atteggiamenti di “simpatia, empatia, amore”, ecc. (chiamateli pure come preferite) verso il criminale, soprattutto se collabora e se facilita le loro operazioni, il loro pietismo, la loro misericordia, clemenza e perdonismo generano nel criminale tutt’altro che vero pentimento (che dovrebbe viceversa manifestarsi nella piena accettazione della pena, non nella lagna, nel piagnisteo, nella richiesta di condoni, e via discorrendo), ovvero coscienza della colpa commessa e volontà di espiarla nei termini previsti dalla legge,  ma anzi desiderio di ripetere il loro delitto, sentendosi così apprezzati, tutelati, amati, rispettati e, talvolta, perfino adorati. Questo nel criminale: ma pure nella vittima si alimenta l’insano desiderio di vendetta, di farsi “giustizia” da sé, di mancanza di rispetto verso quella che si chiamava e si credeva “giustizia” (ripeto: concetto etico-religioso, non giuridico o giudiziario), ma del cui termine abusa  rivestendosi a chiacchiere, come del mantello farisaico (nero, serico e con fronzoli dorati)  si copre le spalle o la schiena e, talvolta, le gambe), chiamandolo con grande sussiego “toga”, che è tutt’altro tipo di indumento secondo l’antica usanza romana. Tutti i desideri suscitati nella vittima che non vede né esaminate né ancor meno soddisfatte le proprie esigenze personali da questi Organi incaricati e stipendiati a tale scopo, sono evidentemente frutto di adikematogenesi, ovvero criminògeni, in quanto nessun individuo, che abbia subìto un qualche crimine,  potrebbe adottare criteri obiettivi, equi o giusti mirando solo al proprio esclusivo interesse, e quindi  quantitativamente parziali, insufficienti, e qualitativamente faziosi: colpirebbe innocenti o presunti innocenti, perché qualunque crimine, formale o sostanziale che sia, deve essere colpito con criteri di obiettività, di imparzialità, di corretta osservazione delle circostanze e di ogni eventuale provocazione, operazioni che ovviamente appartengono solo a “terzi”, ossia non alle vittime, né ancor meno ai colpevoli, bensì a persone che, per la formazione professionale, dovrebbero essere in grado di farlo nei termini di legge dovuti. Non mi si rimproveri superficialmente di attribuire agli Organi inquirenti e giudicanti la causa prima, unica o principale, dei delitti. A mio parere la causa prima dei crimini, naturali o legali che siano, sta nell’animo umano in generale. Come sosteneva Pico della Mirandola, ma prima ancora il Talmùd, nell’essere umano vi è tanto una forte tendenza al bene quanto una pari tendenza al male. L’educazione profonda intima dell’uomo, quando c’è da parte della famiglia, della società e in se stesso, riduce al minimo la tendenza al crimine e al male in generale, ma se non c’è o è puramente formale, quando il comodo prevale sul giusto, allora nell’uomo, quando può e vuole, quando ritiene minimo il rischio di punizione, si scatena la sua tendenza al male, dunque al crimine, ovvero alla sopraffazione verso l’altro, poco importa qui se tale sopraffazione ha natura materiale (fisica o economica) o psichica. Lo vediamo ogni giorno quando si guida su una strada, magari stretta, con curve, tra le case di un paese. E’ segnato con chiarezza un limite di velocità che può essere di 30 o 50 km/h, in un centro abitato, 70, 80 o 90 km/h all’esterno di un centro abitato. Nondimeno, la moda ormai dominante è di superare i limiti (considerati minimi e non massimi): qui in Friuli tra novembre e dicembre tre bambini di quattro anni hanno subìto incidenti, uno è morto, uno è in coma e uno sta abbastanza male. Non parliamo di tanti altri casi, basti pensare a quanti annunci di blocchi autostradali vi sono ogni giorno. Non serve inventarsi un Demonio che ci tenti, basta che la nostra specie si guardi allo specchio: vi noterà come il proprio naturale senso di inferiorità si involva in complesso adleriano di inferiorità, compensato da un susseguente complesso di superiorità, non certo espresso in sede intellettuale e, talvolta, neppure in quella fisica, bensì in quella meccanica dell’acceleratore spinto a tavoletta o quasi.  Se invece di limitarsi a controllare in modo occasionale se qualcuno abbia bevuto un po’ di vino a pasto, si facessero controlli ben più severi e sistematici, probabilmente l’effetto preventivo e repressivo sul traffico stradale sarebbe migliore. Che cosa spinge un automobilista, istigato del resto dalla pubblicità e da spettacoli televisivi, a scambiare un semplice comodo mezzo di trasporto per uno strumento della propria volontà di potenza, con potenziale effetto suicida e omicida, se non la natura aggressiva dell’uomo, sicuramente la belva più feroce che esista sul pianeta, colei che ha depravato la propria intelligenza e la propria moralità per il sudicio piacere di sopraffare gli altri, individui, gruppi e popoli che siano? La storia lo dimostra, ahinoi, anche troppo largamente. Il compito della famiglia e della Scuola è quello di dare le basi minime culturali per una severa formazione ed autoeducazione, che è interiore e sostanziale, non certo formale ed apparente: sarà sicuramente eleganza il preparare la tavola nell’ordine giusto, con le posate e i bicchieri nel luogo adatto, ma non è educazione. Educazione è, ad esempio, non derubare ad altri il pasto. L’educazione non si esercita semplicemente a parole e con belle lezioni, ma con l’esempio quotidiano e sistematico, tale da essere efficace appunto interiormente, ma manifestandosi all’esterno in modo quanto più costante possibile, indipendentemente dal luogo o dal gruppo che si frequenta. Fa pena chi sostiene ad es. che i soliti nordici, tanto ammirati da noi (per un servilismo impresso da secoli di dominio straniero e di poteri interni corrotti), sono molto educati in terra propria ma sfrenati quando arrivano in Italia: la persona veramente educata nell’intimo si comporta a casa e fuori nello stesso modo corretto e rispettoso, dettatogli dalla coscienza. Così il compito degli Organi di indagine e di giudizio, con tutta l’ovvia possibilità d’errore, deve, individuando e reprimendo il crimine, ricordare che la legge esiste per essere rispettata e che il non rispettarla nei modi dovuti merita la pena da essa prevista. Solo se l’esecuzione della legge rispetta i termini proporzionali proposti, allora è efficace e disincentiva il delitto, non certo dove dominino concetti arbitrari di pietà, di misericordia, di grazia, di carità, e simili nobilissimi sentimenti, che vanno esercitati fuori e non dentro al crimine, e piuttosto a favore della vittima (che non deve essere o sentirsi beffata), che non del colpevole. Il simbolo della bilancia dovrebbe, da sempre, raffigurare il rapporto diretto e proporzionato: tanto il delitto, tanta la pena, e non certo i capriccetti in su o in giù di un giudice a suo piacimento, secondo quanto “il cor gli detti”,  per non dire di altre interiora meno nobili. Spesso la bilancia sembra adoperata in giudizio, non sulla base della legge e della relativa pena, ma sulla base del più forte, contro e a danno del più debole. Così, il compito del legislatore è di formulare leggi chiare, semplici, comprensibili a chiunque abbia almeno un titolo di studio obbligatorio, leggi razionali, non eccessive, non contorte, rispondenti il più possibile alla logica e all’etica. In tal senso esse potranno essere eseguite da tutti nel modo migliore e ridurre al minimo l’esercizio del crimine e il numero di errori giudiziari.

A conclusione di queste considerazioni, desidero aggiornare i lettori e i partecipanti a questo blog sui due episodi, uno di furto con destrezza subìto a Trieste l’8 luglio 2015, l’altro a casa mia ad opera di un’importante Società di servizi elettrici, di truffa ed estorsione. Li citerò senza fare i nomi dei rispettivi GIP, per non violare la loro sacrosanta riservatezza (poveri diavoli: lavorano con così grande impegno per “noi”!), ma solo citando i rispettivi numeri di protocollo. Nel caso del furto di due bancomat e sottrazione di 2.200 euro (l’equivalente all’incirca di due mensilità della mia pensione), seppi che la denuncia era stata archiviata con la solita motivazione del “caso ignoto”:  Ciò che è ignoto, non si conosce, quindi non si può perseguire; alla mia opposizione in cui sostenevo che si doveva analizzare l’eventuale complicità delle Poste e della Società di Trasporti, che ben conoscono casi di furto denunciati pubblicamente dagli stessi, i cui ambienti sono dotati di videocamere di sorveglianza, e nella necessità di risalire alle immagini del ladro nell’autobus e nel Palazzo delle Poste, sito in Piazza Vittorio Veneto a Trieste, con un’aula apposita per il Postamat all’angolo con Via Milano, mi sono sentito rispondere che ciò non era possibile perché, a detta dei Carabinieri di Codroipo (che nulla c’entravano con le indagini, ma avevano avuto solo il compito di trasmettere la denuncia ai colleghi di Trieste), le telecamere non funzionavano, quindi l’individuazione del ladro era impossibile (cfr. atto di querela n. 4244/ 2015 “ignoti”, presso il Tribunale Ordinario di Trieste). Così ho scoperto che della videosorveglianza a Trieste si occupano i Carabinieri di Codroipo. Ed allora mi chiedo: di quella a Codroipo, per par condicio e per reciprocità, se ne occuperanno i Carabinieri di Trieste? Ma non basta: nell’istanza di riapertura delle indagini lamentavo il fatto che, con o senza avvocati e carabinieri, le denunce dei Tummolo vengono sempre archiviate, ironizzando sul mio stesso cognome, per cui le denunce venivano “tummolate, tumulate”, ossia archiviate automaticamente. L’abile GIP non ha dimostrato di cogliere nulla di quanto scritto, nemmeno quando, ricordando la morte di mio fratello nel 1962, attribuita a suicidio, allusi invece ad un omicidio simulato come suicidio, per ragioni che non esporrò qui ovviamente (cfr. atti di indagine, di cui al fascicolo n. 2670/ 1962 del Registro Generale). Se avessi scritto notizie sul tempo meteorologico del giorno 6 maggio 1962, avrebbe avuto il medesimo effetto cadendo nel vuoto più assoluto, scivolando tranquillo come olio. L’altro caso, è quello di truffa ed estorsione perpetrate da un’importante Società di servizi elettrici che, dopo aver promesso di ridurre le tariffe per il “cliente” non solo non l’aveva fatto, ma per gli stessi periodi invernali, le aveva raddoppiate e quasi triplicate (cfr. querela n. di prot. 1918/ 2016 R.G. “ignoti”, del Tribunale Ordinario di Udine). Ebbene, dopo una prima richiesta d’archiviazione del pubblico ministero, perché i colpevoli  erano appunto “ignoti”, quindi impossibili da individuare, avendo io obiettato  che erano “notissimi” e con tanto di indirizzo, sia della sede d’impresa, sia di quella legale, il GIP mi archivia ugualmente con la sfrontata dichiarazione che io avrei presentato in ritardo la querela, mentre ciò è manifestamente falso, avendola non solo presentata nei termini di legge previsti (prima della scadenza dei tre mesi dal fatto), ma anche perché essendosi manifestati anche atti di tentata intimidazione, stalking telefonico ecc., il reato rimase in corso, finché non ruppi completamente il contratto passando ad altra Società. Perché mentire in un atto evidentemente pubblico, se non per simpatia verso chi deruba impunemente un cittadino, definito “cliente”, come fanno le prostitute? L’illustre GIP avrebbe potuto giustificarsi con una semplice motivazione, ovvero che la questione era di Diritto privato, quindi di pertinenza del giudice civile, non di quello penale. L’obiezione sarebbe stata discutibile, ma difficilmente superabile. Invece, non mi nega trattarsi di truffa ed estorsione, ma mi rimprovera perché presentai in ritardo (!!!) la querela: ancora un po’ mi mandava in galera per complicità nel reato! E poi ci meravigliamo se nei delitti tipo via Morgue (cfr. Edgard Allan Poe) questi grandi signori non riescono ad individuare i colpevoli e magari confondono pure scimpanzé e gorilla con persone (aiutati in questo dall’attuale genetica che afferma il nostro DNA identico per il 98 % a quello degli scimpanzé). E se non ci meravigliamo di questo, giustamente, non possiamo neppure meravigliarci che - malgrado statistiche di comodo reclamizzate da gazzettieri di Regime (udite, udite: gli omicidi di mafia sono calati...  e gli altri?) - la criminalità costituisca nelle nostre attuali società  perdoniste, buoniste, misericordiose ecc., un elemento, se non in crescita, perlomeno persistente ed invitto!

Caso Yara news, avvocato di Massimo Bossetti: “Sentenza da riscrivere”, la foto che potrebbe cambiare il processo d’appello, scrive mercoledì 05/07/2017 Michela Becciu su "Urban Post". Omicidio Yara Gambirasio, alla vigilia della seconda udienza del processo d’appello a Massimo Bossetti uno dei suoi avvocati, Claudio Salvagni, rilascia nuove dichiarazioni. Intervenuto ai microfoni di "Legge o Giustizia" su Radio Cusano Campus per parlare di quanto accaduto durante la prima udienza dello scorso 30 giugno, il legale ha detto di comprendere lo scatto d’ira del suo assistito in aula: “Che Bossetti fosse adirato lo posso comprendere. Sono state ribadite infinite volte questioni già superate dalla sentenza. È stata nuovamente portata avanti la questione dei furgoni che la sentenza di primo grado ha praticamente smentito. È normale che l’imputato si arrabbi dato che non può disquisire del DNA”. Salvagni ha anche parlato della super perizia sul Dna richiesta da lui e dal suo collega Paolo Camporini, esprimendosi così riguardo l’indiscrezione secondo cui il materiale per una nuova perizia sarebbe finito: “Questo lo dice un consulente dell’’accusa, il professore Casari. ‘Ho ancora i campioni conservati nei frigoriferi’, lo ha detto un consulente dell’accusa. Il punto è che sono state consumate le due tracce migliori ma ci sono comunque altre tracce”. Claudio Salvagni ha poi parlato della foto satellitare del campo di Chignolo d’Isola datata 24 gennaio 2011, circa due mesi dopo l’omicidio di Yara Gambirasio, che la difesa di Bossetti ha chiesto alla Corte d’assise di Brescia venga acquisita agli atti. L’immagine secondo i difensori del muratore di Mapello mostrerebbe l’assenza del corpo della giovane vittima un mese prima del suo ritrovamento; così Salvagni in merito: “Che la procura giochi un po’ a nascondino risulta fuori discussione. Andrebbe chiesto a lei come mai non ci ha messo a disposizione tutti gli atti. Non è un derby, il pm deve trovare, insieme agli avvocati difensori, le verità processuali. Per noi è importantissima questa foto. Abbiamo sdoganato il processo penale 2.0. Abbiamo avuto la vicinanza di centinaia di persone che si sono interessate al caso. Ognuna a modo loro ha cercato di aiutarci. Gianluca Neri è riuscito ad entrare in possesso di questa foto che merita la massima attenzione”. Perché quella immagine satellitare sarebbe importante ai fini processuali? “Va letta congiuntamente alle informazione di Peter Gill, il padre della genetica forense. Lui ci ha detto che prima di affrontare qualsiasi argomento sul DNA bisogna valutare che quella traccia, di quella purezza, non può resistere all’aperto per più di cinque o sei settimane. Abbiamo quindi unito la testimonianza a questa fotografia. Le due cose insieme ci fanno riflettere. Se quel corpo è arrivato lì poco prima del ritrovamento, invece che tre mesi prima come sostiene la sentenza di primo grado, direi che cambia completamente la storia. La sentenza sarebbe da riscrivere”.

La difesa di Bossetti attacca la procura di Bergamo: "Sul processo c'è stato depistaggio", scrive il 5 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Un sospetto che da tempo aleggia sul processo a carico di Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio adesso sta diventando una certezza secondo il suo avvocato difensore, Claudio Salvagni. L'arringa che domani sarà fatta in aula per il processo di Appello a Brescia non avrà i toni polemici che tutti si aspettano: "Sarà violenta - assicura l'avvocato - Bossetti è una vittima sacrificale". Da giorni si parla del colpo a sorpresa da parte della difesa, quella foto satellitare del campo di Chignolo, dove era stato trovato il corpo di Yara. Da quello scatto realizzato il 24 gennaio 2011 non risulterebbe la presenza del corpo di Yara. L'accusa ha sempre sostenuto che Yara fosse morta la stessa sera in cui è scomparsa, il 26 novembre 2010, proprio in quel campo. Il suo corpo sarebbe stato trovato a febbraio 2011, ma un mese prima in quell'area non risulterebbe nulla. Per questo i difensori di Bossetti sono certi che tutto l'impianto accusatorio sia destinato a saltare. Ma c'è un altro colpo di scena, ben più preoccupante che l'avvocato Salvagni ha lanciato. Il sospetto diventato certezza non è tanto il ritrovamento della foto, ma "il fatto che della stessa fotografia la procura di Bergamo fosse già in possesso e ne abbia sempre negato l'esistenza, impedendo alla difesa di Bossetti di prenderne visione. Ce l'hanno nascosta. Salta fuori solo quando hanno saputo che l'avevamo. Come mai non era nel fascicolo del processo e neppure in quello del pm Letizia Ruggeri? Ecco perché - attacca l'avvocato - io oggi posso insinuare che in questa inchiesta ci sia stato un depistaggio".

“Questa foto può smontare l’accusa contro Massimo Bossetti. E la Procura ce l’ha tenuta nascosta”, scrive il 5 luglio 2017 "OGGI". La difesa si prepara all’arringa finale del processo d’appello per l’omicidio di Yara Gambirasio. Alla vigilia dell’arringa al processo contro Massimo Bossetti, in corso a Brescia, Claudio Salvagni, difensore con Paolo Camporini dell’imputato, dice al settimanale Oggi: «La mia non sarà un’arringa polemica. Sarà violenta. Bossetti è una vittima sacrificale». E aggiunge: «Il vero colpo di scena in questo processo per l’omicidio di Yara non è tanto il ritrovamento di una immagine satellitare del campo di Chignolo, risalente al 24 gennaio 2011, nella quale non appare il corpo della ragazza, ma il fatto che della stessa fotografia la Procura di Bergamo fosse già in possesso e ne abbia sempre negato l’esistenza impedendo alla difesa di Bossetti di prenderne visione. Ce l’hanno nascosta. Salta fuori solo quando hanno saputo che l’avevamo. Come mai non era nel fascicolo del processo e neppure in quello del Pm Letizia Ruggeri? Ecco perché io oggi posso insinuare che in questa inchiesta ci sia stato un depistaggio». Secondo l’accusa, Yara morì nel campo di Chignolo la stessa sera in cui scomparve, il 26 novembre del 2010. Ma se un mese prima del ritrovamento, di quel corpo nel campo non c’è traccia, l’impianto accusatorio salterebbe per aria. I difensori di Bossetti, anticipa Oggi, chiederanno anche che venga fatto un esperimento giudiziale nel campo di Chignolo per verificare, se in condizioni climatiche analoghe a quelle dell’inverno 2010-2011, il Dna possa conservarsi per tre mesi come è successo con quello di Ignoto 1. Secondo Peter Gill, lo scienziato britannico considerato il padre delle ricerche sul Dna, «in quelle condizioni di tempo, con pioggia, neve e umidità il Dna, dopo sei settimane, si degrada».

6 LUGLIO 2017. SECONDA UDIENZA DI APPELLO. PAROLA ALLA DIFESA.

Processo Bossetti, parola alla difesa, scrive "L'Eco di Bergamo" Giovedì 06 luglio 2017. Parola alla difesa di Massimo Bossetti nel processo d’appello sull’omicidio di Yara Gambirasio. Davanti ai giudici della Corte d’Assise d’appello di Brescia i legali del muratore, condannato all’ergastolo in primo grado il primo luglio 2016, cercheranno di provare l’innocenza, sempre ribadita dal carpentiere. All’inizio dell’udienza, prima che iniziasse a parlare il legale di parte civile, gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno preannunciato che nelle loro arringhe di oggi avrebbero avuto bisogno di strumenti per proiettare documenti e video. Il giudice Fischetti, dopo aver fatto notare che «la richiesta potevate anche farla prima», ha chiarito: «Il processo d’appello è un processo su documenti scritti e di discussione orale» e «la cornice delle discussioni dovrà rimanere all’interno dei motivi d’appello e quindi degli atti e dei documenti contenuti in quei motivi». In sostanza, la corte dopo aver detto «no» all’utilizzo di video, ha spiegato ai legali che le slide che vorranno mostrare dovranno fare riferimento «ad atti versati nel processo». I difensori avrebbero voluto far vedere quei video che, hanno riassunto, avrebbero mostrato «esempi di ciò che è successo, ma non ne anticipiamo i contenuti». Il sostituto pg, Marco Martani, ha chiesto di poter esaminare prima delle arringhe le slide, mentre i legali di parte civile hanno fatto presente che «ci opporremo se verrà mostrato qualsiasi atto non contenuto nel processo». «I video non ci interessano, toglieteli pure, noi non ci lasciamo suggestionare, non ci servono, avete già fatto 258 pagine di motivi di appello più 110 di motivi aggiunti dove avete già scritto tutto e criticato in maniera estesa». Con queste parole il presidente della Corte d’Assise d’appello di Brescia, Enrico Fischetti, ha detto no nel processo di secondo grado sull’omicidio di Yara Gambirasio alla richiesta dei difensori di Bossetti che, ad inizio udienza, hanno anticipato di voler accompagnare le loro arringhe con alcune slide e con video «anche per catturare l’attenzione». I giudici si sono detti disponibili ad accettare le slide, “purché depurate, vi prego, da ciò che non è contenuto negli atti e nei documenti del processo e nei motivi d’appello», ma i “video non ci interessano, facciamo 20 processi all’anno su omicidi anche gravi, con bambini morti bruciati, e nessuno ci ha mai proposto video». Per ottenere l’assoluzione, in particolare, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini punteranno sulla riapertura del procedimento attraverso la richiesta di una serie di nuovi accertamenti, una sorta di maxi perizia, tra cui quelli sulla prova del Dna, «granitica» stando al verdetto di primo grado, oltre che sulle fibre trovate sul cadavere della ragazzina che sarebbero compatibili con quelle trovate sul cadavere. Il sostituto pg Marco Martani nella scorsa udienza, descrivendo come «ineccepibile» la sentenza dei giudici di Bergamo, ha chiesto la conferma dell’ergastolo per il carpentiere, ma anche 6 mesi di isolamento diurno, anche perché, secondo il pg, Bossetti dovrà essere ritenuto colpevole anche di calunnia per aver sviato le indagini e accusato un collega. Bossetti sarà presente in aula, come al solito, e all’inizio dell’udienza finirà il suo intervento l’avvocato Andrea Pezzotta, legale dei genitori di Yara assieme al collega Enrico Pelillo (ha già parlato lo scorso 30 giugno). Poi inizieranno a parlare i difensori e non si sa ancora se riusciranno a concludere le loro arringhe domani o il 10 luglio. Il 14 luglio, infine, da programma dovrebbero esserci le dichiarazioni spontanee di Bossetti e poi i giudici dovrebbero entrare in camera di consiglio, uscendo quel giorno o con una decisione di rinnovazione del dibattimento o con la sentenza. Alla vigilia dell’arringa il legale Salvagni ha spiegato al settimanale «Oggi»: «Il vero colpo di scena in questo processo per l’omicidio di Yara non è tanto il ritrovamento di una immagine satellitare del campo di Chignolo, risalente al 24 gennaio 2011, nella quale non appare il corpo della ragazza, ma il fatto che della stessa fotografia la Procura di Bergamo fosse già in possesso e ne abbia sempre negato l’esistenza impedendo alla difesa di Bossetti di prenderne visione. Ce l’hanno nascosta - ha proseguito -. Salta fuori solo quando hanno saputo che l’avevamo. Come mai non era nel fascicolo del processo e neppure in quello del Pm Letizia Ruggeri? Ecco perché - ha concluso - io oggi posso insinuare che in questa inchiesta ci sia stato un depistaggio».

«Nel dubbio Bossetti va assolto», scrive "L'Eco di Bergamo" Giovedì 06 luglio 2017. Continua Brescia l’arringa degli avvocati di Massimo Bossetti: «Cercheremo di convincervi che i dati presenti nel fascicolo non consentono di condannare Massimo Bossetti e voi dovrete essere sicuri oltre ogni ragionevole dubbio che quest’uomo è colpevole. Se i dubbi permarranno, voi dovrete assolverlo». Così l’avvocato Claudio Salvagni, legale del muratore condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Yara si è rivolto in particolare ai giudici popolari della corte d’Assise d’appello di Brescia. «Non dovrete giudicare con la pancia», ha aggiunto, ricordando le parole di un giudice della giuria che assolse O.J. Simpson, il quale ha detto in sostanza di essere «convinto che fosse stato lui, ma non c’erano le prove». Salvagni ha spiegato che in questa indagine «sono arrivate cose incredibili, false e suggestive», e mentre l’accusa si è basata solo su questo e «sulle emozioni», l’approccio della difesa «è scientifico, asettico». Secondo il legale, inoltre, attorno al caso di Bossetti si è creato «un cliché, la gente è stata presa in giro». «Facciamole, allora, queste perizie e andiamo a vedere se quel Dna è davvero il suo o se, come crediamo noi, non è il suo», continua Claudio Salvagni in un altro passaggio della sua arringa in corso nel processo di secondo grado sull’omicidio di Yara Gambirasio. Il difensore in questa parte del suo intervento, ancora una sorta di infarinatura di elementi che verranno trattati più avanti nello specifico, ha anche chiarito che il computer di Bossetti sequestrato e analizzato «non è quello di un pedofilo come dovrebbe sapere chi si occupa di casi del genere». Per il difensore la prova regina del Dna, secondo l’accusa, è soltanto un dato presentato come «roboante ma sbagliato» e “non si può condannare un uomo» sulla base di «71», come sostiene l’accusa, risultati attribuibili a Bossetti «su 101 e gli altri 30?». Per la difesa poi «le sfere metalliche e le fibre» trovate sul corpo della 13enne «non sono indizi» a carico di Bossetti e il furgone ripreso nelle immagini agli atti «non è il suo». Secondo Salvagni, nel corso delle indagini gli investigatori hanno analizzato «10 anni» di attività sul computer di Bossetti e hanno «trovato una sola ricerca e tra l’altro poco prima del suo arresto, nel 2014, e non a carattere pedopornografico, tanto che la stessa sentenza di condanna di primo grado parla di latamente pedopornografico, usando quel latamente che è un po’ il concetto dell’accusa, tutto è latamente qua, le sfere sono latamente compatibili e allora anche Bossetti è latamente colpevole in base a una prova latamente scientifica». Sulle ricerche on line del muratore di Mapello aveva molto insistito in mattinata il legale della famiglia di Yara, Andrea Pezzotta, elencando esplicitamente le parole che avrebbe digitato Bossetti con riferimenti sessuali a «ragazzine». Sempre in relazione al Dna, la difesa del carpentiere ha ribadito anche oggi, come già fatto molte volte, che le analisi sulle tracce genetiche hanno portato al risultato che «non c’è nemmeno il Dna mitocondriale di Bossetti ma di un altro, ma non si è voluto approfondire neanche questo tema». In relazione alle sfere metalliche, poi, Salvagni ha parlato di un «errore” dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, mentre dall’analisi delle celle telefoniche è emerso che «un’ora prima dei fatti il suo telefono era nella zona di casa sua».

Difesa: «Dna sbagliato, serve la perizia», scrive Venerdì 07 luglio 2017 "L'Eco di Bergamo". Salvagni: «Le indagini genetiche? Piene di criticità. Noi non abbiamo paura di ripeterle». I legali della famiglia Gambirasio: contro di lui prove certe, anche le intercettazioni con la moglie lo inchiodano. Prima l’avvocato Claudio Salvagni paragona il caso di Bossetti a quello di O. J. Simpson. Poi definisce «spazzatura» l’esito delle analisi scientifiche sul Dna di Ignoto 1.Giovedì 6 luglio al processo di secondo grado per l’omicidio di Yara Gambirasio è cominciata l’arringa fiume della difesa. Nove ore, altrettante in programma lunedì prossimo. Nodo centrale, la richiesta di una super perizia genetica, bollata come «superflua» nella sentenza di primo grado: «Le analisi le ha fatte sempre e solo l’accusa, noi non abbiamo mai potuto partecipare in contraddittorio. Perché dovremmo fidarci? Non ci hanno fatto neppure vedere i reperti. Eppure quel Dna secondo noi è pieno di dubbi. A cominciare dal mitocondriale, ma non solo: abbiamo contato 261 criticità». Un punto di vista, quello su cui insiste la difesa di Bossetti, diametralmente opposto alle valutazioni dell’accusa, secondo cui non serve alcuna perizia sul Dna, dato che la prova contro il muratore di Mapello sarebbe «granitica» e ripetuta più volte: ben 71 su 101, secondo il pg, le analisi che confermerebbero la bontà del profilo di Ignoto 1, tramite 38 marcatori (ne basterebbero 13) risultati perfettamente sovrapponibili a quelli dell’imputato). Prima della difesa era stato il turno dei legali della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta. Quest’ultimo ieri mattina ha concluso la sua arringa chiedendo la conferma dell’ergastolo. «Oltre al Dna – incalza – Bossetti non ha un alibi. Ed è una mancanza significativa. Lo provano le intercettazioni ambientali dei colloqui in carcere con sua mogie Marita, che gli rinfaccia: “Eri via quella sera – gli dice, riferendosi alla sera della scomparsa di Yara – non mi ricordo a che ora se venuto e neanche cosa hai fatto, perché mi ricordo che all’inizio eravamo arrabbiati”. Un dato confermato dai tabulati telefonici, perché in quei giorni tra Bossetti e la moglie i contatti si erano interrotti». Aggiunge Pezzotta: «Dunque Bossetti, persona che conduceva una vita abitudinaria («monacale» l’ha definita l’avvocato Camporini, ndr) quella sera non tornò presto e non disse cosa fece: il ricordo della moglie è preciso». «Intercettazioni travisate e decontestualizzate», per la difesa. Si alzerà in piedi all’ultima udienza e prenderà la parola, come fece del resto anche al termine del processo di primo grado. Massimo Bossetti, attraverso dichiarazioni spontanee, cercherà di convincere della sua innocenza la Corte d’assise d’appello di Brescia, presieduta dal giudice Enrico Fischetti (a latere Massimo Vacchiano e sei giudici popolari). L’ultima parola gli spetta di diritto, poi la Corte si riunirà in camera di consiglio, dove rimarrà fino al raggiungimento di un verdetto. «Quel giorno vorremmo entrare in camera di consiglio presto, perché ci serviranno diverse ore – ha preannunciato Fischetti – e non vorremmo entrare con l’ansia del tempo». Ancora molti gli aspetti del processo che gli avvocati difensori dell’imputato intendono toccare nelle loro arringhe e questo ha indotto ieri il presidente della Corte a fissare un’ulteriore udienza, il 17 luglio, inizialmente indicata soltanto come «di riserva».

Bossetti, la difesa cita O.J. Simpson e porta slide e video. No dei giudici ai filmati: "Non ci lasciamo suggestionare". Il processo d'appello per l'omicidio di Yara Gambirasio dopo l'ergastolo in primo grado. I legali volevano proiettare in aula i materiali "anche per catturare l'attenzione". Ai giudici: "Siate sicuri oltre ogni ragionevole dubbio", scrive il 6 luglio 2017 “La Repubblica”. Il giorno della difesa di Massimo Bossetti nel processo d'appello in corso a Brescia. E i legali del muratore provano a smontare l'accusa che gli è costata l'ergastolo poco più di un anno fa per aver ucciso Yara Gambirasio, la ragazzina di 13 anni, scomparsa da Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre del 2010 e trovata morta in un campo di Chignolo d'Isola tre mesi dopo. Gli avvocati del muratore di Mapello citano il caso O.J. Simpson come esempio di stato di diritto e ai giudici dicono: "Cercheremo di convincervi che i dati presenti nel fascicolo non consentono di condannare Massimo Bossetti e voi dovrete essere sicuri oltre ogni ragionevole dubbio che quest'uomo è colpevole. Se i dubbi permarranno voi dovrete assolverlo". In tribunale, la moglie del muratore, Marita Comi, la madre Ester Arzuffi e la sorella Laura Bossetti. Piena l'aula con oltre 200 persone. No ai video per smontare le accuse. La prima mossa dei legali, però, di voler accompagnare le loro arringhe con alcune slide e video "con esempi di ciò che è successo", "anche per catturare l'attenzione", è stata subito respinta. "I video non ci interessano, toglieteli pure - ha detto il presidente della Corte d'Assise d'appello di Brescia, Enrico Fischetti - noi non ci lasciamo suggestionare, non ci servono, avete già fatto 258 pagine di motivi di appello più 110 di motivi aggiunti dove avete già scritto tutto e criticato in maniera estesa". I giudici si sono detti disponibili ad accettare le slide, "purché depurate da ciò che non è contenuto negli atti e nei documenti del processo e nei motivi d'appello, i video non interessano. Facciamo 20 processi all'anno su omicidi anche gravi, con bambini morti bruciati, e nessuno ci ha mai proposto video. Il processo d'appello è un processo su documenti scritti e di discussione orale", ha aggiunto Fischetti. Il sostituto pg, Marco Martani, ha chiesto poi di poter esaminare prima delle arringhe le slide. I legali della famiglia: "Yara preda perfetta". Contrari alla proiezione dei materiali i legali di parte civile, che ne chiedere la conferma dell'ergastolo, hanno descritto Yara come "un povero fagottino nero sotto la pioggia, preda perfetta per chi ha pulsioni insane" - le parole dell'avvocato dei genitori di Yara, Andrea Pezzotta - essendo "il comportamento di Massimo Bossetti di natura sadica, riconducibile ad una devianza di natura sessuale". Il caso O.J. Simpson. Oltre ogni ragionevole dubbio. E' su questo che punta la difesa di Bossetti, convinta che l'accusa in sostanza si sia basata solo su "falsità, suggestioni ed emozioni" a dispetto dell'approccio dei difensori "è scientifico, asettico". L'avvocato Salvagni ha ricordato le parole di un giudice della giuria che assolse negli Usa O.J. Simpson, il quale ha detto in sostanza di essere "convinto che fosse stato lui, ma non c'erano le prove". "Noi siamo sereni che non è Bossetti l'imputato colpevole - ha detto Salvagni -  ma voi non dovrete giudicare con la pancia altrimenti non arriveremo mai a una sentenza giusta". "Il Dna non è suo e lui non è un pedofilo". Sono "261 le criticità" individuate dai legali del muratore sulla prova del Dna, perché quella che l'accusa ritiene la prova 'regina' del Dna, secondo gli avvocati di Bossetti è soltanto un dato presentato come "roboante ma sbagliato" e "non si può condannare un uomo" sulla base di "71" risultati attribuibili a Bossetti "su 101. E gli altri 30?". Per la difesa poi "le sfere metalliche e le fibre" trovate sul corpo della 13enne "non sono indizi" a carico di Bossetti e il furgone ripreso nelle immagini agli atti "non è il suo". Il computer "non è quello di un pedofilo come dovrebbe sapere chi si occupa di casi del genere". Quanto alla procura, poi, secondo Salvagni, avrebbe tenuto nel cassetto la foto satellitare del campo di Chignolo d'Isola dalla quale, secondo la difesa, emergerebbe che il corpo della ragazzina non restò 3 mesi là, una tesi "coerente con l'ipotesi che la traccia di Dna è stata deposta successivamente sul corpo".

Bossetti, la difesa contesta movente sessuale: sugli slip di Yara il taglio è posteriore, scrive il 6 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. In assenza di un movente certo che abbia spinto Massimo Bossetti a uccidere Yara Gambirasio «non andiamo a inventare un movente sessuale, che non c’è». Lo ha detto in un passaggio della sua arringa l’avvocato Paolo Camporini, che difende Bossetti con il collega Claudio Salvagni. «L’elastico del reggiseno» sarebbe stato tagliato da un fendente che ha ferito la ragazzina sulla schiena. Il taglio sui leggings e sugli slip, poi, «è posteriore» ma la letteratura scientifica mostra come l’omicidio sessuale «sia sempre frontale». «Non ci vengano a dire che l’omicida si è tagliato un dito tagliando gli slip - ha proseguito il legale -. Innanzitutto non è scritto da nessuna parte che la traccia di Dna trovata sia sangue» e poi è improbabile che se l’autore del delitto si sia tagliato mentre si trovava alle spalle della vittima e «una traccia infinitesimale» del suo sangue sia finita nella parte anteriore degli indumenti della 13enne.

“Yara, uccisa da un deviato sessuale”, ma la difesa di Bossetti non ci sta. Andrea Pezzotta, legale dei Gambirasio, è tornato sul movente dell'omicidio: "Quelle sevizie dicono molto". Ma Salvagni lo attacca, scrive Mauro Paloschi il 7 luglio 2017 su "Bergamo News". “Un comportamento di natura sadica che altro non è che una devianza di natura sessuale”. Andrea Pezzotta, legale di Maura Panarese, ha sentenziato in questo modo dopo la sua arringa al processo d’Appello contro Massimo Giuseppe Bossetti al tribunale di Brescia. L’avvocato della mamma di Yara Gambirasio, parte civile al procedimento contro il carpentiere di Mapello, condannato un anno fa all’ergastolo per il brutale delitto della ragazzina, è tornato a parlare del possibile movente, mai chiarito del tutto: “Non può essere che di natura sessuale – le sue parole, prima di confermare la richiesta di condanna all’ergastolo -. Ci sono le sevizie inferte alla vittima: una serie di lesioni, tagli ai polsi e al collo che nell’intenzione dell’autore dovevano essere letali. Prima di queste però ce ne sono altre, inferte in vita. Sono tagli superficiali sul tronco e alla schiena, idonei a provocare dolore e sanguinamento. Tanto che in questo processo c’è l’aggravante delle sevizie. Una violenza gratuita che va oltre l’intenzione di uccidere. Era per far soffrire la vittima prima di ucciderla e, da mente deviata, provare piacere”. Pezzotta in aula ha citato anche le ricerche trovate sul computer portatile di Massimo Bossetti su “ragazzine con vagine rasate” e “ragazze vergini rosse”: “Yara poteva rappresentare – ha concluso – la preda perfetta per chi ha la passione insana per questo genere di cose”. Una tesi a cui la difesa di Massimo Bossetti ha cercato di ribattere. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che avevano chiesto alla Corte d’Assise e d’Appello di Brescia di accompagnare la loro requisitoria con la proiezione di alcuni video e slide, ma il collegio presieduto da Enrico Fischetti, che non era stato preavvisato, ha deciso di non acconsentire. “Il procuratore generale Martani ha detto che sono state fatte 101 ripetizioni dalle quali emerge Ignoto 1, poi si è corretto dicendo che sono oltre 70”, ha sottolineato Salvagni attaccando dicendo “analisi eseguite correttamente non c’è n’è nemmeno una”. Discutibile, per il legale, è anche “l’unica ricerca effettuata sul computer della famiglia Bossetti non a carattere pedo pornografico” finita al centro delle indagini, ha spiegato Salvagni. Si tratta di una ricerca fatta su Google digitando le parole “ragazzine rosse tredicenni, vergini” poco prima dell’arresto del muratore di Mapello, finito in carcere nel giugno del 2014. La sentenza della Corte d’Assise di Bergamo parla di “ricerche latatamente pedo pornografiche – ha spiegato il legale – ma qui è latatamente il suo Dna, le fibre sono latatamente quelle del suo furgone, le sfere tre sono latatamente le stesse, tutto qui è latatamente. Se Massimo Bossetti sarà altamente colpevole sarà per una prova latamente scientifica”.

Yara, difesa shock di Bossetti, Bruzzone: ''Test in Australia d'estate? Non è Chignolo'', scrive il 7 luglio 2017 Stefano Ursi su "IntelligoNews". Sono giorni convulsi quelli che si registrano relativamente al processo d'appello per l'omicidio di Yara Gambirasio. E sta facendo discutere i media e l'opinione pubblica la tesi della difesa di Massimo Bossetti nell'arringa difensiva, secondo cui il cadavere della ragazzina sarebbe stato ''rimaneggiato per depistare''. E nella quale si chiede una nuova perizia sul Dna al fine di essere certi sulla sua riconducibilità. Un caso, quello di Yara, che continua ad essere al centro del dibattito e che continua a far discutere esperti e analisti. La decisione della Corte d'Assise d'appello di Brescia non arriverà il 14 luglio ma il 17. Su questo IntelligoNews ha sentito la criminologa Roberta Bruzzone: ''Credo siano argomentazioni insostenibili, un po' come guardare un film alla radio. Gli elementi portati non spostano assolutamente nulla; quella foto satellitare è a dir poco surreale e, nella migliore delle ipotesi, inutile. Nulla di nuovo sotto il sole, qui spazio per una perizia non c'è''. 

Roberta Bruzzone. Come commenta le argomentazioni della difesa di Bossetti?

''Credo siano argomentazioni insostenibili, un po' come guardare un film alla radio. Gli elementi portati non spostano assolutamente nulla; quella foto satellitare è a dir poco surreale e, nella migliore delle ipotesi, inutile. Non porta nessun tipo di dato in più, il punto in cui sarebbe in qualche modo presente il corpo di Yara è totalmente sgranato e non si può dire alcunché, né positivamente né negativamente, tanto è che quella è una foto già agli atti e già giustamente scartata perché priva di interesse sotto ogni punto di vista. Quindi cercare di sostenere che il corpo di Yara lì non ci sia arrivato dal 26 Novembre, giorno della scomparsa, ma successivamente, per poi sostenere che la traccia biologica riconducibile a Bossetti fosse stata depositata, cercando di supportare l'ipotesi del complotto, mi pare ancora una volta surreale. La ritengo un'argomentazione priva di qualsiasi pregio forense e investigativo e credo che la Corte d'Assise d'Appello di Brescia non la prenderà in alcuna considerazione. Non mi pare che ci sia proprio nulla di nuovo. Relativamente allo studio del prof. Gill, che è un'ottima persona e un ottimo professionista, ci tengo a precisare che non c'è nessuna consulenza tecnica a sua firma depositata dalla difesa di Bossetti; Gill si è limitato a rispondere ad alcune domande, modello intervista che gli ha fatto Salvagni, portando come riferimento un esperimento condotto in Australia, d'estate e dunque in condizioni totalmente diverse da quelle di Chignolo in inverno, per cercare di mostrare come una traccia biologica non persiste all'aperto per più di cinque/sei settimane. Quello è uno studio condotto in condizioni climatiche totalmente diverse, con tutto il rispetto per chi lo ha condotto, ma non è applicabile o sovrapponibile a questa vicenda''. 

Secondo lei ci possiamo aspettare sorprese oppure no? 

''Glielo dico molto sinceramente, ora ci saranno le udienze dedicate alle varie discussioni, con ogni probabilità ancora una per la difesa e poi le repliche: non mi aspetto proprio null'altro. La conferma dell'ergastolo, anzi ritengo assai probabile anche la condanna per calunnia nei confronti di Maggioni. Non c'è spazio per nessun'altra valutazione. Poi io mi auguro di aver letto qualcosa di riportato in maniera sbagliata, perché a quanto ho letto su alcuni giornali Camporini avrebbe escluso il movente sessuale perché, a suo dire, la letteratura scientifica sostiene che tutti gli omicidi di matrice sessuale avvengono frontalmente; io non so dove abbia preso questo tipo di informazione, ma qualora fosse così gli suggerisco vivamente di controllare le sue fonti, perché di sicuro la letteratura scientifica una cosa del genere non la riporta nemmeno vagamente. Sull'esclusione del movente sessuale sulla scorta del quadro lesivo in una vicenda del genere, dove invece è chiarissimo, sostenendo che gli omicidi di matrice sessuale avvengono frontalmente, posso portare tonnellate di casi che lo disattendono in maniera imbarazzante. Mi pare dunque di capire che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole, le argomentazioni sono quelle, la Corte d'Assise ha già messo dei paletti molto chiari e non valicabili per quanto riguarda nuove argomentazioni, dopodiché qui spazio per una perizia non c'è''.

LA BRUZZONE: UOMINI E QUERELE.

Roberta Bruzzone età, marito, figli, altezza, peso: tutto sulla criminologa, scrive Tony Stallone il 25 febbraio 2017. Roberta Bruzzone ha 43 anni, è nata a Finale Ligure il 1° luglio del 1973. È una criminologa e psicologa forense ed è diventata anche un personaggio televisivo per il ruolo di opinionista che svolge in alcune trasmissioni tv fra cui Porta a Porta, con cui collabora assiduamente, dove è chiamata ad esprimersi sui casi di cronaca giudiziaria più efferati ed emblematici degli ultimi anni. Alta 1 metro e 68 centimetri, pesa 62 chilogrammi; è divorziata ma in ottimi rapporti con il suo ex marito Massimiliano: quando i due hanno celebrato il divorzio, lei ha pubblicato uno scatto sui social che li vedeva brindare, con scritto “Chiudere una storia importante in maniera civile si può”. Attualmente, l’esperta non ha figli ed è fidanzata con Massimo, funzionario della Polizia di Stato; ha annunciato che lo sposerà a luglio del 2017 nel corso di un’intervista a Domenica In dello scorso anno. Bruzzone si è laureata in Psicologia clinica con il massimo dei voti presso l’Università degli Studi di Torino ed è una criminologa, psicologa forense ed investigativa molto affermata. Dopo diverse specializzazioni in Italia, ha conseguito degli importanti titoli anche negli Stati Uniti ed ha collaborato con prestigiosi studi legali, occupandosi di casi di grande impatto mediatico. E’ stata ed è spesso ospite di alcuni talk show che si occupano di cronaca, primo fra tutti Porta a Porta, e così è arrivata alla popolarità e all’affermazione sul grande pubblico. In tv ha anche presentato per tre edizioni il programma-documentario Donne Mortali sull’emittente di Discovery Real Time. Qualche anno fa Roberta ha avuto delle questioni con un suo ex fidanzato per alcuni atti che lui avrebbe compiuto contro di lei: la vicenda fece molto discutere e si trascinò in tribunale. Nel 2015 fece molto scalpore la divertente imitazione della comica Virginia Raffaele all’interno delle trasmissioni Amici di Maria De Filippi e C’è posta per te: Bruzzone non gradì molto e minacciò querele che poi fortunatamente non presentò anche grazie alla ‘mediazione’ dell’amico Bruno Vespa. Dal 25 febbraio 2017 la criminologa è impegnata in qualità di giudice speciale nel varietà del sabato sera di Rai1 Ballando con le stelle 12.

Roberta Bruzzone, la criminologa si è sposata: chi è il marito Massimo, scrive Antonella Latilla l'1 luglio 2017. Roberta Bruzzone si è sposata. Per la popolare criminologa si tratta del secondo matrimonio: qualche anno fa ha divorziato dal primo marito Massimiliano. L’opinionista di Ballando con le Stelle è ora diventata la moglie di Massimo, un funzionario della Polizia di Stato. La coppia si è conosciuta tre anni fa ad una cena con amici in comune ed è subito scattato il colpo di fulmine da entrambe le parti. Roberta e Massimo sono convolati a nozze venerdì 30 giugno sulla spiaggia di Fregene. Dopo il rito civile, gli sposi hanno organizzato un party sulla spiaggia al quale hanno preso parte parecchi invitati. I neo coniugi amano molto il mare e per questo hanno deciso di sposarsi nella località balneare vicino Roma. Il marito di Roberta Bruzzone si chiama Massimo, ha 47 anni ed è un funzionario della Polizia. Prima del matrimonio i due hanno vissuto diversi mesi lontani per via del lavoro dell’uomo. Quest’ultimo ha infatti lavorato a Kabul, nell’ambasciata italiana in Afghanistan, con un incarico speciale: quello della lotta al traffico di droga. Massimo è ora rientrato in Italia, gli è stato assegnato un nuovo incarico a Roma, dove potrà abitare senza problemi insieme alla neo moglie. Nella Capitale la Bruzzone è impegnata come criminologa e psicologa forense. Da tempo è opinionista televisiva; Porta a pota, La Vita in Diretta, La Scena del Crimine, Donne Mortali sono solo alcune delle numerose trasmissioni alle quali ha preso parte. Roberta ha 44 anni, è nata a Finale Ligure il primo luglio del 1973. È alta 1 metro e 68 centimetri, pesa 62 chilogrammi ed è anche docente presso alcune università italiane. “Nell’istante stesso in cui i nostri sguardi si sono incontrati per la prima volta io ho capito che Massimo era la persona che avevo aspettato per tutta la vita, e lui a pensato di me la stessa cosa” ha dichiarato la Bruzzone al settimanale Di Più.

Roberta Bruzzone si è sposata a Fregene: “Massimo esisti solo tu, solo noi”, scrive "Ostiatv" il 2 luglio 2017. Matrimonio in riva al mare per la nota criminologa che ha coronato il suo sogno d’amore con Massimo Marino all’Ondanomala. Romantico matrimonio in riva al mare per Roberta Bruzzone, la bella criminologa, volto noto della televisione italiana, che venerdì 30 giugno ha detto sì al suo Massimo Marino, funzionario di polizia, allo stabilimento Ondanomala di Fregene. La splendida criminologa ligure, che ha conosciuto il marito ad una cena di lavoro, indossava una elegante misebianca con corpetto di pizzo e pantaloni fluidi, ha coronato il suo sogno d’amore alla presenza di pochi, selezionatissimi amici. Toccante la riflessione-dedica al marito pubblicata dalla stessa Roberta alla vigilia delle nozze sul suo profilo Facebook: “...e venne il giorno...più importante della mia vita...sposo l'uomo più incredibile che abbia mai incontrato, l'unico che abbia mai amato davvero e senza limiti....due anni in Afghanistan ci hanno unito in maniera inscindibile...ci hanno forgiato e reso in grado di affrontare qualsiasi difficoltà...insieme...per tutta la vita...gli errori del passato si sono dissolti come neve al sole...esisti solo tu...solo NOI... Massimo Marino tu sei l'unico capace di sorprendermi ogni giorno...in grado di cancellare con un sorriso il peso delle giornate più complicate che mi riserva la mia adorata professione…sono felice come mai sono stata…come mai avrei sperato di poter essere…e domani, insieme a te e a tutti i nostri amici più cari, celebreremo il nostro amore in maniera unica e speciale…ti amo…e ti amerò fino all’ultimo giorno della mia vita…un grazie speciale a tutti voi per il grande affetto che mi dimostrate sempre”.

Roberta Bruzzone sposa bis (di venerdì) sulla spiaggia di Fregene, scrive l'1 luglio 2017 "Il Secolo XIX". Roberta Bruzzone, sposa bis. Di venerdì. Fedele al suo clichè di donna tosta e controcorrente la psicologa Forense - ma anche criminologa investigativa, profiler, docente universitario, esperta in Scienze Forensi e analisi della scena del crimine, come scrive su Twitter - ha scelto un giorno inconsueto per dire «sì» al suo Massimo Marino, funzionario di polizia reduce da una missione di due anni in Afghanistan. Ma soprattutto, grande amore della bionda criminologa, nata a Finale Ligure esattamente 44 anni fa. Come regalo di compleanno, dunque: il matrimonio. In un’intervista a “Gente”, aveva raccontato: «È stato un fidanzamento tosto, in grado di mettere alla prova i sentimenti in profondità, non solo per la distanza. Per la prima volta sento di avere accanto un uomo del quale sono davvero profondamente orgogliosa. Per due volte ho vissuto in diretta telefonica con Massimo un attentato terroristico – concludendo – La paura è stata molta perché in quei momenti c’è confusione, la linea salta di continuo e tu non sai se il tuo compagno sta bene, è ferito oppure addirittura morto». Ma ora che non soltanto è tornato a casa, ma ne è diventata la moglie «orgogliosa», la criminologa di Finale è raggiante. Sempre a Gente aveva anticipato: «Verso metà giugno chiuderò l’agenda e la riaprirò a settembre. Mi aspetta un viaggio di nozze a tappe in giro per l’Italia. E poi insieme con Massimo alle Hawaii a fare kitesurf: laggiù tra le palme di Maui abbiamo fatto la nostra prima fuga d’amore da fidanzati. Ci torniamo da marito e moglie». E dopo aver (intra)visto una foto di Roberta in candido abito da sposa - in attesa del servizio completo sul settimanale gossipparo di turno o il magazine per famiglie – non resta che attendere qualche scatto della bionda criminologa che esibisce in tecniche kitesurf col neomarito. Che magari, chissà, porterà anche in Liguria...

Roberta Bruzzone: nozze bis per la criminologa più famosa d’Italia. La famosa e popolare criminologa Roberta Bruzzone, 44 anni, ha sposato in seconde nozze a Fregene il funzionario di polizia Massimo Marino, impegnato recentemente in una missione in Afghanistan, scrive il 2 luglio 2017 "News.fidelityh". La criminologa più famosa e popolare d’Italia – grazie alle frequenti interventi in televisione – Roberta Bruzzone, ha sposato il 30 giugno scorso a Fregene – località balneare in provincia di Roma – il funzionario di Polizia, Massimo Marino, che fino a qualche tempo fa è stato impegnato nelle missioni militari ed umanitarie italiane in Afghanistan. Per la criminologa e psicologa Bruzzone questo è il secondo matrimonio, avendo avuto già avuto un precedente matrimonio con Massimiliano Cristiano, da cui ha ufficialmente divorziato nel 2015. La loro unione – come scrive la stessa Bruzzone in un messaggio al futuro marito il giorno prima delle nozze sul suo profilo Facebook – non è certo stata facile, perché messa a dura prova anche dalla forzata lontananza dovuta all’impegno professionale del neo marito in Afghanistan. Ma i rapporti solidi non vengono intaccati dalla lontananza, anzi – come dice la stessa Bruzzone – ne escono ancor più solidi di prima, perché uniscono e forgiano non solo l’amore di coppia ma anche le persone stesse. Adesso esiste un solo “Noi” – prosegue la criminologa – che conclude sottolineando quanto Marino sia una persona speciale, tanto da farle dimenticare con un sorriso la pesantezza di una giornata professionale come la sua. In una recente intervista al settimanale di gossip “Gente”, a Bruzzone aveva spiegato come il rapporto con il suo attuale neo marito fosse stato messo a dura prova non solo dalla lontananza, ma ha capito di essere molto orgogliosa del suo partner, e di amarlo come mai è avvenuto nella sua vita. 

Roberta Bruzzone: querelo, ecco perchè, scrive il 14 Maggio 2015 "Funweek.it". La criminologa Roberta Bruzzone si è molto arrabbiata per l'imitazione della sua persona fatta da Virginia Raffaele durante l'ultima puntata di Amici: su Twitter aveva già espresso il suo dissenso e la volontà di querelare la comica. Ora arriva la conferma: Roberta Bruzzone querelerà Virginia Raffaele, e ha spiegato il perchè in diretta su Periscope con il collega Carmelo Abbate. "Sono incazzata, ma non per la parodia (...) L’elemento che mi ha molto disturbato, che forse non tutti hanno colto subito, è il continuo, reiterato, becero riferimento ad abitudini e contenuti sessuali, a una sessualizzazione caricaturale che non mi appartiene -ha dichiarato la Bruzzone- Soprattutto mi ha disturbato è il fatto che la Raffaele in maniera sistematica mi attribuisce condotte assolutamente infamanti, in particolare quella di aver ottenuto successo professionale non per meriti e fatica di tanti anni passati sulla scena del crimine in difesa delle vittime, ma perché ho elargito favori sessuali a destra e a manca". Non solo: la Bruzzone ha più volte affermato che non ha bisogno della popolarità di una trasmissione come Amici, che lei è in tv perchè sa fare il suo lavoro e bene, ed ha raccontato cosa l'ha convinta definitivamente alla querela. "Molti familiari delle vittime dei casi che ho seguito mi hanno scritto per dirmi che hanno provato un disagio profondo nel vedere ridicolizzata una professione che loro hanno trovato molto importante nelle vicende giudiziarie che ho contribuito a chiarire", ha dichiarato la criminologa. Infine, una battuta sulla De Filippi (che non abbiamo ancora capito se verrà o meno querelata con la Raffaele): la Bruzzone afferma che dovrebbe capirla, visto che lei stessa bloccò una sua imitazione anni fa (il riferimento era forse all'imitazione di Maria De Filippi fatta da Valentina Persia? E' un'ipotesi). Nonostante le critiche ricevute, la Bruzzone non depone l'ascia di guerra: forse dopo aver letto le sue ragioni, qualcuno che le dava torto inizierà anche ad appoggiarla?

Bruzzone vs Garofano: la zuffa dei criminologi finisce in tribunale, scrive Marco Grasso il 15 marzo 2016 su "Il Secolo XIX". Si ritroveranno il prossimo 7 aprile, ma non in un salotto televisivo. La prossima puntata del duello più aspro della criminologia italiana si terrà davanti al giudice Marco Panicucci. Da un lato c’è la psicologa forense ligure Roberta Bruzzone, volto noto delle televisioni, citata a giudizio per diffamazione. Dall’altro un altro personaggio pubblico dello stesso settore, l’ex comandante dei carabinieri del Ris Luciano Garofano, che si è rivolto alla magistratura dopo un post di Facebook in cui veniva definito «indegno di indossare la divisa» e «membro di un sodalizio criminale». A monte di questa guerra c’è una vicenda di cuore. Per alcuni anni la consulente di Finale è legata sentimentalmente a un collega, Marco Strano, psicologo della polizia e presidente per dieci anni della International Crime Analysis Association, di cui Bruzzone è stata segretaria. Quando si lasciano volano gli stracci. Lui l’accusa di aver taroccato i titoli (polemica che peraltro solleva una questione di cui la categoria dibatte da anni, ovvero l’assenza di un albo professionale dei criminologi); lei a sua volta mette in discussione gli studi dell’uomo e lo denuncia per stalking, per le persecuzioni subite dopo la fine della relazione. La lite tra i due ex fidanzati va avanti a colpi di denunce reciproche e messaggi di fuoco sui social network, e finisce per coinvolgere anche colleghi come Garofano: l’ex militare, oggi consulente privato, si schiera apertamente con Strano, scatenando le ire di Bruzzone, che lo denuncia per diffamazione alla Procura di Roma e gli scrive una lettera pubblica, oggetto di questa seconda causa. «Dottor Garofano - esordisce la criminologa - porti pazienza ma mi risulta impossibile chiamarla Generale per via del profondo rispetto che nutro nei confronti dell’Arma dei Carabinieri, a cui lei, per mio sommo sollievo, non appartiene più da diversi anni (ed entrambi sappiamo bene il perché)». La replica arriva subito dopo un intervento apparso sul profilo Facebook di Marco Strano: «Leggo nel suo post che invita tutti a organizzarsi per portare avanti la diffamazione nei miei confronti in ogni sede. Quando penso a casi come Garlasco, via Poma o al caso Sarah Scazzi (in cui, per inciso, il suo intervento è stato così determinante da non essere mai considerato nel processo) faccio fatica a ritenere possibile che un soggetto come lei sia ancora in circolazione».

«GLI ABBASSI LA ZIP E TI FAI UN SACCO DI RISATE». Così Roberta Bruzzone ha descritto il suo ex fidanzato in alcuni post su Facebook, accusandolo anche di essere fuori di testa. Ma lui l'ha querelata per diffamazione, scrive "Lettera Donna". «Un mitomane fallito con in dotazione una calibro 9». La ben poco lusinghiera descrizione proviene dalla criminologa televisiva Roberta Bruzzone e si riferisce all’ex fidanzato Marco Strano. Il quale, però, non avendo affatto gradito questo e altri attacchi sferratole dalla sua ex compagna tramite Facebook, ha deciso di passare alle vie di fatto e di querelarla per diffamazione. Così riferisce Dagospia. Stando a quanto si legge sulle carte della Procura, la Bruzzone avrebbe pubblicato su Facebook una sequela di insulti rivolti al suo ex fidanzato riferendosi più o meno velatamente a lui utilizzando più volte l’aggettivo ‘strano’. Oltre a denigrarlo per le dimensioni intime («se [certe donne] arrivassero ad abbassare la zip…si farebbero un sacco di risateeeee»), la criminologa avrebbe sostenuto che il suo ex non solo aveva intenzione di comprarsi un titolo di studio all’estero, ma di aver «affittato» anche la sua nuova compagna, originaria di un paese dell’Est. Parole e toni non certo amichevoli. Ma oltre al dileggio, la Bruzzone descrive anche il suo ex come «talmente fuori di testa da farmi temere per la mia incolumità e per quella delle persone a me vicine» e lo accusava di averle ucciso il cane.

E se quello non fosse il Dna di Bossetti? Scrive Andrea Rossetti il 7 luglio 2017 su "Bergamo Post". È passato un anno da quando la Corte d’Assise di Bergamo ha condannato all’ergastolo Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Ne sono passati tre, invece, dal pomeriggio del 16 giugno 2014, quando le forze dell’ordine lo arrestarono mentre lavorava in un cantiere a Seriate. Da allora, per lui, è come se il tempo si fosse fermato. Unico obiettivo: dimostrare la propria innocenza. Neppure il peso della pressione mediatica, quello dell’umiliazione di veder la propria vita vivisezionata in un’aula di tribunale, quello degli indizi e del Dna trovato sul corpo della piccola vittima lo hanno schiacciato. Venerdì 30 giugno è iniziato a Brescia il secondo grado. A inizio giugno, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, i legali di Bossetti, hanno depositato un documento di 102 pagine contenenti i motivi aggiunti al ricorso ed è da quelle pagine che si ripartiva, da quella condanna all’ergastolo. Giovedì 6 luglio, la difesa ha dato corso a un’arringa – nove ore, a cui ne seguiranno altre lunedì prossimo -, in cui Salvagni ha prima paragonato il caso di Bossetti a quello di O.J. Simpson e poi ha definito «spazzatura» l’esito delle analisi scientifiche sul Dna di Ignoto 1: la richiesta di una super perizia genetica, negata in primo grado come «non decisiva», rimane quindi il fulcro della difesa.

Avvocato Salvagni, ci siamo.

«Sì, sono molto concentrato. Abbiamo lavorato tanto, speriamo bene».

Cosa contengono quelle 102 pagine?

«Precisazioni e nuovi elementi che renderemo noti solo in aula. Abbiamo sviluppato ulteriormente i nostri argomenti, in particolare quelli sul Dna. La metà delle pagine sono riferite ad esso».

Una prova fondamentale.

«È un processo interamente costruito attorno al Dna. Ma, come dimostra la sentenza di primo grado, la traccia biologica da sola non basta».

Cosa c’è in più?

«Una serie di elementi con cui la sentenza ha puntellato la prova del Dna. Indizi che la stessa sentenza, però, definisce “ambigui”. Presi singolarmente sono privi di capacità individualizzante».

Insieme al Dna, però…

«Ok, ma è stato fatto un procedimento logico assurdo. L’indizio deve avere una sua “dignità”, a prescindere. Dev’essere grave, preciso e concordante. Qui non c’è nessuno di questi elementi. È come dire: sia Bossetti che Yara ascoltavano musica rock. E allora?».

Ci può fare qualche esempio?

«La presenza delle sfere metalliche sul corpo della vittima. Che significato hanno? Consideriamo che a poche decine di metri da dove è stato trovato il corpo c’è una ditta che utilizza materiale ferroso. E poi sono diverse da quelle trovate sul furgoncino di Bossetti: le prime sono di ferro, le seconde di acciaio. L’accusa dice: “Però non sappiamo che metallo stesse lavorando l’imputato ai tempi dell’omicidio”. Appunto. Siamo nell’ambito delle ipotesi».

Altro?

«Le fibre trovate sul corpo della vittima, ritenute simili a quelle dei sedili del furgone di Bossetti ma comuni a moltissimi automezzi. Non è stata neppure analizzata la sezione di quelle fibre. Hanno detto che se avessero tolto le fibre dallo strip le avrebbero rovinate. Ma il processo ha bisogno di prove…».

Cosa chiedete, quindi?

«Non ci siamo mai sottratti al desiderio di un confronto processuale serio. Abbiamo sempre chiesto di formare in contraddittorio le prove. Non possiamo accontentarci di un indizio ambiguo quando si può avere una prova. Non temiamo il confronto, vogliamo trovare la verità, almeno quella processuale. E la verità processuale si ottiene attraverso il confronto tra accusa e difesa. In questo processo, invece, si è dato per buono solo ciò che ha fatto l’accusa».

Non vi fidate?

«Il problema è che abbiamo trovato una marea di contraddizioni e di anomalie, parola che ricorre un sacco di volte anche nella sentenza. Tutto ciò che non si incastra perfettamente, diventa un’anomalia. Non basta, l’anomalia la devi spiegare».

Anche il Dna è pieno di anomalie?

«Soprattutto il Dna. A partire dal fatto che non si sa che traccia biologica sia. Sangue? Saliva? Sudore? L’unica cosa che sappiamo per certo è cosa non è: non è sperma».

Questo è sicuro?

«Sono stati fatti tre test, uno più sofisticato dell’altro, l’ultimo addirittura con una tecnologia tedesca in grado di identificare anche soltanto un singolo spermatozoo. Tutti hanno escluso che si tratti di sperma. Ma la sentenza, piuttosto che ammetterlo, dice che non ci sono riscontri tali da farci dire che cosa sia quella traccia».

Beh, è vero.

«Sì, ma non è onestà intellettuale: se sappiamo cosa non è, la sentenza deve dirlo».

È così importante?

«Assolutamente sì, anche perché il Dna mitocondriale rinvenuto nella traccia non è collegabile a Bossetti, a differenza del nucleare. A livello scientifico, l’unico caso in cui ciò avviene è nello sperma. Nello spazio che unisce “testa” e “coda” dello spermatozoo è contenuto il mitocondriale. Nel momento in cui la coda si stacca dalla testa, il mitocondriale si perde. La sentenza, quindi, non precisa che non si tratta di sperma perché ciò giustifica l’anomalia».

Resta quindi il mistero.

«Già. Però non possiamo alzare le braccia e dire che la scienza deve fermarsi, come ha fatto il pm nella requisitoria. No, mi serve la spiegazione scientifica. Se io faccio una moltiplicazione e poi la prova del nove e i risultati sono diversi, devo andare a verificare cosa ho sbagliato. Non è possibile che non siano uguali».

Per questo chiedete un nuovo esame?

«Esatto. Siamo convinti che sia stato fatto un errore, visto che non può esistere una situazione del genere in natura».

Non potrebbero aver sbagliato a individuare il Dna mitocondriale?

«Può essere. Noi non temiamo nulla, accettiamo anche questo rischio».

Qual è la vostra opinione al riguardo?

«Noi crediamo che il mitocondriale, non collegabile a Bossetti, sia corretto e che quello sbagliato sia il nucleare. Anche perché sul mitocondriale ci hanno lavorato tre istituti e quattro consulenti diversi: nessuno ha rilevato delle anomalie».

E il nucleare?

«Lo ha studiato soltanto il Ris in fase di indagine».

Ma il test è ripetibile?

«Il professore Giorgio Casali, consulente della Procura, ha detto in aula di avere ancora reperti da analizzare in laboratorio. Quindi per me si può rifare. In qualsiasi Paese civile devi consentire all’imputato di difendersi. Se trovi tot Dna, metà lo usi per le indagini e metà lo tieni per la difesa. Altrimenti, scusate, facciamo a meno del processo. Qui il Dna è l’architrave di tutto, non è possibile che l’imputato non si possa difendere».

L’accusa non ha alcun dubbio su quel Dna.

«Loro dicono di aver rifatto il test 71 volte, ma non è così. Le analisi su tutti i marcatori sono state fatte in realtà soltanto tre volte, e per di più senza che fossero rispettati i requisiti richiesti dalle procedure internazionali».

Cioè?

«Cioè che i kit di indagine siano in corso di validità, che ci sia un controllo positivo valido e ce ne sia uno negativo valido. Solo un test che rispetti contemporaneamente questi tre elementi è ritenuto valido. Non è una questione di lana caprina, è una questione di diritto».

E quante volte è stato fatto il test rispettando i criteri?

«Zero volte. Zero. E allora, scusate, noi non dobbiamo chiedere di rifarlo?».

Se tutto ciò fosse provato, potrebbero davvero respingere la vostra richiesta?

«Potrebbero. Però io credo che un diniego rappresenterebbe una grave lesione del diritto di difesa, roba da Corte di Strasburgo».

Quindi siete ottimisti?

«Abbiamo dalla nostra la forza della ragione. Non si può pensare che un processo arrivi a sentenza definitiva senza che queste anomalie siano verificate. Bisogna spiegarle».

E se risultasse, anche dopo un altro test, che quel Dna è di Bossetti?

«È un argomento ricorrente, questo. Lo stesso Bossetti ha detto: “Se risulta davvero mio, taccio per sempre”. Ma non è giusto. La presenza di Dna non è significativa dell’azione che si sta ricostruendo. Il trasferimento del Dna è semplicissimo da fare, può avvenire in qualsiasi modo e circostanza. Chi ha visto le foto del ritrovamento del cadavere di Yara, sa bene che a pochi metri c’era un fazzoletto insanguinato. Se quel fazzoletto, che nessuno sa di chi sia, fosse entrato in qualche modo in contatto con la vittima, ci sarebbe potuto essere un trasferimento. Il Dna è importante, ma da solo non può comportare la colpevolezza. Serve anche una ricostruzione che giustifichi la presenza di quella traccia».

Intende dire un movente?

«Anche. E qui manca, lo ha detto anche il pm. Ma, soprattutto, la sentenza non può far finta di non vedere elementi oggettivi: Bossetti e la vittima non si conoscevano, non si erano mai incontrati. Dove, come e quando è stata presa Yara? Come ci è arrivata Chignolo? Son tutte domande senza risposta. È andata volontariamente con il suo assassino? Il fratellino di Yara ha raccontato che, proprio in quel periodo, lei aveva paura di un uomo con la barbetta. E, se aveva davvero paura, perché sarebbe dovuta salire sull’auto di quell’uomo da sola?».

Bossetti ha la barbetta.

«E infatti nell’ordinanza di custodia cautelare questa testimonianza era stata utilizzata come elemento a carico di Bossetti. Peccato che poi il fratellino della vittima abbia precisato che l’uomo era anche robusto. Quindi questa cosa è stata completamente abbandonata, neppure portata a processo».

Questi elementi sono ancora poco noti alla gente nonostante la grande attenzione mediatica. Lo dimostra il documentario che ha realizzato la BBC e che ha trasmesso Sky. Lei ha partecipato. Lo ha visto?

«No, mi sono rifiutato quando mi hanno riferito come sarebbe stato strutturato. Una ricostruzione palesemente accusatoria».

In che senso?

«Su quattro puntate noi ci siamo soltanto nell’ultima e proprio perché non potevano non metterci. Mi pare un’autocelebrazione dell’inchiesta, con pm e ufficiali vari che hanno parlato di quanto sono stati bravi».

A chiusura del documentario, il pm dice: «La difesa non ha portato prove tali da farmi cambiare idea sulla colpevolezza di Bossetti».

«Premesso che l’onere della prova grava sull’accusa e non sulla difesa, io vado oltre. Mettiamo anche che Bossetti sia colpevole: processualmente lo devi dimostrare. E devi permettere alla difesa di svolgere il proprio compito. Noi non abbiamo neppure potuto vedere i reperti!».

Perché?

«Lo abbiamo chiesto due volte, ma niente. Io devo poter vedere se ciò che loro hanno affermato in aula corrisponde al vero. Ho il diritto di farlo. Del resto che in Italia ci siano stati processi con ampi depistaggi è cosa nota, purtroppo. Io non posso fare atto di fede».

Ma è almeno fiducioso?

«Non posso non esserlo. Perché sono convinto dell’innocenza di Bossetti, ma anche perché altrimenti dovrei cambiare lavoro. Prima di essere difensore di Bossetti, sono difensore della mia toga».

Cosa intende dire?

«Intendo dire che se passasse questa linea accusatoria, oggi sul banco degli imputati c’è Bossetti ma domani potrebbe esserci uno di noi. La prova si forma in dibattimento, in contraddittorio tra le parti: è il processo accusatorio. Altrimenti torniamo al processo inquisitorio. Ma non a quello recente, a quello medievale».

Crede possa influire sulla sentenza il clima di scontro creatosi tra colpevolisti e innocentisti?

«Spero di no. Il processo non è una partita, è la ricerca comune, di accusa e di difesa, di una verità processuale. Se questo è l’approccio che utilizzerà la Corte, non si potrà che ottenere un confronto equo in seguito alla quale il giudice deciderà in maniera serena».

È per questo che la stampa non potrà essere in aula?

«Non lo so. Personalmente ritengo che qualsiasi processo abbia un interesse pubblico. Figurarsi in questo caso, un’inchiesta che ha fatto parlare tutta Italia e anche all’estero, con rilevanza scientifica elevata. È un processo storico».

Come sta vivendo l’attesa Bossetti?

«È molto carico, desideroso di affrontare questo secondo grado di giudizio. Per lui è un po’ il momento catartico, quello in cui finalmente qualcuno gli darà ragione. Sono io che sto cercando di essere più cauto. Un ’eventuale conferma della sentenza sarebbe una mazzata pesantissima».

Tutto si gioca quindi sulla ripetizione del test.

«Se dovessero accettare la nostra richiesta, lo dico e lo firmo, vinciamo. Perché sono certo che in quel Dna lì c’è qualcosa che non va».

10 LUGLIO 2017. TERZA UDIENZA DI APPELLO. PAROLA ALLA DIFESA.

La difesa: «Troppi errori su Bossetti». L’avvocato dei Gambirasio tuona: foto taroccata, non escludo esposto. Gli avvocati elencano i punti deboli sulla traccia biologica di Ignoto 1, poi associata al carpentiere di Mapello. Citano le regole della comunità scientifica e chiedono una nuova perizia sul Dna: «Per stare tutti più tranquilli». Scontro con l’avvocato Andrea Pezzotta, della famiglia Gambirasio, sulla foto aerea, scrive il 10 luglio 2017 "Il Corriere della Sera”. «Bisogna rispettare le regole imposte dalla comunità scientifica per poter sostenere una prova che comporta l’ergastolo»: parola agli avvocati di Massimo Bossetti alla terza udienza del processo d’appello per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’intera giornata è dedicata alle conclusioni della difesa, con gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che tentano di scardinare le accuse: in primo grado Bossetti è stato condannato all’ergastolo. In aula, come sempre, ci sono l’imputato, la moglie Marita Comi, la madre Ester Arzuffi e la sorella gemella Laura Letizia. I legali provano a ripetizione a smontare la prova regina, quella del Dna appunto: una traccia biologica sugli slip e sui leggings della ragazzina di 13 anni sparita da Brembate Sopra, mentre tornava a casa dalla palestra, il 26 novembre del 2010. Un’impronta che era stata letta geneticamente e aveva permesso agli inquirenti di scoprire che apparteneva al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto nel 1999, Giuseppe Guerinoni. E, una volta identificato Bossetti, anche i controtest avevano confermato quella parentela genetica ma non anagrafica. Secondo l’accusa su 101 ripetizioni dei test su quella traccia ben 71 avevano indicato un profilo genetico univoco, quello di Ignoto 1, poi associato a Bossetti. «Ma qui possiamo dimostrare — hanno dichiarato gli avvocati oggi in aula — che nemmeno una volta, di quelle 71, può fornire un’indicazione valida». In merito agli elementi che inficerebbero la prova del Dna la difesa ha anche chiesto un parere via mail al professor John Butler, luminare della genetica forense: «Butler ci ha scritto che se stai lavorando in un laboratorio accreditato non ci possono nemmeno essere dei reagenti scaduti. Li puoi utilizzare solo per l’insegnamento», ha detto l’avvocato Salvagni in aula. La mail, tuttavia, non potrà entrare a far parte del processo come prova. È un elemento al di fuori degli atti su cui si deve svolgere la discussione, e cioè i documenti del processo di primo grado. Una regola, quest’ultima, che ha portato anche il presidente della Corte d’Assise d’appello, Enrico Fischetti, a richiamare la difesa: «Ciò che è vostra rielaborazione non può essere ammesso in questo processo». Parole con cui gli avvocati sono stati richiamati, mentre esponevano i cosiddetti «dati grezzi» sulle analisi del Dna, proiettando delle tabelle accompagnate da loro commenti. Per gli avvocati Camporini e Salvagni, però, le criticità sono troppe. «Ho massimo rispetto per le istituzioni ma, quando sbagliano, perché sono costituite da uomini, va ammesso», ha sostenuto Salvagni. Errori che riguarderebbero il Dna e farebbero parte di quelle «261 criticità» delle indagini. L’accertamento genetico, secondo i legali, non è valido e la ripetizione dell’esame scientifico «si impone». «Questo affinché tutti siamo più sereni». I giudici prenderanno una decisione venerdì 14 o lunedì 17 luglio. In aula non è comunque mancato lo scontro, nemmeno oggi. Dopo le contestazioni sul Dna gli avvocati Salvagni e Camporini hanno sfoderato l’immagine satellitare che mostra il campo di Chignolo d’Isola, già presentata nei loro documenti a sostegno del ricorso in appello. Non è detto che la foto venga ammessa agli atti, la Corte deve ancora decidere, ma intanto è stata presentata e discussa. I legali l’hanno sovrapposta a un’altra immagine satellitare, della polizia scientifica, il giorno dopo il ritrovamento di Yara. E hanno indicato con alcuni segni bianchi dove si trovava il corpo della ragazzina. Ma facendo dei tratti sull’immagine che, secondo il legale di parte civile della famiglia Gambirasio, Andrea Pezzotta, «sono più grandi della strada che porta a Chignolo e che nella stessa immagine si vede piuttosto stretta, pur essendo larga tre metri. Quella foto così è “tarocchissima” — ha tuonato Pezzotta —. Potremmo anche fare un esposto».

Massimo Bosseti, l'ultimo asso degli avvocati: Sarbit Kaur, la ragazzina trovata morta poco dopo l'omicidio di Yara Gambirasio, scrive il 10 Luglio 2017 "Libero Quotidiano". A Massimo Bossetti resta una speranza per scampare all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina uccisa a Brembate nel 2010. Come scrive Il Giorno, gli avvocati difensori del muratore di Mapello, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, chiederanno alla Corte d'Assise d'appello di Brescia quella che hanno già definito una decisione "coraggiosa". Bossetti è in carcere dal 16 giugno del 2014. I legali, parlando del Dna e della ricostruzione del medico legale dell'omicidio, con il parere di Peter Gill, uno dei luminari della genetica forense contemporanea, sosterranno la tesi della impossibilità che una traccia biologica di quella quantità e di qualità straordinariamente elevata possa essersi conservata su un corpo rimasto per tre mesi nel campo di Chignolo d' Isola, esposto all'umidità, alla pioggia e al vento. E la difesa ha anche tirato in ballo una ragazza che non c'è più. Un "fantasma", la chiama Il Giorno. Si chiede infatti l'acquisizione del fascicolo sulla morte di Sarbit Kaur, ventenne di origine indiana scomparsa un mese dopo Yara. Il caso era stato archiviato come suicidio. Secondo la ricostruzione, Sarbit si era allontanata dalla sua abitazione di Martinengo il 24 dicembre del 2010. Lascia la sua auto, una Honda Jazz blu, parcheggiata con le portiere chiuse all'ingresso dell'"Oasi verde", un grande parco attrezzato che si estende su entrambe le sponde del Serio. Il corpo di Sarbit viene ritrovato sei giorni dopo, il 30 dicembre, a una ventina di chilometri di distanza. Ha una profonda ferita alla testa e due tagli ai polsi. Secondo gli avvocati di Bossetti, sono molto simili a quelli inferti dall'assassino, con crudeltà e precisione chirurgica, alla piccola Gambirasio. Il volto è segnato da una grossa ecchimosi. La ragazza ha una gamba rotta, escoriazioni. E gli slip abbassati. I calzoni a un paio di metri dal cadavere. L'autopsia certifica il decesso per annegamento. La famiglia Kaur non ha mai creduto al suicidio. 

Yara, parte civile sbotta contro difesa: "Foto satellitare è tarocchissima". Scintille durante l'udienza in Appello. La difesa del muratore di Mapello prova a sgretolare la "prova regina" del dna: "Se istituzioni sbagliano, va ammesso", scrive il 10 luglio 2017 Gabriele Moroni su "Il Giorno". Nuova udienza del processo d'appello per Massimo Bossetti. E anche oggi protagonisti sono stati gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, all'attacco del Dna, con la richiesta di un nuovo esame. La difesa è scesa in campo per evitare al muratore di Mapello la conferma della condanna all'ergastolo o, peggio, all'ergastolo e sei mesi di isolamento, come chiesto dal Procura generale di Brescia. Presenti, come nelle precedenti udienze, la moglie di Bossetti, Marita Comi e la madre e la sorella del muratore accusato dell'omicidio della piccola Yara Gambirasio, Ester Arzuffi e Laura Letizia Bossetti. Anche stamane davanti al tribunale bresciano si è raccolta una piccola folla, in attesa di entrare nelle aule del Palazzo di Giustizia per assistere al processo di secondo grado. 

LE 261 CRITICITA' ELENCATE DA DIFESA - "Per aver una prova che comporta l'ergastolo per una persona bisogna rispettare le regole imposte dalla comunità scientifica che ci sta guardando" ha detto di fronte al presidente della Corte d'Assise d'Appello Enrico Fischetti, l'avvocato del collegio di difesa Claudio Salvagni. Il legale è tornato sulla questione del riconoscimento genetico per approfondire, e possibilmente smontare, la "prova regina" in base alla quale Bossetti è stato condannato: il Dna di Bossetti, che è stato ritrovato sugli indumenti della vittima. Una "prova" che, ha detto, presenta "261 criticità", a partire dall'utilizzo di alcuni kit di rilevazione. Salvagni si è affidato a una tabella per evidenziare le presunte criticità. Il legale ha sottolineato "ci sono campioni esaminati nello stesso giorno con risultati non uniformi, campioni per i quali non è stata effetuata ripetizione, altri per i quali sono stati usati kit scaduti". 

I KIT NEL MIRINO - I difensori di Bossetti hanno consultato via mail il professor John M. Butler, luminare della genetica forense, secondo il quale - riferiscono i due legali - i kit scaduti per rilevare il Dna in un laboratorio di analisi come quello del Ris di Parma non dovrebbero nemmeno esserci. "Butler ci ha scritto che se stai lavorando in un laboratorio accreditato non ci possono nemmeno essere dei reagenti scaduti - ha detto la difesa - Li puoi utilizzare solo per l'insegnamento". La mail, tuttavia, dato che introduce elementi nuovi, sulla base di un ordinanza emessa dalla Corte d'Assise e d'Appello di Brescia, non potrà entrare a far parte del processo come prova.  "Ho massimo rispetto per le istituzioni ma, quando sbagliano, perché sono costituite da uomini, va ammesso", ha detto Salvagni elencandole presunte "criticità" nel lavoro del Ris dei carabinieri che ha portato all'individuazione del Dna di 'Ignoto1', Dna poi attribuito all'imputato. Queste "criticità" impongono, per la difesa, che sia ripetuto l'esame. "Questo affinché tutti siamo più sereni". 

IL DNA MITOCONDRIALE - La difesa è poi passata a esaminare la questione dell'assenza del dna mitocondriale di Bossetti nella traccia qualitativamente e quantitamente ritenuta migliore, quella trovata sugli slip della piccola Yara. Come si spiega l'assenza? Una prima ipotesi, dice Salvagni, è che la vittima e l'imputato condividessero lo stesso mitocondriale. Ma le indagini hanno escluso qualsiasi legame parentale tra Yara e Bossetti. C'è seconda ipotesi. Si è pensato che potesse trattarsi di liquido seminale quindi degradabile ma è poi stato escluso. Terza ipotesi: i due ipotetici contributori (Yara e Bossetti) hanno un numero di mitocondri tanto diverso che quelli di Yara hanno "sommerso" quelli di Bossetti. Ma - dice la difesa - visto che è stato rilevato un altro mitocondriale non appartenente a Bossetti - perché non avrebbe dovuto coprire anche quello? 

LA DECISIONE "CORAGGIOSA" - Nella scorsa udienza i legali di Bossetti hanno sollecitato i giudici presieduti da Enrico Fischetti a una decisione "coraggiosa" che per i legali vorrebbe dire "assoluzione" o quella "perizia" sul Dna "che siamo ancora qua a chiedere - avevano spiegato nell'udienza scorsa, cominciando il loro intervento fiume - con il nostro assistito che la farebbe anche adesso, qua, perchè non ha paura". Il 14 luglio sono previste le repliche e il 17 luglio i giudici si ritireranno in camera di consiglio per la sentenza. Quel giorno Bossetti potrebbe fare dichiarazioni spontanee. 

LA FOTO CONTESTATA - Ci sono state poi scintille fra la difesa di Bossetti e gli avvocati di parte civile della famiglia di Yara su alcune slide con cui gli avvocati del muratore cercano di dimostrare come il corpo della ragazzina non possa essere rimasto per tre mesi nel campo di Chignolo d'Isola, come sostenuto dell'accusa. Uno degli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni, ha mostrato delle fotografie tratte da un satellite nei giorni precedenti al ritrovamento del corpo per sostenere la sua tesi. "Quella foto è tarocchissima - ha detto uno degli avvocati della famiglia, Andrea Pezzotta - siamo ben oltre il limite e mi riservo un esposto". La fotografia, hanno spiegato gli stessi difensori dell'imputato, presentava una barretta per evidenziare dove si doveva trovare il corpo che, dall'immagine mostrata in aula, non si vede. "Quella barretta dovrebbe rappresentare l'altezza del corpo di una persona ma è in proporzione più larga della strada che è larga tre metri. È un falso", hanno contestato i legali di parte civile. Immediata la risposta di Salvagni: "Non posso essere continuamente interrotto".

L'ANALISI DEI PC - Non c'è "neanche una donna nuda" nei supporti informatici sequestrati a Massimo Bossetti e nessuna ricerca pornografica "ancor meno pedopornografica" in quelli da lui usati. Lo ha detto il legale della difesa di Massimo Bossetti. "Che cosa emerge" dalle analisi del pc? "Niente. In tutte queste ricerche, nel corso degli anni, non sono state trovate chat né interessi verso minori - ha detto l'avvocato Camporini - né ci sono tracce di navigazioni nel cosiddetto dark web. Soltanto il 29 maggio 2014" e in un'altra occasione "che non ci dà dimostrazione di digitazione manuale" di ricerche a sfondo pedopornografico. Ricerche comunque fatte da un computer, ha sottolineato il legale, privo di password per l'accesso ed effettuate dalla moglie di Bossetti, Marita Comi, come da lei stessa dichiarato. "Quando si è cercata qualche conferma - ha chiosato Camporini - non si è trovato che smentite".

Bossetti, la difesa spara a zero: "L’esame del Dna è tutto da rifare"

"È un irriducibile innocente. Non siate complici del gioco al massacro", scrive Gabriele Moroni l'11 luglio 2017 su "Il Giorno". "Non siate complici di questo gioco al massacro di questa persona che non ha commesso alcun reato». I difensori di Massimo Bossetti terminano la loro lunga giornata con una esortazione ai giudici della Corte d’Assise d’appello. Accanto a loro, l’imputato tradisce un attimo di commozione. Massimo Giuseppe Bossetti, ribadiscono i difensori, non è l’assassino di Yara Gambirasio. Bossetti è un «irriducibile innocente». I difensori chiedono l’assoluzione per non avere commesso il fatto e, in subordine, una perizia sul Dna. Dice il difensore Paolo Camporini: «Noi siamo convinti che c’è un uomo che rischia l’ergastolo perché c’è qualcuno che ha sbagliato e difende i propri errori: si è impedito di smascherarlo». «Non abbiate paura - aggiunge il legale - di dubitare e di prendere qualsiasi decisione oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla controparte c’è stato un rifiuto costante di confrontarsi, per non rischiare, spacciando per certo quello che certo non è, per paura delle smentite. Se si ha paura del confronto è perché non si è sicuri del risultato, altrimenti si sarebbe lasciato fare la perizia. La ricerca del risultato a tutti i costi porta al peggior risultato, che si chiama “errore giudiziario”. Siamo di fronte alla possibile conferma di un clamoroso errore giudiziario». Si parte, inevitabilmente, dal Dna. «Sono stati commessi troppo errori. Ho il massimo rispetto per le istituzioni, ma quando sbagliano, perché sono costituite da uomini, va ammesso. Bisogna rispettare le regole imposte dalla comunità scientifica per poter sostenere una prova che porta un uomo all’ergastolo». È un passaggio, uno dei più puntuti, nelle 6 ore dell’arringa dell’avvocato Claudio Salvagni. La difesa porta una serie di attacchi per insinuare almeno il cuneo del dubbio nella muraglia dell’ergastolo che cinge il muratore di Mapello. Un attacco frontale, ripetuto, insistito al cardine dell’accusa, il Dna rimasto su Yara, quell’“Ignoto 1”, che per la genetica s’identifica con l’uomo condannato in primo grado al carcere a vita. I test sul Dna non sono validi, saettano i difensori. Non sono stati rispettati i protocolli fissati dalla comunità scientifica internazionale. «Secondo l’accusa - scaglia Salvagni - su 101 ripetizioni dei test su quella traccia ben 71 hanno dato Ignoto 1. Ma in nessuna di quelle 71 volte è uscita una indicazione valida: valore zero. Al contrario dimostreremo, una per una, 261 criticità». Quindi, per la difesa, s’impone un nuovo accertamento genetico. Kit scaduti. Reagenti scaduti. Esiti difformi in esami eseguiti nella stessa giornata. La presenza dell’“allele” di uno sconosciuto («E se fosse il vero Ignoto 1?», lancia Salvagni). Il Dna mitocondriale. È un altro caposaldo della difesa. Nella traccia biologica 31 G 20, la migliore, quella che gli esperti hanno definito «eccezionale» per quantità e qualità, è presente il Dna nucleare dell’imputato ma non il mitocondriale. Una sparizione che non ha trovato spiegazioni. Non solo: è stato rintracciato un altro Dna mitocondriale, questo sconosciuto. La difesa torna a cavalcare un suo cavallo di battaglia: la tredicenne di Brembate di Sopra è stata ferita altrove e solo in un secondo tempo il corpo è stato trasportato nel campo di Chignolo d’Isola. È impossibile che un Dna si conservi tanto nitidamente, su un corpo rimasto esposto per tre mesi all’umidità, alle intemperie. Yara aveva le calze macchiate di sangue ma indossava le scarpe. Sulle calzature sono stati trovati 20 elementi di terriccio: 8 erano comuni al terreno circostante e gli altri? Il perimetro occupato dal corpo era contornato dalle fluorescenze di una pianta che germoglia in 20-25 giorni.

La moglie di Bossetti di nuovo umiliata in aula: “Li guarda lei i film porno”. Anche a Brescia la vita privata della donna è stata messa in piazza, dopo la sua stessa ammissione in primo grado sui filmati hard e il racconto del pm sulle scappatelle con gli amanti, scrive Mauro Paloschi l'11 luglio 2017 su "Bergamo News". Sono da poco passate le 17.20 di lunedì 10 luglio e Marita Comi, seduta tra i banchi dell’aula del tribunale di Brescia in cui si sta celebrando la seconda udienza del processo d’Appello a suo marito Massimo Bossetti, avvilita abbassa lo sguardo per evitare di incrociare quelli dei presenti. Paolo Camporini, uno degli avvocati difensori del carpentiere di Mapello, ha appena affermato al giudice Enrico Fischetti e al numeroso pubblico che la donna “guarda filmati pornografici”. Il legale tira in ballo la Comi per replicare all’accusa di Andrea Pezzotta, avvocato della famiglia Gambirasio, che aveva additato Bossetti come un “deviato sessuale”, anche perchè dalle indagini è emerso che sul computer di casa siano state cercate in internet immagini contenenti le parole “ragazzine con vagine rasate” e “ragazze vergini rosse”. L’ultima ricerca in particolare sarebbe avvenuta alle 9.55 del 29 maggio, diciotto giorni prima dell’arresto, quando gli inquirenti hanno accertato che Bossetti si trovava a casa e non in cantiere come invece aveva raccontato. Anche qui la parola chiave usata è stata “ragazzine”. I figli erano a scuola, la moglie dal parrucchiere: “In realtà era in quel negozio alle 11.19, che non si trova molto lontano da casa – puntualizza Camporini – , dunque non si può escludere che sia stata Marita a digitare quella parola. Del resto, l’ha ammesso lei stessa che queste cose le faceva”. In aula cala il gelo. La vita privata della donna è messa, di nuovo, in piazza. Non è infatti la prima volta che la quarantenne, ora a casa da sola con tre figli da crescere (di cui uno coetaneo di Yara) è costretta a subire questo tipo di umiliazione. Nella sua deposizione al processo di primo grado a Bergamo aveva ammesso, forse per cercare – invano – di alleggerire la posizione dell’uomo che aveva sposato 18 anni fa, di guardare video pornografici sul pc di casa. Anche il pubblico ministero Letizia Ruggeri non si era sottratta dall’esporre un particolare scabroso legato alla sfera personale di Marita, raccontando nel corso di un’udienza che la donna ha avuto due amanti, uno dei quali era il tecnico dei computer di casa Bossetti. La Comi avrebbe contattato l’uomo, tramite sms, anche il giorno in cui venne convocata in questura per il prelievo del dna. Il pm aveva riferito inoltre del ritrovamento di nove ricevute di un motel di Stezzano in cui la moglie dell’imputato sarebbe stata con i suoi amanti. Proprio la difficile situazione matrimoniale secondo l’accusa, avrebbe potuto rappresentare un possibile movente del delitto di Yara. Secondo le indagini, Bossetti e la moglie, che avevano spesso contatti telefonici, nella settimana a cavallo dell’omicidio non si scambiarono né telefonate, né messaggi. Un particolare comunque mai preso in considerazione dai giudici. Ma nell’ampia e complessa indagine che ha portato all’arresto del carpentiere, è emerso un altro spaccato piuttosto imbarazzante di questa famiglia, quello sulla paternità dell’imputato (e della sorella Laura Letizia) nati da una relazione extraconiugalie della mamma Ester Arzuffi con Giuseppe Guerinoni: un dettaglio mai confermato dalla diretta interessata, che ha sempre parlato di “cure del ginecologo alla base della gravidanza”.

14 LUGLIO 2017. QUARTA UDIENZA DI APPELLO. LE REPLICHE.

Yara Gambirasio, il pg contro la difesa di Bossetti: “Attacchi mai visti prima”. "Io nei processi non mi arrabbio mai, ma qui mi sono arrabbiato quando si è cercato di ingannare i giudici" ha spiegato, nel corso del suo intervento di replica l'avvocato Andrea Pezzotta, legale dei genitori della ragazzina assieme al collega Enrico Pelillo, facendo riferimento a una "barretta" inserita dalla difesa Bossetti sulla foto satellitare del campo di Chignolo d’Isola, dove venne trovato il corpo, scrive il 14 luglio 2017 "Il Fatto Quotidiano". A tre giorni dalla sentenza l’atmosfera in aula tra accusa e difesa nel processo d’appello per l’omicidio di Yara Ganmbirasio è diventata incandescente. Nel mirino dell’accusa e della famiglia della 13enne di Brembate uccisa la difesa di Massimo Bossetti, imputato già condannato in primo grado all’ergastolo. “In 30 anni di professione non sono mai stato oggetto di così tanti attacchi personali come quelli che ho dovuto ascoltare da questa difesa con affermazioni lesive del mio lavoro e anche di quello del Ris” ha detto ai giudici il sostituto pg di Brescia Marco Martani rispondendo alle accuse, tra cui quella di aver solo “eseguito un ordine di scuderia”, mosse dai legali del muratore di Mapello. “Io non sono uno stalliere o un fantino o un bookmaker che trucca le corse dei cavalli – ha detto Martani – da chi avrei preso questi ordini? Non ho vincoli di mandato, sono un magistrato e se non fossi stato convinto della colpevolezza di Bossetti avrei concluso diversamente”. Il pg, che ha chiesto la conferma dell’ergastolo, ha anche replicato alle affermazioni dei legali Salvagni e Camporini che l’hanno tacciato di aver detto cose “incredibili, false e suggestive”. Solo un “polverone alzato da chi ha argomenti deboli”. “Io nei processi non mi arrabbio mai, ma qui mi sono arrabbiato quando si è cercato di ingannare i giudici” ha spiegato, nel corso del suo intervento di replica l’avvocato Andrea Pezzotta, legale dei genitori della ragazzina assieme al collega Enrico Pelillo, facendo riferimento a una “barretta” inserita dalla difesa Bossetti sulla foto satellitare del campo di Chignolo d’Isola, dove venne trovato il corpo, per dimostrare che poco più di un mese prima del ritrovamento il cadavere non era là.  “Vi hanno mostrato una barretta facendovi credere che quella fosse di una lunghezza equiparabile a quella di una persona – ha spiegato il legale – mentre era di 3-4 metri”. L’avvocato Pezzotta ha fatto notare che le slide mostrate dai difensori di Bossetti “sono state fatte col sistema del copia e incolla e in questo modo riescono a parlare di 261 criticità sulla prova del Dna“. In più, la consulenza sul furgone “del dottor Denti è in gran parte copiata da wikipedia” e altri siti. Poco prima anche il collega Pelillo, riprendendo la linea delle repliche del sostituto pg Marco Martani, aveva fatto riferimento alla “arringa suggestiva dell’avvocato Salvagni”, difensore di Bossetti assieme al legale Paolo Camporini, “che deborda di falsità”. E aveva aggiunto che dalla difesa sono arrivate spesso “fandonie che straziano ancora di più la memoria di Yara”. L’avvocato Pezzotta, secondo cui “la difesa ha proiettato in aula dei videogiochi”, è tornato a leggere davanti alla Corte le ricerche a sfondo sessuale che avrebbe effettuato Bossetti col suo pc su “ragazzine” e a parlare della “sua navigazione su siti sadomaso”. E ha fatto riferimento anche al tentativo difensivo di attribuire quelle ricerche alla moglie Marita Comi e a uno dei figli: “Lasciamo stare la signora Comi e il figlio – ha aggiunto rivolto a Bossetti – e prendiamoci le responsabilità che ci competono, quando ci competono”. Entrambi i legali di parte civile hanno spiegato alla Corte che “ancora non si è capito” che genere di perizia sul Dna chieda la difesa per riaprire il processo. “Da quello che noi abbiamo capito non è più possibile estrarre ancora del Dna dagli indumenti di Yara, perché tutto quello che si poteva utilizzare è stato già utilizzato per le estrazioni” ha detto Pezzotta. Prima di lui anche il sostituto pg Martani aveva respinto punto su punto nel merito tutte le “criticità” su prove e indizi messe in luce dalla difesa. “L’approccio della difesa – ha spiegato il pg – è privo di logica e senza alcun supporto scientifico”. La decisione della Corte d’Assise d’appello di Brescia (sentenza o rinnovazione del dibattimento) è prevista per lunedì 17 luglio, dopo una camera di consiglio di diverse ore, come ha già preannunciato il presidente Enrico Fischetti nelle scorse udienze, e dopo le dichiarazioni spontanee di Bossetti.

Processo Appello, Bossetti:"Nel dubbio, assolvetemi". I legali di Yara:"Soltanto fandonie". Brescia, un’udienza ad altissima tensione. Lunedì la sentenza, scrive Gabriele Moroni il 15 luglio 2017 su “Il Giorno”. "Se non sarò stato capace di insinuarvi il dubbio, la mia coscienza di avvocato piangerà per sempre. Se non avrete dato a quest’uomo la possibilità di difendersi, la vostra coscienza sarà attanagliata per sempre dal rimorso". Una conclusione che, nell’aula della Corte d’Assise d’appello di Brescia, suona come un appello. L’ultimo. Il difensore Salvagnitermina la sua controreplica e consegna una nuova memoria con l’invito, rivolto soprattutto ai giudici popolari, a leggerla, a tenerla sul comodino. È finita. Massimo Bossetti abbraccia i suoi legali, Paolo Camporini e Claudio Salvagni, stringe per due volte a sé la madre, Ester Arzuffi, che si scioglie in lacrime; un abbraccio alla moglie Marita e alla gemella Laura Letizia. Si avvia verso il secondo finale di partita. La Corte tornerà a riunirsi lunedì alle 8.30. Il muratore di Mapello farà le sue dichiarazioni prima di una lunga camera di consiglio, da cui i giudici usciranno con una sentenza che ribadirà l’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, o con una clamorosa assoluzione, oppure ancora con l’ordinanza, invocata da imputato e difesa, che disporrà la ripetizione del test del Dna: la prova, “granitica” per l’accusa, che i difensori tentano, una volta ancora, di scalfire. Nella traccia biologica rimasta su slip e leggings della piccola vittima, “Ignoto 1” ha depositato il suo codice genetico. Il Dna nucleare coincide con quello dell’imputato. C’è il Dna mitocondriale di Yara, c’è quello di uno sconosciuto, è assente il mitocondriale di Bossetti. "Il nucleare - sostiene Salvagni - dice che Ignoto 1 è Bossetti. Il mitocondriale esclude che lì dentro ci sia Bossetti. Un dato contrastante. Da una parte si dice che c’è Bossetti, dall’altra si dice che Bossetti non c’è. É un rebus di cui solo un perito può dare la soluzione". L’udienza eredita veleni da quella che l’ha preceduta, con l’attacco frontale della difesa al rappresentante dell’accusa, alle metodiche impiegate dal Ris, ai test effettuati. La voce, solitamente pacata del sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Brescia, Marco Martani, è intrisa di un’amarezza che arriva all’indignazione: "In trent’anni, quasi tutti nell’ufficio di pubblico ministero, non ero mai stato oggetto di tali e tanti attacchi personali. Le mie parole sono state distorte e stravolte per dire cose false. La difesa ha parlato di ordini di scuderia. Di inquirenti che fanno cose inenarrabili. Non scendo a questi livelli. Non ho vincoli. Non ho ordini di scuderia. Non sono uno stalliere, nè un fantino. Tanto meno sono un bookmaker che trucca le corse dei cavalli. I Ris sono stati dipinti a tinte fosche, come gente che lavora con approssimazione e cerca un capro espiatorio, cucendogli addosso degli indizi. Si tratta invece di professionisti di prim’ordine, non solo a livello nazionale". Neppure gli avvocati della famiglia Gambirasio si risparmiano. Andrea Pezzotta torna sulla foto satellitare del campo di Chignolo d’Isola, scattata il 24 gennaio del 2010, che secondo la difesa non ha ripreso il cadavere di Yara. "Nei processi non mi arrabbio mai, ma mi sono arrabbiato quando si è cercato di ingannare i giudici". Enrico Pelillo parla di “videogiochi” proiettati dalla difesa e di "fandonie che straziano ancora di più le memoria di Yara".

Bossetti, lettera al "Giorno" prima del verdetto: "Io innocente: rifate il test del Dna". L’imputato scrive al "Giorno". Domani rischia la conferma dell’ergastolo, scrive Gabriele Moroni il 16 luglio 2017 su "Il Giorno". "Anche Yara, ne sono convinto, spera nella vera giustizia". In attesa di rendere in aula, domani, le dichiarazioni spontanee, per poi vivere il suo giorno più lungo Massimo Giuseppe Bossetti affida un messaggio in esclusiva al nostro giornale. Diciassette righe scritte e firmate sulla facciata di un foglio protocollo dall’uomo che in primo grado è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un messaggio, alla vigilia della decisione dei giudici d’appello, per proclamare tenacemente, come sempre, la propria innocenza, invocare ancora una volta la ripetizione dell’esame del Dna, esprimere la speranza di essere restituito alla libertà, alla famiglia, alla vita, per quanto irrimediabilmente stravolta. Scrive Bossetti: "Da tre anni invoco la mia innocenza, da tre anni chiedo anche tramite i miei avvocati l’unica cosa che può consentire di difendermi, la perizia in contraddittorio sul Dna. Posso marcire in carcere per un delitto atroce che non ho commesso senza che mi sia concessa almeno questa possibilità? Confido che finalmente sia fatta Giustizia e io possa tornare a riabbracciare i miei cari da uomo libero e innocente quale sono, anche se ho una vita stravolta e comunque segnata per sempre. Lo spero io, lo devono sperare i Giudici, sono convinto che lo speri Yara da Lassù, almeno fino a quando il suo vero assassino che è ancora libero e sta ridendo di me e della Giustizia, sconterà la giusta pena. Bossetti Massimo". Nella mattinata di ieri, nel carcere di via Gleno a Bergamo, Bossetti ha incontrato i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini che si sono trattenuti a lungo. Sono state riviste e limate le dichiarazioni che il muratore di Mapello leggerà domani mattina, alle 8.30, prima che i giudici della Corte d’Assise d’appello di Brescia si ritirino per una camera di consiglio che, come ha preannunciato il presidente Enrico Fischetti, si protrarrà per molte ore. Venerdì è stata l’ultima giornata del dibattimento, delle repliche delle parti, dell’ultima contrapposizione dei fronti. Per l’accusa, il sostituto procuratore generale Marco Martani ha chiesto di ribadire il carcere a vita stabilito il primo luglio di un anno fa dall’Assise di Bergamo e di condannare l’imputato anche a sei mesi di reclusione per avere calunniato il collega di lavoro Massimo Maggioni (in primo grado Bossetti era stato assolto). Martani ha difeso come prova incontrovertibile il Dna rimasto sugli indumenti della piccola vittima, pienamente compatibile con quello di Bossetti, definendo «una operazione assolutamente mistificatoria» l’attacco concentrico portato dai difensori. "Se fossi stato convinto della non colpevolezza di Bossetti, avrei concluso in maniera diversa", ha dichiarato Martani. Contro l’imputato, ha sostenuto il rappresentante dell’accusa, anche le fibre trovate su Yara, simili a quelle dei sedili del suo furgone Iveco Daily, la sferette metalliche sulla tredicenne di Brembate di Sopra, le celle telefoniche e le riprese delle telecamere nella zona del centro sportivo di Brembate. La difesa ha chiesto fino all’ultimo l’assoluzione o di riaprire il processo con una perizia sul materiale genetico. "Noi siamo disponibili – ha detto Camporini – a metterci la faccia, Bossetti metterà il suo sangue, ma dateci questi accertamenti in contraddittorio per comparare il Dna di Bossetti con il profilo genetico rimasto sul cadavere". "Dopo tutte le anomalie – ha rincarato Salvagni – che abbiamo rintracciato, attribuire quel Dna a Bossetti sarebbe un’aberrazione naturale. Al contrario, ci sono elementi sufficienti per assolverlo". I difensori hanno consegnato una nuova memoria.

Ultimi scontri tra accusa e difesa, Bossetti in aula bacia moglie e mamma. Perizia sul Dna al centro della penultima udienza del processo d’Appello per il delitto di Yara, scrive Mauro Paloschi il 15 luglio 2017 su "Bergamo News". Un bacio alla moglie e uno alla madre. A tre giorni dal verdetto della Corte che deciderà se confermargli l’ergastolo, Massimo Giuseppe Bossetti lascia l’aula del tribunale di Brescia salutando i propri cari. La penultima udienza del processo d’Appello per il delitto di Yara Ganmbirasio, la tredicenne di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e trovata cadavere tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola, ha regalato gli scontri finali con le repliche di accusa e difesa. A partire dalla frecciata del sostituto procuratore generale di Brescia Marco Martani al pool difensivo dell’imputato: “In 30 anni di professione non ho mai ricevuto tanti attacchi personali come quelli che ho dovuto ascoltare da questa difesa – ha attaccato – , con affermazioni lesive del mio lavoro e anche di quello del Ris. Non ho ricevuto ordini da nessuno vincoli di mandato per questa vicenda. Sono un magistrato e se non fossi stato convinto della colpevolezza di Bossetti avrei concluso diversamente”. Martani ha chiuso chiedendo aalla Corte la conferma dell’ergastolo. Sulla stessa linea anche Andrea Pezzotta, uno dei legali della famiglia di Yara insieme a Enrico Pelillo. L’avvocato è tornato a parlare della foto del campo di Chignolo in cui è stato rinvenuto il cadavere, mostrata dalla difesa nell’ultima udienza: “Io nei processi non mi aletro mai, ma qui mi sono arrabbiato quando si è cercato di ingannare i giudici – ha spiegato – , con quella barretta inserita per farvi credere che quella fosse di una lunghezza equiparabile a quella di una persona, mentre era di 3-4 metri”. Pezzotta è tornato anche sul tentativo difensivo di attribuire le ricerche pedopornografiche alla moglie dell’imputato Marita Comi e a uno dei figli: “Lasciamo stare i familiari e ognuno si prenda le proprie responsabilità”. Anche il collega Pelillo non ha risparmiato critiche ai legali di Bossetti: “La loro è stata un’arringa suggestiva dell’avvocato Salvagni”, che però ha debordato spesso nella falsità”. “Tra l’altro – ha proseguito Pelillo – ancora non si è capito che genere di perizia sul Dna chieda la difesa per riaprire il processo, anche perchè il Dna dagli indumenti di Yara è già stato utilizzato tutto”. Ma i difensori del carpentiere di Mapello hanno insistito fino all’ultimo con la richiesta di riapertura del processo e con una perizia sul materiale genetico. “Una prova ritenuta granitica dall’accusa, ma che in realtà fa acqua da tutte le parti – ha spiegato Paolo Camporini –. Bossetti è disposto a metterci il suo sangue, ma dateci questi accertamenti in contraddittorio per comparare il Dna dell’imputato con la traccia genetica trovata sul cadavere della vittima”. Un richiesta gridata a gran voce anche dal collega Claudio Salvagni, che prima di iniziare la propria arringa, ha parlato delle immagini della salma di Yara diffuse su un blog (LEGGI QUI): “Sono venuto a sapere ieri della pubblicazione delle foto – ha affermato – e per prima cosa ho chiamato Andrea Pezzotta, uno degli avvocati della famiglia Gambirasio per spiegare a lui, e ora a tutti voi, che si tratta di un episodio molto grave e che stigmatizziamo fermamente”.

Pubblicate su internet le foto del cadavere di Yara: “Episodio gravissimo”, scrive Mauro Paloschi il 14 luglio 2017 su "Bergamo News". Penultima udienza del processo d’Appello a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere di Mapello condannato in primo grado all’ergastolo per il brutale delitto di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre del 2010 da Brembate di Sopra e trovata morta tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Venerdì 14 luglio, nell’aula del Tribunale di Brescia, di fronte al giudice Enrico Fischetti, spazio alle repliche del sostituto procuratore generale, e degli avvocati di difesa e parte civile. Nel corso della sua arringa, il sostituto procuratore generale Marco Martani ha reso noto un particolare piuttosto grave: “Gli avvocati della difesa insistono tanto nell’attaccare gli organi di stampa per quanto riportano sul processo – ha attaccato –, quando sono loro i primi ad andare in tv a parlare del caso”. “Tra l’altro – ha proseguito Martani – ho saputo che nei giorni scorsi, un blog molto vicino ai difensori dell’imputato, e che sostiene le loro tesi, ha pubblicato le foto del cadavere di Yara”. Anche Claudio Salvagni, uno dei legali di Bossetti, prima di iniziare la propria arringa, ha parlato dell’accaduto: “Sono venuto a sapere ieri della pubblicazione delle foto – ha spiegato – e per prima cosa ho chiamato Andrea Pezzotta, uno degli avvocati della famiglia Gambirasio per spiegare a lui, e ora a tutti voi, che si tratta di un episodio molto grave e che stigmatizziamo fermamente”.

Gianluigi Nuzzi: "Concederei una super perizia a Massimo Bossetti". Intervista di Simona Voglino Levy del 17 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Lunedì ci sarà la sentenza d' appello sul caso Bossetti. Un processo al quale ormai l'attenzione mediatica ci ha, in qualche modo, abituati. Così, la morte della piccola Yara Gambirasio è entrata a far parte di quel ventaglio di delitti perfettamente sbagliati dei quali discutiamo. Ancora e spesso. Per l'occasione, Gianluigi Nuzzi con il suo Quarto Grado seguirà in diretta la sentenza in quella che si preannuncia come una "puntata evento". Ci saranno anche giornalisti collegati dal Tribunale.

Una sorta di Maratonanuzzi?

«Più che altro una maratona giustizia. Che in Italia è troppe volte emotiva. E la conseguenza sono sentenze rase al suolo in Cassazione quando non addirittura dalla Corte Europea. Il che è umiliante per il nostro Paese, troppo spesso sanzionato sul suo tallone d' Achille: la giustizia appunto. Quindi faremo una puntata evento sul caso che negli ultimi anni più ha diviso l'opinione pubblica».

Lei che idea si è fatto?

«Spero che il Tribunale conceda una super perizia a Bossetti. In uno Stato di diritto, un ulteriore accertamento si dovrebbe fare».

Poi, anche Quarto Grado andrà un po' in vacanza. Un bilancio fino a qui?

«È stata una gran bella stagione, col record assoluto di ascolti del prime time di rete 4 con oltre il 7%, e picchi di 2 milioni e mezzo di spettatori. È un risultato di squadra. Sono soddisfatto anche perché la contro programmazione il venerdì è fortissima: ciò significa che la gente ci sceglie. In più, spesso i telespettatori stanno dalla nostra parte».

In che senso?

«Alessia della Pia, uccisa nell' androne di casa il 6 giugno 2015: il suo fidanzato era scappato in Tunisia e rimasto fuori da qualunque indagine. Noi ne abbiamo parlato e dopo poco la Polizia lo ha arrestato. Oppure, Lidia Macchi: mostrammo una lettera anonima ricevuta dalla madre della ragazza, una nostra telespettatrice riconobbe la calligrafia di un suo ex fidanzato. Oggi è uno dei test di accusa contro di lui. Il nostro è diventato un giornalismo attivo».

Non si è stufato di fare nera, quindi?

«Quando una cosa mi richiede più forza, non mi stanco. La considero una nuova sfida. Quando Mauro Crippa e Andrea Delogu - al vertice della comunicazione di Mediaset - mi hanno offerto, ormai 4 anni fa, di raccogliere questa sfida rimasi gratificato e contento. Ma la loro fu una grande intuizione perché io venivo dai libri sul Vaticano e declinarmi in una sfida sulla cronaca è stato un gesto di fiducia e professionalità».

Gli ospiti di nera vengono pagati?

«No, possono esserci dei rimborsi».

Federica Sciarelli potrebbe lasciare Chi l'ha visto. Cosa ne pensa?

«Sono garantista. E chi ha cercato di approfittare di questo momento per risolvere antichi mal di pancia, trovo abbia fatto una vigliaccata. Per fortuna la mia compagna non è un pm, avrei delle difficoltà antropologiche a conviverci (ride, ndr)».

Soffre Chi l'ha visto come competitor?

«È una corazzata che c' è da ben prima di noi. Quando riusciamo a turbarla coi nostri scoop ne sono solo contento. In generale, posso dire che non amo colleghi che quando seguono un caso di cronaca fanno di tutto per farlo in maniera monopolista».

E se la Rai dovesse contattarla per la conduzione di Chi l'ha visto, valuterebbe la possibilità di farlo?

«Ringrazierei della considerazione ma sto molto bene con Quarto grado, nella squadra di Videonews con Claudio Brachino, nella rete 4 si Sebastiano Lombardi. Vorrei far crescere ancora il programma».

Qualche novità per il prossimo anno?

«Sì, ne stiamo studiando con la curatrice Siria Magri che sento quasi più di mia moglie. Ma non parlo mai delle cose finché non son pronte».

Cosa pensa rispetto alle carte che dalle Procure finiscono dritte sui giornali?

«Questo è un problema nato prima dell'uomo. È inevitabile che ci siano spifferi e fughe di notizie con la disponibilità degli atti per le parti in causa. I giornalisti che se ne lamentano dovrebbero cambiare mestiere».

La giustizia in Italia funziona, secondo lei?

«Non funziona, o meglio non si vuole che funzioni».

Si spieghi...

«Si mandano allo sbaraglio squadre di pm che sono il pronto soccorso per il Paese ma non l'ospedale. Bisognerebbe prima riformare i codici: civile e penale. E comunque: in un Paese dove esistono tre mafie e dove queste fanno punti importanti del pil è velleitario pensare che la giustizia possa funzionare».

Hanno appena chiuso La Gabbia e l'Arena. Si è fatto un'idea?

«Non conosco la questione di Massimo Giletti e non commento le cose a casa di altri. Credo che Gianluigi Paragone continuerà e mi auguro che Cairo sappia valorizzarlo declinandolo in altro modo».

È stato a teatro con Pecunia: La via crucis di Papa Francesco. È soddisfatto?

«È stata una bellissima esperienza, abbiamo portato le contraddizioni vaticane su un palco e le persone hanno reagito in modo entusiasta. Abbiamo finito la tournee e stiamo fissando nuove date. Amo il teatro, lo considero la Cassazione della comunicazione: dice la verità».

Tv, stampa, teatro. Vista tutta la nera che ha seguito, potremmo aspettarci prima o poi la sceneggiatura per un film?

«Sarei più per una serie. I diritti dei miei tre libri sono stati comprati. Non è semplice portare i segreti vaticani in fiction, è un salto che spero possa rivelarsi vincente, soprattutto per chi ama i mosaici e i gialli».

Ha in programma un altro dei suoi libri inchiesta sulla Chiesa?

«Sì, sto raccogliendo materiale per il mio prossimo libro che andrà a completare i tasselli mancanti dei tre precedenti».

Qualcuno deve aver paura?

«Forse qualche mercante nel tempio, ormai ben nascosto agli occhi di Papa Francesco, potrebbe provare dell'imbarazzo».

Come valuta l'operato del Papa fin qui?

«Il mio bilancio dopo 4 anni è positivo. Bergoglio ha proseguito nella buona direzione di Benedetto XVI, Papa rivoluzionario che si è dimesso non sentendosi più all' altezza di un compito tanto importante. Lui e Francesco sono molto diversi, ma hanno interconnessioni superiori a quelle che le persone pensano. Francesco decide di agire sulla mentalità non solo nostra, ma anche dentro la Curia».

Però qualcosina lo ha sbagliato nelle nomine.

«Credo che qualcuno abbia fatto un'opera scientifica per portare il Papa a fare nomine che poi si sarebbero rilevate sbagliate. E ciò è stato fatto per indebolire questo pontificato in favore di quell' anima nera curiale che da sempre è in contrasto coi Vangeli. Il Papa si basa su informazioni che arrivano, quindi forse qualcuno gliene ha date dolosamente di sbagliate».

Si è parlato della possibilità di candidare volti noti della tv in politica. Se Berlusconi glielo chiedesse, scenderebbe in campo?

«Non farò mai politica».

E perché?

«Non ho ambizioni politiche, nessuna aderenza, mi considero un apolide. Per me contano le persone più delle ideologie».

17 LUGLIO 2017. QUINTA UDIENZA DI APPELLO. LA SENTENZA.

Yara, Bossetti nel giorno della sentenza dell'appello: "Poteva essere mia figlia, non meritava tanta crudeltà". Le parole del muratore già condannato all'ergastolo nel processo d'appello: "Sono vittima del più grande errore giudiziario del secolo". Oggi prevista la sentenza, scrive Paolo Berizzi il 17 luglio 2017 su "La Repubblica". "Ve lo giuro, mai diventerò colpevole della mia innocenza. Questo è il più grave errore giudiziario di questo secolo". Sono le parole con cui Massimo Bossetti ha concluso le dichiarazioni spontanee rese in aula di fronte alla Corte d'Assise d'appello di Brescia che oggi dovrà giudicarlo, decidendo se confermare l'ergastolo della sentenza di primo grado oppure rimandarlo a nuovo processo ordinando magari quella superperizia sul dna che la difesa dell'imputato ha continuato a chiedere in questo processo. Solita abbronzatura, camicia celeste con interni floreali, Bossetti ha preso la parola davanti ai giudici alle 8.45. Mezz'ora di dichiarazioni spontanee (ha letto un testo preparato coi suoi avvocati) per ribadire la propria innocenza e chiedere giustizia, oltre a nuove verifiche perché - ha sostenuto- "il vero o i veri assassini di Yara sono in giro e stanno ridendo di me e della giustizia". L'imputato - che nel corso del suo intervento è stato richiamato due volte dal presidente della Corte, Enrico Fischetti, con un esplicito invito a terminare, a stare nei tempi e a non ripetere cose già dette - ha ripercorso la vicenda proclamandosi vittima di un gravissimo errore giudiziario. "Non sono io l'assassino, mettetevelo in mente. La violenza non fa per me. Chi ha ucciso Yara è un pazzo, un sadico, e io non lo sono. Perché - ha chiesto - non è mai stata fatta una perizia psichiatrica su di me? Dimostrerebbe che non sono niente di tutto questo". Bossetti ("vi confesso che questa notte non ho dormito") ha iniziato la sua testimonianza scusandosi coi giudici per lo sfogo in aula durante l'udienza di due settimane fa ("dovete comprendere il mio stato d'animo, stare in carcere da innocente e sentire ripetere in aula certe falsità ti distrugge"). Poi ha rivolto un pensiero alla vittima dell'omicidio per cui è già stato condannato al carcere a vita. "Yara è l'unica vittima di questa immane tragedia. Poteva essere mia figlia o la figlia di tutti voi. Aveva davanti una vita e tanti sogni da realizzare. Neppure un animale - ha detto Bossetti - meriterebbe una fine così, tanto dolore, tanto accanimento, tanto sadismo. Non oso immaginare il dolore dei familiari di Yara". Poi il muratore 47enne è entrato nel merito delle accuse che hanno portato i giudici di Bergamo a giudicarlo colpevole e a decidere l'ergastolo. "Voi siete liberi di credere o non credere ma io vi ribadisco la mia innocenza. Se fossi stato io il colpevole non avrei resistito, avrei confessato, non sarei stato più in grado di gestire nessun aspetto della mia vita (nei quattro anni trascorsi tra l'omicidio di Yara - era il 29 novembre 2010 - e l'arresto di Bossetti - giugno 2014)". A un certo punto l'imputato si gira verso la moglie Marita Comi, seduta dietro di lui. "Chiedetelo a lei, lei avrebbe capito subito guardandomi negli occhi se fossi stato io". Quindi Bossetti è arrivato al punto più importante del processo, quella che per l'accusa è stata e continua a essere la prova regina che lo inchioda: il Dna. Le tracce trovate sui vestiti di Yara pienamente compatibili con il profilo genetico dell'assassino. "Quel Dna è sbagliato. E' un errore. Ecco spiegato quello che non è spiegabile in natura", ha incalzato Bossetti. "Rifate la prova del Dna e vedrete che i risultati mi daranno ragione". Un passaggio sul giorno della scomparsa di Yara ("non potevo ricordarmi quattro anni dopo che cosa ho fatto quel giorno"), sulle modalità con cui è stato arrestato ("c'era bisogno di tutto quell'esercito? C'era bisogno di umiliarmi così facendomi inginocchiare a terra?"), sul dolore del padre Giovanni morto per un tumore al pancreas ("glielo hanno diagnosticato il giorno stesso che ha saputo del mio arresto"). Bossetti esprime tutta la sua rabbia contro chi lo ha arrestato e per mesi ha cercato di convincerlo a "confessare un delitto che non ho commesso". "Vergognatevi", ha esclamato in aula. Dopodiché dinanzi ai giudici l'imputato ha aperto una lunga parentesi sui figli e la loro sofferenza "quando vengono a trovarmi in carcere e mi chiedono papà quando torni a casa? Papà non puoi uscire da un'altra porta?". "No, papà uscirà a testa alta da quel portone da cui tra poco uscirete anche voi". Sui familiari Bossetti è tornato più volte. Ed è a quel punto, dopo venti minuti, che il presidente della Corte lo ha richiamato: "Bossetti, la invito a terminare. Le dichiarazioni spontanee devono essere brevi, sta ripetendo cose che ha già detto". Un monito a cui ne è seguito un altro, identico, pochi minuti dopo. "Per favore non abbiate paura di cercare la verità, la verità piena. Cercatela con me accanto", è stato l'appello finale dell'imputato. "Bossetti - in terza persona - non è capace di violenze, non ho mai fatto male a nessuno e l'unico sentimento che mi tiene in vita è l'amore per la mia famiglia". Alle 9.15 il presidente Fischetti ha convocato i giudici per la camera di consiglio: che durerà ore. La sentenza, si è appreso, non arriverà prima delle 18. Tre le opzioni che la Corte avrà per scriverla: condannare di nuovo Bossetti all'ergastolo (con l'eventuale e ulteriore condanna anche a sei mesi di isolamento per il reato di calunnia ai danni dell'ex collega Massimo Maggioni, come chiede il procuratore generale e la parte civile). Assolverlo. Oppure rimandarlo a giudizio in un processo con una perizia sulla prova del Dna.

Yara, Bossetti: «Poteva essere mia figlia». Attesa per la sentenza d'appello, scrive il 17 luglio 2017 “Il Messaggero”. Massimo Bossetti, all'inizio delle sue dichiarazioni spontanee nel processo d'Appello a Brescia, ha voluto rivolgere un «sincero pensiero» a Yara Gambirasio per il cui omicidio è stato condannato all'ergastolo in primo grado. «Poteva essere mia figlia, la figlia di tutti noi - ha detto Bossetti - neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà». Bossetti ha chiesto scusa per «il comportamento scorretto» tenuto nella prima udienza quando era sbottato alle affermazioni del sostituto pg. «Pensate però come può sentirsi una persona attaccata con ipotesi fantasiose e irreali», ha detto, leggendo dei fogli estratti da una cartella rossa. Dopo le dichiarazioni del muratore, che si è sempre proclamato innocente, i giudici della Corte d'assise d'appello di Brescia si riuniranno in camera di consiglio per emettere il verdetto. Sarà il presidente della corte Enrico Fischetti a leggere la decisione: conferma della sentenza di ergastolo, riforma parziale del primo grado, assoluzione oppure perizia sul Dna, la traccia mista trovata su slip e leggings della 13enne attribuita a Ignoto 1 poi identificato in Bossetti. L'imputato nelle sue dichiarazioni ha cercato di spiegare ai giudici perché non è lui l'assassino della 13enne di Brembate, scomparsa il 26 novembre 2010 dal piccolo comune di Bergamo. Davanti alla sua famiglia - sempre presente la moglie Marita, la madre e la sorella gemella - ha chiesto ai giudici di assolverlo, di poter dimostrare con una perizia sul Dna che hanno preso la persona sbagliata. «Concedetemi la superperizia» sul Dna così «posso dimostrare con assoluta certezza la mia estraneità ai fatti. Cosa dovete temere se tutto è stato svolto secondo le norme? Perché non consentite che io e la difesa possiamo visionare i reperti? Non posso essere condannato con un Dna anomalo, strampalato, dubbioso», ha detto Bossetti rivolgendosi ai giudici della corte d'assise d'Appello di Brescia. L'imputato ha sottolineato come fin dall'inizio abbia sostenuto che quella traccia biologica mista - della vittima e Ignoto 1 - «non può essere il mio. Non solo non ho ucciso Yara, ma non ho mai avuto un contatto con lei. Si è verificato un errore, ma non ho mai avuto la possibilità di partecipare all'esame. Se fossi l'assassino sarei pazzo a chiedere la perizia, invece io non temo nulla. Vi supplico e vi imploro di fare questa perizia», ha chiosato Bossetti. Bossetti ha detto di essere vittima «del più grande errore giudiziario di tutta la storia». Il muratore ha anche stigmatizzato il modo con cui fu arrestato: «C'era necessità di scomodare un esercito e umiliarmi davanti ai miei figli e al mondo intero?». Ha poi aggiunto che, quando fu fermato nel cantiere in cui lavorava (e i momenti del fermo furono filmati) si sentì «una lepre che doveva essere sbranata da innumerevoli cacciatori». «Perché, perché, perché?» ha detto il muratore. E girandosi verso il pubblico in aula per poi tornare ai giudici, ha detto: «Io non sono un assassino, mettetevelo in testa». L'appello di Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, l'1 luglio 2016 cadde nel vuoto: poche ore dopo le sue dichiarazioni la corte di Bergamo sentenziò il fine pena mai per il muratore di Mapello. Quella traccia biologica - prova granitica per i giudici di primo grado - è l'elemento intorno a cui ruota l'intero caso. L'assenza del suo Dna mitocondriale «non inficia il risultato: è solo il Dna nucleare ad avere valore forense» per il rappresentante dell'accusa Marco Martani. «Quel Dna non è suo, non c'è stato nessun match, ha talmente tante criticità - 261 - che sono più i suoi difetti che i suoi marcatori», per i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. La prova scientifica «assolutamente affidabile» per l'accusa va letta insieme agli altri indizi di un'indagine. Contro l'imputato ci sono altri elementi: dal passaggio del furgone davanti alla palestra alle fibre sulla vittima compatibili con la tappezzeria del suo Iveco; dalle sferette metalliche sul corpo di Yara che rimandano al mondo dell'edilizia all'assenza di alibi. Indizi che la difesa respinge. Il furgone immortalato vicino al centro sportivo di Brembate non è di Bossetti; le sfere e le fibre non riconducono con «nessuna certezza» all'imputato che non ha mai cambiato abitudini e che anche quella sera era a casa. La 13enne è stata trovata senza vita in un campo incolto a Chignolo d'Isola, una zona che il muratore di Mapello conosceva per lavoro. Di diverso avviso la difesa che sostiene che la 13enne è stata portata lì solo successivamente, come dimostrerebbe una foto satellitare del 24 gennaio 2011, poco più di un mese prima del suo ritrovamento.  Su un tema le parti concordano: vittima e presunto carnefice non si conoscevano, ma Yara potrebbe aver accettato un passaggio sul furgone di Bossetti, il quale «affascinato» da questa «giovanissima donna» potrebbe aver tentato un approccio sessuale finito nel sangue, a dire dall'accusa. Un delitto compiuto da «un perverso sessuale sadico, l'opposto esatto di Bossetti», secondo i suoi legali: le ricerche pornografiche sul computer risalgono a tre anni dopo la morte di Yara e non indicano nessuna perversione dell'imputato. Oggi a stabilire la verità saranno i giudici. 

Yara, è il giorno del verdetto. Bossetti: "Poteva essere mia figlia". Il muratore di Mapello ha rilasciato dichiarazioni spontanee: "Neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà", scrive il 17 luglio 2017 Gabriele Moroni su "Il Giorno”. E' il giorno del verdetto d'appello del processo a carico di Massimo Bossetti, carpentiere 46enne di Mapello condannato all'ergastolo il primo luglio 2016 in primo grado per l'omicidio di Yara Gambirasio. La tredicenne scomparve il 26 novembre 2010 dopo aver lasciato la palestra di Brembate di Sopra, paese della Bergamasca in cui viveva. Il suo corpo fu trovato tre mesi dopo in un campo di Chignolo d'Isola, a pochi chilometri di distanza da Brembate. All'incirca alle 8 sono giunti nel tribunale di Brescia i familiari di Bossetti - la madre Ester Arzuffi, la sorella Laura Letizia e la moglie Marita Comi - e i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Massimo Bossetti ha iniziato le sue dichiarazioni spontanee alle 8.35, proseguendo fino alle 9.15. Si prevede una lunga camera di consiglio. La corte dovrà in primo luogo pronunciarsi sulle richieste della difesa: in particolare sulla nuova perizia sul Dna e l'acquisizione di una foto satellitare del campo di Chignolo. Il presidente, Enrico Fischetti, non ha dato tempi per la decisione: "Non abbiamo limiti".

LE DICHIARAZIONI SPONTANEE DI BOSSETTI:"YARA FIGLIA MIA, FIGLIA DI TUTTI NOI" - "Voi capite che stanotte non ho chiuso occhio, potete comprendere il mio stato di ansia". Poi si è scusato per ""il comportamento scorretto" tenuto nella prima udienza. "Rivolgo un pensiero sincero a Yara, l'unica vera vittima, che avrebbe avuto tutto il diritto di vivere la propria vita fino a quando qualcuno ha deciso di impedirle di realizzare i sogni che aveva - ha proseguito Bossetti -. Poteva essere mia figlia, la figlia di tutti noi neanche un animale avrebbe usato tanta crudeltà. Non oso pensare allo strazio che proveranno per tutta la vita i genitori". "Vi chiedo di lottare con coraggio al mio fianco alla ricerca della verità - ancora Bossetti -. Durante il processo non vi ho tolto gli occhi di dosso, mi ha colpito il vostro atteggiamento attento che avrei voluto vedere anche a Bergamo (nel processo di primo grado, ndr). Vi ringrazio, grazie a tutti voi. Spero che abbiate il giusto senso di responsabilità riconoscendomi la possibilità di difendermi e di essere creduto. Dal giorno del mio arresto ho subito giorni di pesanti interrogatori. A cosa serve se poi non ti credono e alla fine fanno quello che vogliono? Non potevo confessare ciò che non avevo commesso". "Ho sentito cattiverie, sinonimi affrettati, mi sono abituato a tutte".

"GLI ASSASSINI DI YARA? SADICI, PERVERSI, MAIALI" - "Se fossi stato l'autore di quel gesto avrei confessato la sera stessa perché la verità esce subito. La prima persona ad accorgersi della mia colpevolezza sarebbe stata mia moglie, leggendola nei miei occhi, nei miei comportamenti che sarebbero stati diversissimi dal solito". A questo punto Bossetti si volta e guarda la moglie Marita Comi. "Pensate che, se fossi stato colpevole, sarei riuscito a mantenere lo stesso atteggiamento senza dare segni di squilibrio, cedimenti o destare sospetti? Non sarei riuscito a gestire più nulla nella mia vita, la testa me lo avrebbe impedito, non sarei riuscito a svolgere il mio laoro come sempre, non sarei riuscito ad abbracciare i miei figli. Se fossi stato colpevole, credetemi, avrei accettato il rito abbbreviato, come mi era stato prospettato dall'accusa. Sarei uscito dal carcere ancora giovane, ma io non ho confessato e non confesserò mai un delitto mai commesso". "Persone sadiche, perverse, maiali hanno commesso l'omicidio, solo un sadico potrebbe infierire così su una ragazzina. Ma nessuna perizia è stata disposta su di me, perché sarei risultato essere una persona buona. Se non fossi buono, in carcere avrei fatto un macello. Mentre io sto in carcere, i veri assassini sono liberi e stanno ridendo di me e della giustizia. Non lasciate niente di intentato, ve lo chiedo con sincera convinzione. Non ho ucciso Yara, non l'ho mai vista in vita mia. Se fossi io l'assassino sarei un pazzo a chiedere la perizia, ma io non temo nulla. Vi supplico, vi imploro di fare questa verifica che mi darà ragione". Bossetti si è definito anche vittima del "più grande errore giudiziario di tutta la storia".

"MODALITA' DEL MIO ARRESTO? VERGOGNOSE" - "Vorrei parlare delle modalità scandalose e vergognose del mio arresto. Volete archiviare anche questo e fare finta di niente? Tutto il mondo ne è a conoscenza. C'era bisogno di scomodare l'esercito e di farmi inginocchiare davanti a tutti? Perché mi avete trattato così? Perché? Perché? Perché? Vergognatevi. Mi sono sentito come una lepre accerchiata da un numero spropositato di cacciatori pronti a spellarmi vivo. E il mio povero papà, già gravemente malato, ha dovuto vedere suo figlio inginocchiato su un ponteggio?". A questo punto la madre di Bossetti, Ester, piange. "Per favore, abbiate il sacrosanto coraggio - riprende l'imputato - di fare luce su tutto per fugare ogni dubbio. Agite con fermezza e competenza, non date nulla per scontato e distinguete quello che è certo da quello che non lo è".

"PAPA' USCIRA' A TESTA ALTA" - Bossetti ha parlato poi della sua famiglia e, in particolare, dei figli: "Cosa mi chiedono? 'Papà, papà, quando torni a casa? Ci mancano le visite ai parchi acquatici e i giocattoli che ci portavi. Ci manchi tantissimo papà'. E mi chiedono 'Non puoi uscire dal carcere da un'altra porta?' Io rispondo loro che papà uscirà a testa alta dalla porta da cui è entrato. Concedetemi la perizia perché vi possa dimostrare la mia assoluta estraneità ai fatti. Credetemi, per l'amor di Dio, non ho mai alzato un dito contro nessuno. Non sono un assassino, non sono un assassino". Bossetti ha poi concluso: "Ho fiducia nella giustizia, spero nel coraggio e nell'onestà. Mi affido serenamente a voi giudici. La mia vita non è più vita grazie a chi me l'ha rovinata". Bossetti ha poi abbracciato la moglie Marita, la madre Ester, la sorella Laura Letizia, i suoi legali e i consulenti.

Claudio Salvagni, avvocato difensore di Massimo Bossetti, ha commentato le dichiarazione spontanee del suo assistito davanti alla corte d'assise d'appello del tribunale di Brescia: "Ha parlato più come uomo che come imputato". Bossetti ha "manifestato tutto il suo dolore per l'ingiustizia che ha subito. Confido nel fatto che, finalmente, sia fatta chiarezza e fugati i dubbi sul dna". 

Bossetti, le mosse della difesa, gli «assi» nella manica e la grancassa in televisione: l’altro processo. Le armi annunciate dai legali dell’imputato fino a ora si sono dimostrate spuntate, scrive Riccardo Nisoli il 16 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera”. Sembra scontato, ma non lo è. E va ricordato con rispetto: Massimo Bossetti, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, va considerato innocente fino al terzo grado di giudizio. È il principio giuridico della presunzione di innocenza, scolpito nella Costituzione. Premesso questo, non possiamo dimenticare gli elementi d’accusa, primo fra tutti il Dna, vero pilastro di questa inchiesta. Un profilo genetico particolare, talmente unico che la probabilità di trovarne un altro uguale è di una su 330 milioni di miliardi di pianeti, ciascuno abitato da 7 miliardi di persone. «Raramente mi sono imbattuto in una traccia così rassicurante», ha detto il procuratore generale. Ecco, il processo a Bossetti è tutto in quella macchia dove si sono mischiati il sangue di Yara e il Dna nucleare di Bossetti (quello che identifica la persona), isolata sugli slip e i leggings della bambina. Sugli slip, non su un giaccone sfiorato in metropolitana. Quindi in una posizione «sensibile» visto che il movente, sostiene la sentenza di primo grado, è ragionevolmente di natura sessuale. Se si vuol credere alla scienza, Bossetti era sulla scena del delitto. Quindi, o lui ha ucciso la bambina, oppure deve dire chi è stato. Perché quella traccia mista racconta che lui era lì mentre Yara veniva massacrata. Ed è una prova cui si è arrivati a ritroso: da ignoto 1 (quando ancora non c’erano indagati) a Bossetti. Non il contrario, il che avrebbe anche potuto dar adito a sospetti di complotto. Il resto è contorno, ma che contorno. Trovato il match perfetto tra Dna sugli slip e Dna nucleare di Bossetti, si scopre che l’indiziato, guarda caso, è un muratore (nei bronchi e sulle ferite di Yara venne trovata calce), non ha un alibi e il suo telefonino agganciava una cella compatibile, secondo l’accusa, con la zona del delitto. Solo per restare agli indizi più consistenti. E non ce n’è uno che non si incastri col resto o che smentisca l’intero castello. La difesa smonta tutto a modo suo, ma le mosse dei legali di Bossetti hanno avuto finora un valore processuale inversamente proporzionale alla risonanza sulle reti Mediaset. A furia di andare all’attacco su tutto e tutti, anche con armi spuntate, sono riusciti a dividere l’opinione pubblica e a insinuare il dubbio che Bossetti sia la vittima di un clamoroso abbaglio giudiziario. Ma un conto è andare a raccontare in tivù che il Dna nucleare senza il mitocondriale non ha valore, un altro è raccontarlo ai giudici. Tralasciamo pure l’ultima trovata di Ester Arzuffi, la madre dell’indiziato, che ha adombrato l’ipotesi di un’inseminazione artificiale a sua insaputa durante una visita ginecologica. Ma al netto di questa fandonia che i legali hanno avuto il buon gusto di lasciare fuori dal processo (altro non è, visto che la prima fecondazione assistita che l’umanità ricordi è avvenuta molto dopo), la difesa aveva annunciato assi nella manica. Ora che le carte sono sul tavolo, vediamole. La prima: una foto satellitare, scattata il 24 gennaio 2011, che non mostra il cadavere di Yara sul campo di Chignolo. Il corpo è stato spostato, ne consegue la difesa. Da dove, non si sa. Il perché, non è detto. E se anche fosse? Come si giustifica il Dna di Bossetti sugli slip di Yara? Ma osserviamo la foto: un’immagine così sgranata e da lontano che le auto sono un puntino. Se anche il cadavere fosse stato presente nel campo, peraltro coperto da erbacce, non lo si poteva vedere. La seconda carta: 261 criticità nelle analisi del Ris, tra kit scaduti e presunte contaminazioni. L’accusa ha sempre replicato che la scadenza dei kit ha valore commerciale: nel momento in cui forniscono un risultato (peraltro uguale a quello ottenuto con kit non scaduti), il test è valido. E su 101 repliche, 71 hanno dato come risultato Ignoto 1. La terza: per dire che una traccia genetica non può resistere tre mesi alle intemperie, hanno scomodato Peter Gill, luminare del Dna. Peccato, ha osservato l’accusa, che il super esperto (che ha risposto a una mail) parlasse di Dna da contatto, mentre nel caso di Yara è da versamento. E che dire del dubbio, più volte insinuato, che il Dna si possa fabbricare in laboratorio, dando implicitamente dei calunniatori a carabinieri e poliziotti che per anni, agli ordini del pm Letizia Ruggeri, non hanno mollato l’osso? Ma chi poteva avercela con Bossetti fino a tal punto? Per carità, nessun complotto, ha corretto il tiro la difesa dopo che accusa e parte civile sono (giustamente) insorte. Semplicemente il Ris avrebbe fatto degli errori. «Mamma, la scienza non mente», disse Bossetti alla madre, in un colloquio in carcere, dopo aver scoperto di avere un altro padre. Già. E se non mente, che ci faceva il suo Dna sugli slip di Yara?

Yara Gambirasio, dalla scomparsa della tredicenne all’ergastolo in primo grado per Bossetti: le tappe della vicenda. Un assassino feroce, un'inchiesta inedita per quantità e qualità di accertamenti svolti dagli investigatori di polizia e carabinieri, un processo dove la prova scientifica è diventata la prova regina. La cronologia del caso su "Il Fatto Quotidiano" del 17 luglio 2017 e “La Repubblica" del 16 giugno 2014. Un assassino feroce, un’inchiesta inedita per quantità e qualità di accertamenti svolti dagli investigatori di polizia e carabinieri, un processo dove la prova scientifica è diventata la prova regina. Per l’accusa, che basa la sua ipotesi su atti raccolti in 60 faldoni, il carnefice di Yara Gambirasio – la 13enne di Brembate scomparsa una sera di novembre e ritrovata cadavere tre mesi dopo – ha un nome, ma Massimo Giuseppe Bossetti – identificato con il Dna come Ignoto 1 – continua a dichiararsi innocente, anche oggi che rischia di veder confermata dai giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia la condanna all’ergastolo già pronunciata in primo grado a Bergamo. Ecco le tappe della vicenda:

26 novembre 2010 – Sono le 18.40 circa quando la ragazzina esce dalla palestra di Brembate di Sopra, piccolo comune in provincia di Bergamo, e di lei si perdono le tracce. La giovane ginnasta va nel centro sportivo di via Locatelli per consegnare uno stereo, poi il buio la inghiotte lungo i 700 metri che la separano da casa. Alle 18.55 il suo cellulare Lg nero viene spento per sempre. Le ricerche non trascurano nessuna pista: dall’allontanamento volontario al rapimento.

26 novembre 2010: Yara Gambirasio, 13 anni, scompare a Brembate di Sopra, alle porte di Bergamo. Ha lasciato la palestra in cui pratica la ginnastica ritmica ad appena 700 metri da casa e di lei si perdono le tracce. Dal suo telefonino parte un sms di risposta ad un'amica. Alle 18.47 il suo telefonino viene agganciato dalla cella di Mapello, un comune distante circa tre chilometri da Brembate, poi la traccia scompare.

5 dicembre 2010 – Mohamed Fikri, operaio di un cantiere edile di Mapello dove conducono i cani molecolari usati per le ricerche, viene fermato su una nave diretta in Marocco. Pochi giorni dopo le accuse vacillano: alcune parole in arabo mal tradotte e un biglietto per Tangeri già in tasca da tempo fanno cadere l’ipotesi di una fuga. Il 7 dicembre esce dal carcere, non è lui l’assassino. La sua posizione è stata poi definitivamente archiviata.

5 dicembre 2010: il marocchino Mohamed Fikri, che lavora in un cantiere edile di Mapello, viene fermato a bordo di una nave diretta a Tangeri. Contro di lui alcuni indizi, tra i quali un'intercettazione ambientale in cui sembra affermi "Allah perdonami non l'ho uccisa". Ma la traduzione era sbagliata. Mohamd Fikri si proclama innocente. Riesce a dimostrare che le sue vacanze in Marocco erano programmate da tempo e che non stava fuggendo. La sua posizione sarà archiviata perchè l'immigrato risulterà del tutto estraneo alla vicenda.

12 dicembre 2010: La mamma di Yara parla per la prima volta e in un'intervista e dice di sentire "un grande affetto attorno alla sua famiglia". 

8 gennaio 2011: Arriva una lettera anonima che annuncia che il corpo di Yara è nel cantiere di Mapello. La lettera non è tenuta in considerazione anche perché il cantiere era già stato più volte controllato e ispezionato. E' solo una delle centinaia di segnalazioni che si riveleranno inutili in una vicenda costellata dalla presenza di mitomani e sensitivi.

26 febbraio 2011: Il corpo di Yara, a tre mesi esatti dalla scomparsa, viene ritrovato in un campo a Chignolo d'Isola, ad una decina di chilometri da Brembate (Bergamo). Le indagini appureranno che è stata uccisa sul posto, colpita da alcune coltellate e morta anche per il freddo.

26 febbraio 2011 – Il corpo della Yara viene trovato da un appassionato di aeromodellismo in un campo incolto a Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da casa. Dove i tanti volontari e soccorritori erano stati durante i giorni in cui si sperava di ritrovare la bambina viva. L’autopsia accerta le ferite alla testa, le coltellate alla schiena, al collo e ai polsi. Nessun colpo mortale: quando chi l’ha colpita le volta le spalle lei è ancora viva. Il decesso, dopo una lunga agonia, arriva quando alle ferite si aggiunge il freddo. L’anatomopatologa Cristina Cattaneo, sentita dalla Corte d’Assise di Bergamo, aveva spiegato ai giudici tutti gli accertamenti eseguiti per arrivare a questa conclusione.

9 maggio 2011. Viene isolata sugli slip e i leggings della vittima una traccia biologica da cui si estrae il Dna di Ignoto 1. Dopo mesi e centinaia di confronti si scopre che il sospettato è figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni. La salma dell’autista di Gorno viene riesumata (7 marzo 2013): la probabilità che siano padre e figlio è del 99,999%, ma non basta per risolvere il caso. Si riparte dal Dna mitocondriale di Ignoto 1 per trovare la madre. La comparazione nel giugno 2014 con Ester Arzuffi (Dna nelle mani degli investigatori dal 27 luglio 2012) porta al match: sono madre e figlio al 99,999%.

28 maggio 2011: E' il giorno dell'addio a Yara. In migliaia di ritrovano al palazzetto dello Sport per assistere ai suoi funerali. Viene letto anche un messaggio del Presidente della Repubblica.

15 giugno 2011: gli investigatori isolano una traccia di dna maschile sugli slip della ragazza che, a differenza degli altri tre già esaminati, non sarebbe suscettibile di contaminazione casuale. Sarebbe il dna dell'assassino. Un profilo genetico che non è tra i 2.500 raccolti in quei mesi dagli investigatori.

18 settembre 2012: nasce la cosiddetta 'pista di Gorno': è estratto da una marca da bollo su una vecchia patente il Dna di Giuseppe Guerinoni, di Gorno sposato e padre di due figli, morto a 61 anni nel 1999 simile a quello trovato sul corpo di Yara. Un Dna che, comparato con il nucleo famigliare dell'uomo, non porta ad alcun risultato; da qui l'ipotesi degli investigatori che esista un suo figlio illegittimo.

7 marzo 2013: è riesumata la salma di Giuseppe Guerinoni, il bergamasco di Gorno morto nel 1999 e che, secondo gli inquirenti, sarebbe il padre biologico dell'assassino. La salma verrà sottoposta a tutti gli accertamenti del caso, come disposto dalla Procura.

10 aprile 2014: la consulenza dell'anatomopatologa Cattaneo fuga i dubbi, peraltro sollevati dalla famiglia di Yara, sulla corrispondenza del Dna con quello di Giuseppe Guerinoni. L'assassino di Yara è un suo possibile figlio illegittimo. Di recente, senza alcun risultato, quel Dna era stato comparato con quello di donne che frequentavano Salice Terme, nel Pavese. Una località climatica che l'autista aveva frequentato negli anni in cui avrebbe potuto avere un figlio illegittimo.

16 giugno 2014. Il presunto assassino di Yara ha un nome: è Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, residente a Mapello. Sarà il ministro dell’Interno Angelino Alfano ad annunciare via Twitter il fermo. Sposato, padre di un bambino e due bimbe, il suo Dna (acquisito con un alcoltest) combacia con Ignoto 1. Per lui l’accusa è di omicidio con l’aggravante di aver adoperato sevizie e di avere agito con crudeltà. Un delitto aggravato anche dall’aver approfittato della minor difesa, data l’età della vittima.

3 luglio 2015. Inizia il processo contro Bossetti. A giudicare l’imputato, che rischia l’ergastolo, la Corte d’assise di Bergamo composta dal presidente Antonella Bertoja, dal giudice a latere e da sei togati popolari. In aula non sono ammesse telecamere, né cellulari o strumenti che permettano di riprendere imputato o testimoni. L’11 marzo 2016, l’imputato prende per la prima volta la parola in aula. “Quel Dna non mi appartiene: è un Dna strampalato, che per metà non corrisponde. È dal giorno del mio arresto che mi chiedo come sono finito in questa vicenda visto che non ho fatto niente”, dice ribadendo la sua innocenza.

18 maggio 2016. Massimo Bossetti ha ucciso Yara con crudeltà ed efferatezza. L’imputato “ha voluto arrecare particolare dolore e ci è riuscito con un’agonia particolarmente lunga” contro la vittima cagionandole “sofferenze eccessive”. È quanto sostiene nella sua requisitoria il pubblico ministero Letizia Ruggeri. Condanna all’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi la richiesta per l’uomo accusato dell’omicidio e di calunnia nei confronti di un suo ex collega su cui ha puntato il dito.

10 giugno 2016 – La difesa chiede l’assoluzione per l’imputato del processo “più indiziario del mondo”, dove “nessun indizio è preciso neanche il Dna”. La custodia e la conservazione della traccia biologica “sono il tallone d’Achille” di un’indagine “con troppe anomalie” dove “più che l’accusa ho visto la difesa delle indagini”. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini chiedono un atto di “coraggio alla giuria: assolvete Bossetti. Sia fatta giustizia, non sia condannato un innocente”.

1 luglio 2016 – Dopo l’ultimo appello dell’imputato e oltre 10 ore di camera di consiglio, i giudici condannano Bossetti all’ergastolo, nessun isolamento diurno come chiesto dall’accusa. Tolta la responsabilità genitoriale e riconosciuta l’aggravante della crudeltà. Viene assolto invece “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di calunnia.

30 giugno 2017 – Si apre a Brescia il processo d’appello davanti alla Corte presieduta da Enrico Fischetti, accanto il giudice a latere Massimo Vacchiano e sei giurati popolari. L’aula resta vietata a telecamere e fotografi. Bossetti “non insensibile al fascino delle ragazzine” ha ucciso Yara: contro di lui “ci sono più elementi che, uniti alla prova decisiva del Dna, danno la sicurezza della colpevolezza”, sostiene il pg Marco Martani. La richiesta è “ergastolo, più isolamento diurno di sei mesi”; per la calunnia verso l’ex collega non ha diritto ad attenuanti. I giudici negano alla difesa la possibilità di mostrare dei video.

6 luglio 2017 – Gli elementi contro Bossetti “non consentono di condannarlo. Se avete dubbi dovete assolvere”, è l’appello dei difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini che chiedono l’assoluzione e in subordine la perizia. “Quel Dna non è il suo, non c’è stato nessun match, ha talmente tante criticità – 261 – che sono più i suoi difetti che i suoi marcatori”, sostengono. L’assenza di mitocondriale nella traccia 31G20 va ‘risolta’ concedendo una perizia, non chiedendo “un atto di fede”. Chi ha ucciso Yara “è un perverso sessuale sadico, è l’opposto esatto di Bossetti”.

17 luglio 2017 – Dopo l’ultimo appello di Bossetti – nel corso della quinta udienza – è attesa la decisione dei giudici: confermare la condanna all’ergastolo, riformare la sentenza di primo grado, assolverlo o concedere la perizia sulla traccia mista trovata sugli indumenti della vittima. In quest’ultimo caso i giudici d’appello affiderebbero a dei periti l’incarico di ripetere l’analisi dei reperti alla presenza delle parti, riaprendo di fatto il dibattimento.

Caso Yara, confermato ergastolo per Bossetti: la sentenza d'appello dopo 15 ore di camera di consiglio. I giudici si erano ritirati alle 9.30 del mattino. Le lacrime della moglie, Marita Comi. E dell'imputato che ha pianto nella gabbia dei detenuti. L'avvocato: "Sconfitta del diritto", scrive Paolo Berizzi il 18 luglio 2017 su "La Repubblica". Quindici ore per confermare che Massimo Bossetti resterà in carcere a vita. Quindici ore per ribadire che l'assassino di Yara Gambirasio è lui, l'uomo che ieri mattina alle 9, quando ha reso dichiarazioni spontanee davanti ai giudici, ha provato a allontanare la bestia: "Chi ha ucciso Yara è un animale, un maiale. Vi prego, rimediate al più grave errore giudiziario di questo secolo". Ma il rimedio auspicato da Bossetti non è arrivato: la Corte d'Assise d'appello, dopo una camera di consiglio fiume e caratterizzata da una spaccatura della giuria, ha confermato l'ergastolo già deciso dalla sentenza di primo grado. Il verdetto è arrivato a mezzanotte e mezza.  "Questo processo per noi resta pieno di anomalie e di cose che non tornano", hanno detto i legali della difesa, Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Lui, Bossetti, ha ascoltato la lettura della sentenza in piedi: appena il presidente della Corte, Enrico Fischetti, ha finito di pronunciarsi, ha abbandonato l'aula ed è scoppiato in lacrime. In un lungo pianto anche Marita Comi, la moglie, che ha raggiunto l'imputato in una saletta dietro la cella di sicurezza. Ma perché c'è voluta una camera di consiglio così prolungata per partorire quella che, a molti, era parsa la sentenza più probabile? Vero che il presidente della Corte lo aveva un po' anticipato ("non abbiamo limiti"), ma i tempi sono andati molto oltre quanto si pensava alla vigilia. L'indecisione e la divisione tra i giudici - da quanto trapelato - avrebbe riguardato la carta numero uno messa in campo dai legali di Bossetti: la superperizia sul Dna. Quel Dna che come nel dibattimento di primo grado è stato il nodo anche di questo secondo processo.  "Concedetemi la superperizia - aveva chiesto Bossetti - così posso dimostrare con certezza la mia estraneità ai fatti. Non posso essere condannato con un Dna anomalo, strampalato, dubbioso". Evidentemente qualche dubbio tra i giudici - otto, due togati e sei popolari - era stato instillarlo. La superperizia, dunque. Necessaria per la difesa, inutile per il procuratore generale Marco Martani (accusa). Il problema è però l'esigua quantità della traccia mista trovata sugli slip di Yara. Talmente scarsa che, essendosi consumata nel primo test, renderebbe difficile, se non impossibile, la ripetizione del confronto col sangue di Bossetti. Negli ambienti giudiziari bresciani è nota la meticolosità del presidente Fischetti. E la sua inclinazione a voler "blindare" le sentenze se non con un'unanimità, comunque con un'omogeneità di giudizio. A mezzanotte la quadra tra i giudici dev'essere arrivata. Mezz'ora dopo la Corte è entrata in aula e la seconda tegola è caduta sul destino giudiziario di Massimo Bossetti. "Abbiamo assistito alla sconfitta del diritto, il ricorso in Cassazione è scontato" è il commento a caldo dell'avvocato Claudio Salvagni. Di segno opposto la dichiarazione di Enrico Pelillo, avvocato della famiglia Gambirasio: "Giustizia è fatta, le carte processuali dicono che la sentenza andava confermata". Bossetti era stato arrestato il 14 giugno del 2014 nel cantiere in cui lavorava a Dalmine. Secondo l'accusa, gli elementi contro di lui erano granitici e la sentenza di primo grado era stata "ineccepibile". Dalla prova del Dna - aveva detto il sostituto pg Marco Martani che ha sostenuto l'accusa nel processo di secondo grado - era arrivata "l'assoluta certezza della sua responsabilità". C'erano stati poi una serie di indizi che avevano fatto da corollario: il suo furgone nelle immagini delle telecamere vicine alla palestra di Brembate di Sopra da cui Yara, che praticava ginnastica ritmica, scomparve il 26 novembre 2010; le fibre trovate sul corpo della ragazza, compatibili con quelle dei sedili del Fiat Daily del muratore. Da qui la richiesta fatta da Martani della conferma del carcere a vita, pena che, secondo il sostituto pg, andava resa ancora più severa con sei mesi di isolamento diurno per aver "incolpato" un collega cercando di indirizzare le indagini su di lui. Da quest'ultima accusa di calunnia in primo grado Bossetti era stato assolto.

Yara, la sentenza slitta a mezzanotte. Bossetti, di nuovo ergastolo. "È lui l'assassino di Yara". Dopo 15 ore di camera di consiglio confermata la condanna. Ma giudici e giurati forse si sono divisi...scrive Luca Fazzo, Martedì 18/07/2017, su "Il Giornale". Le speranze di Massimo Bossetti svaniscono in una manciata di secondi dopo una camera di consiglio che sembrava non finisse mai. Ormai conosce la legge i suoi riti, le sue formule: ha imparato a conoscerli in questi anni in cui dal mestiere di carpentiere è passato a quello di imputato. Dal Dna al traffico telefonico. Troppe cose non quadrano. Imputato per uno dei delitti più crudi dei nostri anni recenti, uno dei più impressi nella coscienza della gente. Bossetti conosce le formule della legge. E quando il giudice Enrico Fischetti inizia a leggere la sentenza, capisce che è finita. Anche per la Corte d'appello, è lui l'assassino di Yara Gambirasio. É passata da poco la mezzanotte e mezza quando tutto finisce. I giudici e la giuria popolare sono in camera di consiglio dalle dieci del mattino, quando il processo di appello si è chiuso come si era chiuso quello in primo grado, con le ultime parole dell'imputato. Anche ieri Bossetti punta su se stesso, sulla sua storia di persona normale, sui quarantaquattro anni senza ombre passati prima di essere arrestato con l'accusa di essere «Ignoto 1». Ma ieri, come un anno fa al primo processo, nulla di quanto dice Bossetti, nessuna delle tante anomalie che i suoi avvocati hanno evocato nelle arringhe, e nemmeno la paura di distruggere un innocente fanno breccia nelle coscienze dei giudici e dei giurati. Le porte del carcere si chiudono alle spalle dell'imputato. Era prevedibile? Sì, lo era: anche se la durata della camera di consiglio racconta di una decisione sofferta e drammaticamente contrastata. Alla Corte d'assise d'appello era chiesto un atto di fiducia nella scienza, e questo atto alla fine è venuto. «Di solito - aveva detto il procuratore generale Marco Martana nella sua requisitoria - ci si deve accontentare di risultai più modesti, a volte è possibile che il Dna di una persona lo abbia anche un'altra su cinque miliardi. Qui questa possibilità non c'è». La certezza che sui leggins e gli slip di Yara Gambirasio ci fossero le tracce biologiche di Bossetti tende all'infinito: 99 virgola nove periodico. E i tanti dubbi sul modo in cui il campione è stato analizzato, sugli esperimenti che lo hanno distrutto per sempre, impedendo la possibilità di un nuovo esame, non scalfiscono questa certezza. Altro non c'era: ma questa certezza è bastata a condannare Bossetti. Oltre quattordici ore di attesa significano che nel chiuso della camera di consiglio qualcuno ha provato a sollevare dubbi, a chiedere quante volte la scienza si è sbagliata, a ricordare come anche l'accusa abbia ammesso che a volte i responsi del Dna ingannano: ma è stato messo in minoranza. É possibile che a premere per una assoluzione o almeno per una nuova perizia fosse uno dei giudici popolari, i cittadini qualunque chiamati a un ruolo di terribile delicatezza, e che spesso si adeguano alle indicazioni dei magistrati: ma che a volte invece prendono una strada diversa. Se qualcuno dei giurati ha avanzato dubbi è toccato al presidente della Corte, Fischetti, spiegargli che per arrivare a una sentenza di colpevolezza basta la certezza della prova scientifica. Non serve un movente, non servono testimoni oculari. Non serve capire cosa accadde in quei cinquecento metri che separano la palestra di Brembate, dove secondo l'accusa Bossetti offre un passaggio alla ragazzina, dalla casa dei Gambirasio, dove Yara non arriva mai. E chissà se davvero le cose andarono come ipotizza l'accusa, «una frase o un gesto sbagliati» che scatena la reazione di Yara. Chissà se davvero Bossetti si taglia la mano mentre la colpisce, e se è il suo sangue a restare sugli abiti di Yara. L'unica cosa che conta è che - sangue, saliva o chissà cos'altro - è il Dna di Bossetti quello che tre mesi dopo viene trovato sul corpo della piccola, seria ragazzina di Brembate. É quel Dna che ieri, a mezzanotte e mezza, fa dire ai giudici: «Colpevole».

Massimo Bossetti. La perizia non serve per confermare l'ergastolo... e ora siamo tutti in pericolo, scrive Martedì 18 luglio 2017 Massimo Prati su "Albatros Volando Controvento". Era già tutto previsto. Massimo Bossetti e i suoi difensori hanno lottato come leoni costringendo i giudici a 14 ore di camera di consiglio, ma alla fine ha prevalso il verdetto mediatico già pronunciato nel giugno del 2014 dall'editoria che usufruisce dei benefici statali, editoria che con il suo tam tam continuo è in grado di convincere tutti, anche eventuali prossimi giudici popolari, di tutto. Avendone i mezzi e volendolo fare, alla maggioranza della popolazione si può far credere che il fuoco sia in grado di spegnere l'acqua. Niente di nuovo sotto il sole, è sempre stato così e sempre così sarà... dato che tanti secoli fa, quando l'informazione viaggiava lentamente ma l'ignoranza popolare era incentivata, chi deteneva il potere condannava chi rifiutava di credere che il sole girasse attorno alla terra. Siamo nel 2017 e si dice che l'Italia sia una Repubblica. Ma a parte una parvenza di democrazia nulla è cambiato da allora. Si continua ancora a incentivare l'ignoranza popolare così che il cittadino si adagi alle parole e alle idee di chi crede migliore, sia indossi un vestito colorato sugli schermi, un camice bianco in corsia o una toga nera in tribunale. D'altronde, se il bravo criminologo e la brava opinionista, coadiuvati dal bravo giornalista, dicono ad ogni ora del giorno e della notte che l'imputato è colpevole significa che l'imputato è colpevole cazzo! Se non lo sanno loro che stanno sempre a parlar e a scrivere di tutti quei colpevoli! E in fondo poi, al popolano che importa di quel tale che finirà in galera! Quel tale che si dichiara innocente e dopo più sentenze a morte preferisce impiccarsi alle sbarre della sua cella piuttosto che restare chiuso in carcere e far vivere alla sua famiglia, ai suoi figli, una vita fatta di vergogna! Ma non è così urleranno i più bravi, quelli capaci di sorridere negli schermi anche quando la morte si mostra nelle sue pieghe più tenebrose, se l'imputato si è ammazzato è perché non riusciva più a sopportare il peso della colpa! Perché gli rimordeva la coscienza! E tutto viene sistemato ancora una volta a favore di chi accusa da chi, se non in malafede, dovrebbe essere in grado di entrare nel crimine anche per vie traverse e invece non vi entra e con le proprie certezze, spesso dettate da una procura che mette ordine a modo proprio e non per come dovrebbe, mostra di averne poca di coscienza. E il popolano segue l'onda, il cane pastore se preferite, perché è incapace, non per propria colpa, di entrare nelle pieghe di un crimine da strade diverse che non siano le solite e abituali, quelle da secoli seguite anche dai suoi avi, quelle che con l'avvento dell'informazione televisiva di massa troppi hanno sfruttato per influenzare la pubblica opinione a proprio vantaggio. E già, mi si dirà, ma non è la pubblica opinione a giudicare in tribunale... lì ci sono giudici capaci che non si fanno mica influenzare! E' vero che molti giudici sono superlativi e non si fanno influenzare, ma da troppo tempo assistiamo anche a processi indiziari senza capo né coda, processi costruiti su favole o su teorie fantasiose. Da tempo assistiamo a condanne che sembrano nascere non da una buona lettura delle carte ma dal senso di appartenenza di una categoria, quella della giustizia italiana, che non vuole vedere oltre il proprio naso e nonostante sia quasi ultima al mondo continua a chiudersi a riccio attorno alle tesi accusatorie senza lasciare spazio alle motivazioni e alle richieste difensive. Se la difesa reclama un diritto sancito dalla legge, la buona giustizia deve concederglielo e attendere prima di condannare. Forse che rifare una perizia con la presenza di tutte le parti in causa costa troppo? Qual è il problema? Se risulterà che l'accusa ha ragione e che tutto è stato fatto al meglio l'imputato si vedrà comunque confermato l'ergastolo e dovrà tacere per sempre. Che problema c'è ad eliminare i dubbi per avere la certezza di sentenziare in maniera certamente giusta? Insomma, fa strano che a Massimo Bossetti non si sia concessa una così stupida perizia sul DNA. E' a causa di quel DNA che è stato arrestato. Lui dice che non è suo e dovrebbe essere una questione di buonsenso accettare di rifare la perizia che lo inchioda. Se per sentenziare una condanna si preferisce soprassedere, significa che siamo di fronte a una giustizia dittatoriale che mai cercherà di approfondire e di entrare nelle possibili crepe peritali dell'accusa. Qual è la paura che ha attanagliato i giudici? Forse c'era il timore di incrinare un sistema autoreferenziale che sempre più spesso si mostra nella sua forma più spietata con chi si proclama innocente? Il verdetto di Brescia, che nulla ha concesso prima di confermare la condanna all'ergastolo per Bossetti, è un precedente molto pericoloso, è una spada di Damocle che pende sulla testa di tutti gli italiani e allo stesso tempo un avvertimento chiaro dato a chi non concorda coi metodi che vengono usati per accusare e condannare chi si professa innocente. Occhio ragazzi, perché se non l'avete capito vi diciamo noi chi è che comanda quando il processo è indiziario! Siamo al tramonto di un'altra era e sono certo che anche chi ora acclama e gioisce in stile calcistico per un verdetto di colpevolezza, prima o poi (se non toccherà a lui potrebbe toccare ai suoi figli) dovrà fare i conti con una situazione giustizia insostenibile perché priva di capo e di coda. I difensori avranno sempre meno peso e per gli imputati tutto sarà sempre più complicato al punto che i loro legali li consiglieranno di dichiararsi colpevoli così da sfruttare altre leggi e poter uscire in velocità dal carcere. Siamo messi davvero male perché non si possono decontestualizzare i vari problemi che angosciano uno Stato. Giustizia, politica, economia ecc..., sono parte di un sistema oramai al collasso. Da anni non c'è un governo votato dal popolo né ci sono politici capaci di guidare il paese verso zone tranquille. Il problema è che tutti comandano a modo loro quando non esiste l'Uomo chi si assume la responsabilità di comandare e di dare linee guida serie ai suoi subalterni. In questo caso non è la condanna di Massimo Bossetti a dimostrare che siamo un paese allo sbando... è il rifiutare la perizia sul DNA che dimostra quanto piccoli e senza forza giuridica siano quegli imputati già condannati al momento del loro arresto. Specialmente se è un arresto mediatico e se un ministro del governo, stravolgendo le regole e fregandosene del garantismo sancito dalla legge, lo sfrutta a fini propagandistici e per questo lo annuncia in pompa magna al popolo! Molto probabilmente tutto questo ha fregato Bossetti e domani fregherà altri che mai si aspetteranno di essere fregati. E fa specie e che ancora ci sia chi non l'ha capito... o finge di non capire...

Il DNA che inchioda: racconto criminale di un aspirante assassino..., scrive Gilberto Migliorini, venerdì 14 luglio 2017 su "Albatros Volando controvento". La mia storia di aspirante assassino - mancato - potrebbe aiutare la scienza forense e servire come involontario input informativo per gli utenti sulle sorprendenti e innovative tecniche di genetica molecolare applicate alla giustizia? Che le analisi biologiche abbiano il potere taumaturgico di identificare il colpevole è verità conclamata nella vulgata che più prosaicamente usa la locuzione della prova regina “il DNA che inchioda”, perifrasi che ricorda la gogna o perfino la croce. Avevo cominciato a dire in giro, ormai lo sapevano tutti, che avrei ammazzato quel bastardo dell’Evaristo che mi aveva truffato rifilandomi il classico bidone. Lo dicevo a tutti che non me ne fregava un tubo di finire all’ergastolo per il resto della mia vita… ma quel tipo non doveva in nessun modo farla franca. Una troupe televisiva con tanto di regista e sceneggiatore mi aveva contattato con tatto e discrezione, proponendomi a contratto – visto che avevo deciso di uccidere l’Evaristo – di farlo in una situazione perfettamente documentata, con tanto di microfoni e telecamere e soprattutto in un laboratorio medico attrezzato per il prelievo e l’analisi del Dna. Tutto sarebbe avvenuto in una situazione controllata, in un ambiente asettico e nel pieno controllo di tutte le variabili – dipendenti e indipendenti - proprio come in un vero esperimento scientifico dove ogni fattore è tenuto sotto controllo. Un omicidio in laboratorio per dirla in sintesi, con tutti i crismi della scientificità nell’analisi del delitto e nell’individuazione del colpevole. Mi era stato detto che sarebbe stato il primo delitto con tutti i crismi del metodo galileiano, un omicidio registrato e immortalato a futura memoria. Io ingenuo ci avevo creduto. Di questi tempi di raffinati procedimenti giudiziari, con tanto di screening di massa e di analisi genetiche sincroniche e diacroniche, fino all’epoca precolombiana, mi ero perfino visto, per quanto assassino, nelle vesti di benefattore dell’umanità nel promuovere i metodi quantitativi in ambito forense. Mi avevano spiegato che in tal modo il mio gesto insano sarebbe servito alla causa della scienza, mediante una disamina accurata di tutte le fasi di un delitto. Sarei diventato un testimonial del valore probatorio e della infallibilità dell’acido desossiribonucleico. Il copione era chiaro e scandito per scene: attratta la vittima nel laboratorio con l’inganno, avrei ammazzato l’Evaristo a pistolettate e dopo il delitto sarei scappato. Non l’avevo detto, ma con il denaro del contratto avevo intenzione di imbarcarmi per il sud America. Inutile dire che la location del delitto era piena di macchine da ripresa, microfoni e vari strumenti di registrazione: un vero esperimento con tutti i caratteri del metodo scientifico. Ma il vero focus di tutto il delitto erano i miei umori, i reperti biologici che avrei lasciato sulla scena del crimine e che sarebbero stati immediatamente prelevati e messi al sicuro in provetta, repertati, scannerizzati, analizzati e informatizzati… Insomma, una sorta di dimostrazione didattico-accademica che la metodica genetica funziona e consente in quattro e quattr’otto di individuare il responsabile di un delitto. Mi vedevo già come un novello Ulisse che varca le colonne d’Ercole delle convenzioni sociali…C’ero cascato come un allocco, mi avevano fatto credere che tutto si sarebbe svolto in incognito, che avrei potuto tranquillamente far fuori l’Evaristo con due colpi di pistola senza se e senza ma... La regia si era premurata addirittura di farmi avere la rivoltella per non dovermi scomodare ad acquistarla al mercato nero. Non ci crederete… ma era tutta una messinscena a mia insaputa: la pistola era a salve, una di quelle perfette imitazioni che si vendono per i bambini che giocano alla guerra, e la polizia era già appostata, pronta a saltarmi addosso e legarmi come un salame.... L’unica cosa vera era il laboratorio che avrebbe prelevato il Dna lasciato un po’ ovunque dall’aspirante assassino, dal sottoscritto appunto, che non si premurava di tenere a bada i propri umori...L’Evaristo, convocato con una scusa - lì dove doveva svolgersi tutto intero il delitto in ambiente controllato - era del tutto ignaro del film che la regia era in procinto di girare e che lo vedeva nel ruolo di vittima come da copione. Si trattava di un cold case virtuale, un tentato omicidio con una pistola da carnevale. Io, ingenuo, immaginavo che fosse tutto vero. Il fellone, spaventatissimo quando avevo estratto l’arma, era convinto che sarebbe morto davvero vedendo come impugnavo la pistola e come digrignavo i denti. Io ero certo che l’avrei ammazzato così d’emblée. Per poco l’imbroglione non moriva davvero per lo spavento, si era perfino pisciato addosso credendo d’essere già all’inferno quando aveva sentito i botti. Non era stato avvertito che si trattava solo di una fiction per tema che si tradisse, che l’agguato non uscisse a puntino e soprattutto che si rovinasse quello che doveva essere la dimostrazione scientifica che il Dna davvero funziona come infallibile elemento di prova. A processo me la sono cavata con poco, con le credenziali di essere pentito e di aver dato un apporto significativo all’uso dei metodi quantitativi in ambito penale. Soprattutto venivo accreditato di aver dato una dimostrazione inequivocabile, documentata secondo i più rigorosi protocolli sperimentali, che l’acido desossiribonucleico costituisce non solo un valido presidio ma una infallibile metodica nei più svariati ambiti giudiziari. Grazie a tale mio contributo ho goduto di un trattamento di riguardo, considerando che l’arma era un giocattolo e che all’Evaristo, a parte lo spavento, non era stato torto neppure un capello. Ho provvisoriamente perdonato quel nefasto truffatore per via della fama e gloria che mi ha poi consentito di partecipare, ben remunerato, a svariati format come testimonial e propagandista della prova regina...Il delitto (virtuale) è stato mandato in prima serata e spiegato in tutte le sue fasi. Per la prima volta nella storia del crimine, era tutto perfettamente documentato, integralmente definito, il primo vero esperimento di un delitto in laboratorio. Perfino con i rallenty si vedevano chiaramente i miei umori schizzare un po’ ovunque e i tecnici provvedere a tutti i rilievi del caso. Un documento eccezionale per valore scientifico e per la perfetta rispondenza al metodo sperimentale. Gli avevo sputato in faccia al fellone, e non avevo fatto neppure in tempo ad essere ammanettato e già uno stuolo di personaggi in camice bianco erano già lì sulla vittima con le loro pipette, tamponi e quant’altro a prelevare i campioni dal volto esterrefatto e incredulo dell’Evaristo. Tutto registrato, documentato, archiviato… un lavoro scientificamente ineccepibile che andava a dimostrare tutto l’iter della prova scientifica. Il mio DNA era come il Sacro Graal ma con dentro i miei umori. Nel format alla tv, l’esperto aveva commentato tutte le fasi del delitto con l’aplomb neutrale e imperturbabile di un professore universitario che spiega ai suoi studenti... Tutto quello registrato dalle telecamere e dai microfoni trovava puntuale riscontro nell’analisi genetica con tanto di alleli e mitocondri. Ero per davvero inchiodato al delitto anche per il fatto che la probabilità che altri avessero il mio stesso patrimonio genetico non ci stava neppure nell’intero universo. Inutile dire che il documento era una pietra miliare perché mai era stata data una dimostrazione così esaustiva che in un delitto (sia pure mancato) la prova regina esiste per davvero. Un successo il marketing genetico-forense con un assassino filmato in tutte le fasi del delitto, autoproclamato, reo confesso e perfino pentito? Un vero exploit soprattutto la prova regina del DNA? Macché! Qualcuno si è accorto dell’inghippo e per gli aficionados è stata una grossa delusione. Era stato fatto davvero tutto a puntino, un laboratorio multi mediale con tutto l’ambaradan di agitatori molecolari, enzimi, centrifughe, elettroforesi, jack, pipette e micropipette, spettrofotometri e termociclizzatori… Nell’entusiasmo e nell’enfasi della prova scientifica avevano però usato dei kit del DNA scaduti. Che stupidotti...Non sarà facile replicare le analisi, sembra che abbiano esaurito tutti i miei umori. Ho già dato la mia disponibilità a ripetere l’esperimento, ma questa volta giuro che l’Evaristo non la farà franca...

Perché il processo a Bossetti è indegno di un Paese civile. Confermato l’ergastolo anche in appello per l’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Eppure i dubbi rimangono: perché il caso del muratore di Brembate è il paradigma di quel che non funziona nella giustizia italiana (e nel circo mediatico che la circonda), scrive I Hate il 18 Luglio 2017 su “L’Inkiesta”. Credere nell’innocenza di Bossetti è sbagliato. Si crede nelle idee, nei valori o nella religione. Per quanto riguarda gli uomini e le loro azioni, l’unica cosa in cui credere è lo Stato di Diritto, basato sul concetto di “giusto processo”. É su questa conquista, del resto, che dovrebbe misurarsi la supposta superiorità della nostra Civiltà sulle altre. Sconcerta, quindi, che nel momento in cui il grosso dell’opinione pubblica approda su posizioni di chiusura verso chi viene da fuori e bussa per entrare, a quella stessa opinione pubblica importi poco che una persona, ieri, sia stata condannata al carcere a vita senza che le siano stati garantiti i fondamenti minimi del “giusto processo” sanciti dalla Costituzione. C’è stato il processo, e di questo parliamo con lo scrittore Gianluca Neri, al lavoro su un documentario sul processo Bossetti simile, nelle intenzioni, al celebre “Making a Murderer” di Netflix dedicato al caso di Steven Avery. «Quello che ha subito Bossetti - dice Neri - è incredibile. Lo è se fosse innocente, ma lo sarebbe anche se fosse colpevole». Partiamo dalla questione fondamentale, ovvero dal DNA. Perché non è stata autorizzata una nuova perizia? «Non me lo spiego - risponde Neri a Linkiesta -. Tecnicamente nei processi si analizza il DNA nucleare e non mitocondriale. Ma visto che è l’accusa ad aver analizzato il mitocondriale, è legittimo che la difesa chieda una perizia. C’è poi la questione dei “raw data” ottenuti durante il test, su cui la difesa ha riscontrato decine di incongruenze. E il fatto, centrale, che il DNA è rimasto esposto alle intemperie per settimane. Quello che proprio non capisco, tuttavia, è perché la parte civile, ovvero la famiglia, abbia tenuto un atteggiamento così ostile. La colpevolezza deve essere “oltre ogni ragionevole dubbio”: per farlo, una nuova perizia appare non importante ma necessaria». Soprattutto, aggiungiamo noi, se la questione del DNA si inserisce su un quadro processuale in cui ogni indizio invece che appianare i dubbi non fa che alimentarli. C’è, ad esempio, il celebre filmato del furgone bianco, identico a quello dell’imputato, che gira nei pressi della palestra dove Yara scomparve. Come si sa, il furgone non era di Bossetti: si trattava di furgoni diversi, e l’intero filmato era stato confezionato dai RIS ad uso della stampa su richiesta della Procura (si scoprì anche, di conseguenza, che i RIS dispongono di un reparto fiction di tutto rispetto): «Quando questo video fu diffuso dalla stampa - aggiunge Neri - nessuno disse che si trattava di un falso. Fu un consulente della difesa ad accorgersi che qualcosa in quelle immagini non andava. Ora: è normale che si debba ad un semplice investigatore privato la responsabilità di dimostrare che un filmato spacciato per vero sia stato “confezionato?”». Il caso del filmato “confezionato” dai RIS evidenzia una stortura storica del sistema giudiziario italiano, la gigantesca sproporzione di mezzi tra accusa e difesa. Appare chiaro come in una situazione simile il giusto processo rimanga una pia illusione, a meno che l’imputato non abbia la fortuna di essere molto ricco: eppure il tema ha smesso di interessare la politica già da alcuni decenni. C’è, ad esempio, il celebre filmato del furgone bianco, identico a quello dell’imputato, che gira nei pressi della palestra dove Yara scomparve. Come si sa, il furgone non era di Bossetti: si trattava di furgoni diversi, e l’intero filmato era stato confezionato dai RIS ad uso della stampa su richiesta della Procura (si scoprì anche, di conseguenza, che i RIS dispongono di un reparto fiction di tutto rispetto). Il colpo di scena del processo di appello, tuttavia, è stata la scoperta, da parte dello stesso Neri, di una foto satellitare dell’area in cui il corpo sarebbe stato rinvenuto in seguito. La scoperta sembrava clamorosa, perché la certezza granitica dell’accusa è che il corpo di Yara sia rimasto nel campo per 3 mesi: «La foto è stata criticata per la definizione, ma la definizione permette comunque di vedere piloni larghi 70 centimetri. L’area è quella, i cespugli ci sono, combaciano a uno a uno. Del corpo però nessuna traccia - spiega Neri - Segnalo che la parte civile aveva chiesto alla Procura se esistessero immagini satellitari, e si è sempre sentita rispondere no. Quando la foto è stata presentata dalla difesa, la Procura ha consegnato altre foto satellitari di cui era in possesso. E allora perché non le ha tirate fuori prima? Perché le ha tenute nascoste? Altre prove invece sono state tenute sotto chiave: alla difesa non è stato concesso di analizzare gli abiti di Yara. Altre riportate male: si ripete che il cellulare di Bossetti e quello di Yara hanno agganciato la stessa cella nello stesso momento. Bossetti aggancia quella cella un’ora prima e in direzione opposta, e tra l’altro si tratta dell’unica cella che copre la zona di Brembate dove i due abitavano». C’è stato il processo, dicevamo, con le sue “stranezze”, le perizie negate, le prove nascoste e non messe a disposizione. Nella difesa contro un sistema apparso più interessato a trovare “un” possibile colpevole che “il” colpevole oltre ogni dubbio, Bossetti condivide con Steven Avery una fortuna: quella di aver avuto i riflettori dei media puntati contro, che gli ha permesso di beneficiare dell’aiuto di professionisti che altrimenti non si sarebbe potuto permettere e che ora intendono continuare a dare battaglia. Fortuna che, come si sa, si rivela sempre un’arma a doppio taglio. Oltre al processo, infatti, c’è stato il circo mediatico, il teatrino grottesco attraverso cui, in filigrana, abbiamo rivisto quei vizi profondi e quelle brutture nazionali che a volte ci illudiamo facciano parte del passato e che invece, prima o poi, si ripresentano puntuali. Prima fra tutti, l’attrazione morbosa per l’elemento sessuale: «Nei processi di questo tipo - spiega Neri - spunta sempre l’accusa di pedopornografia. Quella è l’arma letale, perché da un’accusa come quella, davanti alla gente, non ti risollevi più. Non conta che l’accusa risulti falsa, come confermato durante il processo. Ancora oggi, sui giornali, si fa riferimento alla passione di Bossetti per “le ragazzine”, la gente lo chiama predatore, pedofilo». L’unica ricerca a sfondo pornografico (e non pedopornografico) che risulta è stata fatta da sua moglie; ma nell’Italia del 2017, il fatto che una donna possa accostarsi a un contenuto pornografico è ancora un’idea in grado di generare scandalo. In un’intervista a Marita Bossetti da parte di un popolare settimanale, il giornalista insinua il dubbio che la donna menta grazie al portentoso argomento che «ci sono cose che una donna non fa», straordinario esempio del ruolo che le donne, castigate angeli del focolare, dovrebbero occupare secondo buona parte del Paese. Immancabile anche la quotidiana rissa tra “colpevolisti” e “innocentisti”, mai intensa come questa volta, anche perché si trattava del primo processo mediatico vissuto interamente nell’era social. Mentre tra i guelfi colpevolisti si distinguevano rispettabili madri di famiglia, preda di un odio per Bossetti così viscerale da augurarsi un ritorno alla pena di morte, la fazione ghibellina e innocentista era ostaggio di complottisti capaci di strumentalizzare la vicenda Bossetti come prova dell’esistenza della massoneria e di altre mille congiure contro il genere umano. L’unica ricerca a sfondo pornografico (e non pedopornografico) che risulta è stata fatta da sua moglie; ma nell’Italia del 2017, il fatto che una donna possa accostarsi a un contenuto pornografico è ancora un’idea in grado di generare scandalo. In un’intervista a Marita Bossetti da parte di un popolare settimanale, il giornalista insinua il dubbio che la donna menta grazie al portentoso argomento che «ci sono cose che una donna non fa». La cultura del dubbio, che dovrebbe essere alla base del funzionamento della giustizia, mal si sposa con quella social, dove comandano le famose “legioni di imbecilli” attive a commentare in pausa pranzo tutto lo scibile umano. E del resto, la polarizzazione dell’opinione pubblica sui fatti di cronaca nera accade ovunque, non certo solo in Italia, basta vedere le pagine social dedicate a “Making a Murderer” e a Steven Avery. Ma certo solo in Italia il fenomeno presenta dimensioni così patologiche: da un lato, con giornalisti che si vantano di ricevere gli atti dei processi ancora prima dei giurati; dall’altro con una stampa che, nella corsa al like, funziona spesso nello stesso modo dei tabloid, in una discesa verso il basso le cui conseguenze sono devastanti: «Se per i click si è pronti a qualunque cosa - conclude Neri - è evidente che per un giornale diventa quasi impossibile non dico “difendere un imputato”, quanto riportare i fatti in modo preciso, depurandoli dalle leggende e dalle inesattezze. La separazione tra editoria alta e bassa viene a mancare, e anzi la linea finiscono per darla i tabloid, cosa impensabile in altri Paesi». L’Italia che la vicenda Bossetti restituisce, insomma, sembra una urva da stadio dove a nessuno importa più di “vedere per credere”; nessuno, cioè, si documenta su un fenomeno e poi si forma un’opinione. Tutti, al contrario, “credono per vedere” e ogni fatto viene interpretato sulla base di quello che la pancia ha già stabilito secondo criteri che nulla hanno a che vedere con la logica. Bossetti è un mostro e che muoia in galera; Bossetti è innocente, lo ha incastrato la massoneria che governa il Paese. Con tanti saluti allo stato di diritto, al giusto processo e alla nostra sbandierata “civiltà”.

Yara Gambirasio, tutti i dubbi sulla condanna di Massimo Bossetti, scrive Luca D'Auria, Avvocato e docente di Diritto, il 18 luglio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo anche dalla Corte di Appello. Una considerazione: quale regola seguire nei processi qualora non sia possibile il contraddittorio sulla prova? La difesa aveva chiesto una nuova perizia sul Dna che incastra il muratore. L’avvocato di Bossetti ha gridato a gran voce come quella prova genetica, ancorché presentasse una traccia di Dna nucleare chiara (e decisiva contro Bossetti) fosse “inquinata” dalla presenza di un Dna mitocondriale sconosciuto e che nulla ha a che fare con l’imputato. La difesa avrebbe voluto rifare il test per comprendere l’anomalia. Fino a qui tutto naturale. Sembra impossibile che una due Corti di Assise condannino senza che la difesa possa difendersi rispetto alla prova principale. Attenzione ad una circostanza: nessuno avrebbe mai potuto rifare quell’accertamento tecnico perché risulta non esservi più materiale biologico. Insomma, se i giudici e la giuria avessero accettato la richiesta di rinnovazione probatoria, il perito avrebbe dovuto dire di non poter svolgere alcun tipo di accertamento. Semmai avrebbe potuto dare un parere su quanto già svolto. Una nuova perizia non avrebbe potuto dire altro. Ai giudici sarebbe tornata indietro, comunque, una “perizia non perizia” in quanto, il tema principale sul quale la difesa ha richiesto l’accertamento non avrebbe più potuto essere oggetto di approfondimenti. Quindi la questione scientifica, nel caso di specie, è un falso problema. Il tema è tutto giuridico: se al momento del ritrovamento e dell’analisi di una traccia genetica non vi è ancora nessun indagato e, in seguito, non è più possibile rianalizzare il reperto, il processo deve “chinarsi” a una soluzione che neghi il suo principio di base e cioè il contraddittorio ed il confronto tra accusa e difesa, oppure deve decidere sulla base di quanto a disposizione? Una notazione: questa è una situazione che accade quasi sempre in quanto, al momento della repertazione e dell’analisi genetica non esistono ancora indagati e dunque non è possibile far partecipare il futuro imputato all’atto decisivo per il suo processo. In buona sostanza, sarebbe come avere ritualmente le dichiarazioni del testimone oculare dell’omicidio e scoprire, ogni volta, che costui è deceduto o scomparso, nell’impossibilità di essere contro-esaminato rispetto alla sua dichiarazione d’accusa. Anzi, peggio: infatti la testimonianza del teste oculare deceduto e scomparso potrebbe essere registrata, mentre le tracce genetiche spesse volte non sono visibili a occhio nudo e dunque, anche la loro presenza sul punto ove si asserisce che sarebbero state rinvenute, resta un atto di fede. La giurisprudenza tende a salvare la prova scientifica irripetibile e dunque avalla proprio quelle situazioni che hanno portato alla duplice condanna di Bossetti. Se anche la Corte avesse concesso una perizia, il problema non sarebbe stato risolto. Io ritengo che il caso di Massimo Bossetti dovrebbe convincere il legislatore che, qualora venga svolta un’indagine tecnica, data la sua decisività, se (come sempre accade) non vi è ancora un indagato, debba essere nominato un consulente d’ufficio, che garantisca la presenza di un contraddittorio in un momento così decisivo del processo. Non è tanto, anzi pochissimo. Ma almeno si avrebbe la possibilità di offrire alla futura difesa una voce, capace di fugare i dubbi più inquietanti. Basta pensare che, sia il caso di Bossetti che quello di Rosa e Olindo, vedono come prova principale una traccia genetica che, al momento della sua repertazione, era invisibile, di cui non si sa il materiale biologico di provenienza e su cui la difesa non ha potuto svolgere alcun accertamento difensivo. Bossetti, Rosa ed Olindo hanno l’ergastolo. La “Storia della colonna infame”, raccontata da Manzoni con riferimento agli untori del 1600, non è diversa. Ed il problema non è la scienza, la tecnica o l’unguento velenoso che gli untori avrebbero sparso per la città. Il problema è che la giustizia, per regolare il vivere sociale, trasforma gli strumenti a disposizione (coi loro limiti) in mantra capaci di offrire, sempre e comunque, la risposta risolutrice che assicura l’eretico alla Giustizia. Il filosofo Walter Benjamin in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” ho sostenuto che il mondo contemporaneo, essendosi dotato di strumenti capaci di moltiplicare all’infinito l’originale (stampa, cinema, televisione, oggi internet) ha distrutto la sacralità dell’originale, con la sua verità, per creare dei simulacri di verità, che, altro non sono, se non prodotti commerciali. Tutto diviene pop, tranne l’ergastolo.

Bossetti, errore fatale in aula. La "strategia" di non chiedere in tempo il test del Dna, scrive il 18 Luglio 2017 Cristiana Lodi su "Libero Quotidiano". Manca il terzo grado di giudizio. Ergo, la presunzione di innocenza come principio giuridico scolpito nella Costituzione, resta in piedi anche per il carpentiere. Fino a prova contraria. Ma perché, ci si chiede, non concedergli la perizia sul Dna? Perché negare all’imputato l’ultima verifica sulla cosiddetta prova regina, come egli ha supplicato in aula prima che la Corte si ritirasse per scrivere il verdetto? «Sarebbe stato l’unico modo per cancellare qualsiasi ombra», osserva lo stranito pensionato bergamasco in trasferta a Brescia per seguire il processo a Massimo Bossetti. «Troppo rischioso, diventerebbe impossibile tornare indietro» obietta un’avvocatessa fra il pubblico, «se a metà strada poi ci si accorgesse che la perizia, per chissà quale cavillo, non si può eseguire? Cosa si fa, non si condanna più?...». «Macché. Se un giudice è convinto non deve cambiare strada. I processi si allungano quando non ci sono elementi a sufficienza. E non si venga qui a dire che è la pressione mediatica a influire» ribatte il magistrato in borghese attraversando il corridoio del tribunale e pensando al collega che si è trovato nelle mani il destino dell’uomo sotto accusa. Le motivazioni della sentenza, una volta scritte e depositate, diranno perché si è deciso di condannare Massimo Bossetti al massimo della pena senza avergli concesso la reclamata perizia. I giudici di Cassazione e soltanto loro, infine, illustreranno una volta per tutte perché è l’assassino di Yara Gambirasio, se definitivamente lo sarà. Intanto questo codice genetico che in principio (e prima di essere attribuito all’imputato) si chiamava “Ignoto 1”, resta il fulcro di tutto. Il pilastro sul quale si reggono l’inchiesta, il processo, la condanna e la verità sulla fine della bambina rapita e uccisa a settecento metri dalla sua casa di Brembate di Sopra (Bergamo). È tutto scritto in quella macchia impressa sulle mutandine e i pantaloni di Yara. Viene rintracciata e isolata dal Ris il 15 giugno 2011. Ed è la sostanza destinata a diventare la prova per eccellenza, proprio per la posizione in cui si trova: gli slip rosa della bambina. Non il polsino del giubbotto indossato per andare a scuola, all’oratorio, in trasferta con la squadra di ginnastica ritmica e dovunque. Col bus, in treno o in metropolitana. Quella macchia che contiene il sangue di Yara mischiato a quello di “Ignoto 1”, è la firma di chi ha ucciso. La scienza e l’accusa, senza che la difesa chieda tempestivamente (e quindi ottenga) di ripetere il test, ritengono appartenga a Massimo Bossetti. E che sia lui dunque ad avere accoltellato Yara, per violentarla senza però riuscirci e lasciandola morire di freddo e dolore nel campo incolto di Chignolo d’Isola. Quella macchia sugli slip, ha detto il procuratore generale Marco Martani nel chiedere la conferma dell’ergastolo (e l’isolamento per sei mesi), «è un profilo genetico talmente unico che la probabilità di trovarne un altro uguale è di una su 330 milioni di miliardi di pianeti, ciascuno abitato da 7 miliardi di persone». Una conclusione che la difesa non smonta attraverso la ripetizione immediata del test del Dna. Così Massimo Bossetti viene collocato sulla scena del delitto. E la stessa conclusione diventa la prova di colpevolezza. Il resto: dal suo furgone che passa sotto la palestra di Yara la sera in cui viene rapita alle celle telefoniche, fino all’alibi non proprio di ferro, sono indizi. Mentre per condannare servono prove. E il Dna attribuito all’imputato, per l’accusa e la Corte d’Assise, una prova lo è. La difesa invece di chiedere subito di ripetere il test, cerca di smontare a proprio modo questa tesi. Prima insinua il dubbio che un falso Dna sia stato creato in laboratorio e accusa implicitamente forze di polizia e magistrati inquirenti. Poi contesta la presenza di un Dna mitocondriale (cioè senza il nucleo e perciò senza nome) sul corpo di Yara. Ancora: per dire che una traccia genetica non può resistere tre mesi alle intemperie (tanto è rimasta Yara nel campo prima che la trovassero) scomoda Peter Gill, luminare del Dna. Peccato, osserva l’accusa, che il super esperto (rispondendo a una mail) parli di Dna da “contatto”, mentre quello rimasto sulla bambina è da “versamento”. Perché non chiedere subito di rifare quel test? Serviva aspettare che lo implorasse l’imputato? A vuoto? Cristiana Lodi

Bossetti, inevitabile la conferma dell'ergastolo in appello. Scarso margine per la difesa: la sentenza della Corte d'assise era precisa, circostanziata. E non sono arrivate novità significative, scrive il 18 luglio 2017 Carmelo Abbate su Panorama. La sentenza di primo grado sull'omicidio di Yara Gambirasio ha retto, e non poteva essere altrimenti. Bastava leggere le motivazioni della Corte d’assise di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja affiancata dal giudice a latere Ilaria Senesi, per capire che rimaneva pochissimo margine a disposizione dei difensori di Massimo Bossetti. Era una sentenza quadrata, precisa, circostanziata, con tutti i punti e le virgole messe al posto giusto. A cominciare dal come e perché la prova del dna acquisiva una forza decisiva nel quadro probatorio a carico del muratore bergamasco accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio.

Non c'erano grandi novità. Non poteva essere altrimenti perché quelle che la difesa ha presentato in appello come grandi novità in grado di ribaltare il processo, in realtà semplicemente non lo erano. Si trattava in buona parte di presunti dubbi su fattori già affrontati e risolti in aula durante il dibattimento primo grado. Buoni certamente per suggestionare l’opinione pubblica, ma destinati a essere considerati come tali da un giudice d’appello che si rimette solo ed esclusivamente agli atti.

La fotografia satellitare. Per prima cosa è stata annunciata e accompagnata dalle fanfare la fotografia. Vale a dire: una fotografia satellitare in grado di ribaltare le risultanze scientifiche della dottoressa Cristina Cattaneo e dimostrare la teoria della difesa: ovvero che Yara non era stata per tutti i tre mesi nel campo di Chignolo e che addirittura fosse stata uccisa altrove. Ma non ci voleva certo una perizia scientifica per intuire che quella foto non avrebbe cambiato alcunché. È bastato che l’avvocato della famiglia Gambirasio, Andrea Pezzotta, si mettesse in macchina e andasse a fare due misurazioni manuali sul posto per dimostrare che quella foto non poteva dimostrare nulla.

Il Dna "degradato". Poi il Dna. Con la presa di posizione di un genetista di fama mondiale che avrebbe dimostrato come un Dna lasciato su un campo per tre mesi fosse destinato a degradarsi irreparabilmente. Ma anche qui, una volta lette le carte, si è capito subito che questa "non consulenza" avrebbe fatto poca strada. Il genetista faceva riferimento a uno studio condotto da tre studiosi in Australia non soltanto in condizioni climatiche completamente differenti, ma addirittura su materiali diversi. Nello studio australiano infatti si lavorava su corpi solidi rigidi, non su tessuto come nel caso delle mutandine di Yara. E pure su una traccia genetica trasmessa per contatto, sfregamento, non una penetrazione di liquido su tessuto. In buona sostanza lo studio australiano studiava in condizioni climatiche differenti la resistenza di una traccia lasciata da una mano sporca di materiale genetico che tocca una porta. Questo dicevano le carte. E i giudici leggono e si rimettono alle carte, non alle chiacchiere.

«Ergastolo a Bossetti? Negato il diritto alla difesa», scrive Valentina Stella il 19 luglio 2017 su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Claudio Salvagni dopo la sentenza d’appello: «Non si può avere questa fiducia incondizionata nella prova scientifica e togliere il contraddittorio alla difesa. Faremo ricorso in Cassazione». «Dubbio» è la parola più ricorrente pronunciata dall’avvocato Claudio Salvagni in questa intervista al nostro giornale, a poche ore dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Brescia che, dopo quindici ore di camera di consiglio, ha confermato l’ergastolo per Massimo Bossetti: è lui l’assassino di Yara Gambirasio. Davvero questo pronunciamento ha decretato la colpevolezza del muratore di Mapello oltre ogni ragionevole dubbio? Per i giudici, due togati e 6 popolari, la risposta è affermativa. Ma non tutti ne sono convinti: addirittura anche tra i colpevolisti c’è chi chiedeva la super perizia sulla prova del Dna, per dissipare ogni dubbio. Bossetti nelle sue dichiarazioni spontanee aveva detto: «Quel Dna non mi appartiene. Non sono io l’assassino», ritenendosi vittima del «più grande errore giudiziario di questo secolo», supplicando la Corte di concedergli una analisi super partes sul Dna. Ma così non è stato: dunque fine pena mai per Bossetti per l’omicidio della tredicenne di Brembate e assoluzione per la calunnia nei confronti dell’ex collega del muratore di Mapello, Massimo Maggioni. Alla lettura della sentenza Bossetti è rimasto impietrito, nell’aula silenziosa. La moglie Marita Comi ha scosso la testa e iniziato a piangere. La madre, Ester Arzuffi, ha abbracciato il figlio e anch’ella è scoppiata in lacrime.

Avvocato Salvagni si aspettava questa decisione?

«Onestamente no, credo che una decisione interlocutoria sarebbe stata la cosa più giusta e più logica da aspettarsi. Nei confronti della prova genetica del Dna Bossetti non ha mai potuto difendersi, perché non ha mai partecipato a nessuna consulenza. Tutte le analisi sul Dna sono state fatte prima del suo arresto. Ci si attendeva quindi che, essendo questa prova del Dna così importante da una parte e così dubbiosa per tanti versi dall’altra parte, fosse accolta positivamente la nostra richiesta della perizia».

La nuova perizia che avevate chiesto puntava a effettuare nuovi accertamenti sul Dna o a valutare l’operato del Ris solo sulle carte?

«Noi abbiamo chiesto ovviamente una perizia sul Dna, non sulle carte. Il fatto poi se ci siano o meno altri reperti è un altro problema. Sappiamo per certo che dei reperti ci sono, perché così ci ha detto il consulente dell’accusa, il professor Casari, in dibattimento: li avrebbe nel suo laboratorio. Se poi quelli migliori sono finiti e li hanno “consumati” per fare delle sperimentazioni non è un nostro problema. Siccome il materiale era tanto, buona regola avrebbe voluto che una parte fosse utilizzata per l’identificazione di Ignoto 1 e l’altra parte lasciata a disposizione per l’eventuale imputato. Una volta individuato il “noto” si sarebbe dovuti andare in contradditorio con la difesa e verificare se il risultato era affidabile e attendibile».

Lei ha lanciato una provocazione: se abbiamo il Dna, allora è inutile fare i processi.

«Non si può avere questa fiducia incondizionata nella prova scientifica. Questa non può essere l’unico elemento del quadro probatorio e soprattutto deve essere concessa alla difesa, essendo una prova così delicata, l’opportunità di contraddire, di poter interloquire su questo dato. Se l’imputato non può fare nulla, e viene negata la perizia del consulente del tribunale, tanto vale – ho detto in maniera provocatoria – non fare il processo, tanto non ci si può difendere».

Lei ha scritto, infatti, sul suo profilo facebook: «Ucciso il diritto di difesa».

«Certo, perché non si è consentito mai – sottolineo mai – all’imputato di potersi difendere dalla prova regina».

Può spiegare perciò quali sono le criticità della prova del Dna?

«Abbiamo dimostrato che è piena di dubbi: la mancanza del mitocondriale deve essere ancora spiegata; sono stati commessi errori come quello di usare dei kit scaduti per le analisi; abbiamo rilevato mancati controlli positivi e mancati controlli negativi sui test effettuati. Si fa in fretta a dire che quella del Dna è una prova granitica, ma un reperto è tale quando è trattato secondo i protocolli internazionali che riescono a definire la certezza della prova. Non si può condannare all’ergastolo con una foto sbiadita – volendo fare un paragone ma con una ad alta definizione».

In attesa delle motivazioni, si è però già fatto una idea del perché la Corte d’Assise d’Appello non ha concesso la super perizia?

«Al momento non saprei, sono curioso di leggere le motivazioni: un provvedimento che avesse ammesso la perizia sarebbe stato un provvedimento in linea con il nostro diritto. Ricordiamo che siamo in un sistema accusatorio, dove la prova si forma in dibattimento nel contradditorio delle parti. Poi però ti accorgi che le regole sono belle perché sono scritte, ma poi non si osservano».

Molti ritengono che in Italia non ci sia una effettiva terzietà dei giudici rispetto al pubblico ministero. E proprio per questo l’Unione delle Camere Penali insieme al Partito Radicale stanno raccogliendo le firme per la separazione delle carriere. È dunque possibile che i giudici togati abbiano avuto timore di sconfessare il lavoro milionario della Procura?

«La separazione delle carriere è un punto imprescindibile per garantire la terzietà del giudice. E credo che questo sia condiviso da tutti: è inquietante sapere che l’accusa e il giudice sono parenti stretti e vanno a braccetto. Noi abbiamo un sistema accusatorio dove solo teoricamente l’accusa e la difesa sono sullo stesso piano. Soffriamo il retaggio di un processo inquisitorio, dove era l’accusa a fare tutto e quello che faceva aveva una valenza quasi divinatoria. Anche oggi si dà al lavoro fatto dall’accusa un valore superiore: siccome lo ha fatto l’accusa è sicuramente fatto bene, è perfetto e incontrovertibile. Invece non è così. Se il consulente dell’accusa dice nero e quello della difesa dice bianco, come fa il giudice a stabilire chi ha ragione?»

Il genetista Portera, consulente della parte civile della famiglia Gambirasio, ha detto ai microfoni di “Quarto Grado” che non avete depositato una consulenza tecnica di parte. Come risponde?

«Questo è un falso problema e serve soltanto a confondere le idee e a mistificare la realtà. Il nostro consulente, il dottor Capra, si è sottoposto a circa 8 ore di esame e contro esame sotto giuramento: quelle 400 pagine di verbale di udienza cosa sono se non una consulenza? E poi ha depositato oltre 100 slide che rappresentano il suo pensiero. Mi sembra che la tesi della difesa sia stata supportata e argomentata in udienza».

Secondo lei perché è durata tanto la camera di consiglio? Per rileggere gli atti o perché i giudici erano divisi al loro interno?

«Credo che così tante ore siano servite per approfondire tanti temi sub iudice. Probabilmente c’è stata anche una spaccatura, visto che si stava per infliggere una pena altissima, un fine pena mai. È innegabile che questo processo sia costellato da dubbi. Noi avevamo chiesto la perizia proprio per togliere ogni dubbio, in un senso ma anche nell’altro. L’onestà intellettuale della difesa e dell’imputato stava proprio nel richiedere di fare luce. Questa perizia avrebbe consentito a tutti quanti di andare a dormire in maniera serena, perché la sentenza che ne sarebbe scaturita sarebbe stata inattaccabile».

Anche tra i colpevolisti, c’è stato chi la chiedeva.

«La perizia avrebbe dato un contributo al giudice per scrivere una sentenza molto meno aggredibile. Avrebbe tolto i dubbi o favorevolmente alla difesa o favorevolmente all’accusa».

L’avvocato Camporini e lei avete ovviamente annunciato il ricorso in Cassazione. Qualora la decisione dei supremi giudici fosse ancora sfavorevole per il vostro cliente, è ipotizzabile un ricorso alla Cedu?

«Ovviamente non ci fermeremo, perché riteniamo che quello che si è consumato in primo e secondo grado sia una palese violazione del diritto di difesa. Confidiamo prima nella Cassazione e se i supremi giudici non dovessero accogliere le nostre doglianze andremo a Strasburgo».

Bossetti, che nelle sue dichiarazioni aveva detto di avere fiducia nella giustizia, ora cosa pensa?

«Non ho potuto ancora parlare con lui perché sono stati momenti molto intensi e veloci quelli della lettura della sentenza. Lo vedrò domani (oggi, ndr) e mi confronterò con lui».

Secondo lei quanto ha pesato il processo mediatico?

«Tantissimo. Il processo mediatico è purtroppo una grandissima stortura: è evidente che se l’informazione non ha il carattere dell’oggettività diventa fuorviante, crea un pregiudizio anche tra i giudici popolari. E ritengo che nel caso specifico di danni l’informazione ne abbia fatti tanti».

Bossetti, lacrime e lettere in carcere: notte insonne dopo l’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Lo sfogo con gli altri detenuti che avevano seguito la sentenza in televisione: «Non mi hanno voluto credere, ma voglio andare avanti per dimostrare che sono innocente», scrive Giuliana Ubbiali il 18 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Gli occhi gonfi per il pianto, il viso segnato da due notti in bianco. Quella prima dell’udienza è stata tra le più lunghe, quella dopo la sentenza è stata tra le più dure delle 1.128 trascorse in carcere. Ieri mattina, Massimo Bossetti è riemerso provatissimo dalla decisione della Corte d’Assise d’Appello di Brescia che ha confermato la condanna all’ergastolo, per l’omicidio di Yara Gambirasio. «Non ho chiuso occhio, potrete comprendermi. Ma sono contento di potervi far capire che persona avete davanti». Lunedì, alle 8.40, il carpentiere di Mapello aveva iniziato così il suo ultimo appello ai giudici, invocandoli di ribaltare la sentenza o di concedergli la perizia sul Dna. Invece, dopo 15 ore di attesa, a mezzanotte e 32 minuti, ha sentito la frase che non avrebbe voluto ascoltare: «La Corte conferma la sentenza». Era convinto che gli avrebbero concesso una chance. Invece è tornato nel carcere di via Gleno distrutto. In aula no, ma dietro la porta della gabbia dei detenuti è scoppiato a piangere. Ha continuato per tutta la notte. Ha versato lacrime e ha scritto. Usa spesso carta e penna, per riempire i vuoti del tempo che trascorre lentissimo. Manda lettere ai familiari e risponde ai numerosi sconosciuti diventati gli amici innocentisti. Alcuni sono andati alle udienze. Bossetti li riconosce. Ha cercato il loro sguardo, li ha salutati con un cenno della testa come si fa tra uomini, ha contraccambiato i loro, di saluti, quando è stato il momento di rientrare in carcere. Lunedì no. Dopo la sentenza è stato tutto molto più veloce. Un abbraccio con la mamma Ester Arzuffi, con la sorella Laura Letizia, con la moglie Marita Comi. Poi via, sul furgoncino blu della polizia penitenziaria avvolto dal buio della notte ormai inoltrata, lungo l’autostrada A4, in direzione Bergamo. Nella casa circondariale di via Gleno, Bossetti è arrivato all’una e mezza. Ed è sprofondato nello sconforto. L’unica compagnia a quell’ora sono stati il siciliano che condivide con lui la cella e una penna con cui raccontarsi. Lacrime e rabbia. Ma la notte insonne gli ha dato la carica. Al mattino era determinato ad andare avanti. Se fino a lunedì a mezzanotte e mezza sperava nell’Appello, ora conta i giorni che lo separano dalla Cassazione. «Non mi hanno voluto ascoltare, quando ho detto che non sono io l’assassino», è lo sfogo di ieri. «Ma voglio andare avanti per dimostrare che sono innocente». Claudio Salvagni, suo difensore con Paolo Camporini, andrà a trovarlo oggi. Ieri, nel turno delle visite del mattino, non si è visto nessun parente. In carcere sapevano che la sentenza sarebbe stata una batosta per Bossetti e si è deciso di non lasciarlo solo. Al mattino sono passati un volontario, lo psicologo, il medico, il cappellano. Ha parlato a lungo con tutti. Sfoghi, proclami di innocenza, speranze di poter dimostrare quello che per otto giudici, come per altrettanti in primo grado, non è vero. Cioè che non è l’assassino di Yara. Prima della Cassazione passerà almeno un anno. Altri giorni tutti uguali, nella sezione protetta in cui viene isolato chi è accusato di reati contro donne o bambini. Isolato, ma non è l’isolamento. I 13 detenuti che alloggiano in questa ala non possono avere contatti con il resto del carcere. Come per gli altri le porte delle celle rimangono aperte, lo vuole l’Europa per garantire condizioni di vita accettabili. Una scaletta conduce al cortile, a un livello più basso. Un fazzoletto di aria dove il carpentiere ha fatto quattro passi anche ieri. Ci va spesso. Prende il sole, si vede dalla sua abbronzatura che di udienza in udienza è diventato sempre più intensa. Non c’è molto da fare, dietro le sbarre. Bossetti ha ingannato il tempo sistemando il pavimento di qualche cella. È un detenuto modello, non crea problemi. Gioca a carte, legge riviste e guarda la tivù. Lunedì notte l’hanno guardata i suoi compagni di sezione, in diretta da Brescia per sapere come sarebbe finito il processo. È finito male per lui. Se ne sono accorti dalla sua faccia. Ma ha assicurato che non perderà la testa. Pensa ai suoi figli, soprattutto, al ragazzo di 16 anni e alle bambine più piccole. L’ha detto alla Corte: «Voglio che pensino: “Papà è una persona onesta e merita la nostra stima”».

Caso Yara, ore di disperazione per Bossetti: "Stanco di soffrire e far soffrire". Il legale: "E' devastato, porteremo il suo caso agli occhi del mondo", scrive Gabriele Moroni il 20 luglio 2017 su “Il Giorno”. Una lettera scritta il giorno dopo la sentenza d’appello, che gli ha confermato la condanna al carcere a vita per l’omicidio di Yara Gambirasio. Massimo Bossetti scrive, come sempre, su un foglio protocollo, con le parole che più gli stanno a cuore evidenziate in maiuscolo. Racconta l’ansia in attesa del verdetto, quelle interminabili quindici ore. Si sente vittima di una ingiustizia perché gli è stata negata la possibilità di difendersi. Si definisce “profondamente deluso, sconfortato, distrutto”, “stanco di soffrire e far soffrire”, al punto da pensare di essere ormai un peso per tutti. Ma non si arrenderà. Mai. Vive per la famiglia e per dimostrare la sua innocenza. Scrive Massimo Bossetti: “Dopo aver gridato con coraggio, con tutte le mie forze a testa alta, di fronte ad una Suprema Corte, nella speranza che stavolta potessi realmente, finalmente essere creduto nella mia verità di sempre, aspettando con ansia, in trepida attesa, il verdetto di giudizio, camminando, non più di cinque passi davanti e cinque passi indietro, per ben quindici interminabili ore, in una cella nei sotterranei del tribunale, nuovamente mi viene riconfermata la condanna di primo grado, in ergastolo. Che dirvi, dopo tutto quello che ingiustamente continuo dover subire, neppur più ora tengo la forza di scrivere. Sto perdendo il piacere, che più di tutto desidero, nel stare accanto a mia moglie, ma soprattutto ai miei amori figli, cuccioli di vita nel vederli crescere. Sono profondamente deluso, sconfortato, distrutto dal dolore, stanco nel farmi capire e non essere per niente capito né ascoltato. Soffro, vedere attraverso gli occhi di mia moglie, i miei figli, mia mamma, mia sorella, troppa sofferenza ingiusta. Sono stanco di soffrire e far soffrire, nel capire di essere ormai un peso per tutti quanti. Mi chiedo ora che valori abbia ancor la mia vita, se non mi viene concessa nessun possibilità nel difendermi. Vorrei poter credere ancora nella ‘giustizia’, ma dopo tutto quello che sto vivendo, nella maniera più disumana possibile, ho grandi seri dubbi nel ripensarlo ... Non demordo e per niente desisto, primo perché orami la mia innocenza è diventata una ragione di vita e secondo, vivo per l’amore della mia famiglia. Pertanto, non smetterò MAI nel gridare in oltranza la più assoluta sincera verità di sempre: LA MIA INNOCENZA!!!”. Ha affidato la lettera al difensore Claudio Salvagni. «Lo seguo - dice il legale all’uscita dal carcere di Bergamo - dai primi giorni dopo l’arresto. Non l’ho mai visto così disperato. Per la condanna, certo, ma soprattutto per la percezione di non avere potuto difendersi. È un uomo devastato, finito, un morto vivente, che s’interroga disperatamente sul perché la sua supplica di una perizia sul Dna non è stata accolta. Si chiede come potrà spiegare ai figli che il padre è stato condannato per la seconda volta. E ogni volta si abbandona a un pianto disperato. Io stesso esco con il cuore spezzato. Spero che le persone che hanno decretato la condanna possano capire e soffrirne per tutta la vita. È una cosa indegna di quella che dovrebbe essere la patria del diritto». «La nostra battaglia - assicura il legale – andrà avanti. Con il collega Camporini prepareremo il ricorso in Cassazione. Non solo. Porteremo il caso Bossetti nel mondo. Il mondo deve indignarsi. Stiamo pensando a un convegno di respiro internazionale, con genetisti del livello di Gill, di Butler. Questo non è solo un processo: è una battaglia di giustizia». In carcere Bossetti è guardato a vista. «Non temo - dice Salvagni - gesti inconsulti. Se fosse stato da solo, sì. Ma ha la moglie, i figli, la mamma, la sorella, tanti amici che credono in lui». Nel pomeriggio Bossetti ha ricevuto la visita della moglie Marita e dei tre figli. 

Bossetti, condannato all'ergastolo per un atto di fede. Per questo la giuria si è spaccata. Giusta o sbagliata questa seconda condanna si regge su di un atto di fede: su un esame, cioè, che è stato compiuto solo nei laboratori dei Ris, in fase investigativa, che è stato compiuto in condizioni di non garanzia, che non è stato filmato, che secondo l'accusa non è addirittura più ripetibile perché il campione è stato esaurito durante le indagini, scrive Luca Telese il 18 luglio 2017 su "Notizie Tiscali". Come si spiega la contraddizione tra l'apparente verdetto-fotocopia tra il primo e il secondo grado del processo Yara, e l'incredibile spaccatura nella giuria, con quindici lunghe ore di camera di consiglio prima di arrivare alla sentenza? Che significato ha una discussione così prolungata per partorire una sentenza che, apparentemente, è identica alla prima?  Semplice. Perché i dubbi emersi nel processo di primo grado sono stati ancora di più ingigantiti dal processo di secondo grado. E perché la richiesta forte della difesa, e dell'imputato - quella elementare di poter ripetere il test del DNA sul testo del campione conservato - avrebbe messo in crisi l'impianto accusatorio di tutto il processo.

Giusta o sbagliata, infatti, questa condanna si regge su di un atto di fede: su un esame, cioè, che è stato compiuto solo nei laboratori dei Ris, in fase investigativa, che è stato compiuto in condizioni di non garanzia, che non è stato filmato, che secondo l'accusa non è addirittura più ripetibile perché il campione è stato esaurito durante le indagini. Anche questo è un bel paradosso: tra il primo e il secondo grado, infatti, malgrado la durezza delle due condanne all'ergastolo, si sono via via sgretolate tutte le prove indiziarie che servivano da sostegno all'accusa. È saltata la ricostruzione dei tempi ipotizzati dagli inquirenti. È diventata quasi incredibile la mancanza di un movente che l'accusa non ha mai definito. Sono entrate in crisi le ipotesi investigative sui furgoni e sulle microsfere che i Ris sostenevano di aver ritrovato sui sedili. Non era stata mai trovata una sola prova della relazione e della conoscenza tra Yara e il muratore di Mapello. Ed ecco perché di fronte a questo quadro di contorno incerto e fumoso la divisione tra i giudici, popolari e togati, riguardava la richiesta numero uno messa in campo dai legali di Bossetti: la superperizia sul Dna. "Concedetemi la superperizia - aveva chiesto Bossetti nella sua ultima autodifesa- così posso dimostrare con certezza la mia estraneità ai fatti. Non posso essere condannato con un Dna anomalo, strampalato, dubbioso". E qui iniziano tutti i problemi dell'accusa: i due campioni riconoscibili del cosiddetto Ignoto Uno - come ormai è noto - appartengono a due frammenti della mutandina di Yara: il famoso g20, quello su cui si trovava la percentuale più alta (in proporzione) di Dna, e un altro campione ritrovato sull'elastico. Ripetere la perizia su tutto il reperto - questo era il timore dell'accusa - avrebbe potuto dare un esito negativo: visto che questi due frammenti erano andati esauriti per i tanti test condotti dagli inquirenti, il rischio era che non si trovasse più alcuna traccia di ignoto numero uno. Nei giorni dell'arringa, la difesa aveva avuto buon gioco a dimostrare, con delle slides dedicate campione per campione, con meticolosa precisione, tutte le anomalie nella raccolta delle tracce. In alcuni casi l'analisi era avvenuta con kit scaduti, in altri dopo la presenza di fattori contaminanti, in altri ancora con   Intensità e quantità di fluido non abbastanza intensa. Il genetista della difesa, Marzio Capra, non ha avuto difficoltà a dimostrare tutte queste approssimazioni, carte alla mano, risalendo ai ferogrammi, cioè ai tracciati originali degli esami. Ma non c'è stato nulla da fare. Mettere in discussione il DNA avrebbe significato togliere anche l'ultimo tassello di una costruzione accusatoria traballante e approssimata. Il processo era iniziato con l'accusa impegnata a sostenere che i tabulati provavano in maniera certa la presenza di Bossetti a Brembate (e il dibattimento ha dimostrato che data quella cella poteva il muratore poteva essere anche a casa sua), l'accusa diceva che il furgone era indubitabilmente quello di Bossetti (e la difesa ha dimostrato che non era vero), il Pm ha cercato in ogni modo di sostenere che non c'erano dubbi sul DNA, ma dalla stessa perizia dell'accusa è risultato che il DNA mitocondriale di Ignoro numero non corrisponde a quello di Bossetti. Nel secondo grado avevano preso corpo tutti i dubbi già prodotti dalla perizia sul cadavere, sul luogo di conservazione del corpo. La testimonianza meticolosa e sicura del papà di una compagna di Yara - il signor Francese, l'ultimo che ha visto la ragazza viva - aveva spostato almeno alle 18.42 l'orario di uscita della ragazza dalla palestra. E in questo incontro Yara era ancora dentro i locali del centro sportivo di Brembate. Ma questa datazione accorciava tutti i tempi immaginato dall'accusa. Bossetti avrebbe dovuto prelevare Yara (che secondo gli inquirenti non ha opposto resistenza) correre fino a Chignolo, martirizzarla, trascinarla in mezzo al campo, abbandonarla li agonizzante, e poi tornare indietro a tempo di record. Perché? Non precisare il movente per l'accusa è l'unico modo per non esporsi su un tema cruciale su cui non aveva trovato nessun riscontro: Yara e Bossetti si conoscevano? Bossetti aveva un movente sessuale? Esisteva una relazione tra i due? 

L'unica cosa certa emersa dal dibattimento è che la ragazza aveva mangiato a casa, il giorno della scomparsa, non aveva cominciato con nessuno, non aveva mandato messaggi o sms (lo dicono le stesse perizie dell'accusa), non aveva comunicato sui social network. A parte Madre e sorella - dunque - non solo Bossetti, ma nessun altro, sapeva che la ragazza sarebbe andata in palestra a portare il suo stereo per le prove di un saggio di danza. Ma allora perché un quarantenne come Bossetti, la cui vita è stata passata ai raggi X, senza nessun precedente di reati sessuali, che conduceva una vita apparentemente regolare e noiosa, che non risponde a nessun profilo criminale conosciuto, avrebbe dovuto rapire la ragazza? Non indicare un movente e una dinamica di delitto ha permesso di non rispondere a questa domanda che avrebbe dovuto rappresentare il punto di partenza e non un dettaglio del processo. Ecco perché, arrivati all'ultimo nodo del DNA i giurati evidentemente sono stati presi dal dubbio. Tra i giudici - otto, due togati e sei popolari - erano molte le domande senza risposta. La superperizia, dunque. Necessaria per la difesa, inutile per il procuratore generale Marco Martani (accusa) è diventata il terreno di scontro su cui sono precipitati tutti i dubbi sulle indagini che - come è noto - erano iniziate con l'arresto di un muratore Mohammed Fikri, che poi è stato prosciolto è considerato estraneo ai fatti.  La vicenda di Bossetti, però, non riguarda Bossetti. Riguarda i diritti di tutti noi: è la prima indagine in cui ci si fonda quasi esclusivamente sul DNA, la prima in cui si nega alla difesa persino l'accesso ai reperti. Pone un problema di diritti e di garanzie, perché in ogni caso è destinata a fare scuola: ecco perché - vedi Perugia - bisogna attendere la Cassazione per capire se sulla sentenza di ergastolo verrà davvero scritta la parola fine. 

Sulla condanna a Bossetti: "Ecco tutto quello che non quadra", scrive Vittorio Feltri il 20 Luglio 2017 su "Libero Quotidiano". Condannare un poverocristo è l'esercizio più facile del mondo, tanto è vero che le galere, in particolare quelle italiane, sono piene di gente con le pezze al culo. Massimo Bossetti si è beccato addirittura l'ergastolo in appello dopo esserselo beccato in primo grado, perché non è stato capace, per mancanza di mezzi, di opporsi ai panzer dell'accusa. La quale ha speso una vagonata di milioni allo scopo di smascherare colui che ha ucciso Yara nella pianura bergamasca, e si è fissata sul carpentiere avendone isolato il Dna, cui ha attribuito il valore di un dogma divino. Con questo ragionamento bigotto: se sulle mutandine della ragazzina è stata rintracciata una particella del muratore, significa che questi è l'assassino. La cieca fiducia dimostrata dai giudici nella scienza è lodevole. Deplorevole invece la fiducia altrettanto cieca che essi continuano ad avere in chi maneggia strumenti scientifici.

Nel caso specifico, al prelievo del Dna e agli esami hanno contribuito i cosiddetti Ris, che non sono altro che carabinieri, brave persone, integerrime, utili, disponibili ma che con le provette e gli alambicchi dei laboratori non c' entrano un tubo. Difatti se un giovane spicca nella ricerca non si arruola nell' arma, ma rimane in Università. Come si fa allora a considerare i Ris infallibili, la bocca della verità alla quale attingere elementi illuminanti circa la soluzione di un giallo? Di certo è importante disporre di ufficiali attrezzati in campo scientifico, ma è una follia pensare che il DNA da loro raccolto sia elevato a prova regina atta a sbattere un imputato nelle patrie galere per tutta la vita. Il quale imputato ha il diritto di chiedere la ripetizione degli accertamenti tecnici onde verificare non siano stati commessi degli errori. Gli esperti invece sostengono, col parere positivo della corte, che le vecchie e uniche analisi sono inconfutabili, per cui è superfluo ripeterle.

È una assurdità. Se un esame non è replicabile è un indizio vago, non una prova. Chi rischia l'ergastolo sulla base di una congettura merita di essere rispettato nelle sue richieste di conferma. Ma l'appello, per motivi misteriosi, ha respinto l'istanza del disgraziatissimo Bossetti. Se l'avesse accettata avrebbe fugato il dubbio che la vexata quaestio del DNA sia una bufala, un clamoroso granchio. Come si giustifica l'ostinazione delle toghe a negare al carpentiere il sacrosanto desiderio di difendersi con qualsiasi documento? Non riusciamo a capirlo. Personalmente ho avuto una esperienza significativa. Alcuni anni orsono feci gli esami del sangue, roba routinaria, e con mia grande sorpresa vidi che i risultati erano sballati, quelli di un candidato a morte improvvisa. Li ripetei immediatamente e ne attesi l'esito con grande apprensione. Erano perfetti, certificavano uno stato di salute invidiabile. Eppure in entrambe le circostanze mi ero rivolto a specialisti di primo livello. Il problema è uno solo. In ogni categoria abbondano sia gli ottimi che i pessimi professionisti. Succede tra i geometri e gli ingegneri, tra i medici e gli infermieri, tra i giornalisti poi il numero dei cretini è esorbitante, pertanto supponiamo che vi siano dei pirla anche nelle caste dei magistrati e degli scienziati. Mia nonna affermava che l'ora del coglione piglia tutti. Perché dovrebbe risparmiare toghe e camici bianchi, inclusi quelli che coprono la divisa dei fedeli nei secoli? Ecco perché noi semplici cronisti siamo indignati che lo sfigato artigiano edile sia stato murato vivo senza avere la possibilità di difendersi appieno. Non è umano, non è civile, anche se conviene. Difatti se l'esame bis del DNA si rivelasse impossibile, Bossetti dovrebbe essere assolto per assenza di prove. E ciò getterebbe nel più tetro sconforto investigatori e inquirenti, privati del capro espiatorio da immolare sull' altare della giustizia sommaria, i cui costi milionari gravano sul groppone dei cittadini.

Per stabilire l'innocenza del povero Massimo non c' è per altro bisogno di genetisti. È sufficiente aver letto i giornali. Secondo le carte, il rude Bossetti si sarebbe presentato davanti alla palestra con gli abiti da lavoro, imbrattati di calcinacci, e avrebbe ammaliato Yara non soltanto col suo fascino da carpentiere, ma anche esibendo un mezzo di trasporto irresistibile: un camioncino carico di cazzuole e arnesi simili. La ragazza, attratta dal suddetto carpentiere e dalla sua vettura tipica dei conquistatori, avrebbe accettato il corteggiamento dello stesso Bossetti, e sarebbe salita sul potente furgone, illusa di vivere un momento di felicità. Non si sarebbe neppure ribellata, nonostante la propria ritrosia. Forse conosceva già il seduttore? Neanche per sogno. Sui cellulari non vi è una sola telefonata tra i due. Ad onta di ciò, Massimo avvia il motore e compie chilometri e chilometri con la preda seduta accanto a lui, mite e senza accennare alla fuga. Come egli ha fatto a tener buona e calma la bambina e al tempo stesso a guidare? Da notare che lungo il percorso esistono vari semafori. Yara non ha tentato di scendere per darsela a gambe.

Cari lettori, vi sembra probabile? Pur di screditare il muratore si è detto che costui era incline a raccontare balle, a visionare siti porno, ad abbronzarsi con la lampada, come se questi squallidi dettagli abbiano qualche attinenza col delitto. Questa è la sostanza di un processo che suscita repulsione. I figli di Bossetti sono stati massacrati. Essi agli occhi del popolo hanno un padre omicida, una mamma leggerotta, una nonna zoccola e un nonno cornuto. Bella storia edificante che esalta la civiltà giuridica del nostro Paese. In conclusione. Si infligge l'ergastolo a una persona colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio? Ma se la corte è rimasta in camera di consiglio per 15 ore si vede che qualche dubbio c'era. Toccherà alla Cassazione cancellare questa indecenza. Vittorio Feltri

"Quanti dubbi sull'ergastolo a Massimo Bossetti. Mi spiegate perché in tre anni non si è fatto un alibi?", scrive il 19 Luglio 2017 Barbara Palombelli su "Libero Quotidiano". La condanna in appello all'ergastolo di Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio divide l'Italia tra innocentisti e colpevolisti. E, in una qualche misura, tra i primi si schiera anche Barbara Palombelli. Interpellata da Il Tempo, infatti, afferma: "Ho molti dubbi. Li ho sempre avuti sin dall'inizio. Se hai ucciso una ragazzina di cui si parla per tre anni e quando ti arrestano non sai che dire, forse non sei l'assassino. Qualsiasi assassino si prepara un alibi o una versione dei fatti più o meno convincente, Bossetti sarebbe il primo nella storia d'Italia a non averlo fatto". E ancora, aggiunge: "Credo che in questa storia ci siano ancora tante cose da scoprire. Sono tante le cose che non tornano". Per esempio, "c'è stata troppa fretta nel far rientrare in patria tutti gli addetti del cantiere di Mapello, all'epoca": la Palombelli si riferisce alla maestranze che nei giorni della scomparsa della ragazza lavoravano alla costruzione del centro commerciale a lungo al centro delle indagini. Dunque, la Palomba torna sulla prima pista investigativa, quella che condusse a Mohammed Fikri: "Il marocchino è stato prima accusato e poi scagionato e forse anche quello è stato un errore grosso". Insomma, le indagini avrebbero potuto prendere strade differenti: "Si è indagato solo su questa ossessione della goccia di sangue e non in tutte le direzioni", conclude, piena di dubbi.

Ezio Denti sul processo a Bossetti: “Mentre parlava giurati con smartphone”, scrive il 20 luglio 2017 TAG24. Ezio Denti sul processo a Bossetti non usa affatto parole felici. La conferma della condanna dell’ergastolo, d’altronde, non è bel capitolo della storia per il suo lavoro. Lo spiega bene uno dei consulenti del pool difensivo di Massimo Bossetti durante il suo intervento ai microfoni “Legge o Giustizia” condotto da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus. Ecco cos’ha detto Denti in diretta sull’emittente dell’università Niccolò Cusano. Ezio Denti sul processo a Bossetti commenta la conferma dell’ergastolo e lo fa senza nascondersi ma anche sottolineando un comportante alquanto dubbio. Di che si tratta? Lo potete leggere da soli nelle dichiarazioni clou della sua intervista su Radio Cusano Campus.

Sull’esito: “Dopo 15 ore inizi a sperare che qualcosa di diverso potesse accadere. Abbiamo avuto l’ennesima bufala con la conferma della sentenza di primo grado. Siamo rimasti allibiti. Viene meno qualsiasi diritto alla persona. Quando Bossetti ha rilasciato dichiarazioni spontanee, è stato bloccato più volte perché troppo prolisso. I giurati, intanto, giocavano col telefono mentre Bossetti parlava e non credo prendessero appunti. La sentenza sembrava già segnata”.

Sull’assenza della nuova perizia sul DNA: “Era quello che chiedevamo. È stata una battaglia che ti dimostra che ci stiamo battendo contro le istituzioni. Questo processo deve essere d’aiuto ai giuristi per far capire quali sono le falle della giustizia. Stiamo mettendo in discussione la grande istituzione dei RIS ed è difficile vincere. Stiamo battagliando contro lo Stato e non vinceremo mai. Alfano condannò immediatamente Bossetti”.

Sull’attesa con la moglie Marita Comi: “Dato che si dilatavano i tempi Marita si era un po’ rilassata. Ho avuto la forza di dirle “non farci la bocca”. Io l’ho preparata al peggio. Mi ha chiesto spesso “come la vedi?” ed io che sarebbe stata confermata la condanna. Anche io, ad un certo punto, ero speranzoso. La conferma per noi è stata una grande coltellata”.

Sul fatto che Salvagni dica che la Cassazione darà ragione alla difesa: “Sono convinto anche io. Ho sempre detto che il momento decisivo sarà in Cassazione anche se bisognerà aspettare almeno un anno durante il quale un uomo innocente continuerà a stare in cella”.

Un retroscena: “La superperizia sul DNA avrebbe tolto un peso anche alla famiglia di Bossetti. Marita non ha nessun dubbio nei confronti del marito ma questa perizia servirebbe a tutti per guardare avanti. Io sono convinto che non è stato Bossetti. Quando andai da lui in carcere valutai il suo comportamento dicendogli di dire la verità perché avevo una sua foto con Yara, cosa non vera ovviamente. Anche di fronte a questo lui mi disse di essere innocente”. 

Bossetti, lo strazio della madre. Dopo il verdetto, il crollo totale. Occhio, il suo siluro sui giudici, scrive il 18 Luglio 2017 Libero Quotidiano". Alla lettura della sentenza che l'ha condannato anche in Appello all'ergastolo, Massimo Bossetti è scoppiato in lacrime, un pianto disperato dopo un'attesa estenuante di 15 ore. Una scena terribile alla quale ancora una volta ha dovuto assistere sua madre, Ester Arzuffi: "Ho provato un grandissimo dolore a vedere mio figlio piangere" ha confessato all'Ansa attraverso il legale Benedetto Maria Bonomo. Dopo quel verdetto, anche le due donne di Bossetti, sua madre e sua moglie Marita Comi, non hanno potuto trattenere le lacrime. Per la famiglia del muratore di Mapello la sentenza di Appello è un altro schiaffo in faccia, una palese ingiustizia: "Perché non vogliono rifare quel Dna? - si è chiesta ancora una volta la signora Arzuffi - potrebbe far superare molti dubbi.

Caso Yara, cosa può accadere a Bossetti in Cassazione. Esauriti i giudizi di merito si possono aprire le questioni di legittimità per tentare l'apertura di un processo bis. Ecco quali sono, scrive il 19 luglio 2017 Panorama. Dopo la conferma in appello della condanna all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, a Massimo Bossetti non è rimasto che sperare nella Corte di Cassazione (terzo grado di giudizio). Esauriti i giudizi di merito (che non possono essere rivisitati) i difensori del muratore di Mapello potranno proporre davanti alla Suprema Corte solo questioni di legittimità, tentando di cancellare la sentenza di secondo grado e di aprire un processo bis. Per lui sono tre le opzioni che gli avvocati difensori potranno tentare, in base anche a quale saranno le motivazioni della sentenza espressa.

Illogicità nella ricostruzione dei fatti - È un caso che si presenta quando la sentenza viene motivata con evidenti illogicità nella ricostruzione dei fatti fino alla colpevolezza del condannato.

Nullità o inutizzabilità dei dati - Se i difensori avessero eccepito nullità o inutilizzabilità di singoli atti - al centro del processo c'è sempre stato l'accertamento del profilo genetico di Bossetti dopo il ritrovamento del suo dna sulle mutandine della piccola Yara - potrebbero farne oggetto ricorso per "inosservanza delle norme processuali".

Mancata prova decisiva - Nel caso del processo Gambirasio questo caso potrebbe essere rappresentato dalla mancata assunzione di una prova decisiva a favore di Bossetti. La difesa aveva infatti da tempo richiesto di poter effettuare una nuova perizia sul Dna ritrovato sulla vittima e attribuito a Bossetti. 

È stato del resto questo il tema su cui più si è dibattuto anche in camera di consiglio per oltre 15 ore prima della sentenza di appello: la possibilità di fare una perizia per confrontare la traccia biologica trovata sui leggings e sugli slip di Yara Gambirasio con quella di Massimo Bossetti a cui si era risaliti analizzando il dna. Resta dunque il nodo più controverso che in secondo grado ha visto prevalere la linea colpevolista ma che la Cassazione potrebbe riaprire.

L'ultimo orrore sulla piccola Yara: Bruzzone-bomba: "Bestie, ma che cosa le avete fatto...", scrive il 18 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. "La figlia di tutti? Io un mostro così non lo vorrei manco morta". L'ultimo orrore su Yara Gambirasio si trova su Facebook. Decine di commenti senza pietà sulla tredicenne uccisa e a favore di Massimo Bossetti, condannato anche in appello all'ergastolo per il suo assassinio. A denunciare i terribili commenti è la psicologa e criminologa Roberta Bruzzone che li ha fotografati per poi pubblicarli sul suo profilo. "…credo che questa “Barbara Biondi”…meriti tutta la nostra attenzione. Una che scrive tali bestialità contro una bambina assassinata e contro la sua famiglia non può certo passare inosservata..." scrive la Bruzzone. E in effetti i commenti della donna su Yara sono diversi e davvero agghiaccianti. "Una bambina brutta come Uga Fantozzi - scrive - voi non sapete nemmeno che razza di bastardo è il padre...impelagato con la camorra nel bergamasco. L’hanno incastrato alla grande Bossetti il tonto ma la pagheranno tutti prima o poi!" La donna non ha fatto marcia indietro nemmeno di fronte ai commenti di altri utenti che le hanno risposto indignati, ma anzi, ha continuato ad ironizzare sull'aspetto fisico e sull'apparecchio ai denti della povera Yara.

Quelli che difendono Bossetti e piangono la morte della giustizia. Oggi molti fan di "Massy" si strappano le vesti dicendo che la giustizia è morta. Al grido di "Je suis Bossetti" ci spiegano che il processo è tutta una messinscena per incastrare il povero muratore di Mapello, che è innocente, scrive Giovanni Drago martedì 18 luglio 2017 su "Nextquotidiano.it". La Corte d’assise d’appello di Brescia ha confermato l’ergastolo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Per i giudici è lui l’assassino della tredicenne di Brembate di Sopra uccisa sette anni fa e il cui cadavere fu ritrovato in un campo a Chignolo d’Isola tre mesi dopo la scomparsa. La difesa di Bossetti ha commentato la sentenza parlando di un “clamoroso errore giudiziario” e molto probabilmente farà ricorso in Cassazione. Ma non è di quello che è successo all’interno delle aule dei tribunali e dei laboratori di cui ci occupiamo oggi. È del tifo da stadio degli innocentisti, coloro che dopo aver letto tutto il leggibile e visto tutte le trasmissioni di approfondimento si sono persuasi che Massimo Bossetti sia innocente.

L’Internet che assolve Bossetti e se la prende con i giudici corrotti. Che alcuni processi, in particolare quelli relativi a casi di cronaca nera, vengano spettacolarizzati non è una novità. E il caso di Yara Gambirasio non fa eccezione. In questi sette anni gli spettatori hanno potuto leggere le lettere che Bossetti scriveva ad una sua ammiratrice e scoprire dettagli e particolari intimi irrilevanti ai fini processuali. Durante le centinaia di ore di trasmissione ha tenuto banco soprattutto la prova del DNA, fino alle recenti rivelazioni della madre di Bossetti di essere stata inseminata artificialmente. Tutti sono improvvisamente diventati esperti di DNA nucleare e DNA mitocondriale. Anche se praticamente nessuno è mai entrato in un laboratorio di analisi. Addirittura due anni fa un blogger è riuscito ad ottenere le foto del cadavere di Yara e le ha pubblicate sul suo sito. “Bossetti Libero”, “Giustizia e verità: no all’accanimento mediatico contro Massimo Bossetti”, “Bossetti errore giudiziario?” fino a “Je suis Bossetti”. Questi sono solo alcuni dei nomi di pagine e gruppi dedicati ad analizzare, ma soprattutto a dimostrare, l’innocenza di Massimo Giuseppe Bossetti. C’è chi è preoccupato della “deriva orwelliana” della giustizia e spiega che «oggi 18 luglio 2017, con la condanna in appello di Massimo Bossetti, sta per esalare l’ultimo respiro la Costituzione, il Diritto, la Giustizia».

Le argomentazioni degli innocentisti. Al coro si aggiungono coloro che sostengono che il caso Bossetti ha dimostrato che la legge non è uguale per tutti e che la giustizia non viene più amministrata nel nome del popolo italiano. Per i tifosi di Bossetti in questo processo ci sono due vittime: Yara Gambirasio e Massimo Bossetti. Ma la preoccupazione è soprattutto per il muratore di Mapello. Ogni prova, ogni indizio viene sviscerato e analizzato. Vengono riportati aneddoti irrilevanti per “dimostrare” che Bossetti è stato incastrato, che è una vittima sacrificale: il perfetto capro espiatorio per un delitto che rimane quindi senza colpevoli. Il popolo chiede la scarcerazione immediata di Bossetti: il processo è falso, indiziario, un teatro tipico della giustizia italiana. Ci sarebbe, a detta dei più. un vero e proprio complotto ai danni di Bossetti. E la sentenza della Corte d’Appello non poteva che essere di colpevolezza. Perché “non potevano sputtanarsi tornando sui propri passi” dal momento che “era già tutto scritto dall’inizio”. Una delle fan di Bossetti addirittura ha spedito un telegramma di solidarietà a “Massy”. La giustizia avrebbe trionfato solo se fosse stata concessa un’ulteriore perizia sul DNA e avesse assolto “Massy”. Così non è stato quindi la giustizia è morta.

Il documentario di Macchianera. Ad alimentare i dubbi e le speranze degli innocentisti c’è anche Gianluca Neri, meglio noto come Macchianera. Il blogger-investigatore ha trovato una foto satellitare del campo di Chignolo d’Isola. Il detective sostiene di aver dimostrato grazie alle foto satellitari che il corpo di Yara non c’era. Una tesi sposata anche dalla difesa di Bossetti che però evidentemente non ha convinto i giudici. Gianluca Neri – che ha chiesto anche la ripetizione della perizia sul DNA – sta girando un documentario dal titolo “Unknow One – Ignoto 1” proprio sulla vicenda giudiziaria di Bossetti e sul caso Gambirasio. Ma lui stesso ha precisato che il documentario non avrà un taglio innocentista né colpevolista. In Aula il Pg ha detto che le foto satellitari “non provano nulla”. Il procuratore generale, Marco Martani, durante la sua requisitoria ha detto che “La tipicizzazione del dna, prima attribuita a Ignoto 1 e poi a Bossetti, è stata fatta correttamente e processualmente utilizzabile. La probabilità scientifica che diventa assoluta certezza”. Il Pg, inoltre, ha spiegato che “raramente nella mia carriera ho visto risultati di ottimizzazione statista così rassicuranti”. Infine il Pg ha spiegato che il “dna nucleare identifica in maniera certa un certo individuo e solo quello”, e ha aggiunto che è “grottesco pensare, come ha fatto la difesa, che il dna ritrovato sugli slip di Yara sia stato costruito ad hoc per incastrare qualcuno”.

LA VITTIMA È DONNA. Il caso di Yara Gambirasio non è l'unico che ha avuto una forte attenzione mediatica negli ultimi anni. Ce ne sono stati molti, alcuni dei quali risolti grazie all'uso dell'analisi del Dna, scrive "Lettera donna" il 18 luglio 2017. Tra i casi di cronaca nera, il delitto di Yara Gambirasio è stato uno dei più seguiti negli ultimi anni. I motivi sono tanti: la giovane età della vittima, la difficoltà di individuare l’assassino e il ritrovamento del corpo. Insomma, si è trattato di un procedimento molto complesso che non è ancora finito. La prima parte si è conclusa il primo luglio 2016 con la condanna in primo grado per Massimo Giuseppe Bossetti, riconosciuto come unico colpevole. La sentenza di secondo grado, invece, è in attesa per la sera del 17 luglio 2017. Ma il caso di Yara non è l’unico: ce ne sono altri simili, dove una giovane donna è vittima di omicidio.

IL DELITTO DI AVETRANA. La sentenza definitiva più recente è quella del Delitto di Avetrana, città in provincia di Taranto, dove il 26 agosto del 2010 è stata uccisa Sarah Scazzi. Inizialmente, la ragazza era stata data per scomparsa ma, dopo il ritrovamento del suo cellulare, le indagini hanno preso una direzione diversa. Il primo personaggio a emergere è lo zio Michele Misseri che il 6 ottobre dello stesso anno confessò l’omicidio della nipote, dopo un lungo interrogatorio con le forze dell’ordine. Ma non finisce qui: indicò anche il luogo dove era seppellito il cadavere: il cimitero comunale. Una versione che non convinse gli inquirenti, anche perché venne ritrattata più volte. Il secondo personaggio del caso è la cugina Sabrina Misseri, arrestata poco tempo dopo per concorso in omicidio. Secondo l’inchiesta, il motivo era la presunta gelosia per un ragazzo che entrambe avevano conosciuto nel 2009: Ivano Russo. In seguito ad un’altra confessione dello zio, la cugina fu accusata di omicidio. Ma c’entra anche un’altra persona, sempre della famiglia: la zia Cosima Serrano, madre di Sabrina e moglie di Michele. Il 26 maggio 2011 fu arrestata per concorso in omicidio e sequestro di persona dopo l’analisi dei tabulati telefonici. Le varie versioni furono cambiate più volte, poi, il 10 gennaio 2012, è iniziato il processo. La sentenza di primo grado ha condannato Sabrina e Cosima all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi e Michele a 8 anni per concorso in soppressione di cadavere. Le stesse pene sono state confermate in appello, così come in Cassazione.

IL CASO PAROLISI. C’è solo un protagonista nel delitto di Melania Rea, ragazza di 29 anni, uccisa con 35 coltellate sul Colle San Marco di Ascoli Piceno il 18 aprile 2011. È il marito Salvatore Parolisi, militare, che fu condannato all’ergastolo in primo grado, a 30 anni in secondo e in terzo grado. Secondo quanto è emerso dalle indagini, avrebbe ucciso la moglie a causa di una relazione con un’altra donna: la soldatessa Ludovica Perrone.

L’OMICIDIO DI MEREDITH KERCHER. Una dinamica completamente diversa nel caso di Meredith Kercher, studentessa inglese uccisa a Perugia il primo novembre del 2007, durante l’Erasmus. La ragazza fu trovata con la gola tagliata nella propria camera da letto nella casa che condivideva con altri studenti. Anche qua ci sono tre protagonisti: Raffaele Sollecito, Amanda Knoxe Rudy Guede. Il processo è stato molto lungo e complesso e ha avuto non soltanto l’attenzione dei media italiani ma anche di quelli anglosassoni. Alla fine, la Cassazione assolse Sollecito e Knox per non aver commesso il fatto, vista la mancanza di prove certe e i numerosi errori nelle indagini. L’unico colpevole fu Guede, cittadino ivoriano, condannato a 16 anni di reclusione.

IL DELITTO DELL’OLGIATA. Molto simile al caso di Yara c’è il Delitto dell’Olgiata. Entrambi sono stati definiti ‘a pista fredda’ e in entrambi si è fatto uso delle analisi scientifiche per individuare il Dna dei sospettati. La vittima fu la contessa Alberica Filo della Torre, 42 anni, uccisa il 10 luglio del 1991. Ci sono voluti 21 anni per sapere il nome del presunto colpevole: Manuel Winston, cameriere filippino, ex-dipendente della famiglia. Il suo Dna è stato trovato sul Rolex che indossava la nobildonna il giorno del delitto e sul lenzuolo che avvolgeva il cadavere della signora.

IL CASO CLAPS. Un caso simile ai precedenti è stato quello di Erica Claps, scomparsa a Potenza il 12 settembre del 1993 ma il suo cadavere è stato ritrovato soltanto nel 2010, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità della città. Dopo 17 anni senza una risposta, grazie all’analisi del Dna si è trovato il colpevole: Danilo Restivo, condannato a 30 anni in via definitiva.

Delitto Yara, la famiglia del ginecologo querela la mamma di Bossetti. Le figlie e la vedova: «Inseminata a sua insaputa? Siamo indignate, offesa la memoria», scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera" il 4 agosto 2017. La congettura è così strampalata che nessuno si è azzardato a portarla al processo d’appello a Massimo Bossetti che il 17 giugno ha confermato la condanna all’ergastolo, per l’omicidio di Yara Gambirasio. Ester Arzuffi, mamma dell’imputato, prima che la vicenda tornasse nel giusto perimetro dell’aula di tribunale, l’aveva detta in tivù. Più volte, in più trasmissioni. Il suo ginecologo — diceva — doveva aver fatto qualcosa. Un trattamento, sua insaputa, perché ancora oggi nega di aver avuto un incontro con l’autista di Gorno che secondo la genetica è il padre di suo figlio.

Il nome spuntato in tv. Il nome del medico è spuntato il 23 giugno, nella trasmissione Quarto Grado, citato come il ginecologo che la seguiva. Secondo la vedova e le due figlie del dottore, scomparso nel 2004, si è lasciato intendere che fosse l’autore del trattamento. Hanno querelato, perché «turbate e indignate per l’offesa alla memoria» del loro caro. La denuncia, redatta per loro dall’avvocato Roberto Bruni, è stata depositata nei giorni scorsi. È nei confronti di Ester Arzuffi, ritenuta la fonte, e del giornalista Giangavino Sulas (cercato al telefono, non è stato rintracciato). La tesi viene definita «stravagante» e la notizia «smaccatamente falsa». Non solo l’inseminazione artificiale non esisteva nel 1970, quando Massimo Bossetti e la gemella Laura Letizia sono stati concepiti. Il medico chiamato in causa non aveva ancora uno studio privato, lavorava in ospedale, e non si era ancora specializzato in ostetricia e ginecologia. «C’è poco da spiegare, il ginecologo qualcosa ha fatto — aveva detto la signora in televisione —. Non mi sono mai accompagnata con Guerinoni. Qualcosa è successo durante le visite». Parole che, una volta fatto pubblicamente il nome, la vedova del medico e le figlie, di 45 e 46 anni, hanno ritenuto «gravemente lesive della reputazione» perché suonano come accuse di «gravissime violazioni dei doveri deontologici».

«Mai fatto il nome del ginecologo». «Non ne sappiamo nulla, attenderemo l’esito — commenta l’avvocato Benedetto Maria Bonomo —. Intanto posso dire che la signora Arzuffi non ha mai fatto il nome del ginecologo, reso invece da un consulente che è stato immediatamente revocato». Mamma Ester ha sempre negato quello che la genetica certifica. Che, cioè, i suoi gemelli sono figli di Guerinoni e non del marito defunto. Anche il suo «Massi» glielo aveva detto: «Mamma, la scienza non mente». Il 50% del Dna di Ignoto 1, e del figlio, è suo, il 50% è di Guerinoni. Il filo rosso delle indagini è passato dall’autista per arrivare a loro. Nel 2011, dopo che il corpo di Yara era stato trovato nel campo di Chignolo, c’era solo Ignoto 1, il presunto assassino che aveva lasciato il suo Dna sugli slip e sui leggings della vittima. Prima di dargli un nome si sono susseguiti i colpi di scena. Il ragazzo della discoteca di fronte al campo di Chignolo con un Dna simile a quello del killer, tutta la sua famiglia mappata, un cugino con una sola differenza da Ignoto 1, il Dna di suo padre (Guerinoni) ricostruito da alcuni francobolli e dalla marca da bollo della patente, fino ad arrivare alla esumazione. Poi l’odissea della ricerca di questo figlio che doveva essere illegittimo, perché i Dna dei figli naturali non facevano il match con Ignoto 1. Le investigazioni nelle valli per scovare la madre, che da ipotesi investigativa doveva aver vissuto nella zona di Guerinoni ed essersi trasferita nell’Isola, zona del delitto. L’errore nel confronto dei Dna mitocondriali, due anni dopo un nuovo confronto attraverso il Dna nucleare. E l’esito: Ester Arzuffi è la madre di Ignoto 1, suo figlio Massimo. La difesa lo contesta sostenendo errori a monte, in Ignoto 1. Resta la Cassazione, il prossimo anno.

Papa Francesco e l’abbraccio ai genitori di Yara, scrive Giovedì 21 settembre 2017 Emanuele Roncalli su "L'Eco di Bergamo". Una tiepida giornata di settembre una coppia entra a Casa Santa Marta in Vaticano. Senza clamore, lontani da sguardi indiscreti, i coniugi salgono all’appartamento n. 201 del secondo piano. Li attende Papa Francesco. Loro sono Fulvio Gambirasio e Maura Panarese, i genitori di Yara. Un incontro commovente e pieno di emozioni, quello con Papa Bergoglio, in un clima sereno. E in un ambiente semplice, ma al tempo stesso familiare, come appare il modesto appartamento del Pontefice, arredato con un paio di poltrone e un divano, una scrivania, una libreria a vetri, un tappeto a disegni persiani e luci al neon. Un colloquio programmato probabilmente da tempo, ma sempre mantenuto riservato, mai annunciato o divulgato. Una discrezione, un silenzio che ha sempre accompagnato la quotidianità dei Gambirasio. Nulla è trapelato dell’incontro, né di quanto Papa Francesco ha voluto dire alla coppia. Di certo non sarà mancato il caloroso abbraccio del pontefice: un gesto che lo stesso Papa Francesco riserva spesso alle coppie al termine delle udienze del mercoledì, quando finita la catechesi avviene l’incontro ravvicinato con i fedeli sul sagrato di Piazza San Pietro. Fulvio Gambirasio e Maura Panarese, come sempre, non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione. Ma di certo non servono parole per spiegare quale possa essere stato il loro stato d’animo. Come generalmente accade per le udienze private, il congedo avviene con una benedizione del pontefice esteso a tutta la famiglia. Il Santo Padre consegna poi un rosario o una medaglia commemorativa del pontificato, infine è il momento di poche fotografie di rito, da conservare gelosamente nell’album dei ricordi più cari.

"Yara vive nel sorriso dei giovani. La giustizia? Non ce la restituirà". Bergamo, il papà e la mamma al torneo dedicato alla bimba uccisa, scrive Gabriele Moroni l'11 settembre 2017 su “Il Giorno”.  Virtus Bergamo batte Juventus 5 a 1. Villa d’Almé-Inter 0-0. Albinoleffe-Fiorentina 2-2. Piccolo miracolo in terra bergamasca. Ma tutto è possibile, nel rettangolo verde, fradicio di pioggia, nel centro sportivo di Valbrembo. Accade al Torneo di calcio per sedici squadre della categoria pulcini, promosso dall’associazione “La passione di Yara”, organizzato dall’Accademia calcio Valbrembo e dal Gruppo sportivo Paladina. È felice l’omone con gli occhiali, maglietta dell’associazione, pantaloni corti, l’aria buona, il sorriso della persona riservata che sa quando, con chi, aprirsi al sorriso e all’amicizia: Fulvio Gambirasio, il padre di Yara.

L’associazione è una delle vostre ragioni di vita.

«È qualcosa che ci fa stare bene. La nostra non è una missione. Sono credente. È la Provvidenza che sta lavorando in questo senso. Ci aiuta. Altrimenti, non riesco a immaginare come avremmo trascorso questi ultimi tre anni». È l’unico, velato accenno a uno spartiacque nella tragedia della figlia tredicenne, l’arresto di Massimo Bossetti, nel giugno del 2014, i due processi, l’ergastolo inflitto e ribadito all’uomo di Mapello.

Cosa vi proponete?

«In questo momento il messaggio che vogliamo mandare, ai nostri figli per primi, e a tutti i ragazzi, è quello che la vita va avanti. E lo stesso fanno i genitori che collaborano con noi. Collaboriamo anche con il Sinodo dei Giovani. Collaboriamo per portare avanti il livello di cultura dei giovani e vedere cosa riusciranno a fare in futuro. La legge è la legge. Segue il suo percorso. Noi seguiamo il nostro».

Ha seguito le ultime vicende giudiziarie?

«No. Cosa mi cambia? Mi ridà mia figlia? No. E allora?». “La passione di Yara” vuole aiutare a realizzare le passioni sportive, culturali, artistiche di ragazzi di Bergamo e di tutta Italia, ostacolati da difficoltà, per prime quelle economiche. «Abbiano fatto un grande lavoro di comunicazione. Quando sappiamo di una certa situazione, ci presentiamo, con leggerezza. Diciamo, semplicemente: ‘Siamo qui’. Facciamo due chiacchiere con il ragazzo. Senza i genitori perché non ci deve essere condizionamento. Cerchiamo di cogliere il livello di passione. Così, abbiamo scoperto un mondo».

Come definisce la vostra attività?

«Guardiamo al discorso sociale. Non siamo talent scout. Aiutiamo il ragazzo a realizzarsi, però vogliamo vedere anche il rendimento scolastico. Gli diciamo: ‘Vedi, non ci sembra corretto darti una mano a diventare un grande calciatore. Invece, vogliamo vederti crescere come persona”. Finora abbiano scartato, molto a malincuore, un solo progetto. A fine ottobre verranno formalizzate le borse di studio, otto da 500 euro, alcune di due, altre di tre anni per dare continuità. L’altro progetto è il bando per quattro borse di studio per due anni, fino a 8mila euro, per allievi del Conservatorio di Bergamo». Il diluvio non turba la festa. Fulvio torna nel pomeriggio con Maura. La madre di Yara non è rimasta imprigionata nella tragedia. Quella è tutta riposta nel cuore. Discreta e schiva. Fortissima. «In questi bambini - dice Maura Panarese - c’è un sorriso che ci ritorna. Abbiamo delle soddisfazioni. Come l’incontro con un ragazzo che abbiamo aiutato per uno stage di danza a Trento. Una storia alla Billy Elliot. In più, aveva avuto problemi per il bullismo. Ci ha ringraziato. Siamo sulla strada giusta. È la nostra strada. Per noi, l’unica».

16 OTTOBRE 2017. LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA.

«Bossetti un vigliacco, suo il Dna. A processo ha sfidato gli inquirenti». La Corte: la traccia potrebbe essere sangue, sotto il tappetino dell’Iveco c’era emoglobina, scrive Giuliana Ubbiali il 17 ottobre 2017 su “Il Corriere della Sera”. Una domanda e una risposta. In una pagina, la Corte d’assise d’appello riassume le 376 di motivazioni con cui spiega perché ha confermato la condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti, per l’omicidio di Yara Gambirasio. La domanda: «A chi appartiene il profilo genetico che per 71 volte ha fornito l’impronta genetica di una stessa persona, chi è Bossetti, di chi è figlio, dove abita, che località frequenta, che mezzo di locomozione usa, che lavoro svolge, dove era il pomeriggio e la sera del fatto?». La risposta: «Bossetti non abita a Genova o Pordenone, ma è nato a Clusone nel 1970, lavora in un cantiere edile, è sicuramente figlio di Ester Arzuffi e di Giuseppe Benedetto Guerinoni, frequenta per sua stessa ammissione Brembate Sopra, svolge l’attività di muratore – carpentiere (sulla vittima c’era calce ndr), si muove nei giorni lavorativi solo con un autocarro Fiat Daily, non ricorda e non sa dire dove fosse il pomeriggio e la sera del fatto, conosce la zona di Chignolo d’Isola». Il presidente Enrico Fischetti scrive il ragionamento tanto semplice quanto efficace dopo 296 pagine di dettagli scientifici, su mitocondri e alleli, Dna nucleare e Dna mitocondriale. Il profilo genetico trovato sugli slip e sui leggings resta infatti il caposaldo della decisione della Corte, è «la firma dell’omicidio della povera Yara». Potrebbe essere sangue, una eventualità «compatibile con il rinvenimento di emoglobina sul tappetino, lato conducente, del furgone di Bossetti». Sull’identità tra il Dna di Ignoto 1 di Massimo Bossetti è stata raggiunta la «certezza del dato» perché «oltre ad essere stati utilizzati kit diversi, pozzetti diversi, personale diverso, diluizioni diverse, sequenziatore diverso, è stato utilizzato per le analisi addirittura un laboratorio diverso. In definitiva, su 104 tracciati, in ben 71 è stata riscontrata la presenza del Dna e, quindi, del profilo genetico di un individuo di sesso maschile che poi la dottoressa Gino (consulente dell’imputato ndr) ha riconosciuto essere corrispondente al profilo genetico appartenente a Bossetti Massimo Giuseppe». Viene stroncata la principale argomentazione degli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che hanno contestato le procedure di analisi. Per dare loro ragione bisognerebbe «dimostrare» due cose: «Che durante una delle fasi che contraddistinguono le analisi genetiche via siano state contaminazioni tali da condurre, casualmente o accidentalmente, a realizzare un Dna identico a quello di Bossetti» oppure che «le contaminazioni siano avvenute dolosamente». Ma questo contrasta con le risultanze «incontrovertibili», come il fatto che il Dna di Bossetti non fosse già nei laboratori del Ris «onde consentire di ricopiarlo». A fronte di queste certezze «è agevole rilevare che in questo processo la richiesta di perizia genetica sia manifestamente infondata». Sarebbe stata solo sulle carte, comunque: «Quello che è certo è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni» tanto che «una eventuale perizia, invocata a gran voce dalla difesa e dallo stesso imputato, sarebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato del Ris». Bossetti non merita sconti, per «l’inaudita gravità del fatto, la notevole intensità del dolo, la deprecabile motivazione». Il movente è sessuale, «avances respinte». Un fatto grave, il delitto, «posto in essere vigliaccamente nei confronti di una ragazzina indifesa lasciata morire in preda a spasmi e inaudite sofferenze». Lui «ha continuato a vivere con assoluta indifferenza» e «ha continuato ostinatamente a negare assumendo la posizione di chi sfida l’inquirente a provare la sua colpevolezza».

Ergastolo a Bossetti, le motivazioni dei giudici: "Nessun dubbio, suo il dna su Yara". I giudici mettono la parola fine: "La prova dna è irripetibile". Poi sull'omicidio: "Yara fu aggredita per motivi spregevoli", scrive Rachele Nenzi, Lunedì 16/10/2017, su "Il Giornale". "Il dna sui leggins e sugli slip di Yara Gambirasio era di Massimo Bossetti". Per i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Brescia non può essere svolta, come chiesto dalla difesa, una nuova perizia sul materiale genetico rinvenuto sui vestiti della 13enne trovata morta il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d'Isola (Bergamo). "Quello che è certo è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni", si legge nelle motivazioni, depositate oggi, della sentenza con cui è stato condannato all'ergastolo il manovale di Mapello il 17 luglio scorso.

Il movente dell'omicidio. Secondo i giudici di Brescia, il movente dell'omicidio "può essere circoscritto nell'area delle avances sessuali respinte, della conseguente reazione dell'aggressore a tale rifiuto, unita al sicuro timore dello stesso di essere riconosciuto per aver commesso nei confronti della ragazza qualcosa di grave". La finalità del delitto "dai contorni sessuali" è dimostrata dal fatto che l'imputato "si stava aggirando" a bordo del suo furgone "nelle vicinanze della palestra" frequentata da Yara "in attesa di qualcuno". Ma anche dalla scoperta nel pc di Bossetti di "un interesse insistente e perdurante per adolescenti in età prepuberale" viste le foto ritrovate e dalla circostanza che il delitto avvenne in un periodo in cui il muratore di Mapello aveva litigato con la moglie. "L'istruttoria ha evidenziato - si legge nel documento depositato oggi - che Yara e Bossetti non si erano mai conosciuti né frequentati". Dal momento che "il cadavere è stato rinvenuto" su un campo, in cui "per tre mesi nessuno si è addentrato e dove Yara è stata portata ancora viva immediatamente la sera della sua sparizione dal suo aggressore", la collocazione della traccia di dna costituisce la prova del fatto che, nel ferire Yara, Bossetti "lasciato la propria traccia genetica sugli slip e sui leggins". Questo dna, "in quanto non presente prima che fossero inferte le ferite, per la sua collocazione dimostra inequivocabilmente che sia stato deposto dall'autore del crimine al momento del ferimento".

Il dna sui leggins e sugli slip. Nelle motivazioni della sentenza i giudici hanno ribadito, "ancora una volta e con chiarezza", che una eventuale perizia, invocata a gran voce dalla difesa e dallo stesso imputato, "non consentirebbe nuove amplificazioni e tipizzazioni, ma sarebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull'operato dei Ris". Pertanto, "la famosa perizia genetica sarebbe necessariamente limitata a una mera verifica documentale circa la correttezza dell'operato del Ris e dei consulenti dell'accusa, pubblica e privata". I legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, avevano chiesto nuovi accertamenti sul dna sostenendo che le analisi sarebbero state svolte nei laboratori del Ris di Parma con kit scaduti e i campioni sarebbero stati contaminati. La richiesta di una nuova perizia si era già scontrata con il "no" della Cassazione. Questo non aveva fermato i due avvocati che avevano riproposto la richiesta anche davanti alla Corte d'Assise d'Appello, sottolineando l'assenza "del tutto innaturale"del dna mitocondriale nel campione prelevato dal corpo di Yara. Per i giudici, inoltre, "la doglianza della difesa circa la violazione del principio del contraddittorio", relativa anche all'analisi del dna, è "del tutto infondata".

Aggressione per motivi spregevoli. Per i giudici Yara è stata "aggredita per motivi sicuramente spregevoli". È anche per questo che la Corte d'Assise d'Appello di Brescia non ha concesso le attenuanti generiche all'imputato. Nella sentenza si legge, infatti, "l'inaudita gravità del fatto posto in essere vigliaccamente nei confronti di una ragazzina giovanissima e indifesa, aggredita per motivi sicuramente spregevoli, colpita violentemente per tre volte al capo con un corpo contundente, colpita per almeno nove volte al collo, al petto, alla schiena, ai polsi, al gluteo, alla gamba con tale forza anche da procurare lesioni ossee e lasciata morire in preda a spasmi e inaudite sofferenze in un campo abbandonato e lontano da casa a causa del freddo e delle ferite". Per i giudici, presieduti da Enrico Fischetti, "si è trattato di un'azione omicidiaria posta in essere con grande intensità di dolo in quanto realizzata con plurime azioni lesive protratte nel tempo senza alcun segno di ravvedimento e di umana pietà". Nelle 376 pagine di motivazione, i giudici analizzano anche il comportamento di Bossetti sia durante l'omicidio sia dopo. E spiegano che, "dopo avere attentamente occultato il corpo di Yara in un campo isolato e difficilmente raggiungibile, ha continuato a vivere con assoluta indifferenza rispetto al grave fatto commesso" e "ha continuato a manifestare, a tre anni dal fatto, interessi sessuali verso le tredicenni". Non solo.Persino durante il processo, hanno fatto notare i magistrati, "ha continuato a negare il fatto (com'era, peraltro, suo diritto), assumendo la posizione di chi sfida l'inquirente a provare la sua colpevolezza", gettando anche "ombre e gravissimi sospetti" su un'altra persona.

Il cadavere abbandonato nel campo. Come era già emerso nel processo di primo grado, per i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Brescia Yara è morta nel campo di Chignolo. "Il suo cadavere - hanno chiarito - è rimasto in quel campo nei tre mesi trascorsi tra la scomparsa e il rinvenimento". Durante l'appello, i legali di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, si erano giocati la carta di un'immagine ripresa dal satellite alle 10 e 41 del 24 gennaio 2011, un mese e due giorni prima del ritrovamento, che dimostrerebbe che quel giorno Yara non era nel campo. I giudici non erano stati ammessi dalla Corte che non li avevano ritenuti di loro interessi e, ora, nelle motivazioni ribadiscono che la ragazzina morì nel campo. "Le lesioni da punta e da taglio sono state tutte procurate quando Yara era ancora viva - si legge nelle motivazioni - e sono state prodotte una di seguito all'altra in uno stesso contesto temporale e ambientale". E "l'ipotesi della difesa di vestizione e nuova vestizione del cadavere appare del tutto fantasiosa".

Massimo Bossetti "non faceva più sesso con la moglie": nelle motivazioni, un possibile movente per l'omicidio di Yara Gambirasio, scrive il 16 Ottobre 2017 “Libero Quotidiano”. Ci sono dei passaggi inediti e assolutamente sconvolgenti, relativi al rapimento e all'omicidio di Yara Gambirasio, nelle motivazioni della sentenza con cui la corte d'Appello di Brescia ha confermato la condanna all'ergastolo per Massimo Bossetti. Per i giudici, quel tragico pomeriggio del 26 novembre 2010 Bossetti "stava bighellonando senza gran costrutto e non voleva evidentemente tornare subito a casa dove lo aspettavano i soliti incombenti familiari" e l’uscita dalla palestra di alcune ragazze "deve aver esercitato su di lui un indubbio richiamo". Senza contare che il muratore provava un "insistente e perdurante interesse per le adolescenti in età puberale". Bossetti aveva anche "pulsioni sessuali così intense" da manifestarle in una serie di lettere a una detenuta del carcere di Bergamo, Gina, che non aveva mai incontrato di persona. Inoltre "Bossetti aveva litigato con la moglie" all'epoca del delitto e "evidentemente in quel periodo non aveva rapporti sessuali" con lei. Yara per i giudici "è sparita mentre stava andando a piedi a casa" dopo essere uscita dalla palestra "dopo essere stata aggredita, è stata fatta salire su un mezzo di trasporto con la costrizione e con l’inganno". La Corte, infine, sottolinea come Yara fosse solita fare la strada "sotto i lampioni" per tornare a casa dopo gli allenamenti. E questo avvalora la tesi di un’aggressione a carattere sessuale, che sarebbe scattata mentre Bossetti osservava le ragazzine che uscivano dalla palestra. Circostanze che "convergono nell'indicare il muratore Bossetti come la persona che si aggirava, a bordo del suo autocarro cassonato, in quei momenti nei pressi della palestra".

Yara, ergastolo a Bossetti – I giudici d’appello: “Valida la prova del Dna”. Depositate le motivazioni della sentenza: "Si deve ribadire quindi ancora una volta e con chiarezza che un’eventuale perizia, chiesta a gran voce dalla difesa e dall’imputato, consentirebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull'operato del Ris". La vittima aggredita "vigliaccamente" per "motivi sicuramente spregevoli", scrive Il Fatto Quotidiano" il 16 ottobre 2017. Il 18 luglio scorso i giudici della corte d’Assise d’appello di Brescia avevano confermato l’ergastolo per Massimo Bossetti. Oggi i magistrati hanno depositato le motivazioni della sentenza. È valida la prova del Dna perché “non sono stati violati i principi del contraddittorio e delle ragioni difensive” scrivono i giudici nel motivare il fine pena mai per il delitto di Yara Gambirasio. “Si deve ribadire quindi ancora una volta e con chiarezza che un’eventuale perizia, chiesta a gran voce dalla difesa e dall’imputato, consentirebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato del Ris”. I giudici aggiungono che “non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni” del Dna trovato sul corpo della tredicenne trovato senza vita nel campo di Chignolo d’Isola a tre mesi dalla sua scomparsa avvenuta il 26 novembre del 2010. Ed è per questo che una perizia sarebbe stata un controllo del lavoro dei consulenti dell’accusa e della parte civile. Il processo “oltre a svolgersi nelle aule di giustizia si è svolto parallelamente sui media, alimentandosi di notizie vere e notizie false, senza peraltro in alcun modo influenzare la regolarità e serenità del processo giudiziario – scrivono i giudici presieduti da Enrico Fischetti  – Pure senza approfondire il tema irrilevante, su chi abbia alimentato (o contribuito ad alimentare) il processo mediatico – aggiungono – appare alquanto singolare e paradossale che la difesa e l’imputato, dopo aver fatto specificatamente appello alla necessità di chiudere giornali, di spegnare la tv, di abbandonare il web e aprire i codici e la Costituzione, abbiano dato il loro consenso alla ripresa audio e televisiva del processo di secondo grado, di seguito non autorizzata dalla Corte”. Yara Gambirasio era “un ragazzina giovanissima e indifesa” e fu aggredita “vigliaccamente”, per “motivi sicuramente spregevoli” da Massimo Bossetti che poi l’ha “lasciata morire, in preda a spasmi e inaudite sofferenze, in un campo abbandonato e lontano a causa del freddo e delle ferite” ricordano i giudici nelle 380 pagine di motivazioni in cui spiegano che la “notevole intensità” del dolo e la “condotta contemporanea e susseguente al reato” precludono a Bossetti perfino le attenuanti generiche. Una decisione contro la quale i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini preannunciano un ricorso in Cassazione. Ad accendere la furia omicida di Bossetti, per i giudici bresciani, è stato il fatto di essere respinto da Yara e il “sicuro timore dello stesso di essere riconosciuto per aver commesso nei confronti della ragazza qualcosa di grave”. La ragazzina scomparve il 26 novembre 2010 mentre stava tornando a casa dalla palestra, a Brembate di Sopra e fu trovata morta tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola “All’origine dell’aggressione, scrivono ancora i giudici bresciani, c’è stata certamente “una finalità dai contorni sessuali” e l’obiettivo di Bossetto era anche quello di “procurare sofferenze” alla sua vittima, terrorizzata e incapace di difendersi. Inoltre, come emerso dagli accertamenti informatici condotti in fase di indagini sul suo computer, che Bossetti anche tre anni dopo il delitto nutriva “un interesse insistente e perdurante” nei confronti di “adolescenti in età puberale”. E sarebbe stata proprio la sua predilezione per le giovanissime a portare Bossetti la sera del delitto nei pressi della palestra di Brembate, dove si aggirava “in attesa di qualcuno”. La figura di Yara che camminava verso casa alla luce dei lampioni, per il collegio, attirò la sua attenzione e lo spinse a agire. Non solo. Il tenore e il contenuto delle lettere mandate a Gina, anche lei detenuta in carcere a Bergamo, “dimostrano come avesse pulsioni sessuali così intense da manifestarle a una persona mai vista prima né contattata personalmente”. Decisivi per collocare Bossetti sul luogo del delitto, oltre al Dna che è una vera e propria “firma” dell’assassino, anche “una serie di elementi indiretti che uniti consentono di giungere a una sicura affermazione di responsabilità”.  A giocare a sfavore di Bossetti anche il suo atteggiamento in aula. Per i giudici, infatti, il carpentiere di Mapello “ha continuato ostinatamente a negare il fatto (come era, peraltro, suo diritto), assumendo la posizione di chi sfida l’inquirente a provare la sua colpevolezza”.

Processo Bossetti, i giudici dell'appello: "Valida la prova del Dna, impossibile nuova perizia". Per i magistrati i rilievi degli avvocati di Bossetti sono "del tutto infondati". Intanto nome e immagini di Yara compaiono in un'altra inchiesta, della Postale di Trento, su una rete di pedofili, scrive il 16 ottobre 2017 "La Repubblica". Per i giudici della Corte d'Assise e d'Appello di Brescia la prova del Dna che identifica Massimo Bossetti come l'omicida di Yara Gambirasio è valida e non è dunque possibile eseguire la super perizia chiesta dalla difesa perché il materiale genetico trovato sugli indumenti della ragazzina è esaurito. È quanto emerge dalle motivazioni della sentenza con la quale il collegio presieduto da Enrico Fischetti il 17 luglio scorso ha condannato all'ergastolo il muratore di Mapello per la morte della 13enne, scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra (Bergamo) e trovata morta tre mesi dopo in un campo di Chignolo d'Isola. Per i giudici, infatti, i rilievi degli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, a proposito di una violazione "dei principi del contraddittorio e delle ragioni difensive" riguardo alla prova del Dna sono "del tutto infondati". Non solo. La Corte d'Assise e d'Appello di Brescia spiega che in ogni caso non sarebbe possibile effettuare un'ulteriore analisi per comparare le tracce trovate su slip e leggings della ragazzina e il Dna di Bossetti perché il campione, utilizzato per fare diversi test, è terminato. Ma il nome della 13enne di Brembate compare oggi anche in un'altra inchiesta, della polizia postale del Trentino Alto Adige, coordinata dalla Procura di Trento, denominata Black Shadow a proposito di una rete di pedofili. Sono stati infatti trovati riferimenti e foto di Yara Gambirasio, sul computer di uno degli arrestati, un uomo di Rimini di 53 anni. All'interno di un file dossier di circa 40 pagine c'erano anche immagini della 13enne di Brembate accanto a preghiere blasfeme e filastrocche.  La vicenda potrebbe ora essere seguita dal pool difensivo di Massimo Bossetti, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio. L'inchiesta Black Shadow di Trento ha svelato una lunga catena di presunti pedofili che si nascondeva nel web, scambiandosi immagini e comunicando grazie a programmi di messaggistica istantanea.

Inchiesta pedofilia, spunta dossier choc su Yara. Pista seguita dai legali di Bossetti. Scoperto dossier sulla ginnasta di Brembate nell'ambito di una maxi operazione che ha portato a 10 arresti e 48 iscritti sul registro degli indagati, scrive il 16 ottobre 2017 "Il Giorno".  Sono trascorsi quasi 7 anni da quando (era il 26 novembre 2010) Yara Gambirasio, 13 anni, lasciò il Centro sportivo di Brembate di Sopra, dove si allenava, senza fare più rientro a casa. Il corpo della giovanissima ginnasta sarà ritrovato tre mesi dopo, nel febbraio 2011, nelle campagne di Chignolo d'Isola. Un caso, quello della giovane vittima, che ha sollevato grande interesse mediatico, ma anche reazioni macabre e inquietanti. Come emerge dall'inchiesta della Procura di Trento e della Polizia postale del Trentino Alto Adige su un presunto traffico di materiale pedopornografico che ha portato nei giorni scorsi all'arresto di 10 personee all'iscrizione di altre 48 sul registro degli indagati. Una rete in cui, secondo quanto emerso dalle indagini, sono state trovate anche immagini e conversazioni inquietanti su Yara Gambirasio. L'inchiesta, denominata "Black Shadow", coinvolge anche un 53enne di Rimini, arrestato a fine settembre e condotto in carcere con l'accusa di detenzione di materiale pedopornografico in grosse quantità. Al 53enne sono stati sequestrati computer, cellulari, supporti usb e materiale cartaceo. Le indagini della Polizia postale hanno svelato una lunga catena di presunti pedofili che si nascondeva nel web, scambiandosi immagini e comunicando grazie a programmi di messaggistica istantanea criptata. L'uomo, sostengono gli inquirenti, aveva una sorta di dossier di circa 40 pagine su Yara, con fotografie accanto a preghiere blasfeme e filastrocche. Una pista investigativa che verrebbe ora seguita dal pool difensivo di Massimo Bossetti, l'uomo condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio. L'inchiesta nasce con l'arresto di un uomo di 38 anni residente in val Pusteria, in Alto Adige, fermato nel febbraio 2016. L'uomo era stato trovato in possesso di 4 Terabyte di materiale digitale, contenente esibizioni pornografiche di minorenni, di età compresa tra i 3 e i 12 anni. Le dichiarazioni rese dall'arrestato, che ha detto di aver scaricato i file dalla navigazione internet da soggetti dei quali non era in grado di indicare generalità o ulteriori elementi utili alla loro identificazione, hanno insospettito gli investigatori informatici della Polizia, che hanno scoperto una rubrica composta da numerosi contatti.

Massimo Bossetti, il legale segue una pista legata alla pedofilia riguardo l'omicidio di Yara Gambirasio. Arrestato un uomo a Rimini che deteneva materiale sulla 13enne di Brembate, scrive l11 ottobre 2017 Fabio Belli su "Il Sussidiario". Come riportato dal quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino”, c’è una pista riminese per l’omicidio di Yara Gambirasio. Nonostante sia stato confermato l’ergastolo a Massimo Bossetti per la morte della 13enne di Brembate, uno dei difensori dell’operaio, il criminologo e investigatore Ezio Denti, sta cercando di trovare tasselli che possano chiarire la verità, scagionando il suo assistito, su uno dei casi che ha maggiormente scosso le coscienze dell’opinione pubblica in Italia negli ultimi anni. E Denti ha trovato una pista piuttosto inquietante da seguire, l’arresto di un impiegato a Rimini per pedofilia, con l’uomo che era in possesso addirittura di un dossier di 40 pagine dedicato a Yara. Un volumetto in cui addirittura c’erano abbinate alla foto della ragazza espressioni blasfeme sostituite alle parole delle preghiere. Come spiegato da Denti, il pedofilo arrestato potrebbe far parte di una rete più estesa che potrebbe essere arrivata addirittura fino all’omicidio di Yara. Spiega Denti: “Quando ho saputo del ritrovamento del dossier su Yara in casa di quel pedofilo, ho capito che questa può essere una pista importante. Quell’uomo stranamente ha della documentazione sulla ragazzina, ma da quello che ho capito il dossier della pedomessa, così come è stato chiamato, sarebbe una sorta di bibbia di una rete di ‘mostri’. Devo capire con chi l’arrestato si interfacciava e se quella gente può essere legata a Massimo Bossetti, o se ci sono zone di collegamento con quella in cui Yara è stata uccisa.” Denti sottolinea come al contrario nei computer, nei telefoni e tra i documenti di Bossetti, nessun elemento riferibile a Yara è mai stato trovato dagli inquirenti: “Abbiamo sempre ipotizzato che la ragazza possa essere stata vittima di una setta. Sul corpo della giovane vittima sono stati trovati strani segni a croce, sembravano simboli che dovessero rappresentare qualcosa di strano, ferite peraltro non necessarie per uccidere la ragazza. E poi c’erano quei tagli sui polsi. Sembravano quasi delle ‘firme’ nell’ambito di una setta.” Il che potrebbe anche implicare l’esistenza di una rete che si estendeva anche fuori da Rimini: “A distanza di sette anni, ora si trova un soggetto con in mano un fascicolo sulla povera ragazzina che viene associata a tutte quelle cose orribili. E’ strano. Yara era pulita e candida, e ora ce la ritroviamo descritta in quel modo da un gruppo di malati di mente che inneggiano a colui che l’ha uccisa come se fosse un eroe. Come se, appunto, si fosse trattato di un sacrificio. In quel dossier viene descritta come una ragazzina che è stata sacrificata da qualcuno. Se è Bossetti il colpevole, devo pensare che faccia parte della catena. Ma, ripeto, su di lui non è mai stato trovato nulla di collegabile alla pedofilia.” Dalla difesa di Bossetti, la prova del DNA che lo ha incastrato continua ad essere considerata non attendibile: “Più volte abbiamo spiegato che quel Dna non è completo. Per noi il ritrovamento di quel libro è una pista molto interessante e ho intenzione di seguirla fino in fondo.”

Yara, il criminologo di Bossetti segue la pista riminese. Dopo l’arresto dell’impiegato trovato con un dossier sulla 13enne, scrive Alessandra Nanni l'8 ottobre 2017 su “Il Resto del Carlino". Una pista riminese per l’omicidio di Yara Gambirasio. E’ quella che sta seguendo Ezio Denti, il noto criminologo e investigatore privato che fa parte del pool difensivo di Massimo Bossetti, l’uomo condannato all’ergastolo per l’omicidio della 13enne di Brembate. Una pista che parte dall’impiegato arrestato qui qualche giorno fa per pedofilia, e trovato in possesso di un dossier su Yara, 40 pagine con in ognuna una foto della 13enne assassinata associate a filastrocche blasfeme, dove alle parole delle preghiere venivano sostituite porcherie. L’arresto del riminese però sarebbe stato fatto nell’ambito di una maxi inchiesta su una vasta rete di pedofili su cui c’è il più stretto riserbo. Ma è da lì che Denti, arrivato in riviera, ha intenzione di far ripartite le sue indagini.

Perché è venuto a Rimini?

«Quando ho saputo del ritrovamento del dossier su Yara in casa di quel pedofilo, ho capito che questa può essere una pista importante. Quell’uomo stranamente ha della documentazione sulla ragazzina, ma da quello che ho capito il dossier della ‘pedomessa’, così come è stato chiamato, sarebbe una sorta di bibbia di una rete di ‘mostri’. Devo capire con chi l’arrestato si interfacciava e se quella gente può essere legata a Massimo Bossetti, o se ci sono zone di collegamento con quella in cui Yara è stata uccisa».

Lei sta lavorando alla sua difesa.

«Io sto lavorando per la verità. E quel dossier su Yara è molto interessante. Perchè proprio Yara? Perchè viene indicata come una vittima sacrificale sull’altare della pedofilia? Nei computer e nei cellulari di Bossetti non è stato trovato nulla che possa far pensare che si trovasse coinvolto in un giro simile. Gli stessi investigatori l’hanno escluso».

Ipotizzate che la ragazzina possa essere stata vittima di una setta?

«È una pista che abbiamo sempre seguito, e che con questa indagine su una rete di pedofili prende ancora più consistenza. Anche all’epoca gli inquirenti hanno indagato nell’abito della pedofilia. Sul corpo della giovane vittima sono stati trovati strani segni a croce, sembravano simboli che dovessero rappresentare chissà cosa.E non erano ferite vitali. E poi c’erano quei tagli sui polsi. Sembravano quasi delle firme nell’ambito di una setta».

Rimini cosa può entrarci?

«Non Rimini, ma il gruppo di cui quel’impiegato faceva parte. A distanza di sette anni, ora si trova un soggetto con in mano un fascicolo sulla povera ragazzina che viene associata a tutte quelle porcherie. E’ strano. Yara era pulita e candida, e ora ce la ritroviamo descritta in quel modo da un gruppo di malati di mente che inneggiano a colui che l’ha uccisa come se fosse un eroe. Come se, appunto, si fosse trattato di un sacrificio. In quel dossier viene descritta come una ragazzina che è stata sacrificata da qualcuno. Se è Bossetti il colpevole, devo pensare che faccia parte della catena. Ma, ripeto, su di lui non è mai stato trovato nulla di collegabile alla pedofilia».

Una setta implica più persone.

«Infatti. Abbiamo sempre pensato che in quel campo a morire di freddo e di stenti, sia stata lasciata da più persone».

Ma il Dna incastra Bossetti.

«Più volte abbiamo spiegato che quel Dna non è completo. Per noi il ritrovamento di quel libro è una pista molto interessante e ho intenzione di seguirla fino in fondo».

“Sono ingegnere”, il consulente di Bossetti imputato per falsa testimonianza. Al pm Letizia Ruggeri risulta che Ezio Denti abbia solo il diploma di ragioniere e perito commerciale, scrive l'11 ottobre 2017 “Bergamo News". È imputato di falsa testimonianza davanti al gup del tribunale di Bergamo Ezio Denti, consulente di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato in primo e secondo grado all’ergastolo per il delitto di Yara Gambirasio. Tutto era cominciato l’8 gennaio 2016, durante una delle tante udienze del processo Bossetti. In quell’occasione, Denti si era definito “Ingegnere” rispondendo all’avvocato Paolo Camporini, uno dei difensori del carpentiere di Mapello. Precisamente si era detto “laureato in Ingegneria sezione industriale, con specializzazione in balistica applicata alla criminologia” a Friburgo, in Svizzera. Ma non è ingegnere, aveva tuonato il pm Letizia Ruggeri, al quale risulta che Denti abbia solo il diploma di ragioniere e perito commerciale e che in quell’istituto di Friburgo, indicato dallo stesso imputato, non ci sia la facoltà di Ingegneria. “Ho fatto una ricerca al Miur (ministero dell’Istruzione, ndr) – aveva contestato il pm Ruggeri – e lei nel nostro Paese non risulta laureato”. Secondo l’ufficio statale italiano, che registra lauree e diplomi, il titolo di Denti (che sul suo sito si definisce “investigatore privato”) si limita ad un 36/60esimi agli esami di ragioniere e perito commerciale. Nella seduta di martedì 10 ottobre il consulente non era presente in aula, ma attraverso il suo legale, l’avvocato Claudio Salvagni (l’altro difensore di Massimo Bossetti), ha depositato una documentazione scritta in francese per attestare l’iscrizione del suo assistito all’albo degli ingegneri francesi. Il gup Bianca Maria Bianchi ha dunque disposto la traduzione del documento e rinviato l’udienza al prossimo 19 dicembre, quando dovrà decidere se Denti è o meno un consulente tecnico con i titoli adeguati.

“Bossetti libero”: in 50 in piazza a Bergamo, l’avvocato col megafono. Per rendere note a tutti "le ingiustizie processuali subite dal carpentiere di Mapello", condannato all'ergastolo per il brutale delitto di Yara, scrive Mauro Paloschi l'8 ottobre 2017 su "Bergamo News". “Bossetti libero”. Erano una cinquantina i sostenitori del carpentiere di Mapello che hanno partecipato alla manifestazione di sabato 7 ottobre a Bergamo. L’obiettivo era quello di rendere note a tutti “le ingiustizie processuali subite da Massimo”, condannato lo scorso luglio anche in Appello all’ergastolo per il brutale delitto di Yara Gambirasio. A guidare il gruppo uno degli avvocati di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, che al megafono ha ribadito le sue convinzioni: “Ci sono troppi elementi anomali nell’inchiesta che ha portato in carcere il mio assistito – le parole del legale –. E sono emerse tutte nel corso del processi di primo e secondo grado. Per questo abbiamo rifiutato il rito abbreviato. Chiediamo ancora che venga fatta una nuova prova del Dna: quella scagionerebbe Massimo. Se la Cassazione confermerà la condanna, sarà come essere tornati nel Medioevo, quando non c’era possibilità di difendersi da accuse anche ingiuste”. Ma Bossetti come sta? “Sono stato a trovarlo poco fa – svela Salvagni –. Anche lui attende le motivazioni della sentenza di Brescia. È battagliero e volenteroso di difendersi fino all’ultimo. La situazione che sta vivendo è drammatica. Non tanto per il carcere e per l’essere privato di tutto, ma per l’impossibilità di difendersi. È una vicenda che non riguarda più il singolo caso, ma tutti noi”. Dopo essersi ritrovati, intorno alle 14, in piazzale Marconi, di fronte alla stazione ferroviaria, i manifestanti hanno distribuito volantini ai passanti. Nel foglio sono elencate tutte le presunte anomalie delle indagini, con la richiesta finale di una perizia del Dna. Alcuni dei presenti avevano uno striscione in cui paragonavano il caso Bossetti ad altri noti della cronaca italiana, come quello del presentatore Enzo Tortora, arrestato ingiustamente per spaccio di sostanze stupefacenti negli anni ’80.

L’avvocato di Massimo Bossetti: “In carcere una situazione disperata”, scrive il 28 settembre 2017 su "Today".  "La situazione che sta vivendo l'uomo Bossetti è drammatica". Queste le parole dell'avvocato del muratore di Mapello, condannato in appello all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio. "Non tanto per il carcere, per l’essere privato di tutto ma soprattutto per l’impossibilità di difendersi. Nessuna perizia gli è mai stata concessa, riguardo al caso del Dna. È una vicenda che non riguarda più il singolo caso, ma tutti noi”, chiarisce l'avvocato Claudio Salvagni ai microfoni di Radio Cusano Campus, che poi rivela: "Ho ritrovato un Massimo Bossetti battagliero e volenteroso di difendersi fino all'ultimo. 'Voglio uscire dal carcere come innocente', mi ha detto. Battagliero, ma molto provato".  Eppure, ammette il legale, "ho avuto paura che potesse accadere qualcosa di grave, ho toccato con mano la prostrazione di quest’uomo. Ma lui è ragionevole, ha dei figli ed una famiglia che gli danno forza e vuole che il suo cognome sia portato con orgoglio”. Il prossimo 7 ottobre si svolgerà a Bergamo una manifestazione di sostegno a Bossetti. "Salvo impedimenti parteciperò anche io", dice Salvagni, che sta già pensando ai prossimi passi per difendere Bossetti: “Abbiamo fatto due richieste per gli arresti domiciliari, agendo nei diversi gradi di giudizio. Non posso fare paragoni, ogni caso ha una storia a sé ed ha giudici diversi. Per il mio assistito sarebbe bastato anche il solo braccialetto elettronico. Lui è in carcere in regime di custodia cautelare per evitare il pericolo di reiterazione".

Bossetti, parla il fratello di Marita: “Ero al bar con lui, è innocente”, scrive il 13 ottobre 2017 "Diretta News". Nonostante la condanna all’ergastolo surrogata da numerose prove piuttosto inconfutabili la vicenda di Massimo Bossetti, l’uomo che ha ucciso la giovane Yara Gambirasio, sembra non finire mai. Pochi giorni fa c’era stata addirittura una protesta pubblica a sostegno dell’innocenza del muratore di Mapello. “Ci sembra doveroso dedicare a Massimo Bossetti la marcia dei ‘100 passi per Bossetti’. Non abbiamo paura di indicare gli errori di una magistratura e di una procura claudicanti nelle accuse. Non ci arroghiamo nessuna saccenza, abbiamo solo letto gli atti e questi bastano per far insorgere il ragionevole dubbio che porta all’innocenza di un uomo. Noi vogliamo solo verità” hanno detto gli organizzatori della manifestazione. Oggi invece la difesa tocca a Agostino Comi, il fratello di Marita, la moglie di Bossetti. L’uomo ha parlato durante una trasmissione televisiva e ha spiegato le ragioni per le quali secondo lui il cognato è innocente: “Su Massimo Bossetti sono uscite solo notizie costruite dalla Procura. E’ una cosa assurda che Massimo abbia fatto quello che loro dicono. Non abbiamo mai avuto dubbi, adesso più che mai. Erano loro che volevano metterci dei dubbi con gli interrogatori martellanti che ci hanno fatto, non erano cose che stavano né in cielo né in terra. Io ero al bar con Massimo il giorno dopo la scomparsa di Yara e l’ho guardato negli occhi: è sempre stato normalissimo, non credo che una persona che abbia fatto una cosa del genere rimanga sempre impassibile, lui non sa fingere. Poi se mi mettevano davanti veramente le prove, ma non me l’hanno mai messe, per cui…”. E poi ancora: “Ci batteremo fino all’ultimo, fino in Cassazione perché se un innocente è dentro vuol dire che qualcuno è fuori e quel qualcuno è dietro a qualcosa di più grosso come abbiamo sempre detto e come molta gente pensa… Abbiamo fatto qualche ipotesi su chi è stato, come tutti, ma non è quella che dicono loro, per cui vediamo”. Il cognato spiega anche di essere stato in carcere a trovare Bossetti: “Ha degli alti e dei bassi logicamente, non è di certo in vacanza e spera come speriamo tutti noi che finisca presto. Lui capisce che anche noi che siamo fuori siamo in difficoltà e cerchiamo di aiutarci a vicenda”. E su Marita, pesantemente coinvolta nel processo nel quale si è dovuta prendere la responsabilità di visitare siti internet pedopornografici, dice: “Lei pensa che sia impossibile che sia stato Massimo, aspettiamo che esca subito la verità, il più presto possibile logicamente”.

Bossetti e la confidenza alla moglie Marita: “Ma come fai a ricordarlo?”, scrive il 19 ottobre 2017 Diretta News. I giudici della Corte d’assise d’appello di Brescia che hanno confermato la condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio hanno rivelato nelle motivazioni della sentenza un dettaglio fondamentale che ha dato loro la certezza che il muratore di Mapello fosse colpevole. Ed è paradossalmente lo stesso Bossetti ad aver smentito e incastrato se stesso. Il particolare che lo incastra è un ricordo lucido e circostanziato che Bossetti rivela alla moglie durante un colloquio in carcere e che si riferisce proprio al giorno in cui scomparve Yara. L’imputato riferisce che il proprio telefonino era scarico e si era spento e ricorda di aver incrociato un conoscente, vicino al centro sportivo di Brembate Sopra, e di averlo richiamato con il clacson del furgone. I giudici scrivono: “Non solo il telefono era spento, proprio nell’orario in cui Yara è sparita, ma l’imputato si ricordava perfettamente il particolare relativo a quel pomeriggio”. Ecco la conversazione avuta poi con la moglie: “Lui: «Io sono sicuro che il telefono era scarico». Lei: «Come puoi ricordarti che hai il telefono spento e non ti ricordi dove eri?». Ed è proprio questo il punto. I giudici scrivono: “Tale circostanza è estremamente significativa in quanto l’imputato aveva sempre detto agli inquirenti e alla moglie di non ricordare cosa avesse fatto quel pomeriggio; peraltro, proprio dal particolare ricordato, si ha la dimostrazione che egli ricorda bene che cosa è avvenuto quel pomeriggio tanto da destare l’irritazione e l’incredulità della moglie che non sta facendo l’inquisitore, come sostiene la difesa, ma rimane sorpresa di fronte al preciso ricordo del marito”.

La Corte: «Quei ricordi di Bossetti dimostrano che sapeva». I giudici d’appello che hanno confermato l’ergastolo: «Il cellulare scarico e il campo infangato impressi nella mente, poi sul giorno del delitto per lui è il buio». Per carpentiere di Mapello, padre di tre figli, 1.221 giorni di carcere, scrive Giuliana Ubbiali il 19 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera". Con un dettaglio, secondo la Corte d’assise d’appello, Massimo Bossetti ha smentito se stesso. Ricordava che il giorno dell’omicidio di Yara Gambirasio gli si fosse scaricato il cellulare ma non che cosa avesse fatto. Ne parlava con la moglie, intercettato in carcere. E agli inquirenti spiegava così perché, dalle 17.45 al mattino, il telefonino non avesse dato segnali. A Marita aveva raccontato di aver incrociato un conoscente, vicino al centro sportivo di Brembate Sopra, e di averlo richiamato con il clacson del furgone proprio perché il cellulare era fuori uso. Nelle motivazioni con cui confermano la condanna all’ergastolo, i giudici danno peso a questo ricordo preciso: «Non solo il telefono era spento, proprio nell’orario in cui Yara è sparita, ma l’imputato si ricordava perfettamente il particolare relativo a quel pomeriggio». Riportano la conversazione tra marito e moglie, del 4 dicembre 2014. Lui: «Io sono sicuro che il telefono era scarico». Lei: «Come puoi ricordarti che hai il telefono spento e non ti ricordi dove eri?». La Corte: «Tale circostanza è estremamente significativa in quanto l’imputato aveva sempre detto agli inquirenti e alla moglie di non ricordare cosa avesse fatto quel pomeriggio; peraltro, proprio dal particolare ricordato, si ha la dimostrazione che egli ricorda bene che cosa è avvenuto quel pomeriggio tanto da destare l’irritazione e l’incredulità della moglie che non sta facendo l’inquisitore, come sostiene la difesa, ma rimane sorpresa di fronte al preciso ricordo del marito». Gli avvocati dell’imputato, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno definito Marita Comi «pm» per quanto avesse incalzato il marito, chiedendogli chiarezza. Ma sempre dalle intercettazioni è emerso un altro dettaglio che ha colpito i giudici. Bossetti ha detto che il campo di Chignolo, dove Yara è stata uccisa secondo due sentenze, era fangoso. Riferiva il racconto dell’avvocato, è la linea difensiva. Ma la spiegazione è definita «poco verosimile» dalla Corte, che sul telefono è tranchant: «Il particolare non lo poteva conoscere il difensore». Sui vuoti di Bossetti si è discusso tra le parti. È difficile ricordare una giornata di 4 anni prima, ha sempre rimarcato la difesa. Ma secondo l’accusa, un’intercettazione di Marita prova che Bossetti non le avesse dato spiegazioni sui suoi spostamenti già poco tempo dopo il delitto. Interrogato più volte, dal buio pesto il carpentiere aveva ripescato i ricordi di alcune tappe a Brembate Sopra. «In ogni caso — scrive Fischetti —, anche una sosta dall’edicolante per prendere le figurine per il figlio o dal commercialista per fare una firma comportano un periodo di tempo molto breve non certo incompatibile con l’aggancio e l’aggressione di Yara».

Ergastolo a Bossetti: “Come può difendersi se non può avere una perizia?” Scrive Camilla Miglio il 19 ottobre 2017 su Tg24. Ergastolo a Bossetti. L’avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Giuseppe Bossetti, è intervenuto ai ai microfoni di Legge o Giustizia condotto da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus. Ergastolo a Bossetti: “Io sono sbalordito da queste motivazioni per tantissime ragioni”.

“Come può difendersi questo uomo se non può avere una perizia? – si chiede Salvagni – Bossetti deve prendere per buono quello che è stato fatto in sua assenza. Sembra si stia parlando di un Vangelo, del quale non si può neanche dubitare che ci sia un errore. Siccome non c’è più materiale, secondo la Corte, (non è vero perché il professor Casari dice, sotto giuramento, di conservare ulteriori campioni, quindi non è vero) si possono fare solo esami cartacei. I Ris sono stati bravissimi secondo la Corte. Noi abbiamo evidenziato tanti problemi come i kit scaduti. I risultati forniti dai Ris sono stati completamente contestati da noi. Sono stati trovati 261 errori in quel lavoro. Sembra che il Giudice di Brescia fosse dotato di poteri sovrannaturali. Una sorta di Dio in Terra”.

Si è detto che una colpa di Bossetti è quella di non ricordare cosa stesse facendo il 26 dicembre 2010.

“L’onere della prova è a carico dell’accusa. Non si possono assumere elementi accusatori da dimenticanze dell’imputato che non ha l’obbligo di rispondere. Siccome Bossetti non ricorda allora è stato lui”.

Nelle motivazioni ci sono dei duri attacchi nei confronti della difesa.

“Molto duri nei confronti di tutto l‘apparato difensivo. Sembra siano bravi solo i consulenti dell’accusa, noi della difesa siamo dilettanti compresi tutti i consulenti. Noi abbiamo fatto un lavoro immane smontando ogni pezzo di questo processo. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, la Corte si è tappata le orecchie. Non ha dato peso e considerazione alle nostre osservazioni, supportate da scienziati di primissimo ordine. Per fugare ogni dubbio sarebbe bastata riconfrontare il dna di Ignoto 1 con quello di Bossetti, di fronte a noi e seguendo tutti i crismi”. Intanto ci si prepara per la Cassazione: “Il punto fondamentale sul quale dovrà esprimersi la Cassazione è se si può condannare un uomo senza che si sia potuto difendere nella sostanza e non solo nella forma. Bossetti si è potuto difendere si o no? Se diranno di “si” allora vuol dire che siamo tornati al processo inquisitorio”.

Bossetti, il talk ti fa ricco. Bossetti, che affare essere considerato un assassino. L’omicidio di Yara - Nelle motivazioni della nuova condanna i giudici criticano le apparizioni tv: fruttavano fino a 25.000 euro a puntata, scrive Selvaggia Lucarelli il 27 ottobre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". “La nostra quota è sempre sui 25, 25 mila euro a Matrix, (…) mi conoscono in tutta Italia eh. Il mio è il caso più pagato fuori dalla Elena Ceste…”. Diceva così, Massimo Bossetti nel novembre 2014 a sua moglie Marita, durante un colloquio in carcere. Le raccomandava con assoluta freddezza di farsi pagare profumatamente […] “La nostra quota è sempre sui 25, 25 mila euro a Matrix, (…) mi conoscono in tutta Italia eh. Il mio è il caso più pagato fuori dalla Elena Ceste…”. Diceva così, Massimo Bossetti nel novembre 2014 a sua moglie Marita, durante un colloquio in carcere. Le raccomandava con assoluta freddezza di farsi pagare profumatamente le ospitate tv e di seguire le indicazioni di “Claudio”, che poi è l’avvocato Claudio Salvagni, quello che forse, leggendo le motivazioni depositate dai giudici della Corte d’Assise di appello di Brescia, si starà domandando se il circo mediatico alimentato in questi anni dalla difesa non sia stato un boomerang. Perché nelle 367 pagine depositate della sentenza (oltre alla montagna di prove contro Bossetti, giudicato colpevole una seconda volta) è evidente l’asprezza con cui i giudici commentano l’operato delle difesa. Su tutti i fronti: quello dell’atteggiamento in aula, quello del galateo tra le parti, quello del loro assistito nelle varie fasi del processo, quello mediatico e pure quello più tecnico ad opera di periti e consulenti di parte. Forse, per la prima volta, leggendo quelle motivazioni, dopo anni di show, ospitate in tv con giacche di tweed e manifestazioni di piazza con armate Brancaleone di innocentisti che hanno imparato il diritto vedendo Forum, l’avvocato Salvagni si starà domandando se un profilo basso sarebbe stato più utile alla causa.

Sono tanti i passaggi in cui i giudici sembrano dire alla difesa: “Avete urlato, gridato, strepitato, avete accusato chi ha fatto le indagini fuori e dentro i laboratori di avere barato, ma alla fine non avevate in mano niente”. Gli aggettivi “fantasiose, irrazionali, irrealistiche” tornano più volte nella descrizione che i giudici fanno delle tesi difensive. Per esempio, ricordano alla difesa che il famoso genetista Peter Gill, quello la cui consulenza secondo Salvagni avrebbe potuto cambiare le sorti del suo assistito, con la difesa si è limitato probabilmente a fare “una semplice chiacchierata di cui non v’è traccia documentale”. Insomma, fuffa. I giudici hanno descritto come “fantasiosa e irrazionale” la tesi della difesa secondo la quale una foglia trovata sotto il capo di Yara (che dimostrava la permanenza del corpo nel campo in quei tre mesi) era stata in realtà introdotta in laboratorio da qualche operatore. Poi c’è la faccenda del furgone e delle analisi del consulente della difesa Ezio Denti, volte a dimostrare che il veicolo ripreso dalle famose telecamere non è di Bossetti. Vengono smontate pezzo per pezzo. I giudici spiegano a Denti che le sue misurazioni fatte a suon di “leggermente superiore o leggermente più avanti” sono leggermente poco scientifiche. Che sempre nelle sue misurazioni confonde un edificio con una cancellata. Ma, soprattutto, gli spiegano che nel misurare la distanza tra le due ruote anteriori, ha cerchiato una ruota giusta e l’altra che però non è la ruota ma un cartello stradale, più precisamente il cartello “orario ricevimento merci”.

Veniamo alla storia del Dna. I giudici premettono che non sono tenuti a disporre sempre e comunque una perizia. Aggiungono poi che in realtà tra i consulenti dell’accusa e della difesa non c’è praticamente contrasto, ma che il contrasto è al limite tra i consulenti dell’accusa e le opinioni dei difensori. In parole povere: avvocato Salvagni, se non tu non sei d’accordo col Ris, ci dispiace molto, ma tra la scienza e l’opinione, saremmo dell’idea di fidarci della scienza. In più, il consulente della difesa Marzio Capra (genetista) viene asfaltato perché i giudici, nel respingere la sua tesi sulle analisi del Dna fatte con kit scaduti, gli svelano un particolare, ovvero che non lavora da così tanto tempo nel Ris da non sapere neppure che il Ris ha aggiornato i suoi software. E che in caso di reattivi scaduti, il sistema avverte del problema. Poi ci sono le considerazioni sull’atteggiamento con i media. I giudici scrivono: “La difesa si è anche lamentata del clamore mediatico per la vicenda di Yara. (..) Appare alquanto singolare che la difesa e l’imputato abbiano dato il consenso, unici tra le parti, alla ripresa audio e televisiva del processo di secondo grado, di seguito non autorizzata dalla Corte”. Del resto, le intercettazioni ambientali in carcere tra Bossetti e la moglie Marita commentate con severità nelle motivazioni, dipingono un quadro agghiacciante. “La nostra quota è sempre sui 25 mila a Matrix (…) Se viene fuori un’altra occasione io farei di tutto Marita, (…) loro stanno tentando di farti fare le interviste…”, dice Bossetti alla moglie. “C’ho litigato io con Claudio (Salvagni, n dr)…che poi è anche uno pieno di soldi tra parentesi”, risponde Marita. Allora il marito le spiega che i soldi delle ospitate deve girarli a Salvagni: “Gliel’ho detto, quelli che mi arrivano di Matrix, glieli giro a loro. Sai quanti vorrebbero assumersi il mio caso? Mi conoscono in tutta Italia. È il caso più pagato fuori dalla Elena Ceste. Il primo mese non si preoccupi lavoro gratis, il secondo devo pagare!”. E ridono, Marita e Massimo. Non sanno che tre anni dopo questo disinvolto cinismo sarà commentato dai giudici con le seguenti parole: “Stanno parlando del vantaggio economico che possono trarre dal processo con memoriali e ospitate poi effettivamente avvenute. L’atteggiamento psicologico di Bossetti non è certo quello di colui che è disperato e che proclama la sua innocenza (…) ma quello di chi cerca di gestire a suo vantaggio il clamore mediatico sorto dalla vicenda”. E questo passaggio, alla fine, contribuisce a raccontare non solo il cinismo di un assassino, ma anche e soprattutto quello del sistema da cui si è fatto risucchiare con la complicità di un avvocato amante dei riflettori e di impeccabili abiti di sartoria che costano molto: quanto un’ospitata a Matrix.

Forse un po' più di sobrietà e una difesa meno aggressiva, avrebbero giovato a tutti. Non alle sorti processuali del suo assistito, questo è evidente, ma sicuramente al decoro e alla dignità di un processo. Oltreché a quello che troppo spesso le urla in tv hanno impedito di ricordare: la vittima, Yara Gambirasio, tredici anni, morta di stenti, paura e freddo la notte del 26 novembre 2010.

Bossetti “Intervista a Matrix per pagare la difesa” e i giudici criticano lo spettacolo dell’avvocato in tv, scrive Salvo Bella il 27 Ottobre 2017 su “Il Delitto". Non è solo l’uccisione di Yara Gambirasio a tenere desta l’opinione pubblica sul caso di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per l’orrendo delitto. Le motivazioni della sentenza di secondo grado puntano il dito anche su aspetti scandalosi di un “mercato” che l’imputato, su suggerimento dell’avvocato, gestiva dal carcere spingendo la moglie a concedere interviste per poter pagare la difesa; e i giudici esprimono enorme disappunto per i processi mediatici in tv con le apparizioni dei difensori. “Il Delitto” aveva già documentato, prima che iniziasse il processo in Corte d’Assise d’appello, che gli imputati accusati di omicidio che s’erano difesi in tv erano stati quasi tutti condannati, mentre erano stati assolti in via definitiva quelli che s’erano limitati a difendersi nelle sedi giudiziarie. In sostanza l’impressione deducibile è che gli innocenti non hanno bisogno generalmente di sollevare attorno a sé polveroni per cercare solidarietà in parte dell’opinione pubblica. Quei dati statistici, ricavati dagli esiti di numerosi procedimenti celebrati negli ultimi tempi, assumono indirettamente rilievo eclatante dopo l’aspra critica che i giudici d’appello riservano nella motivazione della sentenza ai discutibili processi-spettacolo in tv. Le parole della Corte sono pesanti: “Appare alquanto singolare e paradossale che la difesa e l’imputato, dopo avere specificamente fatto riferimento alla necessità di chiudere i giornali, di spegnere la tv, di abbandonare il web ed aprire i codici e la Costituzione, abbiano dato il loro consenso, unici tra le parti processuali, alla ripresa audio e televisiva del processo di secondo grado”. La vicenda scandalosa di un giro di soldi rilevato in sentenza (rivelata ieri sera dal gruppo di Facebook "Forconi e pecore") riguarda ancora giornali e mezzi televisivi, con passaggi di denaro del tutto legittimi ma discutibili, con una sorta di deus ex machina che suggeriva come far soldi per poter soddisfare le sue spettanze professionali. L'avv. Claudio Salvagni aveva sempre vantato di difendere Bossetti a titolo del tutto gratuito e per questo motivo si sono scatenate polemiche fra innocentisti e colpevolisti nei gruppi di Facebook. Il tutto sorprende per la disinvoltura, e anche qualche risata, con la quale dietro le quinte si puntava a sfruttare gli esiti investigativi di un evento tragico. Ciò avveniva inoltre nell’erroneo e dilettantesco presupposto che le conversazioni in carcere restassero in camera caritatis, senza essere regolarmente intercettate, come in effetti fu, dall’autorità giudiziaria. Nella conversazione ambientale del 20.11.2014, ore 10,15 – si legge nelle motivazioni della Corte d’Assise d’appello di Brescia - Massimo sta riferendo alla moglie che il difensore non sa dare giustificazione come il suo Dna sia finito lì e sta spiegando che c’è bisogno di soldi e come possono procurarli; sta anche riferendole che è sua intenzione cambiare uno degli avvocati (Silvia).

Massimo “Io scrivo un po’ di tutti. Io scrivo la verità sempre negato tutto. Io scrivo... perché deve essere una sorpresa prima che venga fuori un memoriale, prima che venga fuori in televisione e dicono Eh, adesso è estate, tu non vieni fuori due giorni. Un po’ di soldi, capito? ha detto Salvagni. Poi un’altra cosa, ti spiego. So che tu hai detto a Roberto che non vuoi più far niente, m’ha detto”.

Marita “Sì”.

Massimo “Mi ha spiegato a me Salvagni. Eh. Eh Massimo, io... tu..... mi fa a me Io sono disposto a tutto. A tutto. Adesso faccio quel che passo qua, a tentare di... io sono un po’ più duro. Sai che io... adesso Marita a me mi vede molto duro e non so se... devo essere duro, se abbiamo bisogno, ma io devo essere duro. La nostra quota che va è sempre sui 25. Capito? 25 mila euro, a Matrix”.

Marita “Io gli ho detto quelli che mi arrivano di Matrix appena m’arrivano glieli giro a loro”.

Massimo “Nel mio caso così sai quanti è che vorrebbero assumersi il mio caso?”.

Marita “Certo”.

Massimo “Mi conoscono in tutta Italia, eh. È il caso più pagato, eh, fuori dalla Elena Ceste e poi c’è il mio. Tutti sanno, eh... tutti gli avvocati prenderebbero subito la palla al balzo per prenderlo in mano. Mi scrivono per il pres... Il primo mese onorario, non si preoccupi che lavoro gratis. Eh, il secondo mese devo pagare!"

Massimo Bossetti: Meglio Un Colpevole Libero, o Un Innocente In Galera? Il processo indiziario è un pericolo per tutti. Non si parla di innocentisti o colpevolisti, ma di giusti processi: a favore della giustizia e contro la spettacolarizzazione del reato, scrive Marta Migliardi il 20 ottobre 2017 su "Ultima voce". Gli atti che avete presentato sono già poderosi, ci sono 25 faldoni pieni, avete scritto 258 pagine e 110 motivi aggiuntivi. Non saranno ammessi video che non sappiamo cosa sono, non ci interessano non sono utili. Noi non ci lasciamo suggestionare. Il video non ci serve…Queste le parole del Presidente della corte d’Appello di Brescia, Enrico Fischietti. Accadeva durante il secondo processo d’appello, dove un uomo Massimo Giuseppe Bossetti è condannato all’ergastolo per omicidio di Yara Gambirasio. Queste le parole del Presidente, parole che non lasciavano spazio ad alcun ulteriore intervento difensivo. Altre cose se non altro poco coerenti sono accadute durante il primo appello. Il Dott. Casari, colui che prese in carico tutti i Dna, dice in aula, precisamente nell’udienza dell’11 ottobre 2015: “...li abbiamo ancora tutti, non abbiamo finito nessuna aliquota. Quindi tutto ciò che non abbiamo usato negli stessi tubi c’è ancora materiale per ulteriori indagini, volendo.” Al contrario, nella motivazione del secondo grado di giudizio, uscita due giorni fa, dove veniva confermato l’ergastolo, viene scritto che l’esame del DNA è irripetibile. Quindi: un uomo è in carcere a vita, per un DNA trovato su un cadavere, esaminato senza la partecipazione della difesa. Il riesame è impossibile anche se colui che prese in carico il DNA dice, invece, che potrebbe essere ripetibile. Testimonianza che è quasi passata inosservata. Inoltre il movente è sessuale anche se la ragazza non ha subito alcuna violenza a questo sfondo.

Oltre ogni ragionevole dubbio. Ma al di là di queste parole che sono agli atti, quindi pubbliche, ci sono altri due principi che sono stati completamente ignorati nel processo a carico di Massimo Giuseppe Bossetti. Per spiegarveli in maniera chiara e professionale, cito le parole del Dr.Eugenio D’Orio, Biologo e genetista forense, criminalista vicino al Movimento per il NeoRinascimento della Giustizia:

A) allorquando si debba (per esigenze investigative) in fase preliminare eseguire un accertamento irripetibile, ex art 360 cpp, in assenza di indagato, si deve (per la futura garanzia del diritto alla difesa di costui) nominare un legale ed un consulente “pro ignoto” che presiedano a tali accertamenti.

B) anche ammesso che la traccia sia geneticamente dell’imputato, ciò non deve considerarsi prova scientifica della sua colpevolezza (vedi MISLEADING DNA EVIDENCE) perchè la genetica forense può INDIVIDUARE un soggetto, mai dare informazioni circa COME e QUANDO avvenne il deposito della traccia; simili informazioni di contestualità sono indispensabili per i Giudici per formare il loro convincimento! In osservanza ai principi della “Criminologia Dinamica”, in questo e in altri casi simili, andrebbero fatti approfonditi accertamenti scientifici, ex art 218 cpp (esperimento giudiziale) atti a disaminare (ovviamente se possibile) il rapporto di contestualità tra la traccia in oggetto e il fatto reato contestato.

Il problema non è quindi se Bossetti potrebbe essere scagionato con un nuovo test del DNA ma che non doveva essere condannato con quella sola prova. Prova che, se confermata, sarebbe comunque solo un indizio in quanto non implicherebbe necessariamente che sia stato lui ad uccidere. Ma forse ci piace così… Forse ci piace accendere la televisione e poter dire ognuno ciò che gli va. Tanto il reato è stato spettacolarizzato a tal punto da non riuscire a discernere un processo da una puntata di Criminal Minds.

Caso Bossetti: Un tram chiamato ergastolo, scrive Luca Cheli il 23 ottobre 2017 su "Bossettiade.wordpress.com". Un tram viaggia su rotaie, come un treno su di una ferrovia, e la ferrovia in inglese si chiama “railroad”. “To railroad somebody” nel gergo legale-giudiziario americano significa (Oxford Advanced American Dictionary) “to decide that someone is guilty of a crime, without giving them a fair trial”, ovvero “decidere che qualcuno è colpevole di un crimine, senza fargli avere un giusto processo”. E’ facile immaginare, anche visivamente, come sia nata quest’espressione: si carica qualcuno su di un vagone alla stazione di partenza (ovvero l’inizio della procedura giudiziaria) e da lì un lungo e dritto binario senza scambi lo conduce dritto dritto alla stazione di arrivo, ovvero la condanna. A parere dello scrivente questo è esattamente ciò che è successo a Massimo Bossetti, è stato caricato su di un tram che sin dall’inizio aveva un unico nome ed un’unica destinazione: ergastolo. Sono uscite da alcuni giorni le motivazioni della condanna in secondo grado, a firma del Presidente della Corte di Appello di Brescia, Enrico Fischetti, che spiegano le ragioni della conferma in tale processo della condanna del muratore di Mapello alla massima pena prevista dal nostro ordinamento. Dato che in questo processo ottenere atti processuali sembra poco meno arduo che trovare il mitocondriale di Bossetti nel DNA di Ignoto1, può essere che debba passare un po’ di tempo prima di poterne ottenere una copia e quindi poter scrivere un commento punto per punto. Tuttavia a questo punto del procedimento, pur ripromettendomi di commentarle estensivamente se e quando saranno disponibili, ritengo queste motivazioni abbastanza pleonastiche nell’economia del caso. Le anticipazioni uscite su vari organi di stampa sono in ogni caso sufficienti ad inquadrarle per quel che sono e, comunque, per come è nato e si è evoluto questo caso, qualsiasi cosa ci sia scritta è tutto sommato secondaria. Questo caso è nato con una grande indagine genetica, un’indagine che le forze dell’ordine e la magistratura inquirente hanno più volte vantato come unica al mondo dentro e fuori i confini nazionali, fino a meritarsi l’attenzione della BBC in un lungo documentario. Sono ovviamente stati spesi tanti soldi, quanti esattamente non è dato sapere, con cifre in libertà varianti tra i due e gli otto milioni di euro. Ora, un’indagine di tale importanza, portata e visibilità finisce per diventare più importante della vittima e del delitto, finisce per diventare un fine in se stessa. E con carriere, reputazioni ed immagine pubblica ed internazionale di intere istituzioni ad essa collegata e dal suo buon fine dipendenti, diventa anche qualcosa da difendere e proteggere ad ogni costo. Anche il costo della condanna di un innocente? Lo vedremo dopo, perché non c’è soltanto questo in quell’indagine.

Essa è stata anche un’indagine che ha fatto dipendere l’intero caso dal DNA, tanto nella fase delle indagini, in cui la sua soluzione è stata immaginata essere tutt’uno con l’individuazione del soggetto a cui apparteneva il DNA etichettato come “Ignoto 1”, quanto nella fase processuale, in cui il DNA è l’unico vero elemento di prova, tutto il resto degli indizi avendo un qualche valore solo in quanto supportati dal DNA. Questo ha fatto sì che tutta l’indagine sia diventata una specie di ricerca del Santo Graal, nella quale una volta identificato il “proprietario” di quel DNA, tutto si sarebbe meravigliosamente risolto, come in un’Epifania mistica. In altri termini ciò che ci si aspettava era che, una volta trovato il proprietario di quel famigerato DNA, questi, inchiodato da tale granitica (ovviamente) ed incontrovertibile (chiaramente) prova, avrebbe tutto subito confessato e anche spiegato la dinamica del fatto e taluni altri aspetti che, forse, apparivano poco chiari agli inquirenti. Forse si aspettavano che avrebbe anche spiegato come era finito su di un polsino della giacca della vittima tutto quel DNA di Silvia Brena, sul quale torneremo, perché esso, allegramente derubricato come giustificato da frequentazione tra vittima e maestra, è in realtà uno dei cardini fondamentali su cui ruota tutto il caso. Quando, però, Ignoto 1 si è incarnato nel poco collaborativo Bossetti, è scattata la corsa a tappare i buchi e a cercare di aggiungere altre prove (o meglio, indizi) a quella che tutto avrebbe dovuto risolvere da sola. Infatti nei primi tempi dopo l’arresto del muratore di Mapello si erano sentite, almeno in TV, ventilare ipotesi di richiesta di giudizio immediato, mentre poi la durata della fase delle indagini preliminari si è dilatata fino a raggiungere l’anno canonico dei processi indiziari celebri degli ultimi anni (Perugia, Avetrana, etc.). E’ in questa fase che vengono fuori i filmati di autocarri creati dal RIS in accordo con la Procura “per esigenze di comunicazione”. Se l’esistenza di tali esigenze è stata ammessa in aula da una persona autorevole come il Colonnello Lago, vuol dire che c’era piena consapevolezza tra gli inquirenti dell’importanza mediatica del caso e dell’impatto che le sue sorti avrebbero avuto sull’immagine di tutte le entità ed istituzioni coinvolte nelle indagini, oltre che su quella di alcuni individui che in tali indagini avevano avuto un ruolo primario. Abbiamo quindi un caso il cui buon fine dal punto di vista accusatorio (ovvero la condanna dell’imputato) è estremamente rilevante non solo per un certo numero di individui, seppur importanti, ma per intere istituzioni statali. Per le forze dell’ordine in generale, in quanto l’arresto è stato decisamente eclatante e diciamo pure non tenuto nascosto ai media, per le branche scientifiche di quelle stesse forze dell’ordine, perché dalla validità dell’identificazione di Bossetti tramite il DNA di Ignoto 1 dipende una buona parte del loro prestigio, della loro professionalità e della loro credibilità in un contesto sia di indagine che processuale. Per la pubblica accusa, ben al di là della singola Procura direttamente coinvolta, perché il fallimento (cioè l’assoluzione dell’imputato) in un caso così rilevante, che è stato oggetto di attenzione dei media per anni, ancor prima del rinnovato clamore dovuto al processo, impatterebbe sulla percezione di competenza, efficienza ed efficacia non solo di una singola Procura, ma di tutta la magistratura inquirente. A tutto ciò, e già sono fattori di non poco conto, se ne aggiunge un altro: il valore del DNA stesso come elemento di prova così come oggi concepito prevalentemente nel contesto forense italiano, e particolarmente da procure e forze dell’ordine. Tale valore non può essere messo in dubbio, perché altrimenti molte altri indagini, presenti, passate e future, potrebbero a loro volta essere messe in dubbio ed il potere “inquisitorio” (fusione di magistratura inquirente e forze dell’ordine) rischierebbe di vedere indebolito il proprio potere nel proprio dominio di azione, ovvero indagini e processi. Quindi questo è ciò che è in gioco, e nel contesto di un sistema di gestione della giustizia penale, al di là di quelli che possono essere i sentimenti dei singoli, esso è molto più importante di Yara Gambirasio. E ovviamente di Massimo Bossetti.

Torniamo ad una domanda che ci eravamo già posti all’inizio: abbastanza importante da condannare un innocente? Personalmente credo, e la Storia lo prova in molti casi, che quando il livello di ciò che è in gioco raggiunge dimensioni da “affare di Stato”, perché ci sono possibili consistenti impatti su istituzioni e poteri dello Stato (e quello giudiziario è uno dei poteri dello Stato), il destino degli individui spesso cede il passo alle esigenze sistemiche: ubi maior minor cessat. Non bisogna però pensare a riunioni al vertice in segrete stanze, nelle quali viene deciso, al di fuori di ogni circuito istituzionale, il destino di alcuni imputati. Dobbiamo piuttosto trarre ispirazione dalla teoria dei cerchi concentrici, che Corrado Guerzoni, un giornalista collaboratore di Aldo Moro, sviluppò come tentativo di spiegazione della dinamica della strategia della tensione: «Non è che l’onorevole X dice ai servizi segreti di andare a Piazza Fontana e mettere una bomba… Al livello più alto si dice: il Paese va alla deriva, i comunisti finiranno per andare al potere. Poi la parola passa a quelli del cerchio successivo e inferiore dove si dice: sono tutti preoccupati, cosa possiamo fare? E si va avanti fino all’ultimo livello, dove c’è uno che dice “ho capito”. E succede quello che deve succedere. Così, nessuno ha mai la responsabilità diretta. E se vai a dire all’onorevole X che lui è la causa di Piazza Fontana, ti risponderà di no. Anche se in realtà è avvenuto proprio questo processo, per cerchi concentrici».

Ora, la mia visione sul tema “il Sistema contro Bossetti” (ma anche contro altri in casi di simile rilevanza) non è così verticistica come quella di Guerzoni, basata su di un punto, al centro geometrico ed al vertice in termini di potere, dal quale si irradiano i centri concentrici. La mia visione, probabilmente influenzata dal vivere nell’era di Internet, è quella di una rete a maglie tridimensionale, in cui ogni nodo, che può rappresentare un singolo individuo, ovvero un gruppo di individui (un ufficio di una procura, un laboratorio del RIS, una corte giudicante) è connesso a molti degli altri in una ragnatela tridimensionale di interazioni che rappresentano il “Sistema Giudiziario” quale entità vivente e pulsante nella sua quotidiana operatività. Attraverso questa rete di connessioni passa la percezione di ciò che è opportuno fare, a sua volta basata sulla percezione di ciò che è in gioco, la quale, attraverso un linguaggio non parlato, ma che si manifesta in atti e decisioni, permea e informa di sé sia i vari livelli delle forze dell’ordine che la magistratura, indagante e inquirente, attraverso tutti i gradi di giudizio. Di conseguenza, in analogia con la teoria di Guerzoni, nessuno ordinerà “condannate Bossetti”, ma i vari nodi della rete saranno consci della rilevanza, anche internazionale, dell’indagine genetica svolta, della sua apparente affidabilità e dell’autorevolezza di coloro che vi hanno partecipato, dell’importanza e “certezza” del DNA come prova, di come un caso così importante debba trovare una soluzione che dia giustizia alla povera vittima e alla sua famiglia, di quanto le forze dell’ordine si siano spese ed esposte a tutti i livelli e così via, da un nodo all’altro, ed ognuno di essi farà le proprie valutazioni e prenderà le relative decisioni. Come nella teoria dei cerchi concentrici nessuno ha mai responsabilità diretta di nulla che sia illegale, perché tutto viene mantenuto, quanto meno tecnicamente, nei limiti della legge. Si potrebbero fare cento esempi, per esempio l’ammettere o meno delle lettere agli atti del processo, oppure certe affermazioni a proposito del DNA mitocondriale, ma io ne voglio fare due che sono essenziali in questo processo, uno ovvio, l’altro meno. Quello ovvio è la famosa perizia collegiale sul DNA richiesta a più riprese dalla difesa e negata in due gradi di giudizio.

Secondo quanto è stato reso di dominio pubblico della motivazione di secondo grado, “un’eventuale perizia, invocata a gran voce dalla difesa e dallo stesso imputato non consentirebbe nuove amplificazioni e tipizzazioni, ma sarebbe un mero controllo tecnico sul materiale documentale e sull’operato dei Ris […] la famosa perizia genetica sarebbe necessariamente limitata ad una mera verifica documentale circa la correttezza dell’operato del Ris e dei consulenti dell’accusa, pubblica e privata”. Ora, al di là dell’esistenza dei campioni di DNA a cui ha fatto riferimento negli atti del processo di primo grado il Prof. Casari, la cui mancata menzione in sentenza potrebbe anche essere il prodotto di una svista o di un fraintendimento circa la loro natura, è difficile immaginare che un giudice non si ricordi che la nota perizia Conti-Vecchiotti, che di fatto ribaltò l’andamento processuale del caso Kercher fu proprio “un controllo tecnico sul materiale documentale e sulla correttezza dell’operato” della Polizia Scientifica in quel caso. Quindi il giudice non compie alcun atto illegale negandola, ma certo sorprende che possa definirla irrilevante o non dirimente quando una perizia simile, in un caso ben noto e piuttosto recente, fu non solo rilevante, ma addirittura decisiva.

Passiamo ora all’esempio meno evidente e torniamo finalmente a Silvia Brena ed al suo DNA. Silvia Brena è stata ritenuta, dopo accurate indagini, totalmente estranea all’omicidio di Yara Gambirasio, e noi non abbiamo alcuna ragione per dubitare che lo sia. Ma proprio per questa ragione il suo DNA non dovrebbe essere su quella manica: la quantità di DNA coinvolta e la sua qualità, per quanto è trapelato in resoconti di stampa durante le udienze di primo grado e per quanto mi è stato riferito direttamente da fonti della difesa, è molto, ma veramente molto, difficile da conciliare con del DNA rilasciato per contatto (touch DNA) durante un’ordinaria frequentazione. Ancor di più se, come testimoniato dalla Brena in primo grado, non ci fu alcun contatto tra lei e Yara il giorno della scomparsa della ragazzina, e massimamente se si considera valida l’ipotesi accusatoria (fatta propria dalle due sentenze di condanna) di un cadavere esposto agli elementi per 92 giorni, tanto più considerando che qui non si può nemmeno dire che ci fosse qualcosa a proteggere quel DNA, trovandosi esso sulla superficie esterna di un abito indossato sopra a tutti gli altri. Quindi sembra incredibile che si possa derubricarlo facilmente come DNA giustificato da frequentazione e passare oltre, ma, anche qui, non c’è nessuna legge che stabilisca quando esattamente un DNA vada considerato o meno giustificato dalla semplice frequentazione, e perciò qualsiasi giudice ha ampia libertà di giudizio in merito e non può compiere nulla di illegale.

Ma perché il DNA di Silvia Brena (o meglio, a lei attribuito, come quello di Ignoto 1 è stato attribuito a Bossetti) è così importante e perché è così cruciale per il caso il fatto di derubricarlo a touch DNA? Perché se sul cadavere di Yara Gambirasio ci fosse un DNA che non ci può essere, data l’estraneità della signorina Brena al delitto, bisognerebbe interrogarsi sulla genuinità ovvero sulla origine biologica o meno di quel DNA, ma se si ammettesse tale dubbio per il DNA della Brena, esso finirebbe inevitabilmente per estendersi al DNA attribuito a Bossetti e si rischierebbe il crollo dell’intero castello di carte (processuali). Considerando tutti questi fattori e le suddette considerazioni, mi sento di dire che, in un certo senso, Massimo Bossetti ha subito un pregiudizio attraverso tutto il suo iter processuale. Più chiaramente ancora, mi sento di dire che il suo caso è stato tanto pregiudicato che pre-giudicato, con ciò intendendo che da un lato le sue possibilità di difesa sono state limitate e dall’altro che un giudizio sulla sua colpevolezza è stato emesso ancora prima che iniziassero i vari gradi di giudizio. Ma, si badi bene, ancora una volta, non perché un gruppo di incappucciati si siano riuniti chissà dove a decidere del suo destino, ma perché una somma di fattori in gioco, di percezioni sull’importanza dell’indagine che lo aveva individuato, anche una certa fiducia acritica, sconfinante nella fede, nel DNA come strumento risolutivo dell’indagine giudiziaria, lo hanno messo in una situazione in cui era molto più probabile che ogni nodo di quella rete di cui abbiamo parlato prima vedesse il suo caso in una prospettiva a lui sfavorevole piuttosto che il contrario. Poi bisogna dire anche che, talvolta, alle almeno apparentemente impersonali forze sistemiche, sembrano aggiungersi pure questioni molto più individuali e personali. Premetto che, anche se di solito si identifica una motivazione con il nome del giudice presidente la corte che l’ha emessa, tuttavia essa è il prodotto sicuramente di almeno due giudici togati e non si può escludere che riporti anche le opinioni o le valutazioni di alcuni dei giudici popolari componenti la corte, e che quindi non si può attribuire tutto quanto scritto in sentenza alla persona di Enrico Fischetti. Ciò premesso, devo dire che, a prestar fede a quanto trapelato sui mezzi di informazione (ed in alcuni casi si tratta di estratti di copie fotostatiche della motivazione), la Corte di Appello di Brescia non si è limitata a condannare Massimo Bossetti alla morte civile, ma gli ha pure voluto far subire la damnatio memoriae. Si leggono infatti espressioni sulla persona di Bossetti e sui suoi presunti orientamenti e comportamenti sessuali, finanche sulla sua abbronzatura, che sembrano delineare qualcosa che assomiglia parecchio ad un disprezzo, se non addirittura un odio, nei confronti dell’uomo Bossetti che mal si concilia, almeno dal mio punto di vista, con il distacco necessario in un giudice terzo. Naturalmente, anche in questo caso, nulla di illegale, e poi gli apologeti della sentenza potranno sempre argomentare che tale disprezzo segue al giudizio e non lo precede, così come quelle che sembrano essere critiche molto dure all’intero pool difensivo possono essere considerate come un prodotto del dibattimento e non un’ostilità preesistente. Anche se devo dire che mi era sembrato, da quello che trapelava dall’aula durante il breve processo di secondo grado, che sin da subito ci fossero stati segnali di non eccessiva simpatia nei confronti dei difensori di Bossetti.

Tornando un’ultima volta sulla vexata quaestio della perizia negata, devo dire che durante il processo mi aspettavo venisse concessa una perizia “addomesticata” volta a valutare, approvandolo, l’operato del RIS, e a verificare che i campioni custoditi da Casari contenessero effettivamente il profilo di Bossetti: una cosa facile facile volta a tacitare la difesa. Quando è stata negata ho pensato a due alternative, ossia o che si ritenesse il fatto stesso di concedere una perizia un vulnus alla sanctitas dell’indagine genetica unica al mondo, o che (mio cattivo pensiero, lo ammetto) si temesse che una qualsiasi revisione dell’operato dei RIS avrebbe evidenziato criticità non mascherabili e addirittura che i campioni di Casari non contenessero affatto il DNA di Bossetti. Ma evidentemente mi sbagliavo, perché si è visto che la perizia sarebbe secondo la sentenza comunque superflua ed in quanto ai campioni custoditi da Casari, addirittura sembra che essi non esistano. Tuttavia sono molto curioso di leggere nella motivazione come mai, se la perizia appariva tanto superflua, si sia rinviata la decisione in merito al concederla o meno al momento di chiudersi in camera di consiglio, visto che di solito sono cose che vengono decise nelle prime udienze. Ma ovviamente, anche in questo caso, tutto è stato fatto nei limiti del Codice e quindi di cosa mi preoccupo?

E POI…

Massimo Bossetti, compleanno in carcere tra famiglia e corrispondenza, scrive Blitz quotidiano il 30 ottobre 2017. Sabato 28 ottobre Massimo Bossetti ha compiuto 47 anni. Sabato pomeriggio, Bossetti, condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha seguito la messa vespertina celebrata da don Fausto Resmini, cappellano dell’istituto. Poi come d’abitudine, ha passato ore e ore a gestire la corrispondenza. Ogni giorno, Bossetti risponde a circa 20 lettere, che gli arrivano da ogni parte d’Italia. E Bossetti continua a ripetere la sua innocenza: “Non so più come fare a difendermi. Come posso difendermi se non mi danno la perizia?”. Nella biblioteca del carcere l’ex carpentiere di Mapello cerca libri sugli errori giudiziari, thriller, testi di psicologia. Laura Letizia, gemella di Massimo, crede ancora lei alla sua innocenza: “Ho seguito tutte le udienze a Bergamo. Ricordo molto bene quando il dottor Casari ha detto che a San Raffaele di Milano c’erano altre provette. Come la mettiamo? Sono tre anni e mezzo che chiediamo la perizia. Perché non la concedono? Finirebbe tutto. Se Massimo fosse colpevole, rimarrebbe mio fratello ma non sarei qui a battermi come mi batto perché lo so innocente. Non avrei giurato sulla tomba di mio padre di riportarlo a casa”.

È nei guai il 66enne di Capriate che si comprò l’auto di Bossetti, scrive il 13 novembre 2017 "Bergamo Post". Ora si trova in regime di detenzione domiciliare, ma il suo pensiero è fisso sul caso Bossetti. Non si perde d’animo Pietro Pagnoncelli l’artigiano 66enne che, nei giorni scorsi, è stato arrestato dai carabinieri e sottoposto al regime di detenzione domiciliare in base a un provvedimento emesso dall’ufficio esecuzioni penali della Procura della Repubblica di Bergamo che ora dovrà scontare un residuo di pena di 8 mesi. «Si tratta di una stupidata che risale a 12 anni fa – ha commentato Pagnoncelli – Mi aspettavo i Servizi sociali e invece si capisce che si sono ricordati di me. Ho già inviato la richiesta e credo che nell’arco di 15 o 20 giorni sarà tutto risolto».  Pagnoncelli era balzato agli onori della cronaca in marzo quando aveva comprato dalla famiglia l’auto appartenuta a Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. È infatti un convinto sostenitore dell’innocenza di Bossetti e quando aveva saputo che la famiglia non riusciva a vendere la vettura, l’aveva comprata con la scusa di farsi un regalo per il compleanno. Pagnoncelli ha seguito tutte le udienze del processo del caso Yara, e si è via via sempre più convinto che il muratore di Mapello non sia stato l’autore dell’omicidio. «Molte cose che sono emerse non sono state riportate dai media – ha affermato – Perché?». «Sono stati trascurati molti aspetti». Più che dei suoi problemi, sembra preoccupato della vicenda di Massimo Bossetti. Sull’innocenza del muratore di Mapello, Pietro Pagnoncelli ha pochi dubbi. A suo giudizio, dopo aver seguito tutte le udienze del processo sono state trascurati troppo aspetti e anche i media non avrebbero riportato tutto quanto emerso in aula durante il procedimento. «Mi chiedo perché non siano state scritte determinate cose – ha osservato l’artigiano – sto seguendo ancora la vicenda e ora sto aspettando che il processo arrivi in Cassazione. Può essere che almeno sia concessa la perizia che è sempre stata negata. Sono queste le cose di cui si dovrebbe scrivere le altre sono solo stupidaggini».

Il maresciallo: tentò di sfuggire all’arresto. Ma Bossetti in aula scuote la testa.  Poco prima delle 16 si è conclusa anche l’udienza di venerdì 9 ottobre 2015 a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, come sempre imperturbabile, che è accusato di aver rapito e ucciso Yara Gambirasio, scrive "L'Eco di Bergamo" in stessa data. Dopo la pausa per il pranzo è stato il turno del maresciallo Giovanni Sciusco del Nucleo investigativo dei carabinieri di Bergamo che ha effettuato i rilievi a casa Bossetti, al centro sportivo e a casa del custode del centro sportivo e si è occupato anche dei prelievi salivari all’imputato e ai suoi parenti più stretti. Sciusco è stato anche l’autore del filmato dell’arresto di Bossetti e ha confermato che, alla vista delle forze dell’ordine, l’imputato aveva dato l’impressione di voler di scappare prima di essere bloccato. Sentendo questa ricostruzione, Bossetti ha scosso la testa in aula come a negare l’affermazione del maresciallo.

Come tutti sanno, il sig. Massimo Bossetti fu arrestato lunedì 16 giugno 2014 alle ore 17 circa presso il cantiere di Seriate nel quale lavorava. L’operaio si trovava su un piano rialzato a circa 6 metri dal suolo, intento a gettare un soletta di cemento e immerso con gli stivali almeno 20 cm nella malta. L’arresto fu documentato da un video che mostra “chiaramente” un Massimo Bossetti sorpreso ma assolutamente NON INTENZIONATO A FUGGIRE. Come, invece, ci hanno raccontato e come ci hanno voluto far credere. Per tutti noi, chi fugge è colui che scappa, colui che corre, colui che si dimena, colui che viene inseguito, colui che tenta di buttarsi giù da un tetto, di scavalcare un recinto. Non certo una persona che, semplicemente e senza correre, si reca verso l’unica scala che lo avrebbe portato al piano terreno dove, ad aspettarlo, c’erano i Carabinieri. Nei link che riportiamo in questa pagina è possibile vedere chiaramente il video del suo arresto. Altri dettagli ci vengono, invece, raccontati direttamente da Massimo Bossetti in persona tramite lettera che pubblichiamo qui sotto. Ciò che più ci sconvolge è che il sig. Bossetti ha subìto il “carcere preventivo” perché incredibilmente e fantasiosamente giudicato “fuggitivo” durante il suo arresto. Non sta a noi esprimere il giudizio. Il video parla chiaro e chiunque possieda un cervello e due occhi potrà farsi la propria idea. Se quella è una persona che scappa… a noi scappa da ridere.

Domanda: AVETE MAI VISTO UNA PERSONA FUGGIRE CAMMINANDO NELLA MALTA ALTA 20 CM? NOI NO. Massimo Bossetti ci racconta in una lettera il suo arresto. Con il permesso del sig. Bossetti, condividiamo il suo racconto in prima persona dell’arresto, così da fare definitivamente chiarezza su ciò che avvenne veramente e su quella che è stata la sua reazione emotiva (da molti criticata). La sua testimonianza è molto preziosa e significativa e per questo lo ringraziamo.

Un dettaglio importante. Guardate gli stivali di Massimo Bossetti in ginocchio durante l’arresto. Esattamente come lui racconta nella sua lettera, era realmente immerso nella malta alta almeno 20 cm. Come fu possibile sostenere che tentò di scappare, facendo scattare così il “carcere preventivo”? Il video del suo arresto mostra un uomo che CAMMINA nella malta verso la botola per scendere ai piani inferiori. Quando finiranno le bugie dette su questo pover’uomo? Tratto dal sito "Iostoconbossetti.it".

Hacker all’assalto del sito colpevolista: denunciati 29 "amici" di Bossetti. Bergamo, in tilt “IlDelitto.it”. Intanto la moglie Marita incontra Di Pietro, scrive Gabriele Moroni il 16 novembre 2017 su “Il Giorno”. Sostenitori di Bossetti denunciati per un attacco hacker a un sito internet, un episodio che si inserisce nella polemica, spesso aspra, in corso fra colpevolisti e supporter dell’innocenza dell’uomo all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un incontro di Marita Comi, moglie del muratore di Mapello, con Antonio Di Pietro, ex pm e uomo simbolo del pool di magistrati di “Mani pulite”. Altri due capitoli si scrivono nella storia infinita legata alla tragedia della tredicenne di Brembate di Sopra. Ventinove sostenitori dell’innocenza di Bossetti sono stati denunciati con l’accusa di avere oscurato con un attacco hacker, a Vicenza, il server di un sito internet. Vittima la rivista online “Il Delitto”, con redazione a Legnano, che ha denunciato alla procura di Busto Arsizio 29 persone per interruzione abusiva di sistema informatico, minacce, diffamazione aggravata, sostituzione di persona. Per impedire la connessione al sito della rivista sarebbero stati effettuati, secondo la denuncia, attacchi di tipo DoS (Distribted denial of service) che, scavalcando ogni sistema di protezione, puntano a rendere inutilizzabili e irraggiungibili interi data center e reti di distribuzione di contenuti. Un servizio online rimane così inaccessibile per ore, giorni e in alcuni casi anche settimane. Sempre secondo i responsabili del sito, sarebbero stati gli stessi autori a rivendicare pubblicamente l’attacco, criticando la rivista per i suoi servizi sulla vicenda di Yara Gambirasio e vantando anche di «atterrare il service per una settimana». La denuncia è stata presentata da Salvo Bella, giornalista siciliano, direttore della rivista. I reati sarebbero stati commessi dalla maggior parte dei querelati con l’impiego di nomi falsi. Questo configurerebbe il reato di sostituzione di persona, che consiste appunto nell’attribuirsi una falsa identità per procurare un vantaggio o causare un danno. Marita Comi, accompagnata dal fratello Agostino, ha incontrato Di Pietro nell’abitazione dell’ex magistrato a Curno, nei pressi di Bergamo, lo scorso 11 novembre. Un incontro riservato ma neppure tanto, visto che lo ha rivelato il settimanale “Oggi”. «La signora Comi – ha puntualizzato l’avvocato Claudio Salvagni, difensore di Bossetti con Paolo Camporini – ha con Di Pietro una conoscenza comune. Ha chiesto di incontrarlo perché desiderava un suo parere sulla Cassazione, se riteneva che le fosse ancora lecito sperare. Da parte della signora non c’è nessuna intenzione di sostituire gli attuali difensori. Di Pietro si è anzi complimentato con la difesa per il lavoro svolto finora». A fine mese i legali di Bossetti presenteranno il ricorso alla Suprema Corte contro la sentenza con cui, il 17 luglio, i giudici dell’Assise d’appello di Brescia hanno confermato la condanna al carcere a vita pronunciata un anno prima dall’Assise di Bergamo.

Bossetti, l’ultima speranza è Antonio Di Pietro: la moglie va a casa sua. “Le ho indicato – ha detto Di Pietro – gli unici due motivi del ricorso in Cassazione che a mio avviso potrebbero avere qualche possibilità di essere accolti", scrive la Redazione di Bergamonews il 16 novembre 2017. Si chiama Antonio Di Pietro l’ultima speranza di Massimo Giuseppe Bossetti. Marita Comi, moglie del carpentiere di Mapello che sta scontando la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha incontrato l’ex magistrato che abita a Curno per avere consigli sulla difesa. La donna, accompagnata dal fratello Agostino e dalla cognata, sabato 11 novembre ha raggiunto Di Pietro a casa sua. Marita Comi ha chiesto parere e consigli a Di Pietro, ma non di entrare nel pool difensivo di Bossetti. A rivelare l’incontro è il settimanale Oggi, che spiega come sia durato alcune ore e non siano mancati momenti di tensione. Di Pietro ha spiegato al settimanale di aver alzato la voce in alcuni momenti con la moglie di Bossetti, mentre si discuteva di un possibile ricorso in Cassazione: “Ho indicato alla moglie di Bossetti – ha detto Di Pietro – gli unici due motivi del ricorso in Cassazione che a mio avviso potrebbero avere qualche possibilità (remota) di essere accolti e cioè che: i reperti non sono andati distrutti (e lo dice il perito Casari) e quindi la superperizia si può rifare. E poi il diritto alla difesa è stato leso perché la comparazione dei reperti è stata fatta in assenza degli avvocati di Bossetti”. Di Pietro ha poi spiegato di non essere d’accordo con la linea difensiva che vorrebbe portare avanti la famiglia di Bossetti, cioè quella della congiura degli inquirenti contro il muratore di Mapello: “Mi pare però – ha concluso Di Pietro – che i familiari di Bossetti vogliano insistere sulla denuncia agli inquirenti che avrebbero fatto tutta una montatura. A me, vista la mia determinazione a non seguire la loro linea di difesa, non hanno nemmeno proposto alcun incarico che io comunque non avrei accettato”.

MA LA DIFESA È SEMPRE AFFIDATA A LORO DUE, scrive su "Oggi" il 16 Novembre 2017 Giangavino Sulas. I Bossetti vogliano insistere sulla denuncia agli inquirenti che avrebbero fatto tutta una montatura. A me, vista la mia determinazione a non seguire la loro linea di difesa, non hanno nemmeno proposto alcun incarico che io comunque non avrei accettato».

SI È LETTO LE 380 PAGINE DELLA SENTENZA. Perché Di Pietro e Marita si sono incontrati? Semplicemente perché qualcuno, non sappiamo chi, si è rivolto a lui e, come al solito, lui non si è tirato indietro quando c’è da dare una mano a chi ha bisogno. A Bergamo poi Di Pietro non solo ha lasciato ottimi ricordi (tutti ricordano ancora la cattura del «mostro di Leffe» e della banda che aveva saccheggiato il Monte dei Pegni dopo aver tenuto in ostaggio per 24 ore gli impiegati) ma è sempre di casa, dividendosi fra Montenero di Bisaccia, il paese natìo nel Molise dove fa l’agricoltore, e la città dove ha iniziato la carriera e ha conosciuto la moglie Susanna Mazzoleni. Quindi qualcuno ha suggerito il suo intervento e Massimo Bossetti, informato in carcere, avrebbe accolto l’idea con entusiasmo: «Magari un uomo come Di Pietro mi desse una mano!», ha detto. Inoltre si è scoperto che le 380 pagine della sentenza della Corte d’Appello di Brescia l’ex magistrato le ha lette A lato, Claudio Salvagni (a destra), e Paolo Camporini: sono e restano i legali di Massimo Bossetti. «A me», precisa Di Pietro, «non è stato offerto alcun incarico». E un’idea, naturalmente, se l’è fatta: «Il presidente Fischetti, che conosco bene, ha scritto una “sentenzona”. Ma qualche punto da chiarire e, diciamolo pure, da attaccare, credo ci sia», ci dice con la solita franchezza. Ma Di Pietro è stato molto esplicito con Marita: «Non credo ai complotti e alle congiure. Conosco la Procura di Bergamo dove nel 1981, come uditore giudiziario, ho iniziato la mia carriera e dove sono diventato Pm. Tutti possiamo sbagliare, ma non c’era alcun interesse ad accusare suo marito sapendolo innocente. Scacci quindi questi pensieri. È fuori strada». Nella sentenza di Brescia Di Pietro ha notato che per ben quattro volte il presidente Enrico Fischetti ribadisce che la superperizia non si può fare perché «il materiale biologico è stato consumato tutto. È esaurito». E questa affermazione ha indotto Di Pietro a rivedere le carte e a scoprire un verbale di udienza, quello del 20 novembre 2015, durante il processo di primo grado, nel quale depose, sotto giuramento perché in qualità di testimone, il professor Giorgio Casari, docente di genetica medica al San Raffaele di Milano e consulente della Procura con un incarico preciso: «Sono stato contattato (dalla Pm Ruggeri, ndr) per sequenziare l’intero genoma del Dna rilevato dalle tracce di Ignoto 1». Casari, rispondendo alle domande del Pm, disse: «Tutti i Dna sono a disposizione, li abbiamo ancora tutti al San Raffaele, non abbiamo finito nessuna aliquota. Nei tubi c’è ancora materiale per ulteriori indagini, volendo…».

E LUI TORNEREBBE IN LIBERTÀ. Dov’è la verità? Forse Casari li ha distrutti dopo questa deposizione? Perché il professor Casari non è stato richiamato in aula a Brescia? La Cassazione, si sa, non entra nel merito, ma di fronte a una contraddizione così evidente, difficilmente può lasciar correre. I giudici porranno una domanda: c’è ancora materiale per una superperizia? Se ci fosse, come ha sostenuto e ribadito, ancora quest’anno a Quarto Grado, Giorgio Casari, potrebbero anche disporre che questa perizia venga rifatta durante un nuovo processo d’Appello. E Bossetti nel frattempo tornerebbe in libertà.

Caso Gambirasio: i ragionevoli dubbi sulle sentenze Bossetti, scrivono Gianni Carbotti e Camillo Maffia il 3 Novembre 2017 su Agenzia radicale.

Parte I – Primo grado di giudizio.

Il 1 luglio 2016 Massimo Bossetti è condannato all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Bergamo. I punti fondamentali su cui le motivazioni si articolano sono essenzialmente tre: a) il corpo della vittima non è mai stato spostato dal luogo del ritrovamento, ergo l'omicidio è avvenuto necessariamente in quel campo; b) il DNA rinvenuto è quello di Bossetti e questo lo colloca automaticamente sul luogo e al momento dell'azione lesiva che ha causato la morte; c) altri indizi confermano la colpevolezza dell'imputato, dal fatto che non sia stato in grado di ricostruire i suoi spostamenti il giorno della morte di Yara Gambirasio alla compatibilità delle fibre sintetiche rinvenute sugli indumenti del cadavere con quelle del sedile del suo furgone.

Tali assunti appaiono molto lontani dalla certezza granitica che si desidererebbe provare quando si leggono le ragioni che conducono un uomo ad essere privato della libertà per tutta la vita: oltre all'impossibilità di verificare quanto l'accusa sostiene in merito al DNA con ulteriori accertamenti e dunque in assenza di una controprova, il fatto che il cadavere non sia stato condotto nel campo in un secondo momento non appare affatto certo, così come gli indizi che sosterrebbero la prova scientifica sembrano una serie di fatti del tutto slegati e di per sé irrilevanti, in cui si potrebbe ravvisare un qualsivoglia significato unicamente qualora la prova regina si confermasse tale, dato che non è concesso appurare con un nuovo esame.

L'unica evidenza, in relazione al caso di Yara Gambirasio, è che questa si stava recando al centro sportivo: di lì non è più tornata ed è stata rinvenuta morta alcuni mesi più tardi. La certezza stessa con cui si esclude il fatto che non abbia mai lasciato lo stabile il giorno del delitto lascia perplessi, tanto più che si basa prevalentemente su una testimonianza che la inquadra per l'ultima volta mentre "si stava dirigendo con passo deciso verso la porta che dà sul cortile esterno”. Si può supporre quindi che non sia rientrata nell'edificio con la stessa facilità con cui si può ipotizzare il contrario; il testimone stesso non potrebbe stabilirlo con certezza.

Il cellulare non è mai stato ritrovato: chi l'ha uccisa si è preoccupato di farlo sparire, il che fa pensare che avesse contatti con la vittima, a differenza ad esempio di Massimo Bossetti, il quale non l'aveva mai vista né conosciuta. Del resto, la ragazzina non aveva relazioni al di fuori della normale cerchia affettiva tipica dell'età; e le maggiori frequentazioni ruotavano attorno al centro di ginnastica ritmica.

Non risultano in alcun modo contatti con soggetti diversi da quelli noti alla famiglia: il che spiegherebbe per quale ragione l'assassino avrebbe smontato il telefono LG PK 108, che fa video e foto, lasciando unicamente batteria e SIM, per nascondere cioè qualcosa che era nella memoria del dispositivo, ma non della scheda: difficilmente però avrebbe avuto ragione di farlo un totale estraneo.

È chiaro che si tratta di una vicenda in cui è veramente difficile individuare dati inoppugnabili, e non aiutano i dettagli relativi alla scomparsa, dal fatto che sia stata una mera casualità a determinare che sia andata la bambina al centro e non la sorella, al rinvenimento del cadavere in un campo all'aperto mesi più tardi, nonostante le attente e vaste ricerche. Si sa che il suo telefonino era acceso alle 18.49, il giorno della sua scomparsa, e che alle 19.11 era spento: poi più nulla. Dalle indagini presso il centro, nonostante le dichiarazioni contraddittorie del custode, non emergerebbe nulla di rilevante; si ricorre ai cani molecolari, esperti nel ritrovamento di resti umani, che fiutano una traccia tra la struttura e il cantiere di Mapello.

Il corpo sarà ritrovato solo a tre mesi esatti dalla scomparsa, il 26 febbraio 2011, da un aeromodellista che cercava il suo aeroplanino. La Corte, a questo proposito, sottolinea che la ragione per cui il cadavere non è stato trovato prima, e sarebbe dunque stato sempre nel medesimo posto, sia che non era visibile a una distanza maggiore di un metro, oltre a essere circondato di arbusti. Ricordiamo che questo è il primo punto con cui si motiva la condanna: se l'omicidio fosse avvenuto altrove, la tesi andrebbe riformulata, DNA o non DNA.

Ma è davvero difficile condividere la sicurezza con cui si assume che non vi sia mai stato alcun trasferimento, al punto di definire “fantasiosa” la tesi opposta e “verosimile” il fatto che per tre mesi nessuno, né esseri umani né i loro cani, si siano accorti che nel campo, all'aperto, esposto alle intemperie, c'era un cadavere che si stava decomponendo, considerando le ampie e capillari ricerche e il fatto che quello stesso territorio è battuto dai cacciatori, coi propri cani, i quali vanno a caccia di prede mentre i loro simili, portati a spasso dai loro proprietari, si svagano correndo liberamente prima di tornare fra le pareti degli appartamenti in cui vivono accanto ai loro padroni.

Chiunque può capire come sia evidente il contrario: è fantasioso pensare che nessuno abbia fatto caso a un corpo in putrefazione in una situazione del genere, mentre è verosimile che tale corpo non sia stato sempre lì. Vi sono inoltre dei dettagli ancora più insoliti, come il buono stato di conservazione degli indumenti, nonostante gli agenti atmosferici e l'azione degli animali, e quello vario dei tessuti molli.

I giudici stessi riportano come gli organi genitali e l'imene della vittima fossero intatti: ma questa è solo la prima di una serie di caratteristiche che compongono l'unicità di questo delitto se appartenesse, come ritengono i giudici, alla categoria degli omicidi compiuti da sex offenders, i quali hanno una loro fisionomia nota, studiata e precisa.

Non vi è alcuna certezza neppure in merito alla causa del decesso: le ferite non erano mortali e ogni ricostruzione è semplicemente un'ipotesi, fondata quanto si vuole, ma nessuno può dire senza timore di dubbio di cosa sia morta Yara Gambirasio. Nonostante si sia dato per scontato, soprattutto sui media, che abbia perso la vita a causa di una combinazione tra le ferite e l'ipotermia, potrebbe benissimo esser avvenuta in un altro modo, dato che l'avanzato stato di decomposizione del cadavere non poteva permettere agli attuali mezzi scientifici una ricostruzione inoppugnabile.

Ancora meno sicura è l'ora del decesso, ricavato sulla base di assunti relativi al probabile orario dell'ultimo pasto e i medi tempi della digestione, che come a tutti è noto non sono né regolari né uguali per chiunque; anzi, non esiste niente di più vario nell'organismo umano. Come ha sottolineato la difesa, basandosi solo sul contenuto gastrico e non conoscendo neppure la quantità del cibo ingerito e l'ora dell'assunzione, si può al massimo presumere che la morte sia intervenuta in un arco di tempo che va dalla sera della scomparsa al mattino successivo.

Su questo, la Corte scrive che “non si comprende quale rilevanza possa avere che la morte sia avvenuta nelle prime ore del mattino del 27 o nella tarda serata del 26”: eppure, non sapendo dov'è morta, com'è morta e perché è morta, se non sulla base di assunti impossibili da dimostrare in modo inequivocabile, conoscere almeno quand'è morta aiuterebbe a capire come mai, sulla base di un delitto dai contorni così incerti, vi sia tanta fiducia di averne trovato il colpevole. Non potendo determinare i tempi, i luoghi e le dinamiche dell'omicidio, ci si può solo basare su ipotesi: ma quando un uomo è condannato all'ergastolo, darebbe conforto trovare qualche certezza.

Al momento in cui è rinvenuto il cadavere non ce n'è ancora nessuna: a circa 100 metri è trovata una salvietta sporca di sangue; da quella e dai guanti di Yara sono estrapolati due profili genetici maschili e uno femminile, che non trovano alcun riscontro; e non ci sono impronte digitali latenti sugli indumenti. Finalmente, il 2 aprile 2011, si arriva a quella che agli occhi dell'uomo comune apparirebbe come una svolta: “su una manica del giubbotto di Yara era isolato un profilo genotipico misto, la cui componente maggioritaria era perfettamente sovrapponibile al profilo dell'istruttrice di ginnastica ritmica” - ma i giudici ritengono che questo non abbia alcuna importanza perché, spiegano, vi era uno stretto rapporto tra la maestra e l'allieva.

Trovano quindi più logico intraprendere la nota ricerca di un quinto profilo, maschile, appartenente a quello che sarà denominato “Ignoto 1”, prelevando centinaia di campioni e giungendo a identificarlo con Massimo Bossetti in quanto sarebbe figlio illegittimo di tal Giuseppe Benedetto Guerinoni, deceduto negli anni Novanta. Corrispondeva infatti a quello di Damiano Guerinoni, frequentatore della vicina discoteca “Sabbie mobili”, che però al momento della scomparsa della ragazza si trovava in Perù; l'accusa si è quindi dedicata a ricostruire la discendenza, giungendo alla conclusione che l'autore dell'omicidio discenda dal padre per via illegittima e, selezionando le possibili amanti dell'uomo scomparso nel '99, si giunge a identificare Ester Arzuffi, madre di Bossetti.

Di qui partono le indagini sull'operaio di Mapello. Come vedevamo, non c'è prova di contatto tra lui e la vittima; il suo numero di cellulare compare sui tabulati di cella di Brembate, questo sì, ma è proprio lì che vive suo fratello. In altre parole la ragazza va al centro di ginnastica ritmica, si ferma con le insegnanti di ginnastica ritmica a guardare le lezioni di ginnastica ritmica, non torna più dal centro di ginnastica ritmica, non c'è prova al mondo che abbia lasciato il centro di ginnastica ritmica, sul giubbotto c'è il DNA dell'insegnante di ginnastica ritmica, ma si esclude che la morte della vittima abbia sia pur vagamente a che fare col centro di ginnastica ritmica.

È piuttosto imputabile a un tale che non vi è prova che la vittima abbia mai visto né conosciuto, selezionato tra le migliaia che usano il telefonino in quella zona, sulla base del fatto che discende da un uomo deceduto il cui profilo genetico è altamente compatibile con il DNA in pessime condizioni trovato sul cadavere in avanzato stato di decomposizione. Quando la difesa chiede di ripetere la prova del DNA, di cui contesta l'utilizzabilità e l'affidabilità dal punto di vista scientifico, la risposta è no.

Eppure la corrispondenza è parziale: sappiamo del DNA nucleare, ma non di quello mitocondriale. E certo verrebbe da auspicare che nel momento in cui si dà l'ergastolo a un uomo essenzialmente sulla base del suo DNA, vi sia almeno una corrispondenza schiacciante: qui invece il DNA mitocondriale addirittura manca e vi sono solo ipotesi sul perché manchi. Ma la Corte spiega nelle motivazioni che “avendo a disposizione il DNA nucleare, la ricerca a fini identificativi del DNA mitocondriale è inutile”.

I giudici ritengono infatti che la corrispondenza sia schiacciante eccome, anzi, scrivono che “per trovare un altro individuo, oltre a Massimo Giuseppe Bossetti, con le stesse caratteristiche genetiche sarebbero necessari centotrenta milioni di miliardi di altri mondi uguali al nostro, ossia un numero di persone nettamente superiore, non solo alla popolazione mondiale attuale, ma anche a quella mai vissuta dagli albori dell'umanità”: dato chiaro all'accusa, ma non altrettanto alla difesa, che non ha avuto modo di confermarlo.

Altri elementi resi noti dai media nel corso del processo sono via via caduti: il famoso video in cui si vede il furgone di Bossetti ripreso dalle telecamere si rivelò un montaggio che le stesse forze dell'ordine ammisero essere destinato alla stampa, e non si sa neppure di chi sia quell'autocarro; l'altrettanto nota testimonianza di Alma Azzolin, in base alla quale l'imputato e la vittima addirittura si sarebbero dati appuntamento nel parcheggio del cimitero, è caduta. Insomma, non vi è nessuna prova che Yara Gambirasio ci sia mai salita, su quel furgone.

La compatibilità delle fibre sintetiche coi sedili del mezzo, comune, come scrivono i giudici stessi, a tante altre persone, ovviamente non è una prova, così come non ne forniscono alcuna i tabulati, tanto che la difesa ha fatto notare come, in base agli orari degli agganci, l'imputato avrebbe potuto tranquillamente stare a casa sua mentre la vittima era in palestra, cioè alle 17.45: il fatto che dopo quell'orario il suo telefono non generi traffico non ci dice né che era spento né che era acceso, né che era in casa né che era fuori.

La presenza delle particelle di calce rinvenute dagli accertamenti indicherà pure il cantiere, ma non necessariamente l'operaio; del resto, il padre stesso della vittima è geometra di cantiere. Ma la Corte ritiene che il mestiere dell'uomo non abbia niente a che vedere con tali particelle, “perché altrimenti simili particelle sarebbero comparse anche nei campioni prelevati nell'abitazione o sui tamponi cutanei dei familiari”.

E sia pure: ma immaginiamo che, Dio non voglia, domani trovino morto un ragazzo, e per una ragione o per un'altra il principale sospettato sia un bidello che la vittima non ha mai visto né conosciuto, che non ha alcun movente e vive da tutt'altra parte. Poniamo che sul cadavere siano rinvenute tracce di gesso: sta bene, questo punta alla colpevolezza del bidello. Ma se il ragazzo è figlio di una maestra, si può in coscienza includere il gesso tra gli elementi principali con cui si dà al bidello l'ergastolo, solo ed esclusivamente sulla base del fatto che gli altri membri della famiglia e la loro casa non presentassero, al momento in cui sono state effettuate le analisi, tracce di gesso?

Altri indizi non ce ne sono, se si esclude l'ampia enfasi che le motivazioni pongono sul fatto che l'imputato guardasse video pornografici, come centinaia di migliaia di suoi connazionali, o che questi filmati fossero ricercati nel genere “teen”, che però com'è noto non coincide con il circuito realmente pedo-pornografico: si tratta di contenuti erotici che coinvolgono ragazze giovani, non bambine di età inferiore a quella del consenso, e non sono necessariamente illegali.

Peraltro, l'imputato ha un figlio, all'epoca tredicenne, e non è affatto certo che sia stato lui a effettuare tutte le ricerche relative a contenuti pornografici ritrovate sul PC: la sentenza, a questo proposito, mette in estremo rilievo il fatto che solo Bossetti possa aver digitato su Google una chiave di ricerca, nello specifico "ragazzine con vagine rasate".

Ma quest'unica digitazione attribuibile con certezza all'imputato non indica affatto che fosse attratto da bambine al di sotto dell'età del consenso: anzi, chi ha tali pulsioni generalmente va alla ricerca di materiale inequivocabilmente pedo-pornografico, finendo quasi inevitabilmente con l'accedere a quelli messi a disposizione da circuiti criminali – tanto più se detti istinti si rivelassero incontenibili al punto di compiere un rapimento e sevizie culminate in un delitto efferato, semplicemente guardando passare per la strada una sconosciuta ragazzina, peraltro particolarmente pudica e la cui vita esclude qualsiasi atteggiamento meno che casto, per di più in un orario trafficato com'è quello che va dalle sei del pomeriggio alle dieci di sera.

Emerge al limite che Bossetti apprezza fanciulle che hanno l'abitudine di rasare integralmente la propria vagina, il che è certamente molto più di quanto noi volevamo sapere, ma molto meno di quello che volevano sapere i giudici. Il movente sessuale, com'è evidente, non ha alcun riscontro.

Altrettante perplessità generano le conclusioni cui si giunge in merito alle intercettazioni ambientali fra Bossetti e la moglie, tanto più nell'ambito di un provvedimento che priva un cittadino della libertà per sempre sulla base di un esame scientifico che non gli è stato concesso verificare e qualche vago indizio che avrebbe valore solo in funzione dell'esame stesso, al punto che la Corte stessa afferma: “Ciascuno di tali elementi, considerato isolatamente, è suscettibile di letture e spiegazioni diverse ma, ove lo si valuti unitamente agli altri, converge in un'unica direzione, che è quella tracciata dalla prova genetica, di per sé sufficiente, anche in via autonoma, a fondare il giudizio di colpevolezza”.

I consulenti lamentano di non aver potuto visionare i dati, che al solo controllo dei tracciati quattro controlli positivi e sei negativi presentavano anomalie e che risultava l'uso di polimeri scaduti, oltre al mancato ritrovamento del DNA mitocondriale.

Indipendentemente dalla colpevolezza o meno di Bossetti, il dato preoccupante è che una sentenza simile costituisce un precedente giuridico: se basta questo per togliere la libertà a un uomo fino alla morte, nessun cittadino è al sicuro dal rischio di essere condannato a una pena come questa per un crimine che non ha commesso. Ecco perché, quando si rialza il capo dalla lettura delle 157 pagine di motivazioni della sentenza, ci si accorge che nel frattempo è calata la notte non solo esteriormente, ma anche interiormente. E la prova scientifica non solo non intacca, ma rafforza il dubbio politico, perché è il principio stesso in base al quale sia sufficiente di per sé ad essere preoccupante, tanto più che non è stata concessa una controprova.

Ma quand'anche la prova fosse inconfutabile al pari di tutti gli indizi, il punto è che non vi sarebbe comunque la certezza che Massimo Bossetti abbia ucciso Yara Gambirasio. Per quanto atroce sia immaginare simili scenari alternativi, bisogna ammettere che proverebbe solo il contatto col corpo: potrebbe essere stato lui a trasportarlo nel campo, potrebbe aver aiutato il vero assassino a farlo sparire, potrebbe averlo nascosto nel cantiere e in un secondo momento depositato sul terreno, anche la sera seguente; potrebbe perfino, volendo sposare la tesi difficilmente sostenibile che sia un maniaco sessuale, aver rinvenuto la vittima nel campo a decesso già avvenuto, ed aver espresso le sue pulsioni solo dopo.

Potrebbe essere stata uccisa nel centro sportivo, dove gli autori del delitto si sarebbero rivolti a lui per far sparire il corpo. C'è il profilo genetico di un altro uomo: costui e la istruttrice di ginnastica potrebbero allo stesso modo, in via del tutto teorica, essere gli autori dell'omicidio e aver nascosto il corpo al cantiere con la complicità di Bossetti, per poi spostarlo; e così via.

La Corte sostiene che il DNA è suo, che lui quel giorno poteva essere in zona, che alcune tracce trovate sul corpo della vittima sono compatibili col suo furgone e col suo lavoro, e che gli piacciono i film porno: ma anche a volerlo dare per assodato tutto questo proverebbe che lui è entrato in contatto col corpo, non che l'ha uccisa. Il fatto che sia l'autore del delitto è una semplice deduzione, valida come qualunque altra; e apprendere che ci si può trovare in carcere a vita sulla base di una semplice deduzione non è affatto rassicurante, perché perfino se fosse esatta resta una deduzione, e se s'introduce nel diritto che questo è sufficiente a condannare un uomo a una pena tanto alta, magari s'è trovato l'assassino, ma si è smarrito il diritto.

Nelle motivazioni della sentenza si scambia continuamente l'improbabile con l'impossibile e il probabile con il certo, e in virtù di questo equivoco si priva un uomo della libertà a vita. Il modo, infine, in cui ogni dettaglio della tesi accusatoria è pienamente sposato, mentre si respinge ogni ipotesi difensiva, pista alternativa e addirittura la verifica stessa della prova regina richiesta dalla difesa consegna uno scenario che andrebbe considerato nell'ambito del dibattito sull'urgenza di una riforma della giustizia che sancisca, fra l'altro, la separazione delle carriere.

Parte II – Secondo grado di giudizio.

Il primo grado ha lasciato tante domande prive di risposta. Nonostante la sicurezza con cui la giustizia afferma di aver individuato il colpevole, la giornata in cui Yara Gambirasio è morta resta avvolta in un mistero amaro, che ricopre a sua volta come una nebbia un delitto efferato che rivela, come unica certezza, la perversa abiezione che si cela nel cuore dell'uomo. Le stranezze sono tali e tante che è davvero difficile orientarsi.

Ad esempio, secondo una testimonianza alle 18.30 dello stesso giorno si era presentato presso il centro sportivo un uomo che in un incontro precedente colei che riferisce il fatto era stata costretta ad allontanare per via di sgradevoli apprezzamenti; lo aveva invitato a rivolgersi alla reception e aveva poi saputo che era andato al bar e aveva infastidito alcuni dei presenti. A carico di quest'uomo, però, non emerge alcun elemento nonostante controlli, intercettazioni e campione salivare. Secondo il Tribunale, l'assassino è Massimo Bossetti: il DNA lo prova.

Ma è davvero difficile credere che il movente sia stato di tipo sessuale, anche perché l'imputato stesso non ha mai avuto, né prima né dopo il fatto, alcun atteggiamento accostabile al profilo del maniaco sessuale omicida, se si eccettua l'enfasi posta su qualche video pornografico del genere “teen”, considerando peraltro che, come affermeranno poi gli stessi giudici, “non era rilevata nessuna traccia di navigazione in siti dal contenuto palesemente pedo-pornografico o nel c.d. dark web”.

La Corte di primo grado aveva considerato “ragionevole ritenere che l'omicidio fosse maturato in un contesto di avance sessuali, verosimilmente respinte dalla vittima, che aveva scatenato la reazione di violenza e sadismo del prevenuto”: oltre alle varie perplessità suscitate da tale conclusione, tale movente non era stato messo in connessione con la personalità dell'imputato; nella vita di questo maniaco sessuale omicida non s'era mai verificato nulla d'insolito né lui aveva manifestato il benché minimo segno di squilibrio. Ma per l'accusa “l'accertamento del movente non era essenziale in presenza dell'attribuibilità dell'azione”.

Così, quando la difesa ricorre in appello, ci sono veramente troppe cose che non tornano: e pare accorgersene anche il Tribunale del riesame di Brescia, il quale rivolge un serio monito. Sottolinea infatti che “l'anomalia denunciata dalla difesa concernente gli esiti delle indagini sul DNA mitocondriale non trova... una soluzione netta, di talché le aporie potranno trovare composizione solo se saranno espletate analisi aggiuntive, in sede di perizia, in dibattimento od in corso di incidente probatorio”.

Un'anomalia, quella del DNA mitocondriale, che non aveva trovato alcuna valida spiegazione scientifica. Non era stato accertato neppure luogo, ora della scomparsa e della morte, dinamica del prelevamento e del trasporto. Non solo: Eddy Castillo era stato rinvenuto nello stesso campo 40 giorni prima, ma non vi era stata nessuna comparazione; coincidenza che i legali di Bossetti sottolineano nel ricorso, assieme alle sorprendenti affinità con l'omicidio di Sarbjit Kaur, scomparsa lo stesso giorno della settimana a un mese di distanza, stesse ferite, posizione analoga: il processo era stato “frettolosamente archiviato su richiesta del P.M. dott.ssa Ruggeri come suicidio”.

Si potrebbe andare avanti a lungo: c'era stata la creazione di un video ritraente un automezzo, in accordo con la Procura, per esigenze di comunicazione; l'errore commesso dal dott. Giardina, il quale aveva confrontato il DNA mitocondriale contenuto nelle tracce individuate dal RIS con quello di 532 soggetti senza rendersi conto che stava confrontando i profili mitocondriali delle potenziali amanti di Giuseppe Benedetto Guerinoni con quelli di Yara, secondo gli avvocati “evidenziava la fallibilità umana, mettendo in luce la possibilità che anche l'assenza del rinvenimento del DNA mitocondriale di Bossetti fosse imputabile a errori commessi durante le indagini tecniche”.

Non era neppure certo che Giuseppe Guerinoni fosse effettivamente il padre di Ignoto 1: vi era un'anomalia attribuibile a un difetto di kit, che poteva avvenire con l'utilizzo di kit scaduti, utilizzati in fase d'indagine come stigmatizzato dalla difesa. Ulteriori anomalie potevano trovare spiegazione, a giudizio dei legali, o in un'aggiunta di materiale o in una sostituzione di provette o in un errore degli inquirenti. Inoltre, “se l'analisi del contenuto gastrico poteva consentire di ritenere che il decesso fosse avvenuto non già nella tarda serata del 26.11, né nelle primissime ore del mattino, ma successivamente, l'aggressione non poteva essere avvenuta prima della tarda serata del 26.11, quando Bossetti era sicuramente a casa".

Oltre alla mancata ricostruzione delle dinamiche dell'omicidio e alla debolezza della tesi secondo cui il cadavere sarebbe rimasto sempre nel campo di Chignolo, la corificazione era incompatibile con la presenza del corpo per l'intero periodo sul campo perché si verifica solo in ambienti chiusi. Per di più, risultava corificato un braccio coperto dalla manica del giubbotto. Gli avvocati parlano di "strumentalizzazione della scienza": si definiscono scientifici i dati a sostegno della colpevolezza dell'imputato, e si escludono tutti gli altri. Secondo loro, 12 elementi su 20 del materiale trovato sotto le scarpe presentavano diversità rispetto alla conformazione del suolo di Chignolo: considerato che prima la vittima era stata in palestra, quale terreno poteva aver calpestato?

C'era stata confusione perfino tra la calce e il calcio, sempre secondo i difensori di Bossetti, il quale all'epoca dei fatti era reduce da un intervento all'ernia mentre la ragazzina era un'atleta: non si capisce come avrebbe fatto a portarla a spalle per centinaia di metri attraverso l'impervio campo di Chignolo se l'avesse stordita prima, mentre se l'aveva aggredita nel campo perché non fosse fuggita o, se l'avesse raggiunta, non avesse riportato segni di fuga e colluttazione. Non solo non c'era prova di contatto tra vittima e assassino, ma neppure traccia della vittima sul mezzo, nonostante il copioso sanguinamento.

Tra le varie perizie richieste dalla difesa, c'è quella sulle ferite per capire se fossero compatibili con un atto compiuto “da mani inesperte quali, a titolo esemplificativo, quelle di minori, prodotte al culmine di un atto di bullismo degenerato. Tale ultima tesi avrebbe peraltro dato una giustificazione alla ricerca e al prestito di libri concernenti il tema del bullismo, da parte della vittima, pochi giorni prima della scomparsa, presso la biblioteca di Brembate (libri: “Piantatela! Chi l'ha detto che il bullismo esiste solo tra i maschi?” di Jacqueline Wilson e “Brutta!” di Constance Briscoe, preso in prestito il 20.11.2010, così come confermato dal teste Guamieri Pietro, bibliotecario, sentito all'udienza del 18.03.2016).

Effettivamente, qualche domanda in relazione a un simile scenario viene tuttora da porsela. La ragazza sta facendo delle ricerche sul bullismo: fa pensare che ne sia vittima. Poi si reca alla palestra, dove ha le sue maggiori frequentazioni, e non torna più. I RIS identificano la presenza di DNA dell'istruttrice di ginnastica sul giubbotto e – fondamentale – non solo nel giorno della scomparsa Yara Gambirasio non aveva avuto contatto con l'insegnante, come accertato in dibattimento, ma com'è facile capire durante l'allenamento non indossava certo indumenti pesanti.

Al contrario, le giacche delle allieve erano chiuse nello spogliatoio, al quale le insegnanti non avevano accesso. Com'era finito lì quel DNA (l'unico attribuibile in modo certo a una persona ben conosciuta dalla vittima) chiaramente visibile a occhio nudo al punto d'essere stato fotografato? Dalle testimonianze risulta che la sera del delitto la persona cui appartiene il profilo genetico era proprio insieme al custode, fa notare la difesa: lo stesso che aveva dato, di volta in volta, una versione diversa dei fatti. Queste sono le domande che si rincorrono nella mente dei difensori e che non sembravano aver turbato gli inquirenti, sicuri di aver trovato il colpevole.

Ma la Corte d'appello pare dello stesso avviso. Nonostante i rilievi mossi anche dal Tribunale del riesame, nega la perizia sul DNA: la ritiene superflua e in ogni caso l'esame sarebbe irripetibile. Il profilo genetico d'Ignoto 1, inoltre, secondo i giudici appartiene senza ombra di dubbio all'autore del crimine e con la stessa certezza è attribuibile a Massimo Bossetti. L'unica spiegazione della traccia di DNA di Ignoto 1 in quella posizione, spiegano, è che l'autore del crimine l'abbia lasciata al momento del ferimento, assumendo che sia sangue il fluido da cui deriva ed escludendo automaticamente gli altri quattro profili genetici rinvenuti sul cadavere.

Il DNA mitocondriale in ogni caso è inutile. Non c'è ragione di controllare l'ottimo operato dei consulenti dell'accusa; al contrario, nelle motivazioni non risparmiano critiche a quelli della difesa. In altre parole, ogni indizio converge a sostenere la verità scientifica, che a sua volta però non è suscettibile di verifica né di controprova. Karl Popper avrebbe replicato che, ammettendo che l'esame sia effettivamente irripetibile, la scientificità della prova contro Bossetti non è tale, perché non essendo ripetibile non è falsificabile: e se la prova non è scientifica, l'imputato è stato condannato senza prove.

Il fatto che non sia ripetibile è peraltro ampiamente contestato, in particolare da un consulente di parte che afferma gli sia stata impedita l'analisi e che sia stata asserita la presenza di decine e decine di campioni, ovvero che dapprima si sostenesse la possibilità di fornire migliaia di ripetizioni, per poi invece dichiarare che la traccia si era completamente esaurita. In questo caso, sarebbe stato negato ai difensori perfino di verificare la prova regina con una perizia di parte pur essendocene la possibilità: è appena il caso di ricordare che senza quella prova non solo l'imputato non sarebbe stato condannato, ma non sarebbe stato neppure arrestato.

Nessuna pista alternativa è presa in considerazione. Ogni accostamento col “suicidio” di Sarbjit Kaur è da respingere, così come tutte le richieste di perizia avanzate dalla difesa. La traccia genetica lasciata dalla istruttrice di ginnastica? Non è significativa. I giudici di secondo grado, come quelli del primo, liquidano ogni interrogativo nel merito. Al tempo stesso, ritengono plausibile che il corpo sia rimasto nel campo per tre mesi, senza che nessuno lo notasse, e provato il fatto che il decesso sia avvenuto presso lo stesso luogo, dato che “la corificazione di alcune parti del corpo del cadavere di Yara non si pone in alcun modo in contrasto con la sua permanenza per tre mesi nello stesso campo di Chignolo”.

Si ravvisano perciò diversi passaggi logici difficili da comprendere. Quand'anche il corpo fosse stato sempre nel campo, dov'è la prova che sia stata uccisa lì? E seppure il profilo genetico di Ignoto 1 fosse certamente di Bossetti, su quali basi sarebbe necessariamente quello dell'autore dell'omicidio? Non si conosce neppure la natura del fluido corporeo che ha lasciato la traccia: si ritiene che sia sangue, ma è solo una deduzione. I giudici spiegano inoltre che non si può considerare l'assenza del mitocondriale come un'anomalia, perché normalmente non è usato in ambito forense. (È possibile che sfugga a noi il nesso fra un assunto e l'altro, perché se così non fosse sarebbe come dire: il fatto che questa mela sia di colore viola non si può considerare un'anomalia, perché normalmente non viene servita con lo spumante).

Non c'è dubbio alcuno, per i giudici, che Yara sia uscita dalla palestra. Bossetti era in zona, come dimostrano le celle telefoniche: e a nulla valgono le obiezioni della difesa, perché la cella stessa prova, in base all'aggancio, che Bossetti non stava affatto tornando a casa, ma era dall'altro lato, cioè quello della palestra. Eppure, quand'anche lui alle 17.30 non si stesse dirigendo verso casa, non c'è prova al mondo che dopo le 18.49 fosse davanti alla palestra, mentre le testimonianze sono concordi nel dire che alle 19.30, o al massimo entro le 20.00, era già a casa.

A questo proposito Bossetti, da intercettazione, dice che si ricorda che gli si era scaricato il telefono quel giorno, perché aveva dovuto suonare il clacson per chiamare una persona che aveva incontrato, non potendola raggiungere tramite cellulare. I giudici sottolineano quindi che proprio quel giorno aveva il telefono scarico e che si ricordava perfettamente quel particolare, ma non cosa avesse fatto nel corso del pomeriggio; e insistono sul fatto che egli rammenti tale dettaglio insignificante, senza essere capace di riferire nulla di tutto il resto.

Questo però capita a chiunque di noi: a chi non succede di non riuscire a ricostruire una giornata distante nel tempo, al di fuori di un singolo fatto, di per sé privo d'importanza, rievocato in base a chissà quale collegamento mentale? La Corte mette quindi in dubbio il fatto che l'imputato sia rincasato per cena, nonostante appaia piuttosto logico quello che afferma la moglie di Bossetti, ovvero che se non fosse tornato per cena lei se lo ricorderebbe e dunque esclude che sia arrivato molto dopo le 19.30.

Lei ha sempre ribadito che la sera si cenava tutti insieme intorno a quell'ora, e che il marito non era rientrato a un orario insolito: quando si ha l'abitudine, in famiglia, di riunirsi a mangiare, può capitare che un membro tardi di un quarto d'ora o di mezz'ora; sarebbe difficile, passati mesi, confermare o negare che ciò sia accaduto in una sera qualunque. Ma se il capofamiglia ritarda, poniamo, un'ora, per di più col telefono scarico e quindi staccato fin dal pomeriggio, semplicemente ci si preoccupa – e dunque non c'è alcun dubbio che la signora saprebbe perfettamente se il coniuge fosse rientrato con un ritardo degno di nota rispetto al consueto orario del desco.

Anzi, è assolutamente ovvio che se fosse tornato ad esempio a mezzanotte, dopo essere stato irraggiungibile per ore e ore, i familiari non avendo sue notizie avrebbero potuto nel frattempo perfino chiamare la polizia, e in ogni caso è impossibile immaginare che non si siano sovvenuti di una serata così angosciosa. Ma la donna ha invariabilmente ribadito il contrario, cioè che se non era tornato alle 19.30 poteva essere tornato alle 20.00, anche quando non sapeva di essere ascoltata nel corso delle conversazioni telefoniche con lo stesso Bossetti.

Quindi se questi fosse stato fuori per un tempo compatibile con quello necessario all'omicidio, considerato che qui si assume che il delitto sia stato commesso al campo di Chignolo e che sia avvenuto dopo le 18.50, è assolutamente impossibile che l'abbia consumato in un tempo tale da non allarmare la famiglia, che non lo avrebbe visto rincasare se non molto tardi, a meno di voler credere che abbia tardato giusto una ventina di minuti o al massimo una mezz'oretta, immaginando perciò che abbia rapito la ragazza, l'abbia portata al campo, l'abbia uccisa, abbia nascosto il cadavere e abbia compiuto il tragitto per rincasare in un'ora circa.

Perciò è difficile capire come possa la Corte ritenere "irrilevante" l'ora del delitto e come possa considerare compatibili tali tempistiche con quelle dell'omicidio, visto che i tempi sarebbero risicati per un killer professionista. Qui si tratta invece di un uomo che secondo la tesi dei giudici stessi ha ucciso per un movente sessuale, quindi un maniaco omicida che ha perso disordinatamente il controllo delle sue pulsioni e avrebbe fatto tutto questo senza premeditazione, visto che neppure le istruttrici sapevano che la vittima sarebbe andata in palestra, né lo avrebbe immaginato lei stessa quella mattina, avendolo deciso all'ultimo minuto.

"Quanto alla obiezione secondo cui Yara difficilmente si sarebbe fatta avvicinare da sconosciuti”, precisa la Corte, “tale dato è, purtroppo, smentito proprio dalla circostanza secondo cui Yara è sparita mentre stava andando a piedi a casa ed è stata trasportata nel campo di Chignolo immediatamente dopo essere stata aggredita e dopo essere stata fatta salire su un mezzo di trasporto con la costrizione o con l'inganno". Eppure non riusciamo a trovare la prova di questa circostanza.

Ma fra tutte le contraddizioni che saltano all'occhio nella sentenza di appello, ce n'è una sopra ogni altra che lascia attoniti: i giudici negano l'utilità di una maggiore indagine psicologica sulla personalità dell'imputato per vedere se sia effettivamente compatibile con quella di un maniaco sessuale omicida, respingendo così le richieste della difesa.

Al tempo stesso, però, pongono il massimo accento sul suo atteggiamento psicologico, rilevando ad esempio come non sia quello, a loro avviso, di un uomo disperato per la propria fraintesa innocenza e cerchi invece di trarre a proprio vantaggio il clamore mediatico della vicenda, e insistendo ben più che in primo grado sui suoi gusti sessuali e i video pornografici. Per riassumere, si può affermare senza timore d'errore che la Corte insista nel voler accentuare determinati elementi della personalità dell'imputato, al fine di dimostrare il fatto che sia un individuo cinico, lussurioso e avido di denaro.

Ora, qui il punto è che quand'anche ciò fosse perfettamente corrispondente al vero, resta il fatto che bisogna provare non che egli abbia una indole genericamente malvagia o viziosa, ma che la sua personalità sia compatibile con quella di un sadico maniaco omicida mosso da pulsioni di tipo sessuale. E le individualità di questo tipo, com'è noto, corrispondono a tutt'altre caratteristiche: che siano o meno consumatori di pornografia, o che abbiano una visione utilitaristica dell'esistenza, è del tutto ininfluente.

In genere i soggetti che compiono questi atti sono più facilmente chiusi, introversi, remissivi, non di rado hanno subito abusi a loro volta: e il modo in cui questi istinti latenti emergono imprevedibilmente sorprende spesso anche loro. Se si trattasse di convincere l'uditorio del fatto che Bossetti fosse in realtà un killer per la mafia, allora sì: eccolo, guardate, gli interessano i soldi al punto di voler sfruttare la situazione, non ha senso morale, etc.

Ma tutte queste caratteristiche non rispondono minimamente ai tasselli che, una volta uniti, danno l'inquietante figura dell'uomo capace di uccidere con somma efferatezza mosso, in modo del tutto disordinato ed evidentemente patologico, da richiami carnali. Per fare un esempio, dal punto di vista logico è quasi come se noi volessimo a tutti i costi dimostrare che un tale sia un eccellente fantino, e continuassimo a descrivere la sua abilità nell'inerpicarsi sulle montagne, o nella pesca subacquea: avrà pure scalato l'Everest, ma questo non significa che sia bravo ad andare a cavallo.

Così le lunghe dissertazioni sulla sessualità e la moralità dell'imputato lasciano alquanto perplessi. In ogni caso, per i giudici è “superflua, ai fini probatori, la ricerca del movente essendo ininfluente dare dimostrazione di una causale che, attesa la sicura attribuibilità ad una persona, è sicuramente esistita ma può essere stata la più varia, essendo diverse per intensità le ragioni di ciascun individuo e potendosi uccidere anche per un motivo banale, futile o da altri ritenuto inconsistente".

Dunque è rinvenuto il cadavere di una ragazza di 13 anni, scomparsa tre mesi prima. Vi sono 5 profili genetici, di cui solo uno noto di persona frequentata dalla vittima e quattro ignoti, tre maschili e due femminili. Non si sa di cosa sia morta, dove sia morta, perché sia morta né quando sia morta.

Uno dei profili ignoti corrisponde, secondo analisi non ripetibili, a quello di un operaio che lavora in zona. È arrestato e condannato all'ergastolo in due gradi di giudizio; sono ritenute irrilevanti una controperizia della prova del DNA, ogni altra perizia e ipotesi alternativa, l'ora e la causa del decesso, e pure il movente del delitto: l'operaio è l'assassino. Punto.

Questo è il caso Bossetti.

IL RICORSO ALLA CORTE DI CASSAZIONE.

Ricorso in cassazione da 600 pagine per Bossetti: “E Di Pietro non lo difenderà”. Il suo avvocato Claudio Salvagni: "Non ci servono rinforzi. Massimo è sicuro che dimostrerà la propria innocenza", scrive Mauro Paloschi il 30 novembre 2017 su "Bergamo News". Sempre convinto della propria innocenza, Massimo Bossetti proseguirà la sua battaglia giudiziaria fino alla Corte suprema. Mercoledì 29 novembre il suo avvocato Claudio Salvagni ha presentato in tribunale il ricorso in cassazione contro la sentenza di ergastolo. Un documento di quasi 600 pagine, 595 per la precisione, con tutti i punti emersi nel corso dell’inchiesta e ritenuti dubbi dal suo pool difensivo. “Di cui non farà parte Antonio Di Pietro”, ha chiarito Salvagni. Il carpentiere di Mapello è stato condannato lo scorso 17 luglio, anche in Appello, al carcere a vita per il brutale delitto di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa da Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. “Il Dna sul cadavere della vittima è dell’imputato: non serve un altro test e non si può rifare”, queste in sintesi le motivazioni della sentenza del presidente della Corte di Brescia Enrico Fischetti, che aveva accolto l’impianto accusatorio già valido per il verdetto di primo grado al tribunale di Bergamo. Il procedimento giudiziario si sposterà quindi a Roma. Il terzo grado si svolgerà la prossima estate. “Abbiamo presentato un ricorso articolato e dettagliato – ha spiegato Salvagni –, in cui abbiamo cercato di spiegare tutto ciò che a noi risulta anomalo. Sono 21 i punti. A partire da quel famoso Dna, per il quale continuiamo a chiedere una perizia. Passando poi per tutti gli altri indizi emersi nel corso dell’indagine, anche questi molto strani. Speriamo che questa volta vada meglio”. Ma come sta Bossetti? “In questi giorni non ho avuto modo di incontrarlo – prosegue il legale – perché ero impegnato a preparare il ricorso. L’ultima volta che l’ho visto era come sempre, fiducioso e determinato. Ribadisce la sua innocenza ed è sicuro che riuscirà a dimostrare questo”. Nelle settimane scorse si era parlato di un possibile coinvolgimento nel pool difensivo del magistrato di “Mani pulite” Antonio Di Pietro. Un’ipotesi smentita da Salvagni: “Nego categoricamente. Il nostro gruppo rimarrà lo stesso, non ci servono rinforzi. Siamo certi che daremo battaglia”. La Corte suprema di cassazione ha la funzione di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto soggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”, come stabilito dall’articolo 65 dell’ordinamento giudiziario. La cassazione è il tribunale di ultima istanza nel sistema giurisdizionale ordinario italiano. Non giudica sul fatto ma sul diritto: il suo ruolo non è quello di riesaminare prove, bensì quello di verificare che la legge sia stata applicata correttamente e che, nei precedenti gradi, il processo si sia svolto secondo le norme vigenti.

Bossetti, via al mega-ricorso per scongiurare l’ergastolo: "E ora dovete ascoltarci". Bergamo, 595 pagine contro Dna e ricostruzione, scrive Gabriele Moroni il 30 novembre 2017 su "Il Giorno". Seicento pagine (595 per l’esattezza) articolate in 21 punti e con allegato un cd, aperte da un incipit polemico: «In questo processo speriamo di essere maggiormente ascoltati non solo noi ma anche l’imputato». È il monumentale ricorso in Cassazione a cui Massimo Giuseppe Bossetti affida le residue speranze di affrancarsi dall’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. I difensori Paolo Camporini e Claudio Salvagni, accompagnati dal consulente Sergio Novani, lo hanno depositato ieri a mezzogiorno alla cancelleria del tribunale di Como. La richiesta alla Suprema Corte è che venga annullata la sentenza con cui, lo scorso 17 luglio, la Corte d’Assise d’appello di Brescia ha confermato il carcere a vita per il muratore di Mapello. Il Dna rimasto sugli indumenti della piccola vittima, pietra miliare della condanna (prova “inconfutabile”, coincide con quello di Bossetti), è anche l’architrave difensivo. I legali sottolineano ancora una volta l’anomalia dell’assenza del Dna mitocondriale (che individua la linea materna) dell’imputato. Si chiedeva una nuova perizia. Nella sentenza redatta dal presidente Enrico Fischetti la risposta è che sarebbe inutile e comunque impossibile perché «quello che è certo è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni». La difesa replica che è vero il contrario. Richiama, con il verbale di udienza, quanto dichiarato il 20 novembre 2015, in Assise a Bergamo, dal genetista milanese Giorgio Casari, teste dell’accusa: «Avendo preso in carico tutti i Dna, che abbiamo ancora al San Raffaele, quindi ovviamente questi sono a disposizione, li abbiamo ancora tutti, non abbiamo finito nessuna aliquota. Quindi tutto quello che noi abbiamo usato negli stessi tubi c’è ancora materiale per ulteriori indagini volendo». La difesa contesta dalle fondamenta la ricostruzione medico-legale fino al tempo di permanenza del cadavere nel campo di Chignolo d’Isola dove viene ritrovato, il 26 febbraio 2011, a tre mesi esatti dalla sparizione della tredicenne di Brembate di Sopra. I reperti, a cominciare dagli indumenti della piccola vittima, non sono mai stati mostrati alla difesa, che è stata lesa così nei suoi diritti. Secondo la sentenza, le tracce biologiche sugli slip sono contestuali all’azione omicidiaria dal momento che esiste una corrispondenza “topografica” fra la traccia 31 G 20 sugli slip e le tracce 62-2 e 62-3 sui leggings. Per la difesa non è vero. La traccia biologica è stata impressa quando gli slip sono stati portati davanti, così come sono stati trovati, spostati e attorcigliati. Il giubbotto era chiuso e indossato normalmente, non è stato sollevato dall’assassino. Le scarpe erano slacciate. Tutti elementi che inducono la difesa a riformulare la tesi che Yara è stata colpita, spogliata e rivestita altrove e solo in un secondo tempo trasportata nel campo. È contestata la sicurezza con cui la traccia sul corpo viene ricondotta a sangue. Ogni antenna telefonica ha tre settori (con tre direzioni diverse). La sentenza confonde fra antenne e settori.

Caso Yara Massimo Bossetti news: la difesa presenta ricorso in Cassazione, scrive giovedì 30/11/2017 M.B. Michela su "UrbanPost". Caso Yara Massimo Bossetti news: la difesa presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza d’Appello che ha cnfermato la condanna all’ergastolo per il muratore di Mapello. Le parole dell’avvocato Claudio Salvagni. Omicidio Yara Gambirasio ultime news: la difesa di Massimo Bossetti ha presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza d’appello che lo scorso 18 luglio ha confermato la condanna all’ergastolo per il muratore di Mapello. Bossetti, com’è noto, si dichiara innocente e completamente estraneo ai fatti che gli vengono contestati. La corte d’assise di Bergamo prima (1° luglio 2016) e quella d’assise d’appello di Brescia poi hanno sposato in ogni suo punto il quadro accusatorio della procura di Bergamo titolare delle indagini, ritenendo l’imputato l’unico responsabile del delitto della ginnasta tredicenne di Brembate, aggredita e lasciata morire di freddo la sera del 26 novembre 2010 nel Campo di Chignolo d’Isola, dove fu rinvenuta casualmente tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. Le due sentenze sono state aspramente contestate dai difensori di Massimo Bossetti, che come annunciato da tempo, si sono appellati facendo ricorso in Cassazione. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini ieri 29 novembre hanno depositato al tribunale di Como il ricorso in Cassazione contro la sentenza di secondo grado che ha visto confermare per il loro assistito la condanna all’ergastolo. “Abbiamo presentato un ricorso di 595 pagine, in cui il nodo principale resta il Dna, è una sentenza sbagliata che non ha senso scientifico, che arriva a una conclusione, ma senza avere gli elementi per emetterla. Dalla perizia al mancato accesso ai reperti, a Bossetti è stato impedito di difendersi”, ha dichiarato Salvagni. Nel maxi ricorso si fa riferimento anche ai dati sulle celle telefoniche, sulle fibre trovate sul corpo della vittima, sul passaggio del furgone ripreso dalle telecamere: “è una sentenza completamente fuori strada”, ha precisato il legale del carpentiere bergamasco, auspicando – c’è scritto nel ricorso – “di essere maggiormente ascoltati non solo noi ma anche l’imputato”. Massimo Bossetti è in carcere dal 16 giugno 2014, incastrato dalla prova genetica del Dna, rinvenuto sui leggings e sugli slip della vittima, inizialmente attribuito a un Ignoto 1 e dopo una titanica indagine sui profili genetici ricondotto a lui. Procedimento questo mai accettato dai difensori dell’imputato, che mettono in discussione il modus operandi dei Ris e il fatto che la traccia biologica in questione fosse degradata e monca, priva cioè del Dna mitocondriale (linea materna), sebbene quest’ultimo non sia utilizzato in genetica forense per attribuire un Dna ad un soggetto. Solo il Dna nucleare è infatti utilizzato a tal fine, e nel caso di specie quello rinvenuto sul corpo della vittima è di Bossetti al 99,9%.

Yara: il perverso intreccio della famiglia Bossetti. Ester Arzufi è il cuore del mosaico familiare che ha consentito di individuare il presunto assassino. Perché finora ha taciuto? E perché ha chiamato i due figli come Guerinoni e sua moglie?  Scrive Panorama. L’uomo fermato con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio, difficilmente ammetterà le sue colpe. Quando i carabinieri del Ros lo hanno prelevato da un cantiere di Seriate, Giuseppe Bossetti è rimasto impassibile, e poco più tardi, davanti al pubblico ministero Letizia Ruggeri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il fatto che sia rimasto tre anni e mezzo in silenzio senza farsi vincere dai morsi della coscienza, la dice lunga sulla sua personalità. Ma anche se si chiudesse definitivamente a riccio, contro di lui ci sono prove inconfutabili: il suo dna trovato sui leggins della ragazza, il suo telefono agganciato alla cella di Brembate la sera del 26 novembre 2010, un’ora prima della sparizione della ginnasta. Quanto basta, insomma, per inchiodarlo alle sue pesanti responsabilità. Di fatto, a questo punto delle indagini si produce una sorta di inversione dell’onere della prova: non sono più gli inquirenti che devono dimostrare la sua colpevolezza, ma Bossetti dovrebbe tirar fuori delle circostanze certe e straordinarie che lo scagionino. Come, per assurdo, un uccellino che ha intinto il becco nel suo sangue per poi volare e andare a posarsi sul corpo della povera Yara abbandonato in mezzo alle sterpaglie. Impresa impossibile, per rendere l’idea. Certo, il suo silenzio lascerebbe senza risposta la domanda più importante che tutti noi ci facciamo da tre anni e mezzo: perché? Perché Yara? Cosa lo ha spinto a sequestrare e lasciare morire di freddo una ragazza di tredici anni? Stiamo parlando del movente, per intenderci. Un’altra questione che ci si pone il giorno dopo il suo fermo è se Bossetti conoscesse Yara e aveva rapporti con lei, se l’ha costretta a seguirla, se l’ha ingannata o convinta con qualche scusa. A questo riguardo, gli investigatori stanno cercando di districare l’album di famiglia dell’assassino. Lui si chiama Massimo Giuseppe, porta il secondo nome del suo padre biologico, Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno, di cui probabilmente ignorava perfino l’esistenza. Bossetti ha una sorella gemella: Laura Letizia. Strana coincidenza: Laura è il nome della moglie di Giuseppe Guerinoni. La mamma dell’assassino e della sua gemella invece si chiama Ester Arzufi, ha 67 anni. Perchè ha dato questi nomi ai suoi due figli? Si tratta di un intreccio perverso? In tutto questo, un ultimo elemento familiare che suscita perplessità: la zia dell’assassino, moglie del fratello di Guerinoni, ha prestato servizio in casa Gambirasio come domestica. Potrebbe essere un caso, ma come insegna Henry Boch, il famoso detective creato dalla penna di Michael Connelly, nell’indagine penale le coincidenze non esistono.

Massimo Bossetti: Chissà se i giudici di Cassazione si accorgeranno di aver a che fare con due processi dell'orrore in cui si è creduto alla favola della "grande indagine". Peccato che in Cassazione non giudichino le indagini ma i processi, perché qualsiasi giudice scevro da condizionamenti può capire che seguendo la "prima pista investigativa", la più semplice e quindi sempre la migliore, si sarebbe giunti presto a una conclusione del caso e all'arresto dei veri colpevoli. Scrive lunedì 24 settembre 2018 Massimo Prati su Albatros Volando Controvento. Fra meno di venti giorni i giudici di Cassazione decideranno della vita di Massimo Bossetti. Non lo faranno avendo tutte le carte in mano, perché loro giudicheranno i processi antecedenti e non le indagini della procura. Le indagini furono buone indagini? Questa domanda non se la porranno in Cassazione, ma è la domanda cardine che dovremmo farci tutti, perché gli investigatori sanno che per cercare gli assassini è sempre meglio indagare usando le testimonianze attendibili, mentre per sbagliare assassino basta fare il contrario e ignorare o credere inattendibili le testimonianze dei testimoni oculari che giurano di aver visto qualcosa. Gli investigatori lo sanno che le indagini semplici sono le migliori e le seguono sempre, tranne quando il marasma generale colpisce la mente e fa vedere orchi e draghi in giro per strada. In questo caso vince la confusione. E quando la confusione prende la mente le favole immaginate sembrano reali. Se poi diventano la base per condannare, i procuratori colpiti dal marasma sanno di rischiare la figura barbina e, quindi, di dover inserire agli atti del processo solo ciò che serve a far condannare "il proprio colpevole". Insomma, per evitare una debacle processuale alla procura basta escludere dagli atti gli interrogatori scomodi resi da testimoni in sede di prime indagini. In questo modo nessun giudice potrà mai sentirli parlare. Questo accade perché è la procura che decide quali carte portare a processo e quali no! Ed è con le carte portate dalla procura che si giocherà in tribunale sulla vita di un imputato! E c'è da dire, purtroppo, che il giudice non sa nulla di come si siano svolte le indagini e quelle carte le accetterà perché frutto di un lavoro durato anni. Qualcosa deve essere cambiato nel nostro "sistema giustizia", perché è indubbio che troppo spesso vengono portate al giudice carte parziali frutto di una teoria di indagine elaborata dalla procura a proprio piacimento senza l'ausilio di alcuna vera testimonianza visiva. Il dio prova è l'indizio che se unito ad altri uccide la verità! Ma tutti sappiamo che ci sono indizi che si possono accollare a chiunque, non solo all'imputato. Ma tutti sappiamo che ci sono indizi che possono essere letti in vari modi, non solo in maniera colpevolista. Dico io: se i testimoni oculari ci sono usali per le tue indagini! Se li escludi a priori l'indagine può cambiare volto e tutto diventa possibile, anche l'impossibile! Prendiamo la scomparsa di una ragazzina qualunque, quale potrebbe essere Yara, e come nel suo caso mettiamo che il ritrovamento del cadavere avvenga a mesi di distanza dal sequestro, quando anche il più esperto anatomopatologo dovrà per forza basare la propria perizia solo su mere ipotesi. Le mere ipotesi non aiutano le indagini ma le complicano, perché è grazie a queste mere ipotesi che a un procuratore viene messa in mano la sorte di chiunque, e avendo una popolazione a sua disposizione spesso ha solo l'imbarazzo della scelta. In questo caso tutte le persone che vivono nella provincia sconvolta da un omicidio sono passibili di condanna, e visto che nulla verrà dato per certo il procuratore potrà ipotizzare qualunque cosa e cambiare anche gli orari della morte... se non sono compatibili con la sua teoria... perché l'arco di tempo che indicherà il patologo in perizia sarà per forza molto ma molto ampio. Si parla di ore. E visto che chi ha un alibi alle sette di sera non è detto lo abbia anche a mezzanotte, nell'omicidio si possono coinvolgere migliaia di persone. Questo è un sistema tragico di indagare, una abominio che grazie al processo indiziario permette all'accusa di fare come vuole perché basta una ricostruzione quasi plausibile per avere sempre ragione di fronte a un giudice e ottenere una condanna. Quindi ogni procuratore, anche il più bravo al di sopra di ogni sospetto, col sistema giudiziario attuale può sbagliare la sua indagine e nonostante questo arrivare a una convinzione colpevolista personale per incolpare di omicidio chiunque sia anche solo semi-compatibile con quanto da lui immaginato e ricostruito. Nel caso di Yara un Massimo Bossetti qualunque è andato benissimo alla procura. Ma poteva andare bene anche un signor Rossi qualunque. Perché se è vero che Bossetti aveva un furgone e che in zona sono transitati diversi furgoni, è vero anche che il signor Rossi aveva un'auto e che in zona sono transitate migliaia di auto. Perché se a Bossetti si è arrivati spulciando fra i dna in modo poco ortodosso per trovarne un mezzo compatibile col suo, c'è anche da considerare che i dna presenti sui vestiti di Yara erano tantissimi e, volendo, bastava isolarne un altro per trovare un nuovo mezzo dna compatibile con un parente del signor Rossi. Ma torniamo a quanto scritto all'inizio, alle testimonianze non ascoltate da chi aveva l'obbligo di indagare su tutte le piste possibili. Prendiamo quella della signora Abeni ad esempio, che in via Rampinelli la sera del 26 novembre ha visto, in un orario compatibile col rapimento di Yara, passarle accanto due uomini "strani". O, meglio ancora, prendiamo la testimonianza della ex guardia giurata signor Toracco che chiamato più volte per essere interrogato ha continuato a fornire la stessa versione nonostante chi lo interrogava cercasse ogni volta di mettergli in testa mille dubbi. Lui poco dopo la signora Abeni ha visto una scena davvero particolare. Lui ha assistito a un sequestro di persona! Ma la sua vista non è bastata agli investigatori... loro mettevano tutto in dubbio. Ad esempio, gli dissero che di fronte a una banca di via Rampinelli c'erano due signori che cambiavano una ruota bucata in un'auto. Che loro stessi si erano presentati per dire che si trovavano di fronte alla banca a cambiare la ruota. Il signor Toracco non li aveva visti quei due uomini e non li aveva inseriti nel verbale, quindi per gli investigatori non poteva essere attendibile e per questo i suoi interrogatori vennero abbandonati in un cassetto. Ma quei due uomini non li aveva visti neppure la telecamera della banca. E se erano dove avevano detto di essere nei fotogrammi del filmato dovevano comparire. In quel punto quindi i due non c'erano, per questo Toracco non li aveva visti, e quando vennero chiamati per dare spiegazioni dissero che forse erano nel garage interno e non all'esterno. Ma nonostante questo chiarimento la testimonianza resa dal signor Toracco rimase lettera morta e la pista da lui suggerita fu abbandonata. Vediamola un attimo la sua testimonianza. A dicembre 2010, fu il suo ultimo interrogatorio, dichiarò: "La sera del 26 novembre 2010, alle 18.30 sono uscito di casa, in via don Gotti, con il mio cagnolino. Raggiunta via Sorte la percorrevo fino a via Rampinelli lungo la quale mi dirigevo verso via Morlotti. Superavo di una decina di metri la traversa nella quale abitava Yara e mi sono fermato davanti a una casa abbandonata perché c’erano dei gattini ai quali portavo da mangiare. In quel momento udivo un urlo, probabilmente di una ragazza per il timbro della voce. Subito dopo delle parole pronunciate con un tono alto ma con un timbro di voce tipicamente maschile. Voltatomi in quella direzione scorgevo, a una distanza di circa 100 metri, all’incrocio fra via Rampinelli e via Ravasio, un uomo che aveva sollevato da terra, dopo averla cinta con le braccia, un’altra persona di statura più piccola. Riferisco che lo sconosciuto aveva sollevato l’altra persona in quanto io vedevo solo due piedi toccare in terra mentre gli altri due li vedevo fluttuare in aria come nel tentativo di divincolarsi dalla presa. La prima impressione fu quella di due fidanzati che giocavano ma avendo subito dopo udito, ad alta voce, “Stai zitta”, ho pensato che stessero litigando, tanto che ho pensato: “Ma proprio in mezzo alla strada”. Mi distolse il cane tirando il guinzaglio. Quando tornai a guardare verso via Morlotti i due erano spariti. Incuriosito sono rimasto fermo per alcuni minuti per capire cosa accadeva. Ma non li ho più visti e in via Rampinelli, dove ero io, non è transitata alcuna macchina. Le due persone erano entrambe vestite di scuro. Sono sicuro che una fosse una donna per il timbro della voce e perché vedevo dietro la sua testa qualcosa muoversi, credo fossero dei capelli lunghi. Indossava un giubbino corto di quelli che arrivano fino alla cintola. Sono sicuro di essere uscito di casa alle 18.30 perché avevo visto l’inizio del telegiornale di Studio Aperto. E sono sicuro di essere rientrato dopo le 19 perché era già iniziato il Tg4 che sono solito vedere. Non ho altro da aggiungere o modificare a quanto dichiarato se non che, con il passare dei giorni, sono sempre più convinto di aver assistito a un momento del rapimento di Yara e mi rammarico di non aver visto altri particolari". Io in base ai suoi interrogatori e a quelli della signora Abeni, a gennaio 2011 scrissi un articolo in cui formulai l'ipotesi più plausibile, completa della cronologia visiva del probabile sequestro di persona avvenuto a pochi metri dalla casa di Yara (l'articolo lo trovate qui). Era la soluzione più semplice su cui indagare e si sa che sono le indagini semplici che portano a scoprire i veri assassini. In fondo, anche statisticamente parlando, quante possibilità ci sono che la ragazza presa con la forza tra via Rampinelli e via Ravasio non fosse Yara? Considerando che in quei momenti Yara fu veramente sequestrata e che per andare a casa passava da via Rampinelli, i dubbi sono davvero minimi, se non nulli. Anche perché nessuna coppia si è presentata, o ha telefonato, per dire agli investigatori che quella sera a quell'ora c'era stato un litigio in quella via. Anche perché nessun altro sequestro ci fu in quel di Brembate di Sopra. Insomma, un uomo ti dice di aver assistito a una scena particolare scambiata inizialmente per un litigio ma che poteva in effetti essere un sequestro, e dopo la scomparsa di una ragazza tu investigatore invece di dar credito al testimone stracci il suo verbale? Questo fecero a Bergamo. A dicembre stralciarono i verbali dei testimoni visivi per affidarsi ad arzigogolati ragionamenti privi anche dei fondamenti basilari che li rendessero credibili. Yara è viva, disse a gennaio l'allora capo della Polizia, e la riporteremo a casa. Ma per favore! Chiunque avesse un minimo di esperienza, e soprattutto la mente libera dall'emotività che porta confusione, già sapeva che la piccola Gambirasio non sarebbe più tornata a casa sua. Poi, dopo il ritrovamento della ragazzina sappiamo tutti come è andata a finire e oggi sappiamo che anche solo arzigogolando e favoleggiando le Procure possono ottenere condanne a go go dai giudici. Massimo Bossetti grazie agli arzigogolamenti e alle favole ipotetiche di un insieme di persone convinte della sua colpevolezza a prescindere da ogni buona eccezione difensiva, il 12 ottobre otterrà un giudizio dai giudici di Cassazione. Questi potranno stabilire in maniera seria e ponderata che qualcuno ha sbagliato strada procedurale o che qualcun altro ha mancato nel suo dovere processuale (ad esempio non tenendo conto dei diritti difensivi dell'imputato), e così ordinare un nuovo e migliore processo. Oppure quei giudici potranno adeguarsi supinamente alle carte processuali, che tengono conto solo di ciò che la procura vuole si tenga conto, e confermare la condanna in appello. Qualsiasi cosa decidano, è fin troppo chiaro che da troppi anni siamo in balia di teorie giudiziarie arzigololate e favoleggianti che escludendo i testimoni visivi hanno complicato la vita a poliziotti e carabinieri e stracciato indagini che in fondo potevano essere facili da chiudere presto. Come in altri casi di malagiustizia, se nel sequestro di Yara avessero scelto la pista più semplice sicuramente ci saremmo risparmiati di dover guardare l'inguardabile. Di dover vedere quei giornalisti schiavi che hanno coscientemente, forse alcuni di loro anche convinti a prescindere della colpevolezza dell'imputato, fornito ai magistrati l'aiuto dei media per convincere gli italiani e i giudici che le favole non sono favole, che Biancaneve esiste a prescindere e che nei nostri tribunali sono ben accette e considerate dai giudici tutte quelle "storie vere" partorite dall'immaginario mentale creato dal marasma investigativo confusionale. Anche Alice e la Bella addormentata nel bosco, se trattate a modo, possono andare bene per convincere a condannare un incensurato al carcere a vita e la sua famiglia alla gogna mediatica perpetua...

Caso Bossetti e la giustizia di Pinocchio: "Le disavventure di un muratore che i moderni narratori della fantasia malata hanno dipinto da subito come un bugiardo assassino..., scrive Gilberto Migliorini giovedì 11 ottobre 2018 e Pubblicato da Massimo Prati su Albatros Volando Controvento. Se Carlo Lorenzini dovesse riscrivere il suo capolavoro - quello che narra del povero burattino che ne ha viste tante e di tutti i colori prima di poter diventare un bambino - dovrebbe prendere il caso Bossetti come emblematico di una vicenda esistenziale che rispecchia la cultura e la mentalità del Bel Paese. Ci si può riconoscere nella Storia di Pinocchio, in quanto ne siamo le perfette proiezioni, gli interpreti per interposta persona, nel viaggio di un (anti) eroe aggiornato al caso di un delitto efferato. Si tratta della vicenda dove un muratore viene intagliato e fabbricato da un Geppetto dei giorni nostri, un polendina istituzionale con tanto di parrucca, e ti diventa così d’amblée il colpevole di un delitto con tutto quell’ambaradan costruito per dare al romanzo il lievito narrativo, completo di bugie dal naso lungo, e la spettacolarizzazione che muove interessi culturali e commerciali in un crescendo rossiniano. Il pubblico da rotocalco e da format criminologico fa da lettore del cold case con la corte di opinionisti che danno lievito alla vicenda in un affresco da far invidia a quel Lucifero di Giovanni da Modena (della cappella Bolognini) ispirato da Dante…Accade così che da un millimetro quadrato di materiale biologico prende vita e si sviluppa un romanzo storico di inaudita complessità, con dovizia di figure immaginifiche, di ricostruzioni, di illazioni e di intrecci… tutti supportati da quella prova regina in grado di offrire fecondi e fantasiosi sviluppi narrativi. Da qualche nanogrammo, con un Dna monco e miracolosamente sopravvissuto per mesi alle intemperie prende vita un romanzo di sessantamila pagine, anche se a carico del muratore altro non c’è che la fervida e produttiva fantasia di un narratore criminologicamente attrezzato con tutti i classici cliché da libro giallo e la proverbiale infallibilità del curatore della prova scientifica. Non tutti però hanno la sensibilità di sapersi riconoscere, di annotare come le traversie del protagonista collodiano, aggiornato all’attualità di un carpentiere, siano quelle che possono capitare a chiunque, tra capo e collo, a ciascuno di noi, con tutti i non sensi di un Bel Paese istituzionalmente votato al teatro dell’assurdo, agli automatismi diegetici e alle idiosincrasie giudiziarie. I personaggi collodiani per il resto ci sono tutti, e senza bisogno di aggiungere qualche altra comparsa possono trovare un fuori metafora esplicativo nell'attualità di un Paese che mantiene inalterati tutti i suoi stereotipi narrativi e le sue illusioni mediatiche. Il nostro protagonista riesce egregiamente a figurare nella storia italica forse più famosa, quanto quella di Pinocchio, come un assassino... sia pure improbabile e capitato per caso sulla scena. Bossetti è perfino più emblematico di tanti personaggi che popolano i romanzi italiani, per quella sua immediatezza per la quale un personaggio viene ad esistere sulla punta di uno spillo. Nanogrammi monchi, si è detto, e proprio come il burattino collodiano viene ad esistere da un improbabile legno da catasta. Pinocchio però è riconosciuto immediatamente come personaggio da amare, l’autore ce lo presenta in modo accattivante fin dalla sua comparsa da quel ciocco che prende vita e offre un lievito di fantasia alla nostra anima, ci proietta in una storia allusiva e coinvolgente. Ci sentiamo subito partecipi del venire alla luce del burattino anche quando appare come un monello con i suoi difetti e le sue ingenuità, un discolo dal cuore tenero, un bugiardo fantasioso. Bossetti, il favola per analogia al burattino, viene alla luce come personaggio negativo a iniziare dal suo arresto. Non proprio un esordio che possa suscitare un’immediata simpatia e una identificazione emotiva. Sembra davvero lontano dal personaggio collodiano: un uomo malvagio secondo una prima ricostruzione supportata da shampoo color, figurine, e sabbia per marciapiedi. Eppure via via sorge il sospetto, anzi la certezza, che sia un povero Pinocchio aggiornato riveduto e corretto all’attualità di un Bel Paese che rinnova i suoi fasti letterari con una nuova puntata di una storia letteraria che ci vede protagonisti come lettori e come interpreti (e talvolta come vittime innocenti). Gli opinionisti nella cornice del piccolo schermo sono come i critici letterari che vivono tra romanticismo e verismo, che tra toni gotici e immagini da libro Cuore costruiscono il loro target di aficionados puntando su astruse ed erudite dissertazioni criminologiche. Però ci sono anche le miserie di tanti opinionisti anonimi, cani sciolti che nulla sanno del caso in parola e che pure si sfogano alleviando le loro frustrazioni e delusioni su un capro espiatorio che faccia alle bisogna, ripetendo gli slogan televisivi come dischi rotti. Ma occorre pure ricordare che il libro di Pinocchio al suo esordio fu sconsigliato ai ragazzi di buona famiglia, che suscitò scandalo anche per via del coinvolgimento dei carabinieri nella storia. Al contrario il romanzo collodiano ebbe subito successo popolare. Per comprendere il senso della storia e la metafora del burattino non occorreva né la laurea, né la patente di critico letterario e neanche, oggi, quella di criminologo di professione. Il lettore e l’utente smaliziato sanno cogliere con il colpo d’occhio l’essenza esistenziale del burattino scapestrato, la sua spontaneità senza finzioni e paludamenti, la sua ingenuità e la sua innocenza. Gli intellettuali perbenisti e scientisti, la pletora di opinionisti e criminologi da salotto, si perdono nel fantasioso intreccio narrativo mantecando quisquiglie e arzigogolando sulle tele di ragno, un po’ per innato pregiudizio di classe (noblesse oblige) e un po’ per convenienza mediatica. Lo scaltro opinionista da poltrona non conosce o non vuole cogliere l’essenza di una vicenda che è una metafora di un Bel Paese perennemente alla ricerca di retoriche narrative da libro Cuore o di capri espiatori da mandare al rogo…Collodi esordisce con la domanda se il protagonista del C’era una volta sia un re. Nel suo romanzo il protagonista è un ciocco... e che sia solo un ciocco non è solo rivoluzionario letterariamente, è blasfemo. Nel nuovo romanzo d'attualità riveduto e corretto, l’autore dovrebbe chiedersi se si tratta (davvero) di un assassino, se Bossetti è davvero il protagonista o solo la sua controfigura. Domanda retorica per asserire che è davvero lui il colpevole... o quesito pregnante di una giustizia non sempre all’altezza? Molti lettori sarebbero convinti che si tratta di un puro formalismo stilistico per via degli automatismi letterari e criminologici? Molti hanno capito e altri si mantengono fedeli a De Amicis e alla retorica che impregna tanti format mediatici... alla ricerca di risposte epidermiche e di scorciatoie da libro Cuore edificanti e convenzionali. Ci si rifiuta di credere che un semplice pezzo di legno possa diventare protagonista di un romanzo e che un muratore incensurato possa assurgere agli onori della cronaca proprio come assassino, pur essendo del tutto innocente. Se l’hanno messo da anni in galera qualcosa deve aver pur fatto! Se gli hanno distrutto la vita sarà perché lui è davvero un criminale che ha distrutto un’altra vita! D'altronde... se un pezzo di legno diventa protagonista di una storia avvincente non sarà che si tratta proprio di un re sotto le mentite spoglie di un pezzo da catasta, di “quelli che d’inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti”? Con un pezzo di legno si può fare tutt’al più la gamba di un tavolo, come nelle intenzioni di mastro Ciliegia. E come un pezzo di legno può far sentire la sua voce, prender vita, affrontare le traversie dell’esistenza... anche un carpentiere ha la sua dignità di uomo... anche se hanno fatto di tutto per denegarla, mettendolo in galera prima ancora di dimostrare alcunché e trattandolo come un pregiudicato affibbiandogli un padre putativo e una madre adultera. Dov’è pubblicata l’analisi genetica che nel dettaglio spiega che non è figlio del padre legale? Il suo è sembrato l’arresto di un pregiudicato colto in flagranza di reato, non quello di un muratore rotto dalla fatica e con ancora i piedi nella malta mentre lavora in un cantiere. Immobilizzato rudemente, con le mani ammanettate dietro la schiena lo fanno bere come un cane. Si guarda attorno stralunato e chiede cosa sta succedendo. Qualcuno grida che scappa, si direbbe che è già pronto da mandare a quel rogo che l’inquadratura non ci mostra ma che tutti hanno capito che è già stato acceso. Quel Dna miracoloso assomiglia troppo a quella pentola dipinta sul muro del romanzo collodiano. “Nella parete di fondo si vedeva un caminetto con un fuoco acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c’era dipinta una pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo, che pareva fumo davvero”. “Ma l’appetito nei ragazzi cammina presto; e difatti dopo pochi minuti l’appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi col coltello. Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c’era una pentola che bolliva e fece l’atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci fosse dentro, ma la pentola era dipinta sul muro”. Che dire quel millimetro quadrato di Dna che sopravvive per tre mesi a tutto e a tutti a dispetto e contro tutte le leggi della biologia? E' forse come la pentola dipinta sul muro? E' il simbolo della fantasia per sopperire a una vita di stenti, il simbolo dell'immaginazione creativa... oppure mostra una perdita progressiva della distinzione tra reale e virtuale? Il romanzo collodiano possiede una carica eversiva troppo spesso sottovalutata. Il burattino nell'epoca della realtà virtuale e dell’androide rappresenta per contrasto la ribellione alle convenzioni e ai pregiudizi, alle retoriche convenzionali che caratterizzano la società di allora come quella di oggi, di un utente che va ripetendo a pappagallo quello che sente dai mezzibusti televisivi e dagli opinionisti in carica onoraria. Il Dna miracoloso sembra davvero come quella pentola dipinta sul muro. Nel nostro caso non si può fare neppure l’atto di scoperchiarla, la pentola, perché ci dicono di fidarci e che non serve, che si sa già cosa bolle dentro. Il sospetto è che quello strano Dna sia solo come un caminetto con il fuoco acceso che manda una nuvola di fumo, solo una effigie dipinta su una parete...Nella prima versione Pinocchio moriva e il romanzo si concludeva con la sequenza dell’impiccagione. Il burattino anarcoide non è però un personaggio alla De Amicis, da libro Cuore, conserva la sua libertà e la sua schiettezza. I gendarmi, il giudice, la fata turchina non intaccano l’autenticità di un personaggio che si vorrebbe reintegrare nel sistema, rieducarlo a un conformismo di maniera. Le figure "educative" e "normative" del romanzo collodiano hanno un’impronta caricaturale. Lorenzini si mantiene in equilibrio, la sua morale non si deteriora in un moralismo deamicisiano. Pinocchio non è classificabile né integrabile in un sistema educativo standardizzato, registrato con la carta fidaty. Nel caso Bossetti due condanne sembrano scaturire da una lettura del tutto convenzionale di un Dna monco che non è solo improbabile, è del tutto inverosimile. Eppure ci si accontenta perché uno sforzo economico e professionale di rilievo che ha coinvolto così tanti addetti ai lavori, istituzionali e mediatici, non può trasformarsi in un flop colossale, in un romanzo d’appendice invenduto, in un format senza una tifoseria di supporter e di fiancheggiatori con uno share adeguato. La storia costruita mediaticamente e convalidata giuridicamente, geneticamente qualificata, rappresenta una spettacolarizzazione narrativa, una catarsi dei buoni sentimenti di sdegno e di condanna per un colpevole costruito a tavolino? Il gatto e la volpe possiedono tutta l’indeterminazione di tanti personaggi che popolano il campo dei miracoli, quel sistema mediatico che può creare e bruciare i personaggi proprio con la bacchetta magica. Collodi usa sempre un’ironia sottile e intrigante anche quando parla del povero babbo. L’audience è invece abituata a comprare a scatola chiusa, alle telenovele e ai mezzibusti, a un’informazione che ripete pedissequamente le veline dei suggeritori istituzionali. Pinocchio, l’italiano non convenzionale, non si lascia irretire neppure quando gli fanno la solita morale soffocante. Ma c’è pur sempre la fatina dai capelli turchini a ricondurre il colpevole sulla retta via. La figura appare positivamente come una sorta di angelo custode, uno di quelli che disinteressatamente si prendono cura dei corpi e delle anime. Chissà che una moderna fatina non voglia invitare Bossetti a confessare. Nella commedia dei buoni sentimenti lo share sarebbe assicurato, i format avrebbero argomenti tematici e consigli per gli acquisti da erogare per un anno intero, forse anche di più suscitando qualche periodico e ricorrente coup de theatre. Di sicuro per un coup de theatre perfetto un Bossetti pentito pagherebbe (mediaticamente) molto più di un Bossetti completamente estraneo e innocente. Nella scena di Pinocchio che diventa bambino c’è qualcosa di forzato, quasi sembra di sentire quelle trasmissioni televisive così piene di buoni sentimenti…— E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto — Eccolo là — rispose Geppetto: e gli accennò un grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato su una parte, con le braccia ciondoloni e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto. Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di sé con grandissima compiacenza: — Com’ero buffo, quand’ero un burattino! e come ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!... — La chiusa del brillantissimo e bellissimo romanzo collodiano ha un che di funereo, il burattino estroso e impertinente sembra diventato uno di quei bambini secchioni e noiosetti, perfettamente integrati nella società secondo i canoni televisivi. Ma è probabile che il Lorenzini stesse ironizzando in quel finale... Se Bossetti verrà assolto, si spera per lui e più ancora per la Giustizia, il caso cesserà di suscitare interesse morboso. L’innocente fa poca presa sull’audience e dopo una prima fase di sdegno garantista finirebbe per cadere nel dimenticatoio. L’innocente è una lucciola di camino, fa spettacolo per un attimo poi si spegne. L'innocente non costituisce una valvola di sfogo per quella parte del target assetata di lacrime e sangue…

Confessione di Bossetti: "Sono stanco di subire. Tutto questo è ingiusto". Il muratore di Mapello: "Spero sinceramente che questi giudici questa volta siano più corretti e scrupolosi", scrive Andrea Riva, Domenica 07/10/2018, su "Il Giornale". Massimo Bossetti si è sempre detto innocente. In ogni occasione, il muratore di Mapello ha detto di non c'entrare nulla con la morte della piccola Yara Gambirasio. "Non ho mai visto né conosciuto quella ragazza... Dottoressa io non sto mentendo, cosa che hanno fatto quelli che hanno preso questo posto prima di me", disse durante il processo. E rincarando la dose: "Salvo i miei consulenti qui hanno mentito tutti". Ma perché qualcuno avrebbe dovuto mentire? Che bisogno c'era di incastrarlo? E se Bossetti è stato incastrato, allora la domanda è: per coprire chi? Sua moglie, Marita Comi, è sempre stata al suo fianco, non abbandonalo mai nonostante i mille legittimi dubbi che le son potuti passare per la testa. E proprio a lei, il muratore di Mapello, come riporta un audio reperito da Quarto Grado, dice: "Sono stanco: stanco di subire tutto ingiustamente. Spero sinceramente che questi giudici questa volta siano più corretti e scrupolosi". Il riferimento è alla richiesta dei suoi legali di presentare il ricorso in Cassazione. Riuscirà Bossetti a dimostrare la propria innocenza lì?

Yara, nel ricorso in Cassazione Bossetti dà 23 motivi a sostegno della sua innocenza. Il 12 ottobre l'udienza a Roma nella quale gli avvocati chiederanno l'annullamento della condanna all'ergastolo. Ma la richiesta, ancora una volta, si basa su presunte lacune dell'esame del Dna che nei precedenti gradi di giudizio sono state sconfessate, scrive il 7 ottobre 2018 “La Repubblica". E' inevitabilmente incentrato sulle presunte lacune nell'esame del Dna il ricorso di oltre 600 pagine che sarà discusso il prossimo 12 ottobre davanti alla Cassazione alla quale i legali di Massimo Bossetti chiedono l'annullamento della condanna all'ergastolo, confermato in appello del muratore ritenuto responsabile dell'omicidio di Yara Gambirasio. La ragazza scomparve da Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre del 2010 e trovata uccisa esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d'Isola. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini sviluppano nel ricorso 23 motivi per cercare di dimostrare l'estraneità di Bossetti al delitto e vanno all'attacco della cosiddetta "prova regina": il Dna di Bossetti trovato sul corpo della vittima. Contestano, soprattutto, il fatto che sia stato estratto senza rispettare le cosiddette best pratices previste dalla comunità scientifica che, di recente, sono state ufficialmente approvate dalla stessa. L'esame, pertanto, è da ripetere. Lo stesso ragionamento, per la difesa, è applicabile a numerosi altri indizi a corollario del Dna: la compatibilità delle fibre dei sedili del furgone di Bossetti con quelle trovate sul corpo della ragazza, le immagini riprese dalle telecamere del mezzo che i legali sostengono non fosse del muratore. La difesa punta, insomma, su quelle ordinanze che esclusero la richiesta di numerose perizie, lamentando la loro carenza di motivazione. In questo modo, auspicano gli avvocati, sarebbe la Cassazione a disporre un nuovo processo, invitando i giudici a disporre quelle perizie, o ad annullare la sentenza senza rinvio. Bossetti non sarà in aula in quanto le parti private, in Cassazione, possono intervenire solo tramite i propri difensori. Non è escluso, invece, che partecipi tra il pubblico qualche suo parente che gli è stato vicino nel suo percorso processuale. Il padre del muratore, Giovanni, e la madre, Ester Arzuffi, sono morti nel dicembre del 2015 e nel maggio scorso.

Bossetti, 23 ragioni per dichiararsi innocente. I legali presentano 600 pagine di memoria in Cassazione. Venerdì la sentenza definitiva, scrive Tiziana Paolocci, Lunedì 08/10/2018, su "Il Giornale". Venerdì è il giorno della speranza per Massimo Bossetti. La prima sezione penale della Cassazione dovrà stabilire se il muratore di 48 anni, in carcere da quattro per l'omicidio di della tredicenne Yara Gambirasio, colpevole per i giudici di primo e secondo grado, avrà la condanna definitiva all'ergastolo o se per lui si apre una nuova speranza. La difesa ha presentato ricorso contro la sentenza emessa il 17 luglio dello scorso anno dalla Corte d'assise d'appello di Brescia perché mira a far riaprire l'istruttoria, necessaria a disporre la «superperizia» sul Dna, chiesta invano fin dal primo grado, che potrebbe portare a un processo d'appello bis. Gli ermellini nella stessa sede, in udienza pubblica, dovranno esaminare anche il ricorso della procura generale di Brescia, che chiede, invece, di annullare l'assoluzione pronunciata in entrambi i giudizi di merito nei confronti dell'imputato in relazione al reato di calunnia ai danni di un collega. I difensori di Bossetti a sostegno della loro tesi hanno presentato oltre 600 pagine, che contengono 23 motivi a sostegno della sua innocenza. «In questo processo c'è stata mancanza di contraddittorio - afferma l'avvocato Claudio Salvagni - per cui la difesa non è stata ascoltata, e anche Bossetti non ha potuto difendersi, perché non è mai stata disposta la perizia sul Dna. Già il tribunale di Brescia, in sede di riesame, aveva parlato di aporie che dovevano essere risolte con una perizia, che però non c'è mai stata». Il Dna, secondo la difesa, non può essere considerato un indizio grave, preciso e concordante. «Noi abbiamo rilevato - dichiara Salvagni - ben 261 errori e, soprattutto, manca il Dna mitocondriale». Ma queste argomentazioni nei giudizi di merito erano state respinte. La Corte d'assise d'appello di Brescia nella sentenza aveva spiegato che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove «amplificazioni e tipizzazioni». L'analisi del Dna, in questo delitto, ha un'importanza centrale: Bossetti, infatti, venne arrestato con l'accusa di aver ucciso Yara sulla base del profilo di Dna, battezzato «Ignoto», le cui tracce sono state ritrovate sugli indumenti intimi della ragazzina. Attraverso l'esame di vari soggetti gli inquirenti sono arrivati a Giuseppe Guerinoni, autista di bus morto nel 1999, identificato come padre del ricercato. Secondo l'accusa, Bossetti sarebbe nato da una relazione extraconiugale che sua madre avrebbe avuto con questo uomo. Tesi, questa, respinta però dall'imputato, che si è sempre dichiarato innocente, e dai suoi familiari.

Sentenza Massimo Bossetti, venerdì udienza Cassazione, scrive il 10 ottobre 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussidiario". Presente in studio a Storie Italiane, il criminologo Ezio Denti ha parlato dell'udienza in Cassazione in programma venerdì per Massimo Bossetti, ritenuto colpevole dell'omicidio di Yara Gambirasio. Il consulente della difesa ha analizzato alcune fasi del processo, in particolare riguardo l'ormai famoso furgone bianco del muratore: “Io ho trovato 8 furgoni simili o uguali nella bergamasca che non facevano parte dell’elenco e nella sentenza non vengono citati. Stiamo alterando la sentenza”. “Io voglio convincere la gente a capire cosa c’è dietro”, prosegue Denti, che sottolinea: “Io mi auguro che vengano presi tutti i punti in cui giustifichiamo la sua innocenza. Non vogliamo Bossetti libero domani, ma vogliamo rifare l’esame”. Ricordiamo che la difesa chiede una super perizia: "La presenza di un micotondriale che non è quello di Yara e di Bossetti, fa cadere tutto. Occorre una perizia e questo è uno dei motivi. In ogni ripetizione c’è un problema, solo così si può scoprire la verità", aveva spiegato recentemente l'avvocato Claudio Salvagni. Sentenza Massimo Bossetti, venerdì udienza in Cassazione: dopodomani ci sarà il giorno del giudizio sul caso dell’omicidio di Yara Gambirasio, risalente al novembre 2013. Condannato all’ergastolo nei precedenti due gradi di giudizio, il muratore si trova davanti a un bivio: o ci sarà la conferma della condanna a fine pena mai, che diverrebbe definitiva, o ci sarà l’annullamento senza rinvio dei verdetti precedenti. Ma c’è una terza opzione: l’annullamento della sentenza di condanna con un nuovo processo d’appello, la decisione spetterà ai giudici della Suprema Corte, che valuteranno i 23 motivi contenuti nel ricorso presentato dagli avvocati Claudio Salvagni e Massimo Camporini. Storie Italiane riporta un’intercettazione tra il muratore e la moglie Marita Comi all’antivigilia dell’udienza decisiva: “Vado avanti, combatto. Puoi immaginare quale sia il mio stato d’animo in attesa della Cassazione”, aggiungendo “stai tranquilla, non preoccuparti. Sai che lotto e combatto per tutto. Non vedo l’ora che qualcosa di positivo possa cambiare. Prosegue Bossetti: “Ci spero tantissimo, Mari: sono stanco di continuare a subire tutto ingiustamente ed essere visto per quello che non sono. Non ho mai chiesto l’assoluzione. Ho solo chiesto di poter ripetere un dato scientifico che fugherebbe ogni dubbio. Non so, ci vuole tanto a capirlo?”. “Spero sinceramente che questi giudici stavolta non sorvolino come hanno fatto gli altri, che siano più corretti e scrupolosi”, conclude Massimo Bossetti parlando con la moglie Marita. Presente in studio a Storie Italiane. Ezio Denti ha sottolineato: “Nessuno ha capito come si è arrivati a Massimo Bossetti. Noi lo sappiamo ma ce lo teniamo per noi. Il fatto che fosse stato attenzionato non lo leggo neanche nelle carte. Perché per quattro anni Bossetti non è mai stato nei documenti? Sono arrivati a Guerinoni solo per il nipote, che non c’entra nulla con Bossetti. Allora arrestiamo il nipote, che però era in Perù!”. Queste, invece, le parole del biologo Capra, consulente della difesa: “Non abbiamo dei dati oggettivi, abbiamo dei risultati acclarati e ripetuti che sono stati cancellati. Noi abbiamo un profilo genetico mitrocondriale che è stato considerato perfettamente attendibile e utilizzabile a fini identificativi: questo era quello che era riportato nella relazione”.

«Abbiamo preso l’assassino», storia di un processo mediatico. Il corpo di Yara è stato ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Cingolo d’Isola, vicino a Brembate di Sopra, scrive Angela Azzaro l'11 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". È il 16 giugno del 2014 e le forze dell’ordine arrestano Massimo Giuseppe Bossetti, muratore, padre di tre figli, con l’accusa di aver ucciso una ragazzina di 13 anni, Yara Gambirasio. Non è un arresto qualsiasi, non è un caso qualsiasi. Il corpo di Yara è stato ritrovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Cingolo d’Isola, vicino a Brembate di Sopra, il paese dove viveva con i genitori e dal quale sparisce tre mesi esatti prima. Per anni tv, giornali, talk show hanno vivisezionato il caso. E quando Bossetti viene arrestato, la sentenza è già pronta. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, in un comunicato che fa infuriare anche la Procura, non ha dubbi: «Abbiamo preso l’assassino». Quando il processo esce dalle aule del tribunale e si ricolloca nell’opinione pubblica, la presunzione di innocenza è un lontano, lontanissimo ricordo.

I PRECEDENTI. Bossetti è in buona compagnia. Il suo caso fa parte di una storia che inizia qualche anno prima, in una villa di Cogne: Anna Maria Franzoni è accusata e poi condannata per l’uccisione del figlio. Seguono Garlasco (l’omicidio di Chiara Poggi), Perugia (l’uccisione di Meredith Kercher) con un’attenzione sempre più morbosa, ossessiva da parte dell’informazione. Non è diritto a essere informati, non è libertà d’espressione. In questo decennio il processo mediatico si caratterizza come sovrapposizione al dibattimento vero e proprio. Con delle conseguenze pesanti sul piano del giusto processo. Serve un colpevole, costi quel costi, aldilà del principio di “oltre ogni ragionevole dubbio”. La procura che attraverso il Dna (il famoso Dna di Ignoto1) accusa di omicidio Massimo Giuseppe Bossetti sa bene quanto siano alte l’attenzione e la pressione mediatiche. Il processo diventa un romanzo o meglio una fiction e ogni fase deve essere gestita tenendo conto di ciò che pensa, sa e vede l’opinione pubblica. In questo contesto scoppia il caso del “furgone”. Una delle prove considerate schiaccianti contro Bossetti sono le immagini del suo furgone che passa e ripassa davanti alla palestra di Yara. Ma il video, che tutte le tv mostrano prima dell’inizio del processo, non viene messo agli atti. Si tratterebbe di un montaggio fatto, lo dichiara il colonnello Giampiero Lago, collaboratore della procura di Bergamo durante le indagini, «per esigenze di comunicazione». Secondo alcuni commentatori si tratterebbe di un fatto gravissimo, che inficia il diritto alla difesa. Qualsiasi cosa si pensi, una cosa è certa: l’impatto di quelle immagini è violento.

IL DNA E L’IRRAZIONALE. Più che in altri processi, quello contro Bossetti si fonda sua una narrazione incentrata sulla cosiddetta prova scientifica, considerata al pari di una verità rivelata. Succede qualcosa di singolare, la ricerca scientifica e quella tecnologica che supportano l’inchiesta si sposano con i sentimenti più irrazionali.

E’ un connubio che caratterizza il processo mediatico. Più si usano strumenti avanzati, più il linguaggio degli “esperti” risulta ostico, più il pubblico sospende il giudizio in una sorta di atteggiamento fideistico. Il processo diventa la proiezione di uno scontro all’ultimo sangue tra idee di mondo e il Dna spinge a sospendere il senso critico come se si trattasse di un oracolo a contatto direttamente con gli dei.

IGNOTO1, IL DOCU- FILM. Fin qui, sembra già un film. Basterebbe mettere in sequenza le ore e ore di immagini tv, di dibattiti, di “esperti”, di scontri tra innocentisti e colpevolisti.  Ma non è bastato. Prima della sentenza d’Appello, Sky ha trasmesso un documentario dal titolo “Ignoto1, Dna di un’indagine”. Le quattro puntate sono incentrate soprattutto sul racconto della pm Letizia Ruggeri, che ha condotto le indagini, ma si dà voce anche alla difesa rappresentata da Claudio Salvagni. Sul risultato dell’operazione ci sono giudizi contrastanti. Ma forse le domande, che si potrebbero ripetere per molti altri casi, sono altre: ha senso fare un film quando non c’è ancora stata la sentenza definitiva? Non si rischia di condizionare il processo? Non si lede il diritto alla difesa? Tante domande, ma una convinzione: non si tratta di essere innocentisti o colpevolisti. Ma di porre dei limiti al processo mediatico che contrasta fortemente con lo Stato di diritto.

Bossetti, ultimo atto. I dubbi di un processo super-mediatico. Oggi la sentenza sull’omicidio della piccola Yara, scrive Tiziana Maiolo l'11 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Non ci sarà Corrado Carnevale a presiedere domani la prima sezione della Corte di cassazione che deciderà della vita e della morte di Massimo Bossetti. Ma c’è pur sempre la speranza che a decidere se confermare supinamente la condanna all’ergastolo o esaminare con il puntiglio del loro predecessore eventuali vizi formali delle precedenti sentenze siano giudici degni di questo nome. Cioè magistrati che, formati alla scuola di Carnevale, sappiano dare un senso alla camera di consiglio e discutere con meticolosità se davvero nei due processi di assise e assise d’appello nei confronti del muratore bergamasco condannato per un orribile delitto, l’uccisione di una ragazzina di 13 anni, siano state osservate tutte le regole e le garanzie di uno Stato di diritto. Yara Gambirasio è sparita il 26 novembre 2010, il suo corpo è stato ritrovato nel campo di Chignolo esattamente tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. Morta di freddo, a quanto pare, in un gelido inverno di una valle bergamasca. Pur se il suo corpo non è rannicchiato (come succede nei casi di ipotermia) ma disteso, le gambe un po’ larghe, le braccia allungate sopra la testa. E’ completamente vestita, ma dagli abiti non si intuisce quel che è stato fatto del suo corpo, con la pelle tagliuzzata superficialmente da una punta acuminata di coltello o oggetto simile. Non ci sono segni di colluttazione, la ragazzina non ha subito violenza sessuale. Nessuno ha ancora potuto dare una spiegazione ragionevole del movente di chi avrebbe sequestrato e poi abbandonato Yara Gambirasio fino alla sua morte. E questo è il Primo Grande Dubbio. Massimo Bossetti viene arrestato il 16 giugno 2014, dopo che l’inchiesta più costosa della storia giudiziaria italiana ha esaminato il Dna di 18.000 persone e sentito 4.500 testimoni. Un impegno enorme della Procura della repubblica di Bergamo, dei carabinieri del Ris e di una serie di genetisti, tra cui il primario del San Raffaele di Milano, professor Giorgio Casari, incaricato dalla Procura e che diventerà il custode dei reperti. Sappiamo come sono andate le cose, in seguito, con l’arrivo della “prova regina”: sui leggins e sugli slip della ragazzina viene individuato il Dna di Massimo Bossetti, un muratore di quarantaquattro anni, padre di famiglia, incensurato, gran lavoratore. Né prima del rapimento di Yara né negli anni successivi prima dell’arresto si conoscono suoi comportamenti molesti nei confronti di ragazzine. Il circo mediatico- giudiziario si muove in grande spolvero. La vita della famiglia Bossetti viene squartata senza pietà, le donne di casa trattate come prostitute, il padre (gravemente malato, fino alla morte) schernito come un povero cornuto. Di Massimo Bossetti oggi sappiamo tutto, della sua abbronzatura, del suo furgone, delle sue abitudini sessuali, del rapporto con la moglie (di cui qualche “gentiluomo” ha rivelato piccole trasgressioni), con la sorella gemella e la madre, morta pochi mesi fa. Ma non sappiamo come e perché avrebbe rapito Yara. Non sappiamo se la ragazzina sia arrivata nel campo di Chignolo il 26 novembre 2010 o, più probabilmente, nelle settimane successive. E dove a da chi sarebbe stata trattenuta altrove? Ecco il Secondo Grande Dubbio. In un libro di Carlo Infanti, uscito da pochi giorni, si sottolinea il ritrovamento, sul corpo della ragazza, di tre piume di animale da cortile. Ma nel campo di Chignolo non ci sono galline o altri animali simili. E che dire del famoso cantiere cui arrivarono con sicurezza i cani molecolari nei giorni del rapimento? Ecco due possibili passaggi prima di arrivare al campo dove Yara sarà abbandonata. Poiché, inoltre, non sappiamo il significato di quegli strani tagliuzzamenti sul suo corpo, perché non pensare a un sequestro finalizzato a mandare un messaggio a qualcuno e poi finito in modo imprevisto? Il Terzo Grande Dubbio riguarda proprio la “prova regina”. Poiché insieme al Dna molecolare non è mai stato trovato quello mitocondriale, non solo i difensori di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ma anche diversi genetisti hanno chiesto ripetutamente e invano, di fronte a un’opinione pubblica sbigottita per i ripetuti rifiuti della magistratura, che quegli esami venissero ripetuti. Anche perché compiuti prima dell’individuazione di Bossetti come “Ignoto uno”, quindi in assenza di un perito di parte. Nulla da fare, in nessuna fase processuale, fino all’appello. L’argomento usato per respingere la richiesta fa sorgere il Quarto Grande Dubbio: perché tanto accanimento? La risposta infatti è sempre una sola: materiale genetico non ce ne è più. Il che è clamorosamente falso. Infatti già nel processo di primo grado (testimonianza del 20 novembre 2015) il professor Giorgio Casari, consulente dell’accusa, diceva: «Avendo preso in carico tutti i dna, che abbiamo ancora in S. Raffaele, quindi questi sono ancora a disposizione, li abbiamo ancora tutti…». Ciò nonostante nella motivazione della sentenza d’appello del 17 luglio 2017 i giudici scrivono a pagina 238 che «non esistono pertanto campioni o frazioni di campione in restituzione». Se Massimo Bossetti fosse un personaggio politico o il sindaco di un Comune calabrese sciolto per mafia, diremmo che contro di lui c’è un complotto. Ma se complotto non c’è, che cosa impedisce, nella giornata di domani, ai giudici della prima sezione della Cassazione quanto meno di annullare con rinvio e imporre a una nuova corte d’appello di rifare questi benedetti esami del Dna? P. S. Nell’ultima parte del libro di Infanti si fanno i nomi, in modo romanzato, di due presunti assassini di Yara. Due persone esistenti in carne e ossa. Naturalmente non lo auguriamo all’autore, ma se per caso questi due signori, citati con nome e cognome, decidessero di querelarlo, forse un giorno assisteremmo al vero processo sulla morte di Yara Gambirasio. Ma ci vuole sempre un giudice a Berlino.

Massimo Bossetti, l'inquietante sfogo a poche ore dalla Cassazione: "Disumano. Ora, vi prego...", scrive il 12 Ottobre 2018 Libero Quotidiano. Oggi, venerdì 12 ottobre, è il giorno della sentenza per Massimo Bossetti in Cassazione. Due le possibilità: conferma dell'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, oppure un nuovo processo, nel caso in cui vengano accolte le istanze e le prove presentate dalla difesa. Uno snodo cruciale, forse definitivo, per uno dei casi di cronaca nera più seguiti e controversi degli ultimi anni. E a poche ore dalla sentenza, filtrano le parole pronunciate da Bossetti dall'interno del carcere. Una sorta di ultimo e disperato appello ai giudici. "Ho molta fiducia e speranza nella Cassazione e mi auguro, con tutto me stesso, che mi venga concessa la ripetizione sul Dna, perché se solo, per l'ennesima volta, mi venisse negata, sarebbe una disumana, ingiusta, ulteriore crudeltà, visto che da anni insistentemente, non ho mai smesso di imploro, supplicando nel ripetere. È l'unica cosa che da anni chiedo e niente più. Siamo o no tutti alla ricerca della verità? Allora che mi venga concessa - continua Bossetti -, perché lo si deve a Yara e anche a tutti noi che abbiamo trepidato per la sua sorte". Parole vibranti, disperate, quelle pronunciate da Bossetti in cella. Tutto, come è noto, gravita alla possibilità di ripetere il test del Dna trovato sugli slip della 13enne di Brembate di Sopra, la prova fondante dell'accusa e alla base delle due sentenze di condanna. La prova che, però, è anche l'architrave del ricorso della difesa, che insiste sulla richiesta di nuovi esami.

Massimo Bossetti, ergastolo per il delitto Yara Gambirasio. La sentenza della Cassazione conferma la "fine pena mai" per il muratore di Mapello, scrive il 13 ottobre 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussidiario".

SENTENZA MASSIMO BOSSETTI: LE TAPPE DEL PROCESSO. Massimo Bossetti è Ignoto 1, è del muratore incensurato di Mapello il Dna rilevato sugli indumenti intimi di Yara Gambirasio: questa la svolta nelle indagini arrivata il 16 giugno del 2014. Centinaia di persone di Brembate e dei paesi limitrofi sono state sottoposte al test del Dna, con il primo passo decisivo fatto con l’individuazione del padre del presunto assassino, l’autista di pullman Giuseppe Guerinoni morto nel 1999. Le indagini sono proseguite senza sosta per individuare un figlio illegittimo dell’uomo di Gorno e gli investigatori sono riusciti a risalire alla madre di Ignoto 1, Ester Arzuffi; dopo l’analisi di 18 mila campioni di Dna per il confronto con quello sugli indumenti di Yara, gli esperti identificano quello di Massimo Bossetti, corrispondente di 21 cromosomi su 21. Arrestato, come dicevamo, il 16 giugno del 2014, il muratore risulta l’unico indagato al momento della chiusura delle indagini (26 febbraio 2015). E da quel momento è iniziato un percorso giudiziario che ha chiamato in causa decine di aspetti e di persone: il furgone bianco di Massimo Bossetti, le celle telefoniche, il ruolo della moglie Marita Comi e la ‘contaminazione genetica’ proposta dalla difesa del 48enne. Il 3 luglio è iniziato il processo di primo grado presso la Corte d’Assise del Tribunale di Bergamo: Bossetti condannato all’ergastolo e a pagare 1 milione e 250 mila euro per risarcire la famiglia di Yara (800 mila euro per i genitori, 450 mila euro per i fratelli). Condanna a “fine pena mai” anche in appello: il 17 luglio 2017 la Corte d’Assise di Brescia ha confermato la sentenza di primo grado, suscitando le ire della difesa, che è arrivata a parlare di “processo farsa”. Ora non ci resta che attendere l’ultimo capitolo…

OGGI LA CASSAZIONE. Sentenza Massimo Bossetti oggi in Cassazione: venerdì 12 ottobre 2018, il giorno della verità sull’omicidio di Yara Gambirasio, verrà scritta (forse) la parola fine su uno dei casi di cronaca nera con la più grande rilevanza mediatica di sempre. La morte della ginnasta risale al 26 novembre 2010, con il corpo della tredicenne di Brembate di Sopra (Bergamo) rinvenuto il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d’Isola. Un crimine efferato, con il muratore Massimo Bossetti riconosciuto come unico colpevole: il quarantottenne di Mapello è stato condannato all’ergastolo in primo e in secondo grado. E tra poche ore l’ultimo atto: udienza in Corte di Cassazione, Prima Sezione Penale, con l’imputato che sarà giudicato da un collegio di cinque magistrati presieduto dal giudice Adriano Iasillo. Bossetti, che oggi non sarà presente in aula, è in carcere da quattro anni e quattro mesi e la difesa ha presentato ricorso con una tesi di oltre 600 pagine, contenenti 23 motivi a sostegno della sua difesa. Sono tre i casi possibili: gli ermellini potrebbero confermare la sentenza di condanna, annullarla con rinvio ad altra Corte d’Appello con un nuovo processo, oppure annullarla senza rinvio. La superperizia sul Dna: questa la richiesta degli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che hanno evidenziato di aver "rilevato ben 261 errori e, soprattutto, manca il Dna mitocondriale". Cosa succederà? Massimo Bossetti verrà dichiarato colpevole o innocente? 

OMICIDIO YARA GAMBIRASIO, OGGI LA SENTENZA DEFINITIVA. "Sono stanco di continuare a subire tutto ingiustamente ed essere visto per quello che non sono. Non ho mai chiesto l’assoluzione. Ho solo chiesto di poter ripetere un dato scientifico che fugherebbe ogni dubbio", questa la confessione di Massimo Bossetti alla moglie Marita Comi raccolta in un'intercettazione telefonica. “Spero sinceramente che questi giudici stavolta non sorvolino come hanno fatto gli altri, che siano più corretti e scrupolosi” ha poi aggiunto il muratore. E nelle ultime settimane sono uscite indiscrezioni che hanno alimentato le polemiche e hanno messo continuamente in discussione la posizione dell'indiziato: dall’ultimo libro di Carlo Infanti alla clamorosa dichiarazione della sorella Letizia ("Mio fratello sa la verità su chi uccise Yara e ora ha paura”). Da una parte la difesa, con i legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini, dall'altra l'accusa, retta dal sostituto procuratore generale Mariella De Masillis. A partire dalle ore 21:15, su Rete 4, Quarto Grado seguirà in diretta tutti gli aggiornamenti sulla giornata chiave del dibattimento, con il programma condotto da Gianluigi Nuzzi con Alessandra Viero che ricostruirà la vicenda che ha dato origine - per il numero di persone coinvolte - all’indagine scientifica più grande mai messa in campo in Europa.

LA DICHIARAZIONE DEL MURATORE. Mancano poche ore al verdetto su Massimo Bossetti in Cassazione per l'omicidio di Yara Gambirasio. Intervenuto a Storie Italiane, Ezio Denti ha commentato: “Abbiamo smantellato tutto, l’esempio della Cassazione nel caso Meredith è eccellente anche per noi: abbiamo intravisto delle incongruenze. Ritengo che tutti gli elementi portati sono essenziali, devono essere rivalutati con la massima onestà, siamo certi che i giudici lo faranno. Devono decidere se le condizioni di queste indagini sono state corrette”. Presente in studio anche Giangavino Sulas, che ha aggiunto: “Ci vuole una sentenza di rinvio, motivata per almeno due cose: Dna e reperti. Rileggendomi la storia di questa tragedia ho scoperto tante cose, ne dico solo una: Yara aveva 9 ferite da taglio sul suo corpo, tutte non mortali. Il medico legale ha trovato in tutte e 9 le ferite dei filamenti di tessuto giallo, non appartenenti agli indumenti di Yara. Questa ragazza fu spogliata e rivestita, la storia cambia totalmente”. (Agg. di MB)

LA DICHIARAZIONE DEL MURATORE. Sfogo di Massimo Bossetti a poche ore dalla sentenza che deciderà il resto della sua vita: conferma dell’ergastolo senza più possibilità di appellarsi, oppure un nuovo processo che comunque non è detto che si concluda con l’assoluzione. Davvero pochissime chance per l’operaio che continua a proclamarsi innocente. L’uomo è fortemente provato in queste ore e secondo quanto riportano alcuni media avrebbe rilasciato un’ultima dichiarazione: "Ho molta fiducia e speranza nella Cassazione e mi auguro, con tutto me stesso, che mi venga concessa la ripetizione sul Dna, perché se solo, per l'ennesima volta, mi venisse negata, sarebbe una disumana, ingiusta, ulteriore crudeltà, visto che da anni insistentemente, non ho mai smesso di imploro, supplicando nel ripetere. È l'unica cosa che da anni chiedo e niente più. Siamo o no tutti alla ricerca della verità? Allora che mi venga concessa, perché lo si deve a Yara e anche a tutti noi che abbiamo trepidato per la sua sorte". La condanna di Bossetti si basa infatti tutta sul Dna, a parte alcune prove indiziarie di non grande significato (Agg. Paolo Vites)

IL PG “NON HA AVUTO PIETÀ, ERGASTOLO”. Chiesto nuovamente l’ergastolo per il muratore di Mapello, Massimo Bossetti, unico imputato per la morte della giovane Yara Gambirasio. E’ in corso a Roma l’ultimo atto del processo, l’udienza in Cassazione che stabilirà definitivamente se Bossetti è colpevole o meno, ed in caso di esito negativo, quale pena subirà lo stesso. Poco fa, come riportato dal quotidiano Repubblica, ha parlato il sostituto pg, Mariella De Masellis, che nella sua requisitoria ha ribadito la colpevolezza senza alcun “ragionevole dubbio” di Bossetti, che “non ha avuto un moto di pietà e ha lasciato morire Yara da sola in quel campo”. Chiesta la conferma dell’ergastolo per l’omicidio della giovane ragazzina. De Masellis ha inoltre aggiunto che “Per me Massimo Bossetti deve rispondere di calunnia”, invitando il collegio ad accogliere il ricorso della procura di Brescia nei confronti del muratore, accusato di calunnia verso un collega, indicato dallo stesso come il presunto assassino di Yara: “Ha fornito indicazioni specifiche – ha aggiunto - su un individuo con cui lavorava”. (Aggiornamento di Davide Giancristofaro)

PG CHIEDE SIA IMPUTATO PER CALUNNIA. C'è grande attesa per l'arrivo della sentenza in Cassazione per Massimo Bossetti, condannato due volte all'ergastolo per il delitto di Yara Gambirasio. Stasera - o più tardi sabato mattina - dovrebbe arrivare il verdetto della Suprema Corte che potrebbe confermare la condanna al carcere a vita o contemplare un incredibile (quanto improbabile) colpo di scena. Intanto, come spiega Libero Quotidiano, nella sua requisitoria con la quale è stato chiesto alla Corte la conferma della condanna all'ergastolo, il pg Mariella De Masellis ha chiesto anche che Bossetti sia chiamato a "rispondere di calunnia per aver detto che qualcuno ha contaminato" (i rilievi del suo Dna, ndr). L'imputato, ancora una volta continua a definirsi innocente ed a chiedere una nuova perizia sul Dna, considerato da tempo la prova regina che lo avrebbe incastrato definitivamente. Alla Corte di Cassazione il compito di decidere se confermare la sentenza, annullare la condanna senza rinvio oppure accogliere le eccezioni sollevate dalla difesa e riaprire un nuovo processo. (Agg. di EL)

BOSSETTI ATTENDE IL VERDETTO... La Procura non avrebbe più dubbi sulla colpevolezza di Massimo Bossetti, al punto da aver chiesto alla Cassazione la nuova condanna all'ergastolo. Sono momenti di grande attesa, questi, per la difesa dell'imputato e per la famiglia di Yara Gambirasio che potrebbe finalmente vedere la parola fine attorno alla triste e dolorosa vicenda. Non per Bossetti però, che fino all'ultimo, tramite i suoi avvocati ha ribadito le sue richieste ad oggi sempre inascoltate: "Fatemi fare una volta una perizia sul Dna e scoprirete che io non c'entro", avrebbe chiesto tramite la sua difesa ai giudici della Cassazione, confidando nel loro coraggio. Il muratore di Mapello attende il verdetto dal carcere di Bergamo ed al suo legale avrebbe rivelato di sentirsi "fiducioso, anche se molto timoroso". Nella sua requisitoria, il pg oltre alla richiesta di ergastolo avrebbe anche sottolineato che "è fantascienza che il Ris abbia creato un Dna artificiale servendosi di 'marcatori scaduti'", ed ancora che "gli esperti hanno convenuto sulla assoluta corrispondenza tra 'Ignoto 1' e l'imputato". Fuori dal tribunale, non mancano i cartelli pro Bossetti da parte di chi sostiene l'innocenza dell'uomo. (Agg. di EL)

ATTESA LA SENTENZA. L’aula della prima sezione della Corte di Cassazione dove si tiene il processo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio è gremita. L’attesa è per la sentenza della Suprema Corte. Non sono invece presenti i familiari di Massimo Bossetti e nemmeno la famiglia Gambirasio. La sessione è cominciata dopo le 10, con qualche minuto di ritardo sul previsto. Il caso Bossetti, come riportato dal Corriere della Sera, è l’ultimo a ruolo, ma alcuni di quelli precedenti si prevede che non verranno discussi, per cui entro il pomeriggio si potrebbe arrivare alla discussione processuale sul carpentiere imputato. La sentenza dunque è prevista per la tarda serata di oggi. «Se oggi Massimo Bossetti dovesse essere definitivamente condannato all’ergastolo ci troveremmo dinanzi a uno dei più grandi errori giudiziari del nostro Paese», ha dichiarato l’avvocato Claudio Salvagni al Dubbio prima di recarsi in Cassazione. Tre sono le strade: conferma dell’ergastolo, annullamento dell’appello con rinvio per concedere una nuova perizia sul Dna, ed è su questo che punta la difesa, e assoluzione. Come è noto la Cassazione sarà chiamata a pronunciarsi con un giudizio di metodo e non di merito. Il nodo fondamentale su cui gli ermellini dovranno pronunciarsi è se le due sentenze finora emesse rispettino i principi del nostro ordinamento giuridico e se sono logiche. (Agg. di Silvana Palazzo)

ALLA MOGLIE "MAI CHIESTO ASSOLUZIONE…” In attesa della sentenza in Cassazione per Massimo Bossetti, l'ultimo atto con diversi risvolti in serbo, la trasmissione Pomeriggio 5 ha trasmesso in esclusiva (ma sarà riproposta questa sera anche da Quarto Grado) una telefonata tra l'imputato e la moglie Marita Comi, a pochi giorni dall'importante giornata. "Vado avanti, combatto. Puoi immaginare quale sia il mio stato d'animo in attesa della Cassazione", ha spiegato l'uomo replicando alla moglie che gli chiede di farsi forza. "Stai tranquilla, non preoccuparti", la tranquillizza lui, "sai che lotto e combatto per tutto". La sua speranza "è che ora qualcosa di positivo possa cambiare". Nel corso della telefonata Bossetti si è detto pronto a resistere ma soprattutto speranzoso che qualcosa possa finalmente accadere "perchè sono stanco di continuare a subire tutto ingiustamente ed essere visto per quello che non sono. Stanco, stanco di sto posto qua, stanco di tutto. Infine non ho mai chiesto un'assoluzione", ha aggiunto il muratore di Mapello chiedendo l'approvazione della moglie. "Semplicemente ricontinuo a chiedere di poter ripetere un dato scientifico che fugherebbe ogni dubbio", dice ancora. Poi, parlando alla moglie che chiama "Mari", rivela la sua più grande speranza: "Spero sinceramente che questi giudici sta volta non si oppongano come hanno fatto gli altri, che siano più corretti, scrupolosi, ma soprattutto coraggiosi da valutare tutto senza lasciare nulla di intentato. E che mi diano" - conclude - "una volta per tutte quello che chiedo da anni". (Aggiornamento di Emanuela Longo)

GIUDICI IN CAMERA DI CONSIGLIO. Sono riuniti in camera di consiglio i giudici della prima sezione della Corte di Cassazione nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio che vede Massimo Bossetti unico imputato. La sentenza è attesa in serata. Per il procuratore generale Mariella De Masellis non c’è un «ragionevole dubbio» sull’innocenza del carpentiere di Mapello. Quindi ha chiesto la conferma dell’ergastolo. Nella sua requisitoria ha precisato che questa vicenda «non è conferente il caso Knox, vicenda ben diversa». Inoltre, ha citato la moglie di Bossetti, Marita Comi, ricordando che aveva riferito di non ricordare l’accaduto di quella sera del 26 novembre 2010 quando Yara Gambirasio scomparve a Brembate di Sopra: «La scomparsa di questa ragazza è stata un evento che ha colpito l'intera comunità. Tutti si sono preoccupati della sua sorte. Tutti ci ricordiamo cosa stessimo facendo l'11 settembre 2001 durante il crollo delle Torri Gemelle. Il non ricordare, di fronte ad un evento di questo tipo, non è possibile». (Agg. di Silvana Palazzo)

SENTENZA IMMINENTE. Secondo le ultime indiscrezioni, emerse anche attraverso la diretta televisiva del programma di Rete 4, “Quarto Grado”, dovrebbe arrivare intorno alle 22.30 la sentenza della Corte di Cassazione nel processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. L'avvocato Salvagni sembra voler però proseguire nella battaglia per cercare di dimostrare l'innocenza di Massimo Bossetti: ""Crediamo che verrà riaffermato il diritto. Tutti dovrebbero convergere per il fare chiarezza laddove di chiarezza se ne se può fare. Siamo pronti anche ai ricorsi alle Corti sovrannazionali". Gli scenari possibili sono la conferma della sentenza, l'annullamento della sentenza che di fatto rimetterebbe in libertà Massimo Bossetti e quindi l'annullamento con rinvio, che prevederebbe di tornare all'appello ricelebrando una parte del processo, alla stregua di quanto accaduto col caso-Stasi. Ancora pochi minuti e si deciderà dunque il destino di Bossetti con la decisione della Corte di Cassazione che sarà dunque presto comunicata. (Agg. di FB)

CONDANNA ALL'ERGASTOLO CONFERMATA. E’ stata confermata la condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. La corte di Cassazione ha infatti dichiarato inammissibili i ricorsi della difesa con la conferma della sentenza della sentenza di secondo grado della corte di Brescia, che stabilisce dunque definitivamente che sia Massimo Bossetti l’omicida di Yara Gambirasio, condannandolo dunque all’ergastolo e confermando l’impianto accusatorio portato avanti dalla Procura sin dalle indagini preliminari. Bossetti non resterà nel carcere di via Gleno ma di un altro istituto penitenziario dove scontare quella che di fatto è il “fine pena mai” stabilito dalla Cassazione. Bossetti ha appreso dalla televisione la sentenza che ha confermato quanto già stabilito in primo e secondo grado: tutte le richieste degli avvocati della difesa sono stati bocciate, compresa la richiesta di una nuova perizia che è stata dunque ritenuta inutile, con le prove già in possesso ritenute sufficienti per la conferma della condanna. (agg. di Fabio Belli)

Si è chiuso definitivamente il processo relativo alla morte della 13enne Yara Gambirasio. La Cassazione ha confermato la massima pena per Massimo Bossetti, l’ergastolo. Il 44enne di Mapello, dopo tre gradi di giudizio, viene ritenuto colpevole nonché unico responsabile dell’atroce morte della ragazzina, malmenata e poi lasciata morire da sola, al freddo e al gelo, nella campagne di Brembate Sopra. E il paese nella bergamasca tira finalmente un sospiro di sollievo dopo anni. Nessuno ha esultato, anche perché c’è ben poco da festeggiare, ma i brembatesi di sopra, che hanno sempre preferito rimanere lontano dalle telecamere, ora tirano un sospiro di sollievo per la chiusura di questa tristissima pagina: «Siamo stati bistrattati per la nostra omertà – ha detto l’ex sindaco ai microfoni de Il Messaggero - quando invece era rispetto delle persone e della famiglia». Una vicenda che ha sconvolto l’Italia intera, ma soprattutto Brembate Sopra, un paese dove non era mai accaduto nulla di grave prima d’ora, e mai nessuno avrebbe potuto immaginare tale atroce delitto, tra l’altro commesso da una persona del posto, un muratore, il lavoro più diffuso da quelle parti, che abitava a Mapello, a soli 3 km di distanza. (Aggiornamento di Davide Giancristofaro)

LA REAZIONE DEGLI ALTRI DETENUTI. La notizia della conferma dell'ergastolo per Massimo Bossetti, condannato per l'omicidio della giovanissima Yara Gambirasio, è arrivata immediatamente alle orecchie degli altri detenuti del carcere di via Gleno, a Bergamo, dove Bossetti è attualmente detenuto. E si sono levate urla di protesta (udite distintamente e documentate dalla trasmissione di Rete 4 'Quarto Grado' che stava seguendo in diretta gli sviluppi sulla sentenza) riguardo la decisione della Cassazione, con la sentenza definita una "vergogna per la Giustizia", più altre frasi urlate dai detenuti. Una scena preoccupante, che ha spinto anche la trasmissione a fare polemica sull'opportunità di veicolare o meno determinate situazioni e immagini, con l'inviato Remo Croci che si è scontrato verbalmente con il giornalista Carmelo Abate, che in studio aveva detto di spegnere le telecamere di fronte a determinate reazioni. Nei prossimi giorni Bossetti potrebbe essere trasferito dal carcere bergamasco, per scontare la sentenza ormai definitiva all'ergastolo presso un altro istituto penitenziario. (Agg. di Fabio Belli)

IL COMMENTO DELL'AVVOCATO SILVAGNI. Il commento dell’avvocato Silvagni, legale di Massimo Bossetti, alla sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna all’ergastolo del suo assistito per l’omicidio di Yara Gambirasio: “Io rimango convinto dell’innocenza di Massimo Bossetti. Siamo passati dalle 16 ore della camera di consiglio di Brescia dove hanno abbondantemente guardato il video della presunta fuga alle 3 ore della corte di Cassazione che pure doveva esaminare 14 ricorsi. Questa è la giustizia italiana, non aggiunto altro. Ringrazio il pool di professionisti che ha collaborato con noi, un pool che ha collaborato con spirito di giustizia, persone eccezionali che sono entrati in punta di piedi perché volevano capire il caso e sono rimasti con convinzione. Piuttosto lo Stato italiano spende milioni per pagare risarcimenti per le ingiuste detenzioni e questo sarà un altro caso in cui bisognerà pagare. Bisogna prendere atto che c’è un elemento del DNA che non torna ed ha lo stesso valore del nucleare: non è stata data spiegazione scientifica, spiegando che solo il nucleare interessava e non il risultato del mitocondriale. Leggeremo le motivazioni e magari la risposta la troveremo, ma non avrebbe spostato l’ago della bilancia qualche mese in più di lavoro e la spesa di qualche migliaio di euro in più. Questo avrebbe permesso di far emergere la verità giudiziaria, che non sappiamo quale sarebbe stata, ma siamo sicuri che sarebbe emerso con un esame genetico accurato: così siamo tornati indietro di 30 anni. Penso che processualmente abbiamo fatto le scelte più giuste che si potessero fare, ora valuteremo se ricorrere alla corte europea.” (agg. di Fabio Belli)

Omicidio di Yara, per Bossetti condanna definitiva all’ergastolo: «Quel Dna ha dato voce alla vittima». Ricorso inammissibile. La difesa: «Convinti della sua innocenza, ma rispettiamo la sentenza». Prima del verdetto la frase del procuratore generale accompagnata da momenti di emozione. La Corte si è ritirata per 4 ore, scrive Giuliana Ubbiali il 12 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Per la giustizia italiana Massimo Giuseppe Bossetti è, in via definitiva, l’assassino di Yara Gambirasio. La Corte di Cassazione ha respinto dopo 4 ore di camera di consiglio il ricorso del carpentiere di Mapello, 48 anni il 28 ottobre, in carcere dal 16 giugno deli 2014. Ed è proprio alla casa circondariale di via Gleno, a Bergamo, che a Bossetti è stata comunicata la notizia, dai suoi avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. «Siamo convinti che Bossetti sia innocente — ha commentato l’avvocato Salvagni — ma oggi non possiamo che rispettare la sentenza». Il verdetto è arrivato dopo l’ultimo confronto in aula su diritto e genetica forense tra accusa, parte civile e difesa. Anche il ricordo di Yara è entrato in aula. Inaspettato, nel palazzo della Suprema Corte dove si discute di regole processuali. Alle 14.45, la voce del procuratore generale della Cassazione Mariella De Masellis si è incrinata, dopo due ore di questioni di legittimità, appena prima di chiedere la conferma dell’ergastolo ai cinque giudici presieduti da Adriano Iasillo. «Il Dna ha dato voce a Yara, è l’impronta genetica di Bossetti che non ha avuto pietà, lasciando Yara sola a morire in un campo». La sentenza d’appello, l’indagine, il Dna in testa. È stato muro contro muro tra il pg e gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Le lodi al Ris contro le critiche, la validità contro l’invalidità della prova regina del Dna, il rispetto delle regole per i test contro la loro violazione, la conferma della condanna contro l’annullamento secco, in alternativa un nuovo processo d’appello con una perizia.

«Indagine perfetta». L’omicidio di Yara è un caso unico per scienza e colpi di scena investigativi. Il procuratore generale ha esordito ricordandone i motivi: «Un omicidio efferato, un’indagine complessa con tecniche elevatissime, che non ha precedenti e ha richiamato l’attenzione internazionale». Il Dna è il sigillo messo sulla condanna. «Doppia — ha rimarcato il pg —. Una condanna dotata di efficacia dimostrativa». Dal punto di vista scientifico, l’indagine è stata «perfetta, senza rilievi da muovere».

La difesa: «Imputate le sentenze». L’avvocato Camporini ha richiamato l’attenzione sull’assenza di Bossetti: «Non è lui l’imputato, oggi lo sono le due sentenze e le regole processuali che non sono state rispettate». La difesa ha parlato di «esaltazione del Ris, perché viene ritenuto inattaccabile il punto di partenza». Le analisi sui leggings e sugli slip di Yara da cui è emerso il Dna di Ignoto 1, una sequenza di coppie di numeri. «Se si parte dal presupposto che questa tabellina è corretta, allora il processo è finito». Ma la difesa ha ribadito il suo mantra: il risultato non vale perché ottenuto violando la procedura dei test.

L’impronta genetica. Il procuratore generale è ripartito dal 1985: «Da allora la genetica concorda che il Dna nucleare si usi per fini identificativi, non è un caso che la banca dati raccolga solo quello e non il mitocondriale. È l’evoluzione dell’impronta digitale, è un’impronta genetica». Quanto all’obiezione della difesa relativa ai reagenti dei kit scaduti «mai potrebbe comunque produrre un Dna artificiale, è fantascienza». Quanto a una contaminazione, altra tesi della difesa «i dati vengono letti dal sequenziatore, una macchina, non possono essere modificati». Tra Ignoto 1 e Bossetti c’è un «match pieno».

«Ignoto 1 non è il killer». Secondo la difesa, non solo Ignoto 1 non è Bossetti, non è nemmeno l’assassino: «La stessa polizia scientifica era stupita della qualità e della quantità della traccia trovata sul corpo di Yara. Non può esserci finita al momento del delitto, se Yara è stata uccisa il 26 novembre 2010. Non si spiega una tale resistenza per tre mesi su un corpo trovato così degradato».

L’assenza dell’alibi. In questo processo - lo ricorda il pg - ci sono altri indizi «convergenti». Cita la mancanza dell’alibi. Si riferisce all’intercettazione in carcere in cui la moglie Marita Comi ricordava a Bossetti che non le aveva mai detto, «già prima» dell’arresto, dove si trovasse il giorno dell’omicidio. Secondo la difesa erano ricordi lontani. Secondo il pg «non è solo un alibi inesistente, questa è reticenza dal momento che l’imputato si ricordava bene che quel giorno gli si era scaricato il telefono. La scomparsa di Yara colpì e travolse questa comunità. Fu un evento dirompente, non ricordare quando si ricorda altro non è normale».

I legali dei Gambirasio. «Io c’ero, l’ho vissuto», ha ricordato l’avvocato Enrico Pelillo, riferendosi a quando l’indagine sembrava infilata in un vicolo cieco. Insieme al collega Andrea Pezzotta ha voluto mettere fine alla polemica sui campioni di Dna (la difesa di Bossetti dice che ce ne sono ancora, per altri test). «È pacifico che non ce ne siano più». La spiegazione è concorde con quella del pg: «Si è voluto andare avanti con le indagini, sembrava tutto contro: si era trovato il padre dell’assassino ma era morto e i suoi figli (anagrafici, ndr) non c’entravano nulla, da qui la ricerca di un figlio illegittimo. Il Dna non c’è più, gli avvocati lo sanno: la perizia non potrebbe che essere un mero controllo dei dati».

Yara, ergastolo definitivo per Bossetti. Guarda caso. È vero che il procedimento contro il carpentiere resta un processo indiziario, ma la mole di lavoro investigativo, le risultanze scientifiche e le dichiarazioni dello stesso indiziato, mettono al riparo dall’errore giudiziario paventato dalle difese, scrive Riccardo Nisoli il 13 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Ignoto 1, per la Giustizia italiana, è Massimo Bossetti. Ieri sera la Cassazione ha confermato l’ergastolo mettendo la parola fine al caso giudiziario che ha diviso l’Italia. Dunque è lui che uccise Yara Gambirasio, la sera del 26 novembre 2010, nonostante si fosse sempre dichiarato innocente e vittima di un’insondabile macchinazione, mentre i genitori della ragazzina, in silenzio, invocavano la verità. Supponiamo pure, per un attimo, di volere credere al muratore di Mapello che i colleghi soprannominavano «il favola». Se non è stato lui, potrebbe finalmente dire chi è stato e spiegare cosa ci facesse lui, insieme all’assassino, sul luogo del delitto. Perché Bossetti era proprio lì mentre la ginnasta tredicenne di Brembate Sopra veniva aggredita a coltellate, prima di essere lasciata agonizzante in un campo incolto a Chignolo d’Isola. Lo dice, con certezza, quella macchiolina di Dna trovata per miracolo su un cadavere rimasto per tre mesi fra le erbacce. Una traccia genetica che contiene, mischiati, il sangue di Yara e il Dna di Bossetti. Nessuno può avercelo messo a posteriori, se non lui al momento dell’omicidio. A tutto si può credere, dunque, fuorché al Grande Complotto, secondo il quale si è preso a caso un capro espiatorio, come in una folle e cinica lotteria. Non è così, con buona pace degli innocentisti social, e la riprova sta nel fatto che il Dna trovato dall’anatomo-patologa Cristina Cattaneo sugli slip e i leggings di Yara era inizialmente di un signor nessuno. Tant’è che venne chiamato, appunto, Ignoto 1. Per risalire a chi appartenesse, biologi e investigatori, guidati dalla caparbietà del pm Letizia Ruggeri, iniziarono un viaggio incerto, tanto avventuroso quanto incredibile, per raggiungere una meta che pareva stregata, in bilico tra le ultime frontiere della scienza e le storie più recondite di amori e tradimenti nella profonda Val Seriana. Un percorso che ha superato la più fervida immaginazione di un giallista, fino ad approdare, di prelievo in prelievo, al match perfetto con il Dna di Massimo Bossetti. Che, guarda caso, è un muratore (nei polmoni di Yara vennero trovare tracce di materiale edile). Che, guarda caso, ha un furgone (diciamo similissimo, ma potremmo dire identico, a quello inquadrato da diverse telecamere intorno all’ora della sparizione di Yara dalla palestra). Che ancora, guarda caso, agganciava con il suo telefonino una cella compatibile con il delitto. Che infine, guarda caso, non ha un alibi. Per questo la moglie Marita, durante un colloquio in cella registrato dalle microspie, mise alle corde il marito, come solo una donna sa fare quando è sospettosa. Ma Bossetti niente, non ricorda proprio. Prima e dopo sì, ma l’ora X no. Guarda caso. È vero che il procedimento contro Bossetti resta un processo indiziario, ma la mole di lavoro investigativo, le risultanze scientifiche e le dichiarazioni dello stesso indiziato, mettono al riparo dall’errore giudiziario paventato dalle difese (che ieri sera, detto per inciso, hanno avuto l’ardire di attaccare «il processo mediatico»). Gli inquirenti, per non lasciare nulla di intentato, hanno verificato persino le segnalazioni di mitomani e sensitive. Alla fine è rimasto intatto il pilastro del Dna. Il processo, in fondo, era tutto qui. E la scienza ci ha ricordato che la probabilità di trovare un altro Dna nucleare uguale a quello di Bossetti è di una su 330 milioni di miliardi di pianeti, ciascuno abitato da 7 miliardi di persone.

Se il Corriere inventa la pedofilia di Bossetti. Nuovo record di manipolazione in via Solferino: e il mostro è servito, scrive "Il Giornale" Domenica 19/10/2014.  Che la campagna per trasformare Massimo Bossetti nel perfetto «killer di Brembate» proceda a colpi di velenose indiscrezioni ormai è fatto assodato. Ieri però il Corriere della Sera ha stabilito un nuovo record di manipolazione. Perché rovinare una bella storia con la verità, si saranno chiesti in via Solferino. I fatti sono questi: una donna viene contattata dagli investigatori perché il suo numero compare sul cellulare dell'accusato di aver ucciso la 13enne Yara Gambirasio. Lei racconta, comprensibilmente scossa, che un mese prima dell'arresto ha incontrato Bossetti per comprare uno specchio da lui messo in vendita su eBay. La signora, si capisce dall'articolo, è piacente e Bossetti le rivolge qualche battuta più o meno galante che chi ha scritto l'articolo carica di una forzata luce sinistra. In realtà però la storia è palesemente «moscia». Insomma non c'è trippa per titoli. E allora scatta il trucchetto indecente. La donna riferisce che Bossetti, dopo che lei ha snobbato una specie di offerta di lavoro-avance, le chiede se ha una sorella. Lei replica: «Sì, più giovane». E lui di rimando: «È bella come te?». Una normale battuta «mollicona», di fronte alla quale la signora conclude che il tipo è «un po' cascamorto, ma una persona normale». Il titolo del pezzo? «Incontrai Bossetti, chiese se era bella la mia sorellina». La strizzata d'occhio al lettore è da cartellino rosso: «sorellina», è chiaro, sottintende una ragazzina, guarda caso, proprio come Yara. Capito che maniaco questo Bossetti cari lettori del Corriere? Peccato che la donna abbia 40 anni. E che il quotidiano si guardi bene invece dallo svelare il dato più importante: quanti anni potrà avere la «sorellina» di una quarantenne? Il mostro è servito.

Caso Yara, la Cassazione conferma l'ergastolo per Bossetti. L'accusa: "Nessun ragionevole dubbio". La difesa aveva presentato 23 ragioni per chiedere un nuovo processo. Il muratore ha atteso la sentenza in carcere a Bergamo. Il pg: "Non ha avuto pietà, ergastolo", scrive il 12 ottobre 2018 "La Repubblica". La Cassazione ha confermato l'ergastolo per Massimo Bossetti, condannato in primo e secondo grado per l'omicidio di Yara Gambirasio, la giovane ginnasta di 13 anni il cui corpo venne trovato il 26 febbraio 2011 in un campo a Chignolo d'Isola, nel Bergamasco, a pochi chilometri da Brembate di Sopra, dove la ragazza viveva e da dove era scomparsa tre mesi prima. Dopo otto anni si chiude il caso. La prima sezione penale della Cassazione, dopo circa 4 ore di camera di consiglio, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato, che è detenuto nel carcere di Bergamo. Il ricorso di 600 pagine e 23 motivi di impugnazione della sentenza che è stato presentato dai legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ruotava intorno alla formazione della prova principale, il Dna. "Leggeremo le motivazioni. Le decisioni si rispettano e si impugnano nelle sedi opportune. In questo momento dobbiamo solo piegarci a questa sentenza, ma continuiamo a credere che Massimo sia innocente", dice Salvagni. E aggiunge: "Il processo mediatico nuoce: ci voleva molto coraggio a prendere una decisione contro la sentenza d'appello. Era meglio che lui stesse zitto fin dall'inizio e che nessuno parlasse di questo caso. Siamo passati dalle 16 ore della camera di consiglio di Brescia alle tre della Cassazione, questa è la giustizia italiana". Andrea Pezzotta, legale dei familiari di Yara replicano: "È andato tutto come secondo me doveva andare. Con oggi sono 39 i magistrati che hanno esaminato, in varie fasi, il fatto e tutti hanno concluso per la colpevolezza di Bossetti". E a chi gli fa notare che la difesa di Bossetti ha criticato l'attenzione dei media nei confronti del caso, risponde: "Se c'è stato un processo mediatico non è per colpa nostra. Noi non siamo mai andati in televisione". L'avvocato non ha sentito ancora i Gambirasio dopo la sentenza.

La giornata. La giornata si era aperta con le parole di Bossetti che attraverso il suo avvocato chiedeva ai giudici della Cassazione di rifare "una volta una perizia sul Dna e scoprirete che io non c'entro". Il muratore di Mapello ha atteso la sentenza in carcere a Bergamo e al legale aveva detto di sentirsi "fiducioso, anche se molto timoroso". La linea della sostituta pg era nettissima: "Nessun ragionevole dubbio", ha detto spiegando che Bossetti merita l'ergastolo. Mariella De Masellis aveva chiesto che per il muratore di Mapello ci sia la conferma delle sentenze di primo e di secondo grado. L'avvocato Claudio Salvagni aveva invece chiesto che la pena venisse cancellata "il provvedimento di annullamento - aveva detto - sarebbe impopolare ma coraggioso". L'udienza si è tenuta davanti alla prima sezione penale. Ed è rivolgendosi ai giudici che l'accusa aveva detto, parlando dell'imputato: "Non ha avuto un moto di pietà e ha lasciato morire Yara da sola in quel campo". La tredicenne, infatti, fu trovata cadavere tre mesi dopo la scomparsa in un campo desolato a dieci chilometri da casa sua. De Masellis aveva chiesto anche la conferma dell'altra accusa: "Bossetti deve rispondere di calunnia. Ha fornito indicazioni specifiche su un individuo con cui lavorava", sviando le indagini nei suoi confronti. Per quest'accusa (calunnia, appunto, nei confronti di un collega), l'imputato era stato assolto. E l'assoluzione è stata conferma anche dalla Cassazione. L'aula era gremita e tra le persone del pubblico c'erano alcuni sostenitori di Bossetti che hanno esposto in piazza Cavour a Roma, sede della Corte di Cassazione, uno striscione con la scritta "Vogliamo la verità. Bossetti innocente". Non si sono presentati invece i familiari dell'imputato né quelli di Yara.

L'omicidio. Yara scomparve all'uscita della palestra, e il suo cadavere venne trovato il 26 febbraio 2011, in un campo a una decina di chilometri di distanza da Brembate. Sul corpo furono trovate tracce biologiche dalle quali i carabinieri sono risaliti a un Dna maschile. Il soggetto fu inizialmente chiamato "Ignoto 1". Un Dna simile fu poi trovato mesi dopo su una marca da bollo di un uomo morto nel 1999, Giuseppe Guerinoni. Da qui l'intuizione che "Ignoto 1" potesse essere un suo figlio illegittimo. Dopo lunghe e complesse indagini, con prelievi a tappeto sulla popolazione della zona, Massimo Bossetti è stato arrestato nel giugno 2014. A suo carico, oltre al Dna, anche le riprese di una telecamera che mostrano il suo furgone passare davanti alla palestra di Brembate pochi minuti prima che Yara scomparisse. Il muratore di Mapello si è sempre dichiarato innocente. "Sono vittima del più grave errore giudiziario di questo secolo" aveva detto ieri mattina ai giudici. E poi quelle lacrime dopo la sentenza. In mezzo, le tante menzogne raccontate alla moglie. Un "Favola", come lo descrivevano sul cantiere o un assassino?

Due gradi di giudizio hanno ora stabilito che è lui l'omicida di Yara Gambirasio, scrive Paolo Berizzi il 18 luglio 2017 su "la Repubblica". E alla fine il "Favola" tornò nel suo bozzolo, solo, accanto all'ombra di una metamorfosi non riuscita, dentro un involucro protettivo che è come il colore dell'ebano con cui il sole gli ha dipinto la faccia sottile nelle ore d'aria in carcere. "Sono vittima del più grave errore giudiziario di questo secolo". E però "mai, mai diventerò colpevole della mia innocenza", ha scandito Massimo Bossetti al principio dell'ennesimo giorno decisivo, un altro finito male, ed era toccato a lui iniziare alle 8.37 del mattino: tre fogli preparati scritti di suo pugno, letti dinanzi alla Corte per tentare un ultimo disperato assalto, un po' miele un po' rabbia un po' "Dna", ai giudici, questi di Brescia dai quali era convinto di riuscire ad "avere finalmente giustizia". Camicia azzurra a risvolti floreali, solita maniacale abbronzatura. Sentite come si è rivolto loro. "Siete stati molto professionali, vi ho osservato per tutte le udienze, mi avete trasmesso un interesse che ho apprezzato". Genuino forse no. Ma nemmeno così astuto e raffinato da tenere a bada il rischio che sempre la piaggeria, il pelo lisciato di fronte a un verdetto, trascina con sè. "Voi siete liberi di credere o di non credere...". "Ma se anche voi come me avete sete di verità e giustizia...". Il soprannome "Favola" a Bossetti gliel'hanno appiccicato addosso i colleghi in cantiere, perchè a volte le sparava davvero enormi: l'inesistente tumore al cervello per giustificare dei turni finiti in anticipo ("devo correre in ospedale a Milano a fare degli esami"), le millanterie in carcere tipo i soldi (mai) sequestrati dalla guardia di finanza in Svizzera, o "quando mi hanno sparato un colpo di pistola qui". "Massi, ma perchè racconti bugie?", gli chiede un giorno la moglie Marita tranciante a colloquio in carcere. "Perchè sei uno che racconta balle?". E' qui che inizia e forse finisce il mondo piccolo dell'uomo che due tribunali e due gradi di giudizio hanno stabilito essere l'assassino di Yara Gambirasio. E' il suo gorgo, il punto nel quale tutto di Bossetti porta in profondità e crea dei pozzi dove non distingui più: o forse più si scende e più tutto è drammaticamente chiaro. "Non sono un violento, un sadico, un animale: l'unico sentimento per cui vive Massimo Bossetti - parla in terza persona - è l'amore per la sua famiglia". Quanto è sincero il "Favola" quando rivolge un pensiero, e vorrebbe essere denso di sentimento, a Yara?  "Una ragazzina che aveva diritto di vivere, che poteva essere mia figlia, la figlia di tutti voi". Che livello di credibilità può avere uno che contesta il proprio Dna sugli slip della vittima ("è un errore) e con la moglie, di certo per una propria e ammissibile forma di pudore, barava sulle sedute abbronzanti cui si sottoponeva due o anche tre volte la settimana? E quindi: chi è l'"animale"? Lui, come ritengono i giudici, o "quelli che sono ancora in giro liberi e stanno ridendo di me e della giustizia?". Una cosa è certa: non è una mammola, Bossetti. In questi tre anni - era il 16 giugno 2014 quando un battaglioncino di polizia e carabinieri gli ha messo le manette ai polsi mentre passava la malta in cima a un ponteggio - non ha mai ceduto. Ha molto pianto in solitudine, ha accettato di farsi somministrare neurolettici quando nel carcere bergamasco del Gleno "mi sputavano e mi gridavano di tutto". Ma come un mantra ha continuato a ripetere: "Non confesserò mai un delitto che non ho commesso". Per dire che piuttosto che darla vinta a chi gli ha chiesto di confessare facendogli sentire il profumo dello sconto di pena - "massimo avrei fatto 10 anni", "i permessi premio", "poter stare ogni tanto in famiglia coi miei amati figli" - piuttosto Bossetti aspetta che "muoia la vita". La sua, dopo quella di Yara.  A cui nessuno nel campo di Chignolo d'Isola ha fatto sconti di pena. "Chi l'ha uccisa è un animale", e "io sono uno che non ha mai fatto male a nessuno, chiedetelo a mia moglie, è qui, chiedeteglielo...", dice. Marita sta seduta dietro di lui, col fratello e la cognata. La madre e la sorella di "Massimo" sono sempre distanti perchè i due gruppi non si parlano più. Guardi Marita, dunque. L'aria stanca sotto il trucco, si capisce che, comunque vada, è esausta di questa storia enorme e mediatica le cui luci ha lasciato illuminassero anche la sua bellezza: interviste, copertine, posati.  "Per cosa poi - sbotta uno dei tanti sostenitori dell'imputato sempre presenti nell'aula 64 - se alla fine hanno deciso di buttare la chiave?".

Dalla scomparsa alla prova del Dna, tutte le tappe del caso Yara. 26 novembre 2010: la ragazza, tredicenne, scompare dopo la palestra. Tre mesi dopo il ritrovamento del corpo. Poi la svolta: una traccia genetica maschile. Le ricerche, incessanti. Fino al fermo di oggi, scrive il 16 giugno 2014 "La Repubblica". L'individuazione e il fermo del presunto assassino di Yara Gambirasio è avvenuto a poco meno di quattro anni dalla scomparsa della ragazza. Queste le tappe fondamentali della vicenda.

26 novembre 2010: Yara Gambirasio, 13 anni, scompare a Brembate di Sopra, alle porte di Bergamo. Ha lasciato la palestra in cui pratica la ginnastica ritmica ad appena 700 metri da casa e di lei si perdono le tracce. Dal suo telefonino parte un sms di risposta ad un'amica. Alle 18.47 il suo telefonino viene agganciato dalla cella di Mapello, un comune distante circa tre chilometri da Brembate, poi la traccia scompare.

5 dicembre 2010: il marocchino Mohamed Fikri, che lavora in un cantiere edile di Mapello, viene fermato a bordo di una nave diretta a Tangeri. Contro di lui alcuni indizi, tra i quali un'intercettazione ambientale in cui sembra affermi "Allah perdonami non l'ho uccisa". Ma la traduzione era sbagliata. Mohamd Fikri si proclama innocente. Riesce a dimostrare che le sue vacanze in Marocco erano programmate da tempo e che non stava fuggendo. La sua posizione sarà archiviata perchè l'immigrato risulterà del tutto estraneo alla vicenda.

12 dicembre 2010: La mamma di Yara parla per la prima volta e in un'intervista e dice di sentire "un grande affetto attorno alla sua famiglia". 

8 gennaio 2011: Arriva una lettera anonima che annuncia che il corpo di Yara è nel cantiere di Mapello. La lettera non è tenuta in considerazione anche perché il cantiere era già stato più volte controllato e ispezionato. E' solo una delle centinaia di segnalazioni che si riveleranno inutili in una vicenda costellata dalla presenza di mitomani e sensitivi.

26 febbraio 2011: Il corpo di Yara, a tre mesi esatti dalla scomparsa, viene ritrovato in un campo a Chignolo d'Isola, ad una decina di chilometri da Brembate (Bergamo). Le indagini appureranno che è stata uccisa sul posto, colpita da alcune coltellate e morta anche per il freddo.

28 maggio 2011: E' il giorno dell'addio a Yara. In migliaia di ritrovano al palazzetto dello Sport per assistere ai suoi funerali. Viene letto anche un messaggio del Presidente della Repubblica.

15 giugno 2011: gli investigatori isolano una traccia di dna maschile sugli slip della ragazza che, a differenza degli altri tre già esaminati, non sarebbe suscettibile di contaminazione casuale. Sarebbe il dna dell'assassino. Un profilo genetico che non è tra i 2.500 raccolti in quei mesi dagli investigatori.

18 settembre 2012: nasce la cosiddetta 'pista di Gorno': è estratto da una marca da bollo su una vecchia patente il Dna di Giuseppe Guerinoni, di Gorno sposato e padre di due figli, morto a 61 anni nel 1999 simile a quello trovato sul corpo di Yara. Un Dna che, comparato con il nucleo famigliare dell'uomo, non porta ad alcun risultato; da qui l'ipotesi degli investigatori che esista un suo figlio illegittimo.

7 marzo 2013: è riesumata la salma di Giuseppe Guerinoni, il bergamasco di Gorno morto nel 1999 e che, secondo gli inquirenti, sarebbe il padre biologico dell'assassino. La salma verrà sottoposta a tutti gli accertamenti del caso, come disposto dalla Procura.

10 aprile 2014: la consulenza dell'anatomopatologa Cattaneo fuga i dubbi, peraltro sollevati dalla famiglia di Yara, sulla corrispondenza del Dna con quello di Giuseppe Guerinoni. L'assassino di Yara è un suo possibile figlio illegittimo. Di recente, senza alcun risultato, quel Dna era stato comparato con quello di donne che frequentavano Salice Terme, nel Pavese. Una località climatica che l'autista aveva frequentato negli anni in cui avrebbe potuto avere un figlio illegittimo.

16 giugno 2014: viene fermato Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara. 

Massimo Bossetti, la Cassazione conferma l'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, scrive il 12 Ottobre 2018 Libero Quotidiano". Per Massimo Bossetti non c'è più speranza. La Corte di Cassazione ha infatticonfermato l'ergastolo per il carpentiere di Mapello condannato per l'omicidio di Yara Gambirasio la tredicenne scomparsa da Brembate di Sopra, nel Bergamasco, il 26 novembre 2010 e ritrovata morta in un campo a poca distanza dal suo paese 3 mesi dopo. La prima sezione penale della Cassazione, dopo oltre tre ore di camera di consiglio, ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato, che è detenuto nel carcere di Bergamo. La Suprema Corte ha confermato invece l'assoluzione di Bossetti per il reato di calunnia ai danni di un suo collega. "Era meglio che lui stesse zitto fin dall'inizio e che nessuno parlasse di questo caso. Siamo passati dalle 16 ore della camera di consiglio di Brescia alle tre della Cassazione, questa è la giustizia italiana", commenta il legale di Bossetti, Claudio Salvagni. "Leggeremo le motivazioni, le decisioni si rispettano e si impugnano nelle sedi opportune. In questo momento dobbiamo solo piegarci a questa sentenza, ma continuiamo a credere che Massimo sia innocente". Quindi aggiunge che "il processo mediatico nuoce: ci voleva molto coraggio a prendere una decisione contro la sentenza d'appello". "Questa è la 39esima volta che un giudice dice che Bossetti è colpevole; giustizia è stata fatta ma non c’è soddisfazione", dice Andrea Pezzotta, legale dei genitori di Yara, al microfono della trasmissione Quarto grado.

Yara Gambirasio, la Cassazione conferma: “Ergastolo per Massimo Bossetti”. Fine pena mai per il muratore di Mapello. Il sostituto pg della Cassazione Mariella De Masellis aveva chiesto il fine pena mai. Non esiste un “ragionevole dubbio” sull’innocenza di Bossetti che “non ha avuto un moto di pietà e ha lasciato morire Yara da sola in quel campo”. La difesa aveva chiesto una nuova super perizia, ma gli ermellini hanno respinto il ricorso. Fine pena mai per il muratore di Mapello, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 ottobre 2018. Fine pena mai. La Cassazione ha confermato l’ergastolo per Massimo Giuseppe Bossetti. Il sostituto pg della Cassazione Mariella De Masellis aveva chiesto il fine pena mai. Non esiste un “ragionevole dubbio” sull’innocenza di Bossetti che “non ha avuto un moto di pietà e ha lasciato morire Yara da sola in quel campo” aveva sostenuto chiedendo la conferma delle condanne anche per il reato di calunnia nei confronti di un collega: “Ha fornito indicazioni specifiche su un individuo con cui lavorava”, sviando le indagini.

Bossetti condannato anche in primo e secondo grado. La ragazzina, scomparsa nel nulla il 26 novembre 2010 nel tragitto dalla palestra a casa, era stata ferita diverse volte con un’arma da taglio e poi lasciata ad agonizzare nel campo, dov’era morta nella notte, sfinita dal freddo e dalla paura. Il suo corpo era stato trovato praticamente per caso tre mesi dopo da un aeromodellista, dopo che in suo mezzo telecomandato era caduto a pochi passi dal cadavere nel campo di Chignolo d’Isola. Bossetti, 47 anni, muratore di Mapello, era stato condannato all’ergastolo in primo (1 luglio 2016) e secondo grado (18 luglio 2017), si è sempre proclamato innocente. La I sezione penale della Cassazione, presieduta da Adriano Iasillo, ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla difesa di Bossetti, condannando l’imputato al pagamento delle spese legali. La Corte ha anche dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla procura generale di Brescia contro l’assoluzione dal reato di calunnia per Bossetti.

Dna tra accusa e difesa. Pg: “Contaminazione è fantascienza”. A lui gli investigatori, coordinati dal pm di Bergamo Letizia Ruggeri, arrivano dopo 4 anni e dopo migliaia di test genetici. Il 15 giugno 2011 viene isolata una traccia di Dna maschile sui leggins e gli slip della ragazza. Nasce la ‘pista di Gorno’: viene estratto da una marca da bollo su una vecchia patente il Dna di Giuseppe Guerinoni, sposato e padre di due figli, morto nel 1999, simile a quello trovato sul corpo di Yara. Comparato con il suo nucleo familiare, non porta a risultati: da qui l’ipotesi di un suo figlio illegittimo. Sarà per mesi Ignoto 1. Il 16 giugno 2014 viene arrestato Massimo Bossetti. Due giorni prima gli era stato prelevato il Dna che era risultato coincidere con quello di Ignoto 1. A lui gli investigatori erano giunti attraverso la madre, Ester Arzuffi, che, secondo l’accusa, aveva avuto una relazione con Guerinoni. Accusa e difesa nel corso dei due giudizi precedenti si sono confrontati anche sulle altre prove e sul movente. L’ipotesi (avanzata dalla difesa, ndr) che si sia voluto creare in laboratorio un dna artificioso o contaminarlo, costituisce una congettura a livelli di fantascienza” aveva detto la rapprsentante dell’accusa. “Fatemi fare una volta una perizia sul Dna e scoprirete che io non c’entro” le parole prima della sentenza dell’imputato, rimasto in carcere, secondo quanto riportato dal suo legale Claudio Salvagni. Il difensore aveva spiegato che il muratore di Mapello era “fiducioso anche se molto timoroso”.

Legale dei Gambirasio: "Giustizia", Difesa: "Mazzata". “Era meglio che lui stesse zitto fin dall’inizio e che nessuno parlasse di questo caso. Siamo passati dalle 16 ore della camera di consiglio di Brescia alle tre della Cassazione, questa è la giustizia italiana” dice Salvagni fuori dal Palazzo della Cassazione. Per Massimo sarà una “mazzata durissima ma saprà reagire, le strade non sono finite. Con pazienza e con fiducia bisogna rimettersi al lavoro, qualcosa ancora si può fare” afferma il legale davanti alle telecamere della trasmissione Quarto Grado. “Leggeremo le motivazioni. Le decisioni si rispettano e si impugnano nelle sedi opportune. In questo momento dobbiamo solo piegarci a questa sentenza, ma continuiamo a credere che Massimo sia innocente. Il processo mediatico nuoce: ci voleva molto coraggio a prendere una decisione contro la sentenza d’appello”. “È andato tutto come secondo me doveva andare. Con oggi sono 39 i magistrati che hanno esaminato, in varie fasi, il fatto e tutti hanno concluso per la colpevolezza di Bossetti” dice l’avvocato Andrea Pezzotta, legale dei familiari di Yara Gambirasio. A chi gli fa notare che la difesa di Bossetti ha criticato l’attenzione dei media nei confronti del caso, risponde: “Se c’è stato un processo mediatico non è per colpa nostra. Noi non siamo mai andati in televisione”. L’avvocato non ha sentito ancora i Gambirasio dopo la sentenza. Li avvertirà sabato, come d’accordo. Forse la difesa pensa a un ricorso alla Cedu, ma per quanto riguarda la giustizia italiana, a meno di clamorosi colpi di scena che comporterebbero la revisione del processo, questo è l’ultimo verdetto sul caso della ragazzina che sparì nel nulla mentre percorreva i pochi metri che separavano la palestra dove si allenava alla casa dove la sua famiglia l’aspettava.

Lite Carmelo Abate-Remo Croci sul caso Bossetti. Il botta e risposta: "Evitare istigazioni", "Un cronista deve fare il suo lavoro". Il conduttore Nuzzi riporta la calma, scrive il 12 ottobre 2018 Fabio Belli su "Il Sussidiario". Lite negli studi di Rete 4 in ‘Quarto Grado tra il giornalista e scrittore Carmelo Abate e l’inviato della trasmissione, Remo Croci. Quest’ultimo ha testimoniato grida provenienti dal carcere da parte dei detenuti, che protestavano per la conferma dell’ergastolo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, da parte della corte di Cassazione. Croci ha testimoniato i fatti e Abate ha criticato il poter dar voce a quelle che potrebbero sfociare, da proteste verbali, in una potenziale sommossa carceraria, vedendo tra l’altro che la trasmissione dà spazio alla cosa. Ha spiegato Abate: “Io inviterei tutti alla saggezza perché è inutile lanciare messaggi apocalittici come quelli che ha lanciato Meluzzi sulla giustizia, evitare messaggi che possono istigare gesti gravi o di ribellione in un carcere dove c’è gente che ha la televisione accesa e con un microfono là fuori: il rischio è quello di istigazione, anche inconsapevolmente: io spegnerei la telecamera davanti al caso.” “Io non spengo niente Abate” ha risposto Remo Croci, “la tua opinione va a ledere il diritto della mia professionalità. Io sono qui a raccontare un fatto di cronaca e se permetti se alle mie spalle sento delle grida che possono essere contro o pro Bossetti, io registro questo dato di cronaca. Non istigo nessuno e per cortesia pesate bene le parole, valutando ciò che dite rispetto ad un collega che sta lavorando insieme a due operatori, noi stiamo facendo il nostro lavoro.” Il conduttore di ‘Quarto Grado’, Gianluigi Nuzzi, ha cercato di gettare subito acqua sul fuoco ribadendo il diritto di Croce di fare il suo lavoro nel migliore dei modi e dare spazio alla cronaca, ma al tempo stesso di non impuntarsi in liti personali riguardanti temi interni alla trasmissione che possono interessare poco ai telespettatori. Abate ha replicato brevemente solo spiegando che il suo era un discorso generale, non riferito direttamente all’attività da cronista di Croci sul momento.

Il caso Croci finisce a Tv Talk: “Televisione sempre più attiva nei fatti di cronaca”, scrive Massimo Falcioni il 20 ottobre 2018 su "La Nuova Riviera". La vicenda di Remo Croci finisce a “Tv Talk”. Nel programma di analisi televisiva in onda su Raitre si parlava del ruolo sempre più attivo del piccolo schermo nei fatti di cronaca, quando il direttore di Oggi, Umberto Brindani, ha citato proprio “Quarto Grado” e la puntata del 12 ottobre scorso. Croci era in collegamento di fronte al carcere in cui è rinchiuso Massimo Bossetti e, al momento della sentenza definitiva che ha confermato la condanna all’ergastolo, ha documentato in tempo reale la reazione degli altri detenuti. “Quarto Grado aveva un inviato davanti al carcere, il bravissimo Remo Croci – ha ricordato Brindani – dopo la sentenza si sono iniziate a sentire le grida. Nuzzi ha chiesto all’inviato di avvicinarsi e si è stabilito che le grida dei carcerati in favore di Bossetti aumentavano. Si devono essere resi conto che accadeva perché i detenuti stavano seguendo la trasmissione in diretta. A un certo punto è successo che l’inviato ha detto "mi sembra di vedere una fiammella". Magicamente nel giro di pochi secondi dallo studio hanno chiuso il collegamento”. La spiegazione secondo Brindani? “Naturalmente i responsabili del programma si sono accorti che era la tv stessa a fomentare una protesta che avrebbe potuto sfociare in incidenti”.

La grafia di Bossetti: "Ecco chi è il killer di Yara". Dall’analisi della scrittura di Massimo Bossetti emerge una un notevole narcisismo, accompagnato da una cura eccessiva della propria immagine, scrive Evi Crotti, Sabato 20/10/2018, su "Il Giornale". Dall’analisi della scrittura di Massimo Bossetti emerge una un notevole narcisismo, accompagnato da una cura eccessiva della propria immagine (vedi lettera g minuscola) e un atteggiamento “accalappiante” (vedi scrittura inclinata a destra e ripetitiva) che senza dubbio hanno condizionato la parte emotivo-affettiva, creando in lui ambivalenza di sentimenti. Vale a dire che egli passa con grande facilità da sentimenti di freddezza razionale ad atri di “sdolcinatura accaparrante” per ottenere comprensione e sedurre l’interlocutore col suo modo di fare. La grafia non può dire se egli sia stato l’assassino di Yara, ma senza dubbio ci permette di affermare che ci troviamo di fronte ad un personaggio indefinibile e contorto, che non è riuscito a conciliare le forti pulsioni emozionali con un adeguato controllo consapevole. Ciò è senza dubbio alla base di un carattere borderline vale a dire ai limiti della patologia caratteriale. Anche la morfopsicologia ci suggerisce alcune analogie con l’interpretazione grafologica, specie relativamente alla componente narcisistica come viene espressa dal volto e dalle movenze del corpo. (Clicca qui per guardare la scrittura di Bossetti).

Massimo Bossetti ha pensato al suicidio. Salvato dalla moglie. Prima della sentenza della Cassazione Massimo Bossetti ha lasciato una lettera al suo avvocato, con le sue ultime volontà in caso di condanna definitiva, scrive Franco Grilli, Venerdì 19/10/2018, su "Il Giornale". Quando ha saputo che la Cassazione ha confermato l'ergastolo Massimo Bossetti ha pensato al suicidio. Lo rivela il settimanale Oggi, che spiega che a salvare il muratore di Mapello è stata la moglie, Marita Comi. Bossetti ha atteso la sentenza in carcere, a Bergamo. Quando gli hanno detto che non c'era più nulla da fare, che per lui la "fine pena mai" era definitiva, è scoppiato in lacrime, preso dallo sconforto. Hanno dovuto sedarlo. Pare che prima della decisione della Suprema Corte abbia fatto avere una lettera al suo avvocato, con le sue "ultime volontà nel caso fosse confermata la condanna". Il preannuncio, quindi, dell'intenzione di farla finita in caso di conferma dell'ergastolo per aver ucciso Yara Gambirasio. Proprio per questo Bossetti ora è tenuto sotto stretto controllo. A calmare Bossetti, almeno un po', è stata sua moglie Marita. Prima con una telefonata, poi con un colloquio in carcere, il giorno seguente. Bossetti ha chiesto di essere trasferito in un altro carcere, dove possa lavorare, "per non impazzire e per aiutare la mia famiglia".

L'ultima lettera dal carcere. Alcuni giorni fa, poco prima della sentenza, Bossetti ha scritto una lettera al cronista di News Mediaset Enrico Fedocci: "Caro Enrico fai giungere a tutti la voce di un innocente condannato al carcere a vita senza MAI potersi difendere. Questa non è una cosa da paese civile. Io sono INNOCENTE - ribadisce - e lo griderò finché avrò voce. MAI smetterò di lottare con i miei avvocati che mi difendono per sincera convinzione e amore di Giustizia per dimostrare la mia INNOCENZA!!".

Marita, la moglie di Bossetti: «È innocente, lo dico anche ai miei figli». «Se non ne fossi convinta, non sarei certo rimasta con lui». Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio a Brembate di Sotto, scrive il 22 ottobre 2018 "Il Corriere della Sera". La moglie di Massimo Bossetti, continua a difendere il marito e a dirsi convinta della sua innocenza, anche dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato la condanna del 47enne all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, scomparsa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo) e trovata senza vita 3 mesi dopo. «Massimo è innocente, ed è quello che ripeto ai nostri figli. Lo conosco da quando eravamo ragazzi e so che non mente», ha detto Marita Comi, 40 anni, attraverso il suo avvocato Claudio Salvagni al quotidiano Libero .

La famiglia. «Ho dei figli che stanno crescendo, se non fossi convinta della sua estraneità all’assassinio della piccola Yara, non sarei certo rimasta con lui» ha aggiunto la donna, spiegando che «è un momento drammatico per Massimo, per tutti» e che la famiglia è rimasta delusa perché sperava «che gli fosse data la possibilità di ripetere la prova del Dna, invece nulla».

La detenzione. L’uomo si trova nel carcere di Bergamo, dove Comi va a trovarlo spesso insieme ai tre figli della coppia, ma sta per essere trasferito nel penitenziario dove sconterà la pena, a Bollate od Opera, nel Milanese. «Osserva gli altri detenuti, e mi dice che molti di quelli colpevoli alla fine si rassegnano e iniziano un percorso di ricostruzione — racconta —. Invece Massimo non ci riesce, perché è innocente e quindi non accetta la privazione della sua libertà». Bossetti, muratore originario di Mapello, è stato condannato per aver accoltellato Yara in un campo a Chignolo d’Isola, a una decina di chilometri da Brembate, e averla lasciata ferita a morire di freddo: a portare alla sua condanna è stata una traccia di Dna maschile ritrovata sui leggins e gli slip di Yara e una lunga indagine genetica sugli uomini della zona.

YARA – TROPPO SCOMODA PER I PM LA PISTA DELLA CAMORRA, scrive il 21 ottobre 2018 Paolo Spiga su La Voce delle Voci. Anche Roberto Saviano torna sulla sentenza di Cassazione che condanna in via definitiva Massimo Bossetti per il delitto di Yara Gambirasio. Convinto della non colpevolezza di Bossetti, si chiede oggi e si era già chiesto altre volte: “perchè non è stata mai battuta dalla magistratura la pista della camorra?”. In sostanza Saviano, che riprende pari pari l’inchiesta della Voce pubblicata la prima volta nel 2012, fa riferimento alla circostanza che il padre di Yara, Fulvio Gambirasio, lavorava in un cantiere edilizio che faceva capo alla famiglia Locatelli: patròn Pasquale Paolo Locatelli, la ditta svolgeva piccoli e medi appalti nella Bergamasca. Anni prima si era trasferita dal vesuviano, dove aveva lavorato negli anni del dopo terremoto. Diradatisi gli appalti, i Locatelli hanno pensato bene di trasferirsi al Nord, visto che non poche imprese campane già a fine anni ’80 avevano cominciato a localizzarsi nelle regioni del centro e del nord. La Voce, dopo l’omicidio di Yara, ha scritto infatti un paio di inchieste molto dettagliate in cui viene ricostruito una scenario letteralmente alternativo a quello messo su dai magistrati della procura di Bergamo in anni di ricerche e centinaia di migliaia di test del Dna, facendo spendere allo Stato cifre colossali. Perchè, invece, non seguire una pista che sembra subito più credibile del delitto psico-passionale, facile chiave per ogni crimine che non si riesce – o vuole – spiegare? E cioè quella del delitto di camorra, un “avvertimento” terribile al padre di rispettare certi accordi? Nella prima inchiesta della Voce – che potete leggere nel link in basso – si parlava degli appalti, dei rapporti tra i Locatelli e Fulvio Gambirasio, di certe tensioni, sulle quali Fulvio ha cercato di minimizzare. E soprattutto di una cena in vista del 25 dicembre, alla quale presero parte i Locatelli, il padre di Yara e alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine. Un bel quadretto natalizio. Hanno mai indagato  altri magistrati su quei colleghi che parteciparono alla cena? Chiesto dei loro rapporti con i Locatelli? Approfondito con maggior impegno la reale portata dei rapporti tra Fulvio Gambirasio e Pasquale Paolo Locatelli? Immersi nella gran mole di test per il Dna, non c’era il tempo per rivolgere qualche domandina del genere? Ormai è troppo tardi, perchè la Cassazione ha chiuso porte e portoni. Però, non si sa mai…

Franzoni a casa, Erika cerca lavoro: la seconda vita dei condannati italiani famosi, scrive Domenica 14 Ottobre 2018 Valentino Di Giacomo su Il Messaggero. Era nata sotto il segno dei gemelli Yara Gambirasio, in uno di quei giorni di fine maggio quando la primavera fa già presagire i tempi delle vacanze, del sole e del mare. Uccisa a soli 13 anni, un tempo infinitamente piccolo da non poter assaporare tutte le bellezze della vita. Un destino spezzato troppo in fretta. Chi una vita ancora ce l'ha, come Massimo Bossetti, l'assassino di Yara, dovrà invece reinventarsela contando stancamente i giorni nella consapevolezza che mai più uscirà da un carcere. «Fine pena mai» è la sentenza definitiva, per lui come per tanti altri assassini che in questi anni hanno riempito le cronache italiane: ognuno con la sua storia ed un destino da consumare dietro le sbarre tentando di dare un senso al presente e al futuro, a fare i conti con un passato che non cambierà. Storie che si ripetono quasi sempre uguali con lo sfondo sempre identico di un'Italia e dei suoi mezzi d'informazione che si dividono tra innocentisti e colpevolisti. Un circo mediatico che dura almeno fino alla sentenza definitiva, una condanna che stabilisce per sempre il seguire dei giorni per chi resta. Quel tempo troppo stretto per i familiari delle vittime che devono imparare a convivere con un dolore inestirpabile, un tempo troppo ampio per chi quei delitti li ha commessi, da impiegare nell'apprendimento di come si vive sine die dietro le sbarre. Tra i casi di cronaca più eclatanti, i carnefici hanno provato a ricostruirsi una vita tra corsi d'arte, studi, lavori e persino un impiego in un call-center. Vale per tutti il percorso riabilitativo stabilito dalla Costituzione, anche per chi da una prigione non potrà più uscire.

FINE PENA MAI. Una vita all'ergastolo come quella dei coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Assassini della porta accanto, avevano ucciso pochi giorni prima del Natale del 2006, in provincia di Como, quattro vicini di casa: Paola Galli, sua figlia trentenne Raffaella Castagna, il piccolo figlioletto Youssef di appena due anni d'età e una donna che abitava in un appartamento confinante, Valeria Cherubini. «Rosa e Olindo», così come sono conosciuti alle cronache, hanno trascorso il periodo dei tre gradi di giudizio con l'obbligo dell'isolamento diurno. Rosa è reclusa nella prigione di Bollate, definito un «carcere modello». Qui Bazzi lavora nella sartoria dove confeziona abiti, grembiuli e borse con il marchio di Bollate che si chiama «Gatti galeotti». La condanna è a vita, ma in realtà Rosa può uscire a cadenza fissa dal carcere, ogni 15 giorni può infatti incontrare suo marito recluso nel carcere di Opera. Olindo, per tutto il tempo che non vede Rosa durante i colloqui, tiene il conto in un diario. Su quei fogli scrive della sua passione per il giardinaggio, nel suo tempo dietro le sbarre cura infatti l'orto della prigione e, a sera, sul diario annota i fiori e le piante coltivati, numero e tipologia degli innesti. Fa fiorire la vita dopo averla tolta a quattro persone. Ma non c'è pareggio. «Fine pena mai» come quelle di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, condannate all'ergastolo per l'omicidio della 14enne Sarah Scazzi avvenuto nel 2010. Le due donne, zia e cugina della giovane vittima, sono recluse nel carcere di Taranto. Anche per loro c'è la possibilità di studiare e seguire dei corsi. Madre e figlia hanno svolto un laboratorio artistico all'interno della casa circondariale. Alla fine del corso hanno potuto anche firmare le proprie opere sul catalogo della mostra i cui proventi della vendita sono stati destinati all'associazione di volontariato penitenziario «Noi e Voi».

FUORI DAL CARCERE. Chi invece ha potuto rifarsi una vita fuori dalla prigione dopo i delitti commessi, sono Erika De Nardo e Mauro, detto «Omar», Favaro. I due avevano rispettivamente 16 e 17 anni quando a Novi Ligure, nel 2001, uccisero la mamma di Erika, Susanna Cassini, e il fratellino undicenne, Gianluca. 16 anni di prigione furono inflitti alla ragazza e 14 al giovane. Nel 2010, Omar venne scarcerato grazie all'indulto e alla buona condotta, Erika uscì di prigione un anno dopo. Oggi Omar ha 35 anni, ha un figlio, una moglie e lavora come barista. Erika di anni ne ha 34, aveva trovato lavoro in un negozio di musica che poi è stato chiuso. In diverse interviste rilasciate negli ultimi anni si è lamentata di non riuscire a trovare lavoro a causa del suo oscuro passato. La ragazza, durante i suoi anni di reclusione, è riuscita anche a laurearsi, con 110 e lode, in Lettere moderne scrivendo una tesi su «Socrate e la ricerca della verità negli scritti platonici». Ha sempre addossato le colpe dei delitti della madre e del suo fratellino al suo fidanzato di allora, Omar. Una nuova vita sta provando ad intraprenderla anche Annamaria Franzoni, condannata a 16 anni per l'omicidio avvenuto nel 2002 di suo figlio, Samuele. Dopo sei anni trascorsi in carcere, alla donna sono stati concessi gli arresti domiciliari nel 2014. Le è permesso di uscire di casa per quattro ore al giorno per fare la spesa e svolgere le sue attività quotidiane. Non vive più a Cogne, ma è sempre con suo marito Stefano che non l'ha mai abbandonata, il suo primogenito 24enne e il bimbo nato l'anno successivo la morte di Samuele. Una perizia psichiatrica ha indicato che non c'è il rischio che possa uccidere ancora. Nonostante la condanna definitiva, anche Franzoni continua a sostenere la propria innocenza. Un altro caso di cronaca assai divisivo per l'opinione pubblica è stato il delitto di Garlasco avvenuto nell'agosto 2007. Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione, ha ucciso la sua fidanzata di 26 anni, Chiara Poggi. Un anno dopo il delitto, mentre subiva il processo, anche Stasi riuscì a laurearsi in Economia con 110 e lode alla Bocconi di Milano. Presa l'abilitazione da commercialista, il giovane è entrato in uno dei programmi che consentono ai detenuti di lavorare. Ha un impiego in un call center e percepisce circa mille euro al mese. La notizia ha avuto ampio risalto sulla stampa perché Stasi è stato condannato in sede civile a risarcire oltre un milione di euro alla famiglia della vittima. Soldi che il carnefice non sarebbe disposto a riconoscere avendo anche rinunciato a riscuotere la consistente eredità del padre, morto nel 2013, pur di risultare nullatenente. Più recente è l'omicidio della professoressa di francese Gloria Rosboch, uccisa in provincia di Torino due anni fa. Reo confesso l'omicida, Gabriele Defilippi, ex studente della donna, condannato a 30 anni di reclusione. Diciannove la condanna per il suo complice, Roberto Obert. Gloria Rosboch aveva prelevato 187mila dal conto dei suoi genitori per poi consegnarli a Defilippi. Gabriele, 24 anni, aveva anche tentato il suicidio in carcere legando una maglietta ad un termosifone. Pochi mesi fa il ragazzo ha chiesto e ottenuto di terminare gli studi conseguendo il diploma in servizi socio-sanitari.

SENZA OBLIO. Alla fine degli anni '90 risale invece l'omicidio della studente 22enne Marta Russo, uccisa con un proiettile vagante esploso all'interno dell'università La Sapienza di Roma. Un processo durato tanti anni che alla fine ha individuato come colpevoli Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, condannati rispettivamente a 5 e 4 anni di reclusione: il primo per omicidio colposo e l'altro per favoreggiamento. Entrambi hanno potuto rifarsi una vita, ma con enormi difficoltà. Scontata la pena, prima in carcere (fino al 2004), poi ai servizi sociali (nella riabilitazione dei disabili) fino al 2006, Scattone ha lavorato come professore supplente. Nel 2011 ottenne una supplenza in storia e filosofia presso il liceo scientifico Cavour di Roma, dove aveva studiato Marta Russo, generando furenti polemiche. Scattone riuscì anche ad ottenere l'assunzione, ma a causa degli attacchi subiti decise di abbandonare l'incarico. Tornò poi a insegnare filosofia nel liceo Primo Levi e in anni successivi come insegnante di materie umanistiche in altri licei. Ruolo che poi ha nuovamente abbandonato per le insormontabili polemiche che scoppiavano ogni volta otteneva un incarico. Sorte simile per Salvatore Ferraro, avvocato, musicista e scrittore che già in carcere fu ingaggiato per la sceneggiatura di un film su un serial killer, «Cattive inclinazioni». Nel 2005 finì di scontare la pena ai domiciliari e divenne militante del Partito Radicale, tra i responsabili dell'Associazione «Il Detenuto Ignoto» (fondata con Irene Testa e Marco Pannella), impegnato per i diritti umani dei detenuti, per il garantismo e la riforma della giustizia. Ha lavorato in seguito come collaboratore di Daniele Capezzone. Con l'associazione si è dedicato anche al supporto e all'assistenza legale per le morti di Giuseppe Uva e Stefano Cucchi. Altre vittime e, soprattutto, altri carnefici, alcuni ancora senza nome.

Ergastolo per Bossetti, a Brembate nessuno esulta: «Noi accusati di omertà, ma qui hanno sofferto tutti», scrive Sabato 13 Ottobre 2018 Claudia Guasco su ilmessaggero.it. Alle cinque e un quarto del pomeriggio Fulvio Gambirasio, in sella alla sua bicicletta, imbocca il vialetto che porta al cimitero. Ha appena finito di lavorare, ha i pantaloni corti e gli scarponcini da cantiere. Entra ed esce in pochi minuti, il tempo di un saluto fugace a sua figlia, uccisa a tredici anni da Ignoto 1. La Cassazione ha stabilito che quel dna è di Massimo Bossetti, che vede chiudersi l'ultimo spiraglio di salvezza. La visita del padre sulla tomba di Yara, questa volta, ha un significato speciale. Vogliamo la verità, è stata, fin dall'inizio, la battaglia dei genitori. E adesso la verità è arrivata. A Brembate la decisione definitiva dei giudici - fine pena mai per Massimo Bossetti - è accolta con sollievo dopo anni di inquietudine e sospetti. Gli innocentisti, ormai, sono uno sparuto e rumoroso gruppetto, tutti vengono da fuori. La vita del paese è un'altra: qui c'è la lapide di Yara con sua firma nella grafia da ragazzina e accanto la foto in cui sorride con l'apparecchio ai denti. In tanti hanno portato pupazzetti e piccoli angeli di ceramica, fiori bianchi e un'orchidea viola. Il cimitero è proprio di fronte alla palestra dove Yara, la sera del 26 novembre 2010, è scomparsa mente tornava a casa. Otto anni dopo qui non è cambiato nulla: le mamme che accompagnano i figli ai corsi pomeridiani, le ragazze della squadra di ginnastica ritmica di cui Yara era una promessa. Per diversi mesi il centro sportivo è stato al centro dell'inchiesta, che ha gettato un'ombra inquietante su un luogo che tutto il paese riteneva protetto. Gran brutto momento - ricorda sbrigativo uno degli addetti - Eravamo tutti sospettati. Adesso di quel periodo nessuno vuole nemmeno parlare, crea fastidio, imbarazzo e paura. C'è il ricordo del terrore per l'uomo che si muoveva nell'ombra e rapiva i bambini. E la necessità di giustificarsi per le reazioni intolleranti dopo il fermo del manovale marocchino Mohammed Fikri, 23 anni, che lavorava nel cantiere di Mapello. Quando si è sparsa la notizia, davanti alla villetta dei Gambirasio si è fermato un suv dal quale è sceso un uomo che ha alzato un bersaglio con la scritta Occhio per occhio, dente per dente. Spiegando: Non ne possiamo più di questi immigrati, devono tornarsene a casa loro. A meno di cento metri dalla casa di Yara è stato appeso u n cartello con la scritta Marocchini fuori da Bergamo e altri striscioni simili sono comparsi nei paesi limitrofi. Sono stati giorni di tensione, noi come amministrazione comunale abbiamo smorzato i toni. Non è questo il sentimento della nostra gente, ricorda il sindaco di allora Dario Locatelli. Oggi del caso si discute con più pacatezza ai tavolini del bar in fondo a via Rampinelli, mentre la Panda grigia di Maura Panarese imbocca la strada verso il centro. Chi la avvista fa finta di nulla, in Cassazione si decide la sorte di Massimo Bossetti ma Brembate sembra su un altro pianeta. Bosetti è colpevole? Che si trovi il vero responsabile, senza pregiudizi, dice Laura in pausa caffè. Speriamo emerga la verità e non resti un caso irrisolto, aggiunge Carlo. Chi cerca innocentisti o colpevolisti non deve venire a Brembate di Sopra, paese diviso tra la brutalità dell'omicidio di una tredicenne lasciata morire di freddo in un campo di stoppie e il fatto che l'imputato sia un carpentiere di Mapello, a tre chilometri da casa di Yara. Uno della comunità, che il sabato pomeriggio andava con la moglie a fare la spesa all'Eurospin e poi accompagnava i figli in piscina. Da quattro anni il carpentiere è in carcere, la madre Esther Arzuffi (il cui dna è stato un tassello chiave nelle indagini) è morta, la moglie Marita Comi lavora per un'impresa di pulizie. Il paese detesta le telecamere e non vede l'ora che della storia non se ne parli più. Ma l'ex sindaco, che conosce bene i suoi concittadini, ha un'altra opinione: Siamo stati bistratti per la nostra omertà, quando invece era rispetto delle persone e della famiglia».

Massimo Bossetti news: il muratore ha scritto una lettera ai genitori di Yara Gambirasio, scrive Michela Becciu il 15 ottobre 2018 su Urban Post. Massimo Bossetti è l’assassino di Yara Gambirasio per lo stato italiano. Non ci sono più dubbi. La Procura di Bergamo e il sistema giudiziario italiano, in tre gradi di giudizio, lo hanno stabilito definitivamente. La Corte di Cassazione pronunciandosi in merito la sera del 12 ottobre scorso, confermando la condanna all’ergastolo per l’imputato, ha messo la parola ‘fine’ sul terribile caso di giudiziaria che vide vittima, la sera del 26 novembre 2010, la ginnasta 13enne di Brembate, Yara Gambirasio. Sono 39 i giudici che si sono pronunciati in questi anni in merito alla colpevolezza del muratore di Mapello, tutti concordi nel considerarlo unico e solo responsabile dell’atroce delitto. “Leggeremo le motivazioni … Le decisioni si rispettano e si impugnano nelle sedi opportune. In questo momento, dobbiamo solo piegarci a questa sentenza, ma continuiamo a credere che Massimo sia innocente”, continua a dichiarare l’avvocato Salvagni. “Il processo mediatico nuoce: ci voleva molto coraggio a prendere una decisione contro la sentenza d’appello”, aggiunge. Lui si dispera e piange dal carcere. Chiede di essere trasferito in un altro penitenziario al fine di “poter lavorare per non impazzire”. Si apprende a Mattino 5 che nelle prossime ore Bossetti incontrerà in carcere uno dei suoi legali, Claudio Salvagni, il quale già parla di possibile ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Il carpentiere bergamasco avrebbe, dopo la condanna definitiva al carcere a vita, scritto di suo pugno una lettera ai genitori di Yara. Fulvio e Maura Gambirasio, che in tutta questa terribile vicenda giudiziaria hanno sempre tenuto un profilo bassissimo, lontano anni luce da ogni forma di esposizione mediatica, hanno voluto apprendere della sentenza della Cassazione solo via sms. Non si conoscono i contenuti della missiva, tuttavia l’inviato del programma di Canale 5 ha riferito che il messaggio di Bossetti dovrebbe essere recapitato nei prossimi giorni ai coniugi Gambirasio i quali poi decideranno se accettarlo ed eventualmente rispondergli.

Yara, Bossetti in lacrime: "Adesso voglio lavorare". Massimo Bossetti dopo la lettura della sentenza che lo ha condannato al carcere a vita per la morte di Yara Gambirasio è scoppiato in lacrime, scrive Franco Grilli, domenica 14/10/2018, su "Il Giornale".  Massimo Bossetti dopo la lettura della sentenza che lo ha condannato al carcere a vita per la morte di Yara Gambirasio è scoppiato in lacrime. Un pianto inconsolabile, racconta chi l'ha visto, che di fatto sottolinea il dolore provato per una pena che mette la parola fine ad una vicenda giudiziaria durata otto anni. "Non me l'aspettavo. Non mi hanno dato la possibilità di difendermi", ha affermato, come riporta ilGiorno, tra le lacrime. I primi a confortarlo sono stati gli agenti della polizia penitenziaria. Ma anche in carcere ha avuto l'appoggio degli altri detenuti. Dopo il verdetto infatti sono scattate le urla con una vera e propria rivolta: "Vergogna", "Giustizia a Bossetti", "libertà". Poi qualche detenuto ha anche bruciato alcuni fogli in segno di protesta contro i giudici come hanno mostrato le telecamere di Quarto Grado. Poi quel colloquio col prete dopo la chiamata a mezzanotte da parte dell'avvocato. Un lunghissimo colloquio con il cappellano del carcere. E quello sfogo: "Non mi hanno dato la possibilità che chiedevo". Uno sfogo che poi si è concluso con una richiesta precisa: "Trasferitemi e fatemi lavorare".

Caso Yara, il grido di Bossetti: "Io, prigioniero di Stato non credo più a niente". Le dichiarazioni del muratore di Mapello dopo la sentenza della Cassazione, scrive Gabriele Moroni il 15 ottobre 2018 su "Il Giorno". Il politico in visita nel carcere di Bergamo lo trova su uno dei letti a castello nella cella che divide con due detenuti italiani. T-shirt grigia, pantaloni grigi della tuta, ciabatte: Massimo Giuseppe Bossetti due giorni dopo che la Cassazione ha reso definitiva la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. «Sono due giorni che sto qui disteso, due giorni che non mangio, solo frutta», spiega il muratore di Mapello dopo i saluti e la stretta di mano con l’ospite inatteso. Il colloquio prosegue in un locale sul corridoio che lo stesso Bossetti ha ristrutturato sostituendo anche la pavimentazione. Ha saputo della condanna seguendo una diretta televisiva. Poi è arrivata la telefonata della moglie. Si attendeva la conferma dell’ergastolo, è la prima, inevitabile domanda? «Speravo che fosse concessa la perizia e di tornare in appello». È il suo leitmotiv, il mantra, il pensiero fisso. «Se il sistema è convinto che sono stato io, perché non mi ha dato la perizia? Allora c’è il dubbio. Se siete sicuri che sono colpevole, perché non ho avuto questa possibilità? Prima di condannare uno al carcere a vita». La parola “sistema” è entrata stabilmente nel suo vocabolario e ricorre più volte nel dialogo con l’esponente politico. Cosa può sostenere un uomo che fra pochi giorni compirà 48 anni, padre di tre figli, blindato per sempre per un reato orrendo? «Sono in vita per la mia famiglia. Grazie a Dio la mia famiglia mi è rimasta vicino». È a questo punto che Massimo Bossetti scoppia in pianto. Parla dei tre figli che non smettono di interrogarlo sul ritorno a casa. Per questo non si è ancora sentito di rivederli dopo il pronunciamento della Suprema Corte. Riesce a dire che riceve una decina di lettere al giorno, tutte, sostiene, di incoraggiamento. Scuote la testa alla domanda se riesca a vedere un futuro davanti a sé. «Vivo solo il presente». «Mi è crollato tutto - aggiunge -. Non credo più nella giustizia. Sono stato condannato senza avere la possibilità di difendermi. Ogni sera speravo che i giudici mi dessero la perizia. Adesso mi sento addosso un peso enorme. Mi sento un prigioniero di Stato». Prima del congedo formula una speranza. Come “definitivo” sa di doversi attendere il trasferimento da via Gleno dove è detenuto da 16 giugno del 2014. Si augura che il nuovo istituto gli dia la possibilità di svolgere il suo mestiere di sempre, l’artigiano edile. La vita dell’ergastolano. Una condanna che non accetta come non l’accettano i difensori. Mentre i legali della famiglia di Yara sono pronti a replicare, a distanza, che sono stati 39, in questi anni, i giudici che si sono pronunciati per la colpevolezza.

Caso Yara, i legali di Bossetti: "Ancora una volta ha vinto il sistema". L'avvocato Claudio Salvagni amareggiato per il no della Cassazione alla richiesta di "super perizia", respinta in tutti i gradi di giudizio, scrive il 13 ottobre 2018 Il Giorno. "Ancora una volta ha perso il diritto. Abbiamo osato andare contro il sistema e il sistema ha vinto". Così Claudio Salvagni, difensore di Massimo Bossetti insieme al collega Paolo Camporini, esprime all'agenzia stampa Askanews il suo rammarico per la sentenza della Corte di Cassazione che ieri ha confermato in via definitiva la condanna all'ergastolo al muratore di Mapello per l'omicidio di Yara Gambrisario. Il legale si trova ancora a Roma e non ha ancora avuto modo di parlare faccia a faccia con il proprio assistito, detenuto dal giugno 2014 nel carcere di Bergamo. Resta tutta l'amarezza per il no della Suprema Corte alla richiesta della "super perizia", respinta in tutti i gradi di giudizio, ma ritenuta dalla difesa decisiva per sciogliere ogni dubbio sulla prova principale: le tracce di Dna di Bossetti (il profilo genetico inizialmente soprannominato dagli investigatori "Ignoto 1") estrapolate da slip e leggins della 13enne di Brembate di Sopra, scomparsa la sera del 26 novembre 2010 e ritrovata morta tre mesi più tardi, il 26 febbraio 2011, nel campo di Chignolo d'Isola. Una prova da sempre contestata dalla difesa perché quella traccia genetica, accanto a Dna nucleare attribuito al muratore di Mapello, presentava anche Dna mitocondriale rimasto ignoto. "Non si è voluto sciogliere questo dubbio - spiega ancora Salvagni - ieri abbiamo sentito ancora una volta il pg della Cassazione magnificare il lavoro dei Ris di Parma che sono bravi, i primi della classe e perciò il loro lavoro non si può mettere in dubbio. Ha vinto il sistema".

«Stordì Yara e la trascinò nel campo». Bossetti, le motivazioni della Cassazione. Il documento depositato nel pomeriggio del 23 novembre. Il carpentiere di Mapello, in carcere dal giugno 2014, è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio della ginnasta di Brembate Sopra, scrive il 23 novembre 2018 "Il Corriere della Sera". «Le numerose e varie analisi biologiche effettuate da diversi laboratori hanno messo in evidenza la piena coincidenza identificativa tra il profilo genetico di “Ignoto 1”, rinvenuto sulle mutandine della vittima, e quello dell’imputato». Lo scrive la Cassazione, nelle motivazioni della sentenza depositate venerdì 23 novembre con la quale, il 12 ottobre scorso, ha confermato in via definitiva l’ergastolo per Massimo Bossetti, ritenuto responsabile dell’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate di Sopra, dove abitava, il 26 novembre 2010 e ritrovata morta esattamente 3 mesi dopo in un campo non lontano dal suo paese. L’analisi statistica, osservano i giudici della prima sezione penale nella loro sentenza lunga oltre 150 pagine, ha «evidenziato che la probabilità di errore è di 1 su 20 miliardi (superiore a tutta la popolazione, viva e morta, transitata sulla Terra dalla comparsa dell’uomo), salvo che l’imputato abbia un fratello gemello monozigote (in questo caso il dna è identico), circostanza però non dedotta ed esclusa da tutti i protagonisti della vicenda». La Suprema Corte rileva quindi che dalle «risultanze genetiche» si desume «con assoluta certezza» il «rapporto di filiazione naturale» tra Giuseppe Guerinoni e lo stesso Bossetti, e la stessa «assoluta certezza» riguarda «l’identità» tra «Ignoto 1» e l’imputato.

«Nessun complotto». «Visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extra processuale», è bene chiarire che «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del Dna dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica». Continua la Cassazione nella sentenza a Massimo Bossetti. «Se si volesse seguire la tesi complottista legata anche alla necessità di dare in pasto all’opinione pubblica un responsabile», scrive la prima sezione penale, «è evidente che - ammessa solo per ipotesi la reale possibilità di creare in laboratorio un Dna - si sarebbe creato un profilo che immediatamente poteva identificare l’autore del reato senza attendere, come invece è accaduto, ben tre anni». Così come, secondo la Cassazione, è «fantasiosa» l’ipotesi di una contaminazione volontaria da parte di terzi prima del ritrovamento del corpo della vittima.

La dinamica. Massimo Bossetti, «dopo aver prelevato la ragazza e averla stordita, l’ha trasportata nel campo di Chignolo d’Isola» - dove il corpo di Yara Gambirasio fu trovato 3 mesi più tardi - e i «tempi del prelevamento della vittima, del suo trasbordo sul campo di Chignolo e del ritorno a casa dell’imputato sono stati giudicati compatibili con il rilevato orario di rientro a casa alle ore 20-20,15, come si desume dalle dichiarazioni del coniuge». Così la Cassazione, condividendo le conclusioni dei giudici del merito, ripercorre quanto accaduto il 26 novembre 2010, quando Yara viene vista per l’ultima volta uscire dalla palestra di Brembate di Sopra. Tra gli indizi valorizzati nel processo contro il muratore di Mapello, ricordano i giudici di «Palazzaccio», «la presenza di calce nelle lesioni» rilevate sul corpo della vittima, dovuta, secondo gli inquirenti, all’«arma da taglio sporca di calce», la presenza di Bossetti, il pomeriggio della scomparsa di Yara, «in località prossima al Centro sportivo» con il «telefono spento» e «a bordo del suo autocarro», mentre egli «mai era stato in grado o aveva voluto riferire alla moglie, ai cognati e agli altri familiari cosa avesse fatto quel pomeriggio e quella sera». Bossetti «è passato e ripassato davanti alla palestra del centro sportivo - si legge nella sentenza - proprio in perfetta coincidenza con l’uscita della ragazza».

Nessun alibi. L’«assenza di alibi», inoltre, «si coordina perfettamente con gli elementi indiziari emersi costituiti dalla compatibilità con l’orario di ritorno a casa - scrive la Cassazione - di Massimo Giuseppe Bossetti e il tempo necessario per eseguire l’aggressione e commettere l’omicidio nel campo di Chignolo». Per i giudici di piazza Cavour, l’imputato ha manifestato una «volontaria reticenza» sui propri spostamenti del 26 novembre 2010: «Non si tratta di un semplice silenzio, giustificato dal mancato ricorso a distanza di anni, ma piuttosto di una volontaria reticenza - si legge nella sentenza - di fornire spiegazioni su cosa avesse fatto nell’arco temporale di interesse, nonostante le precise sollecitazioni che i parenti e i famigliari gli avevano posto a distanza di soli 8 giorni dalla sparizione della ragazza».

Yara, ecco perché la Cassazione ha confermato l’ergastolo per Bossetti: «Il Dna è suo, fantasiosa la tesi complottista». Per i giudici supremi non esistono dubbi sulla colpevolezza del carpentiere di Mapello: «La sera del delitto non era a casa». Bacchettate alla difesa: «Ha avuto una sorda ostinazione nel contestare le indagini», scrive Maddalena Berbenni il 24 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Massimo Giuseppe Bossetti, 48 anni, è in carcere a Bergamo dal 16 giugno 2014. Lunedì saranno otto anni e molti ripenseranno a quel fine settimana di gelo e neve quando a Brembate Sopra era scomparsa una ragazzina di 13 anni. Inghiottita nel buio lungo i 700 metri tra la palestra e la famiglia che l’aspettava per cena. Massimo Giuseppe Bossetti, 48 anni, carpentiere e padre di tre figli, non ha mai spiegato dov’era la sera del 26 novembre 2010, quando Yara Gambirasio è morta nel campo di Chignolo d’Isola, uccisa dai colpi, dai tagli e poi dal freddo. Ma è certo, anche per la Corte di Cassazione che l’ha definitivamente condannato all’ergastolo, che nelle ore del delitto non era a casa. La controprova alla ricostruzione «logica e coerente» dei giudici di merito è la «volontaria reticenza» manifestata da Bossetti anche davanti alla moglie, che in carcere si lascia andare: «Eri via quella sera. Non mi ricordo a che ora sei venuto e non mi ricordo neanche che cosa hai fatto». In 155 pagine la Corte Suprema spiega perché, con il verdetto del 10 ottobre scorso, ha respinto i venti motivi di ricorso presentati dalla difesa di Bossetti, che continua a dichiararsi innocente. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, i cui telefoni ieri squillavano a vuoto, hanno già annunciato la volontà di fare appello alla Corte europea. Certo, è difficile intuire quali margini troveranno in una sentenza che li smonta punto per punto e non risparmia stoccate sui «reiterati tentativi di mistificazione», sulle denunce «generiche» e «infondate», sulle «idee fantasiose» e le espressioni «denigratorie». Sia riguardo alla ricostruzione del delitto, sia sul fronte della analisi del Dna, insomma dalla realtà ai laboratori, la Cassazione chiude il cerchio dando particolare forza ai colloqui in carcere con la moglie Marita Comi rispetto ai dubbi di lei sulla sera dell’omicidio e all’affermazione di lui quando ricorda che il campo di Chignolo era «infangato». Ma come poteva saperlo?

Le prove. La presenza di Bossetti nella zona del delitto indicata dalle celle telefoniche. Il fatto che lavorasse nell’edilizia quando nelle ferite di Yara era stata trovata calce. La compatibilità tra le fibre dei sedili del suo furgone con quelle sulla vittima. L’Iveco ripreso dalle telecamere attorno alla palestra nello stesso orario in cui la 13enne stava per uscire e poi circa un’ora dopo. Sono prove indiziarie, ma non meno schiaccianti per la Corte: Bossetti la intercettò fuori dalla palestra, la stordì e la portò a Chignolo. Ebbe il tempo per fare tutto e per tornare a casa intorno alle 20.

La tesi del complotto. Il Dna. Che sia stato ricostruito in laboratorio o che sugli slip di Yara ce l’abbia portato qualcuno per i giudici sono «ipotesi fantasiose». Visto «che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extra processuale» per la Cassazione va chiarito che «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del Dna dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio alla realtà, è manifestamente illogica». Se anche la «tesi complottista» reggesse, «è evidente che (...) si sarebbe creato un profilo che immediatamente poteva identificare l’autore del reato senza attendere ben tre anni per incolpare Bossetti», arrestato il 16 giugno 2014.

«È Ignoto 1». Il Dna di Ignoto 1 appartiene a Bossetti: «Numerose e varie analisi biologiche effettuate da diversi laboratori hanno messo in evidenza la piena coincidenza identificativa tra il profilo genetico di Ignoto 1, rinvenuto sulle mutandine della vittima, e quelle dell’imputato», registra la Corte.

Le probabilità. Bisogna anche chiedersi, per i giudici supremi, quante probabilità ci siano che Ignoto 1 sia una persona diversa da Bossetti. La risposta è che può capitare un soggetto con quello stesso genotipo «ogni 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di individui».

I kit scaduti. Nonostante sul punto non sia tenuto a intervenire, il Collegio vuole soffermarsi sul tema dei kit per analizzare il Dna perché «consapevole delle reiterate mistificazioni di cui è stato alimentato il dibattito tecnico e pubblico». Le recriminazioni della difesa sono «infondate» perché i giudici di merito, «con ampia, logica e coerente motivazione» hanno evidenziato l’ininfluenza della data di scadenza dei test. D’altra parte, la loro ipotetica inefficienza «produrrebbe un risultato non leggibile o non interpretabile», non porterebbe mai alla produzione «di un profilo riconducibile a una persona specifica e sempre la stessa: Massimo Giuseppe Bossetti».

«Sorda ostinazione». La nullità e inutilizzabilità dei risultati delle indagini del Ris va bocciata «poiché (la difesa, ndr) riproduce le argomentazioni già sviluppate nel primo incidente cautelare» e «pedissequamente riproposte» nei due gradi di giudizio senza mai tenere conto delle motivazioni delle varie sentenze, «così dimostrando sorda ostinazione».

«Ricorso prolisso». La Cassazione critica anche la «tecnica redazionale» del ricorso: troppo lungo (590 pagine) e «prolisso» rispetto al provvedimento impugnato, «ripetitivo e infarcito di numerosi stralci di atti giudiziari», impossibili da reperire per la Corte perché privi di riferimenti.

Analisi illegittime. Materiale biologico per ripetere la prova del Dna non ne esiste più. Per la difesa questo annulla la validità dei risultati, per la Corte no. «Laddove al momento dell’accertamento tecnico irripetibile si procede contro ignoti (...) nessuna garanzia difensiva deve essere rispettata». L’esame del Dna repertato sugli indumenti della vittima «deve ritenersi legittimamente eseguito».

L’illogico complotto. Su Bossetti la Cassazione ha stroncato le ipotesi su una macchinazione, scrive il 24 novembre 2018 "Il Corriere della Sera". Ci sarà pure una ragione se i giudici della Suprema Corte, nel motivare l’ergastolo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara, si soffermano sulla tesi complottista. Per smontarla, usano il buon senso: scusate, ma se proprio fosse stato necessario dare in pasto all’opinione pubblica un responsabile, creando un Dna in laboratorio, perché attendere tre anni prima di identificare l’autore del reato? E poi: sarebbe stato così facile trovare un indiziato che non aveva un alibi? Che per giunta faceva il muratore? E che è passato e ripassato col suo furgone vicino alla palestra di Brembate Sopra dove scomparve la tredicenne, senza mai spiegare perché quel pomeriggio non andò al lavoro? Dunque, «idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico», sentenzia la Cassazione, che dedica un capitolo alla macchinazione «visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extra processuale». E l’ha usato talmente bene che la sentenza definitiva non ha schiodato il partito innocentista, alimentato dalle comparsate in tivù dei difensori. I quali, al contrario del pm che per legge non può rilasciare dichiarazioni su un suo processo in corso, possono dire ciò che vogliono. Peraltro in contesti televisivi dove è certamente più redditizio alimentare un mistero, piuttosto che credere a quel Dna che ha inchiodato l’imputato. Purtroppo non basterà la Cassazione per dissolvere la tesi complottista. A colpi di like, Bossetti, per molti leoni da tastiera, resterà — ingiustamente — la vittima di una giustizia ingiusta.

Massimo Bossetti, l’avvocato: “Dove sono i reperti dell’omicidio di Yara?” Scrive il 23 novembre 2018 Antonella Liberatoscioli su velvetgossip.it. Si torna a parlare dell’omicidio di Yara Gambirasio. Lo scorso 12 ottobre, la Corte di Cassazione, ultimo grado di giudizio, ha condannato all’ergastolo Massimo Bossetti. Per la giustizia è lui che quella maledetta sera del 26 novembre 2010 ha ucciso la ginnasta di Brembate di Sopra, provincia di Bergamo. E’ ora Claudio Salvagni, l’avvocato del muratore di Mapello, a dire la sua sulla vicenda. Il legale, sulle pagine del settimanale Oggi, lancia l’allarme per i reperti dell’omicidio. “Dove sono finiti i reperti che riguardano l’omicidio di Yara? Girano voci sulla loro possibile distruzione, che sono strane e inquietanti anche perché con Bossetti non è finita”. Nonostante il terzo grado di giudizio, infatti, Salvagni punta a una revisione del processo. “Noi cominciamo le nostre indagini difensive che ci porteranno alla richiesta di revisione del processo” afferma. “Per le nostre indagini – spiega l’avvocato – ne abbiamo assolutamente bisogno. Dagli indumenti alle scarpe al materiale genetico alle intercettazioni a tutto ciò che Yara aveva nelle tasche o addosso”. Quei reperti, a detta di Salvagni, potranno diventare decisivi. “Perché il progresso nei laboratori scientifici è continuo. Quello che non può essere analizzato e scoperto oggi lo diventerà sicuramente fra un anno o due. La soluzione, dopo quasi 20 anni, del giallo della contessa uccisa all’Olgiata è una conferma” dice l’avvocato. Che la difesa del carpentiere bergamasco avesse intenzione di nuove azioni legali si sapeva già dopo la lettura della sentenza della Cassazione. “Non ci fermiamo qui. Si può fare ancora qualcosa. Leggeremo le motivazioni della sentenza e poi decideremo come muoverci. Valuteremo se ricorrere alla Corte Europea dei diritti dell’uomo” avevano dichiarato Salvagni e Paolo Camporini a seguito del verdetto.

Massimo Bossetti, nuova richiesta dal carcere. Il criminologo Ezio Denti, consulente della difesa di Massimo Bossetti, aveva riportato le dichiarazioni dell’uomo in una diretta a Pomeriggio Cinque. In compagnia di Marita Comi, la moglie del 48 enne detenuto, Denti aveva affermato: “Ciò che ci ha colpito di quello che ci ha detto è la rabbia. Io non l’ho mai visto così. Un’ora di colloquio, ha parlato sempre lui. Era quasi insopportabile per la rabbia che ha in corpo. Vuole lavorare e chiaramente il carcere di Bergamo non gli fa fare nulla. Questa è una delle condizioni più disastrose per una persona. Perché alzarsi la mattina e non fare nulla, è una noia. E’ stato chiesto il trasferimento nel carcere di Bollate, speriamo che venga accolto. Almeno può essere impegnato in altre attività”. Massimo Bossetti dunque chiede di poter lavorare. A questo appello, se ne aggiunge subito un altro. Riportato sempre dal consulente Ezio Denti: “Noi cerchiamo delle responsabilità. Responsabilità che possono essere anche in capo a Massimo Bossetti, perchè questo non lo sappiamo. Noi non c’eravamo. Chi sa, parli. Che ci dica qualcosa anche in forma anonima”.

Yara Gambirasio, parlano i genitori: “Giustizia è fatta. Ora vogliamo solo ricordare Yara in pace”. A pochi giorni dalla sentenza che ha condannato definitivamente Massimo Bossetti all’ergastolo, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese, i genitori di Yara, lasciano le prime dichiarazioni. Le loro parole vengono affidate agli avvocati Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo e sono riportare sul settimanale Giallo. “Ora che giustizia è stata fatta, pretendiamo il silenzio. Vogliamo ricordare nostra figlia in santa pace. Siamo impegnati nell’associazione a lei dedicata, che abbiamo chiamato La passione di Yara. Ci dedichiamo a questa associazione, al lavoro e alla crescita degli altri nostri meravigliosi figli. Adesso, però, basta. Abbiamo diritto ad avere un po’ di silenzio”.

Bossetti, parla il genetista: «Quando scoprii la madre di Ignoto 1». Il responsabile del laboratorio di Pavia, Previderè: «Ci è voluto sesto senso e tanto lavoro». Fondamentale il lavoro della sua collega Grignani: «Ha sempre avuto la sensazione molto forte che tra quei 532 Dna ci fosse la mamma di Ignoto 1», scrive Giuliana Ubbiali il 13 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Certo che me lo ricordo, era il 15 giugno 2014, una domenica. Ci portarono il boccaglio e alle tre di notte emerse il risultato». Il Dna di Ignoto 1, l’assassino di Yara Gambirasio cercato per oltre tre anni, corrispondeva al Dna di Massimo Bossetti, un muratore allora conosciuto per il quale venerdì, in Cassazione, è stato confermato l’ergastolo. La corrispondenza uscì sotto gli occhi di Carlo Previderè, responsabile del laboratorio di genetica forense dell’Università di Pavia, e della ricercatrice Pierangela Grignani. Fu la svolta, la vigilia del fermo.

Alle tre di notte chi avvisò del risultato?

«I carabinieri ci avevano portato il boccaglio dell’alcoltest di Bossetti. Erano rimasti tutti svegli ad aspettare l’esito. Chiamammo il pm, la dottoressa Ruggeri».

L’indagine sembrava paralizzata, invece la chiusura del cerchio arrivò dall’analisi, in apparenza secondaria, sui peli ritrovati su Yara sollecitata dal genetista di parte civile, Giorgio Portera.

«Per capire se fossero di Yara o di terze persone, ci serviva il suo Dna mitocondriale. Nelle relazioni era indicato solo quello di Ignoto 1, così chiedemmo un campione della bambina per ricavare il suo. Scoprimmo che quello indicato come Ignoto 1 in realtà era della vittima».

Con quel Dna mitocondriale si era cercata, senza esito, la mamma dell’assassino tra 532 Dna di donne. Fu commesso un errore?

«C’è stato evidentemente un errore nella trasmissione dei dati, come è emerso al processo».

Come ne siete usciti?

«Con una sorta di sesto senso della mia collega Grignani. Ha sempre avuto la sensazione molto forte che tra quei 532 Dna ci fosse la mamma di Ignoto 1. È stata fondamentale, ha insistito e mi ha fatto insistere. Li abbiamo riconfrontati con il Dna di Ignoto 1, stavolta con il nucleare, ed emerse la mamma: condividevano un allele raro nella popolazione italiana».

Chiamò subito la pm?

«Le consegnammo il risultato il 14 giugno, sabato. Il dato era già emerso da qualche giorno, ma prima di comunicarlo lo confermammo più e più volte. Un’evidenza così rilevante era deflagrante. Cercai di dire alla dottoressa Ruggeri che ci saremmo visti il giorno dopo, per parlare delle analisi, ma lei capì che c’erano novità e mi mise alle strette per saperle subito. Glielo dissi: “Abbiamo trovato la madre di Ignoto 1”».

Dalla mamma si arrivò al figlio. Siete scienziati, ma avrà emozionato anche voi.

«Il tonfo al cuore è venuto quando abbiamo trovato la madre, è stata la vera emozione perché dava un senso al lavoro di screening sui 532 Dna. Individuare il figlio è stata una conferma, ce lo aspettavamo».

Siete entrati nell’indagine per ultimi, ma siete stati decisivi.

«Abbiamo chiuso il cerchio ma il merito è della squadra, del lavoro egregio del Ris, della polizia scientifica e del collega di Tor Vergata».

L’indagine su Yara ha colpito. Anche voi?

«Sicuramente, è un caso unico. Una storia con numerosi colpi di scena e appassionante dal punto di vista scientifico».

Bossetti, quei giudici da divano ora tacciano. L’ignoranza è salita in cattedra un po’ troppo spesso, senza lasciare spazio ai dubbi. Spesso l’importante non è che vinca la ragione, ma avere ragione, scrive Cristiano Gatti il 15 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". Magari i Robespierre de noantri, Di Maio e Salvini, chiederanno via Twitter a quale titolo la Cassazione abbia confermato l’ergastolo a Bossetti, cosa sarà mai questo organo supremo dello Stato, se vuole dire la sua si presenti prima alle elezioni e si faccia votare. Tutto è possibile, in questo periodo. Ma finché valgono le regole attuali la sentenza definitiva diventa verità inconfutabile. Yara ha ottenuto giustizia, per quello che può valere. Ma lei, ovunque si trovi, è in un tale stato di ineffabile beatitudine, che certamente non ha bisogno di quest’ultima notizia terrena per sentirsi meglio. La condanna in realtà distrugge Bossetti. E non solo Bossetti, però. Assieme al muratore piacione, la condanna inchioda questo nostro modo di seguire il difficilissimo lavoro della legge e della giustizia, questo modo volgare e scamiciato, nato e cresciuto negli ultimi decenni, basato in primo luogo sul dogma di una magistratura inattendibile e sfasciata, quindi pompato dalla faciloneria televisiva, più recentemente avvelenato dalla tuttologia della tastiera. La ricerca della verità, quel poco di verità che ci possiamo permettere, è una fatica mortale, che merita come minimo rispetto, scrupolo, cautela. Qui invece andiamo avanti da anni con il tifo più becero, prendiamo posizione come al televoto del Grande Fratello, orecchiando quattro banalità e costruendoci sopra feroci teoremi. Senza nulla sapere di milioni di pagine e di intere nottate d’investigazione, l’ignoranza sale in cattedra ed emette sentenze assolute, pro o contro, viscerali e sanguinose, senza lasciare mai il minimo spiraglio aperto a quel tarlo fondamentale e vitale che il grande demiurgo ha concesso soltanto all’uomo, il dubbio. E ancora adesso, nel momento definitivo di una sentenza irrevocabile, le certezze del tifo sono persino più aspre e caciarone, perché ormai l’ignoranza è arroganza, e non permette più a nessuna verità, a nessun ragionamento, a nessuna logica, di spegnere le urla. L’importante, ancora adesso, non è che vinca la ragione, ma avere ragione. A qualunque costo, anche contro l’evidenza. E se qualcuno ha qualcosa da ridire, prego, si candidi alle elezioni e raccolga i voti… Bisognerà aspettare del tempo perché un po’ di silenzio cali sulla tremenda storia di Yara. Sarà solo il tempo a ricomporre un po’ di decenza, nelle curve degli ultrà. Quando i leoni da tastiera e i telecrimino-logi a gettone passeranno ad altre guerre, su questo caso si potrà finalmente mettere la parola fine. E solo allora, facendosi largo tra le rovine, come sempre riaffiorerà finalmente la speranza, l’unico motore incorruttibile della nostra vita. Persino Bossetti potrà sperare che con ravvedimenti e buone condotte, magari tra una dozzina d’anni (come insegna l’espe-rienza), riuscirà ad assaporare di nuovo l’aria buona della libertà, benché limitata, benché vigilata: piaccia o non piaccia, queste sono le regole italiane. Per quanto ci riguarda, noi tutti giudici da divano, avremmo invece da subito un compito per niente facile, in coda al reality: nel mezzo del disumano marasma, ci sono pur sempre i tre figli di Bossetti, tre ragazzini che hanno davanti un’esistenza poco invidiabile, a dire niente. Se almeno si riuscisse a salvare loro, da tutto questo caos deprimente, sarebbe un primo motivo di riscatto generale. Ma non è sicuro che ne siamo ancora capaci.

"Bossetti? Giustizia fa rima con immondizia". Feltri mai così duro: cosa non quadra su Yara, scrive il 14 Ottobre 2018 Vittorio Feltri su "Libero Quotidiano". Non è colpa nostra se giustizia fa rima con immondizia. E certe assonanze spesso riflettono la realtà. Il caso di Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, è o sembra emblematico. Questi dovrà stare in galera vita natural durante poiché i Ris hanno prelevato il suo Dna dalle mutandine della ragazza. Le prove scientifiche sono una cosa seria, vanno prese per buone a una condizione: che esse siano state ricavate correttamente. Ma siamo sicuri che nella circostanza siano stati rispettati tutti i canoni previsti dal protocollo? Non credo. Mi risulta che la difesa abbia chiesto invano la ripetizione degli accertamenti di laboratorio. Il motivo di tale rifiuto? Quanto non è stato verificato non può essere ritenuto prova. Non dubitiamo della perizia dei carabinieri, che stimiamo, senza però giudicarli infallibili. Perfino tra i valenti rappresentanti dell'Arma ci sarà qualche cretino, come ne esistono tra i geometri e i giornalisti e gli avvocati. Pertanto il processo a Bossetti è viziato dal fatto che costui non ha usufruito di un controllo definitivo circa il proprio patrimonio genetico. E questo è grave. Non si capisce perché neppure la Cassazione, che dovrebbe essere prudente, non abbia concesso all' imputato la facoltà di ottenere un appello scientifico. Nulla. Il detenuto deve attenersi agli accertamenti di parte svolti dalla pubblica accusa. Un perito al di sopra delle parti non ha potuto mettere il naso nelle analisi, sulla cui fondatezza non è lecito giurare. Cosicché Bossetti è stato ingabbiato da qui al termine della propria vita con una leggerezza che ci allarma e disgusta. Trattare un uomo come uno straccio indegno fa orrore. E noi, benché non contiamo nulla, ci ribelliamo. Ogni processo indiziario è difficile, tuttavia diventa difficilissimo se prescinde dalla logica e prosegue alla carlona. Un esempio o due clamorosi. I pm affermano che Massimo ha caricato sul camioncino la ragazzina davanti alla palestra. Però nessuno l'ha vista uscire da quel luogo. Diamo lo stesso per buona l'ipotesi - non la certezza - che l'adescamento sia avvenuto sul piazzale della struttura ginnica. Come ha fatto Bossetti che non conosceva la vittima a caricarla sul proprio mezzo, un furgone, non una Mercedes? L’ha sedotta grazie al suo fascino di operaio edile, vestito da carpentiere? Oppure l'ha tramortita a cazzotti? Egli poi avrebbe percorso una decina di chilometri, con la fanciulla a bordo, senza che ella si sia ribellata e abbia tentato, magari a un semaforo, di fuggire? Uno non è in grado di guidare e nel contempo di tenere a bada una adolescente spaventata. Dovrebbe avere quattro mani, due non bastano. Su queste osservazioni elementari il tribunale ha sempre sorvolato, eppure sono basilari quanto il sospetto che i maneggiamenti del Dna siano stati incauti e quindi errati. A nostro parere Bossetti ha assunto suo malgrado il ruolo di caprone espiatorio. Serviva un colpevole? Eccolo, uno migliore di uno sprovveduto quale il muratore non era reperibile. I suoi figli, che vivono in un piccolo paese, hanno appreso dagli atti giudiziari pubblicati dalla stampa e ribaditi in tv, che il loro padre è un assassino, che la loro madre era leggerotta, che la nonna era un po' mignotta e il nonno un cornuto. Una operazione di siffatto tipo grida vendetta. La giustizia di ciò se ne fotte, noi no. E diamo a Bossetti la nostra inutile solidarietà. Segnalo, per concludere, che i carcerati compagni di Massimo venerdì sera, appresa la notizia del "fine pena mai", hanno protestato a lungo reclamando la innocenza del loro "amico": urla e fischi prolungati. Chi sta in galera ha più sensibilità di tanti magistrati, questo è noto. Vittorio Feltri

Massimo Bossetti... come ti faccio credere di aver condannato un assassino, scrivono Massimo Prati e Gilberto Migliorini sabato 13 ottobre 2018 su Albatros Volando Controvento. Molto probabilmente non ci sarebbero stati nessun arresto e nessun processo se Massimo Bossetti fosse vissuto fuori dai confini italici. Purtroppo per lui è un cittadino italiano che vive in Italia... e in Italia da quando esistono i processi indiziari, la cultura giudiziaria invece che progredire è regredita tornando all'epoca di Alessandro Manzoni quando nel Incipit della “Storia della Colonna Infame” scriveva: “Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizione della casa d'uno di quegli sventurati, decretarono di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.” Da ieri sera Massimo Bossetti per la giustizia italiana è colpevole. Non ci strapperemo le vesti. Sappiamo aspettare, siamo fiduciosi che la verità verrà a galla, magari fra troppi anni come capitato ad altri condannati innocenti. Ciò che è accaduto è oramai la "normalità giudiziaria". Per un perverso meccanismo psicologico si è finiti per credere a qualcosa diventato talmente di dominio pubblico, così lapalissiano e corroborato mediaticamente, da non aver altra necessità di conferma se non quella della voce che corre. La voce si presenta come la spiegazione ideale degli indizi che essa stessa ha immaginato. La voce è un dato ‘oggettivo’: i membri di un gruppo, sia mediatico che popolare che investigativo che peritale che istituzionale che giudiziario, ‘parlano e riparlano’ dando origine a un racconto, a un’ipotesi accusatoria che facilmente può essere convalidata da indizi double face che si adatterebbero a chiunque venisse arrestato. Perché, in un altro eventuale "caso Yara", migliaia di persone potrebbero adattarsi a una qualsiasi ricostruzione accusatoria... ah già, ma nel caso in questione c'è il famoso mezzo dna di ignoto uno che accusa! Il fatto a dir poco sorprendente è che si asserisca giudiziariamente che Massimo Bossetti è figlio di Giuseppe Guerinoni senza che sia mai stato fatto un confronto diretto fra i due Dna originali padre e figlio, che nello stesso tempo si dichiari che Massimo Bossetti non è figlio di Giovanni Bossetti senza che esista agli atti il documento di analisi del Dna che lo proverebbe. Si è andati per induzione con un ragionamento del tipo: un mezzo dna ci dice che ignoto uno è figlio di Guerinoni, quel mezzo dna ha una parte maggioritaria compatibile con quello di Massimo Bossetti e, pertanto, Massimo Bossetti è figlio di Guerinoni... quindi è ignoto uno, ergo è l'assassino. Motivo per cui non c'è motivo per fare un'analisi diretta che dimostri questa ormai assunta verità. Questo ragionamento induttivo lo si è fatto senza considerare che prima di rovinare una famiglia e far marcire in galera un uomo incensurato, visti i migliaia di casi in cui l'errore ha mandato a morire in carcere persone innocenti, sarebbe d'uopo fare anche quelle verifiche che pur sembrando inutili servono da prova del nove per la verità...Parlare di anomalie è riduttivo. Prendiamo quanto pare accertato mediaticamente e analizziamolo in maniera seria senza trascendere nei soliti pettegolezzi. La dottoressa Gino dice a processo che c'è stata una analisi fatta dalla famiglia a Torino e che Massimo è figlio di un altro padre, non sa però se Guerinoni o chi altri visto che il confronto diretto fra dna originali non c'è stato. Ammettiamo pure che il documento in quel di Torino esista e che dica in sintesi che Massimo non è figlio di Giovanni. Va tutto bene così? No. Primo, non sappiamo chi ha firmato il documento e, secondo, sappiamo che l'analisi non è stata ripetuta in un altro laboratorio... eppure non è certo la prima volta che un test successivo ribalti gli esiti di un test precedente. Un errore è sempre possibile. I test si rifanno anche per gli atleti che non ammettono di essersi dopati... perché non ripeterli per chi rischia l'ergastolo? I documenti nella pratica scientifica vengono pubblicati proprio perché possano essere ricontrollati da altri (riproducibilità e ripetizione). Peraltro, in questo caso non sappiamo neppure con quali modalità e su quali reperti è stato effettuato il test e non si conoscono i risultati analitici (la dettagliata relazione tecnica comprensiva di cromatogrammi e analisi statistica dei risultati, e i "dati grezzi" provenienti dalle apparecchiature di analisi, utili per le verifiche). Un nuovo test di verifica in un nuovo laboratorio sarebbe stato obbligatorio e lo doveva ordinare il giudice a processo per essere certo di non incorrere, per superficialità, in un errore grossolano ma enorme. Eppure nemmeno la cassazione ha deciso di effettuarlo. Tutti certi, per induzione, sia che l'assassino di Yara sia il proprietario del dna monco rimasto miracolosamente intatto su un lembo degli slip dopo tre mesi di neve pioggia e sole, senza considerare i liquidi organici che spazzano via qualunque cosa e gli animali attirati dal cadavere, sia che ignoto uno si chiami Massimo Bossetti nonostante non ci sia mai stata una comparazione diretta. L'imputato può chiedere al giudice che deve tutelare anche il suo diritto alla difesa che le sue ragioni vengano ascoltate, che si faccia una perizia in più per stabilire se mente o dice il vero. E quel giudice ha l'obbligo giuridico di accogliere tale richiesta... se è un giudice che applica la legge usando il buonsenso del padre di famiglia. Se poi oltre che al buonsenso è dotato anche di un buon spirito critico, a maggior ragione quel giudice deve accordare la perizia perché non può fare a meno di chiedersi il motivo per cui l'accusa si opponga a tale richiesta. Se le induzioni della procura sono giuste cosa può temere un procuratore da una analisi che non farebbe altro che confermare la sua tesi accusatoria? Forse può temere di aver sbagliato qualcosa e non può uscire dal seminato perché la condanna dell'imputato sarebbe a rischio? Forse sa qualcosa che né noi né i giudici sappiamo? Cosa sarebbe accaduto se una nuova perizia avesse dimostrato un grossolano errore di laboratorio? Se avesse dimostrato che il dna di Massimo Bossetti nulla c'entrava con l'omicidio? Un tale scenario, ora più che mai puramente ipotetico, avrebbe aperto, proprio come nel testo manzoniano “La storia della colonna infame”, molti interrogativi su come venga amministrata la giustizia italiana. Mettiamo per ipotesi che la cassazione abbia accordato la perizia sul dna. Mettiamo per ipotesi che si sia fatta oggi e che smentisca la procura... cosa accadrebbe? Accadrebbe che sul banco degli imputati non ci sarebbe più Massimo Bossetti ma tutto un sistema che pervicacemente si è rifiutato per anni di ricontrollare gli esiti delle sue conclusioni e l’affidabilità di sentenze di condanna dove di ragionevoli dubbi ce n’erano a bizzeffe, come evidenziato dalla difesa del muratore, a cominciare da un Dna (low copy number) che sopravvive intatto per mesi di ottima qualità in un campo su un corpo a contatto con la terra, insetti e animali di tutti i tipi (nella letteratura biologica non esiste nessun caso simile). E questo, si direbbe ora in ogni media, non è solo un unicum ma è un evento impossibile. Una eventuale dimostrazione che Massimo Bossetti non ha nulla a che fare con Guerinoni ma è proprio figlio del padre legale sarebbe un colpo durissimo per il sistema giustizia del nostro Paese, ben più destabilizzante del caso Tortora e di Unabomber, e dimostrerebbe come l’esistenza di più gradi di giudizio non metta al riparo da sentenze fotocopia dove - rispetto al garantismo per l’imputato con una rigorosa verifica del già sentenziato - prevale (salvo lodevoli eccezioni) la fiducia incondizionata nei giudici dei precedenti gradi di giudizio... specialmente se questi sono capaci di scrivere bene le motivazioni (e se non ne sono capaci di certo le fanno scrivere a chi ne è capace). Insomma, da decenni vediamo un sistema giudiziario che non garantisce più l'equo processo all'imputato, vediamo un sistema giudiziario che non guarda più con occhio critico sia quanto porta la Difesa che quanto porta chi accusa, vediamo un sistema giudiziario che preferisce appiattirsi alle tesi accusatorie e puntare tutto sulla affidabilità di chi ha già deciso in precedenza. Come detto, invece di evolversi la giustizia italiana è regredita. E' del tutto evidente che il caso Bossetti riveste un’importanza che travalica il cold case, che sono implicate considerazioni più generali sul funzionamento della giustizia dovuta ad automatismi che vengono da lontano e che autori come Verri e Manzoni hanno saputo rappresentare sul piano civile e con intenti epistemologici di rilievo. In particolare l’opera manzoniana conserva intatta tutta la sua attualità nonostante sia stata pubblicata nel lontano 1840 e si riferisca alle vicende legate alla peste del 1630. Il caso Bossetti, per tutto quello che è stato rilevato da più parti, dimostra che la forma mentis del sistema giustizia del Bel Paese non è poi cambiata di molto rispetto a quanto il Manzoni ha denunciato nella sua opera. Quella lentezza della storia della quale ha parlato uno storico del calibro di Jacques Le Goff è dimostrata dai meccanismi psico-sociali che si possono riassumere in quell'immagine tratta dalla psicologia sociale definita effetto Pigmalione o profezia che si autoadempie. Paradossalmente i rilievi epistemologici più pregnanti sono stati fatti non a livello filosofico ma letterario. Un autore come il Manzoni ha saputo come nessun altro mettere in risalto quali sono gli automatismi che agiscono surrettiziamente. Le voci che corrono sono in grado di influenzare non solo il vasto pubblico ma a tutti i livelli anche chi dovrebbe essere immune dal pregiudizio e dall'influenza della suggestione che agisce sotterraneamente in tutti i contesti. Nemmeno la cultura mette al riparo da certi meccanismi di influenza sociale. Proprio come nella pubblicità-propaganda quando un fattoide entra a far par parte delle credenze collettive subentrano poi meccanismi di conferma acritici, la suggestione è talmente coinvolgente che si dà per scontata una cosa anche se non ne esiste prova... o meglio, la prova diviene proprio quella voce che corre, ormai considerata così evidente e così cogente da non aver più bisogno di ulteriori verifiche. Il caso degli untori oggi potrebbe far sorridere, salvo poi l’evidenza che, non nel 1600 ma ai giorni nostri, alcuni bambini non vaccinati sono stati lasciati soli in un’aula perché considerati pericolosi... e da questo si capisce che la paura degli untori è attuale. La realtà è che il concetto di untore è commisurato a un contesto storico e geografico, a una modalità di esclusione e di condanna aggiornato a nuove realtà socio-economiche e ideologiche. La cecità dell’effetto Pigmalione riguarda quella influenza collettiva per la quale si confonde la suggestione con il risultato di prove tangibili. Il sistema dell’informazione dà fiato e sostanza alle minime voci che poi amplificate divengono colpi di cannone! Da un lato c'è il giudice istruttore che crede di sapere tutto del crimine e deve mantenere il segreto istruttorio, dall'altro ci sono i giornalisti che dicono tutto anche quando non sanno niente. Quando non dicono ciò che gli chiedono di dire. Queste due rappresentazioni fanno sì che si assista a una strana compenetrazione dove le voci che corrono si influenzano su vari piani in un crescendo che si rinforza e compenetra proprio come nell'opera rossiniana. Nel caso Bossetti esiste un’unica prova chiamata regina. Pochi nanogrammi di materiale genetico. Se li togliamo dal processo non rimane più nulla... o meglio rimane l’effetto Pigmalione. Vediamo nel dettaglio che cosa si intende per "effetto pigmalione" e come il caso Bossetti diverrebbe se si dimostrasse che lui è proprio figlio di Giovanni. Il cold case diverrebbe una telenovela partorita da una fervida immaginazione. L'effetto Pigmalione, o effetto Rosenthal, deriva dagli studi classici sulla “profezia che si autoadempie”: in pratica l’opinione che ci siamo fatti su qualcuno influenza il nostro giudizio, quante volte vi è capitato, anche se non esiste nulla a riprova della veridicità della nostra opinione. Questo vale in tutti i rapporti in cui è implicata una qualche forma di valutazione influenzata da una premessa pregiudiziale. Nel mito, Pigmalione è il re di Cipro che si innamora della statua di Afrodite al punto di crederla vera e immaginare di potersi congiungere ad essa. In Ovidio, Pigmalione è uno scultore che si innamora della sua statua e implora Afrodite di trasformarla in una donna in carne ed ossa. In sostanza le nostre credenze di partenza influenzano i nostri giudizi. Quante volte avete pensato di essere di fronte a uno/a stronzo/a o, viceversa, a una persona affascinante dall'animo gentile? Quante volte avete scoperto che vi sbagliavate? Tutti sappiamo che sono tantissime, visti i divorzi e i femminicidi. Rosenthal aveva prodotto un test di intelligenza con alcuni alunni (definiti come molto intelligenti) coi risultati volutamente fittizi e lo aveva fornito agli insegnanti. Quando tornò in quella scuola constatò, come aveva previsto, che proprio quegli alunni che erano stati definiti come molto intelligenti mediante un test fasullo erano diventati i migliori della classe. Gli insegnanti erano stati influenzati da quel giudizio preliminare e avevano trattato di conseguenza quegli alunni, con un occhio di riguardo e forse anche con valutazioni errate. In questi casi accade che la suggestione elimina tutto quello che non conferma (nel nostro caso il brillante test di intelligenza) e dà conferma a tutto quello che in qualche modo potrebbe fare da supporto, convalidando emotivamente il dato iniziale, l’input di partenza fasullo. D’altro canto il pregiudizio, positivo o negativo, non si qualifica mai come tale. Grazie all'inferenza deduttiva, assume l’aspetto esteriore della razionalità anche quando sono la suggestione e l’emozione che costituiscono l’ossatura di un giudizio. Il caso Bossetti è il prodotto di una gigantesca profezia che si autoadempie, a partire dal suo arresto in pompa magna per arrivare alla prova di paternità che negli atti non esiste ma è riuscita ad orientare tutta l'indagine e tutte le sentenze. Solo le verifiche potrebbero dimostrare che il caso Bossetti non sia solo la classica profezia che si autoadempie o effetto Pigmalione. Ma le verifiche chi opera per la giustizia italiana non le ha volute fare. Per cui, al momento e nonostante la condanna definitiva, l'assassino di Yara non si sa davvero chi sia e la trama basata sul dna scritta dall'accusa e accettata dai giudici, a tutti gli effetti è, e rimarrà fin quando non sarà corroborata da una nuova perizia a conferma, uno sceneggiato di fantasia da quattro soldi che può attecchire solo in chi è stato suggestionato dai media e portato a credere che chi accusa e condanna Bossetti è intelligente a prescindere... come gli alunni di Rosenthal agli occhi degli insegnanti dopo il test fasullo.

BOSSETTI E’ INNOCENTE?

·         Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi. 

Cristina Cattaneo, il medico legale dei delitti e dei naufragi. «Nelle autopsie cerco l’invisibile, come per Yara». Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. Sull’architrave un cartello, donato da un’antropologa giunta dal Guatemala: «Welcome to paradise». O benvenuti all’inferno? «Entrambi. Qui s’incrociano i destini di criminali e santi», risponde Cristina Cattaneo, professore ordinario di Medicina legale alla Statale di Milano. Le narici ti avvertono che sei nel regno dei morti. Oltre la porta, 101 celle freezer. Dentro, sconosciuti congelati anche da 18 mesi. Il carrello teleguidato apre lo sportello, preleva il cadavere e, scorrendo su una monorotaia, lo trasferisce nella sala degli esami autoptici. Istituto di medicina legale dell’Università, via Mangiagalli 37. Quando non tiene lezione nell’aula magna, dove la cattedra è una teca trasparente che custodisce il tavolo anatomico di ceramica su cui il 30 aprile 1945 fu deposta la salma irriconoscibile di Benito Mussolini, la direttrice del Labanof — il Laboratorio di antropologia e odontologia forense, unico in Europa — è quaggiù a eseguire autopsie, finora circa 500, molte per i casi giudiziari più controversi: Bestie di Satana, Yara Gambirasio, Serena Mollicone, Elisa Claps, Stefano Cucchi, Davide Rossi. L’ultima su Imane Fadil. «Voi giornalisti mi fate imbestialire con questa mania dei delitti celebri», avvampa in viso. «Se a tutti i morti fossero riservate le stesse attenzioni, il mondo sarebbe un posto migliore. Il giorno in cui è arrivata la signora Fadil ero semplicemente di turno. Non esistono autopsie di serie A e autopsie di serie B». Nel caso esistessero, Cattaneo ha dato prova di preferire le seconde, come si capisce leggendo Naufraghi senza volto(Raffaello Cortina editore), il libro in cui racconta i tre mesi di lavoro nella base Nato di Melilli per identificare una parte dei circa 1.400 migranti affogati nel Mediterraneo il 3 ottobre 2013 e il 18 aprile 2015. «Contando tutte le tragedie dei profughi, stiamo parlando di almeno 30.000 vittime. Il più grande disastro di massa dal dopoguerra a oggi».

Morgue sul mare per una crociata.

«L’ho definita così. Dare un nome ai morti prima di seppellirli è un dovere di civiltà che si assolve soprattutto per i vivi. E un fatto di salute mentale».

In che senso?

«I parenti hanno bisogno di piangere su una tomba per elaborare il lutto. Altrimenti impazziscono, com’è accaduto a molte madri degli oltre 8.000 musulmani bosniaci trucidati a Srebrenica. Per i morti del secondo barcone colato a picco a sud di Lampedusa erano giunte richieste di notizie da 190 famiglie di dodici Paesi africani e da 90 residenti in Europa. Si poteva non dar loro una risposta?».

Quanti cadaveri c’erano nella stiva?

«Ne sono stati estratti 528, con 20.000 ossa sparse di altre 200 persone».

È riuscita a identificare il ragazzino con la pagella che ha commosso papa Francesco e il presidente Mattarella?

«Non ancora, purtroppo. Indossava una giacca leggera. Ho scucito la fodera ed è saltato fuori un foglio prestampato avvolto nel nylon. Era il “Bulletin scolaire” con i voti di matematica, fisica e scienze, vicini alla media del 10. Che aspettative avrà avuto questo quattordicenne del Mali o della Mauritania? E il ragazzo di 17 anni partito dal Gambia che teneva in tasca la tessera dei donatori di sangue? E quello che s’era annodato un angolo della maglietta con uno spago rosso? Credevo che dentro il rigonfiamento ci fosse hashish. Invece era un pugnetto della terra natia».

Che ricordi ha della sua infanzia?

«A 7 anni mungevo le vacche del Bigin, vicino di casa di mia nonna, un bevitore. Ero la sua parrucchiera, gli tagliavo i capelli. Quando cessò di vivere, chiesi a mia madre: di che cosa è morto? “Ha smesso di respirare”. La risposta mi lasciò la voglia di capirne di più».

Di chi era la prima salma che vide?

(Ci pensa). «Non lo ricordo. Strano».

E la prima su cui mise le mani?

«Un’anziana all’obitorio di Lambrate, deceduta per la rottura del cuore. Il mio tutor continuava a ripetermi: “Non vedi che muore? Non vedi che muore?”».

Mi scusi, ma non era già morta?

«Certo. Ma in gergo si dice: “Questo cadavere non mi muore”. Significa che non scorgiamo le cause del decesso. Avrei dovuto vedere il colore violaceo del pericardio invaso dal sangue».

Il Labanof è stato fondato nel 1996. Prima che cosa accadeva?

«I morti senza nome erano di serie B».

Mettete sul Web le foto dei cadaveri ignoti. Non è uno sfregio alla pietà?

«È una necessità. Grazie a queste immagini, nel 2018 le figlie residenti in Croazia hanno riconosciuto il loro padre che era scomparso 20 anni prima. Quando manca il volto, il biologo Davide Porta, che è più bravo di uno scultore, dalla forma del cranio riesce a ricostruire i lineamenti del viso. Ha appena ultimato la testa in creta di sant’Ambrogio».

Stupefacente.

«L’anno scorso la curia ci aveva chiesto d’investigare sui resti del santo, perché si stavano degradando, e su quelli dei gemelli Gervasio e Protasio, posti nello stesso sarcofago per desiderio del patrono di Milano. Pareva una leggenda. Invece l’esame autoptico ha accertato che si tratta di due fratelli di 20 anni, alti 1 metro e 80, uno decapitato e l’altro morto per i colpi di flagello, proprio come descritto nel martirologio. Adesso vorrei ricostruire la storia della città attraverso i 4.000 scheletri custoditi in questo istituto e presso la soprintendenza».

Da piccola dissezionava animali?

«Mai fatto, né ieri né oggi. Altrimenti non riuscirei più a guardare in faccia Ricki, il cane randagio che mi sono portata a casa dalla base di Melilli. Mi sono sempre rifiutata di lavorare su cavie da laboratorio. Anzi, come direttore di Forensic science international sto decidendo con i miei colleghi di rigettare tutte le ricerche basate su esperimenti animali. In ambito medico-legale sono inutili».

L’odore della morte non le resta appiccicato addosso? 

«All’inizio, appena tornavo a casa la sera, buttavo tutti i vestiti in lavatrice, non riuscivo a farmelo passare. Poi ho capito che ce l’avevo nella testa».

Qui ci sono più colleghi o colleghe?

«Nelle autopsie siamo metà e metà. Ma ho più allieve che allievi. È una professione umanitaria, richiede una forma di accudimento femminile. Lavori per le Procure e le istituzioni, ci vivi ma difficilmente diventi ricco. Il patologo forense è a rischio di estinzione. Eppure è fondamentale per giustizia e salute pubblica. Pensi ai segni di violenza sul vivente. O alla tossicologia negli incidenti stradali. Un tempo era routine, oggi non si fa quasi più, con il risultato che nessuno sa di che cosa muoiono i nostri giovani». 

Quanto dura un’autopsia fatta da lei?

«Da un minimo di cinque ore fino a due giorni. Sono molto cauta. E lenta. Il caso di Yara Gambirasio mi ha insegnato che le cose più importanti sono invisibili».

Si spieghi meglio.

«A occhio nudo non mi sarei mai accorta della presenza di calce. Solo gli stub delle ferite, tamponi adesivi che noi chiamiamo scoccini, hanno permesso di trovarla al microscopio. Da allora li faccio a campione sulla pelle di ogni salma».

Il Dna è sempre una prova regina?

«Una prova forte. Che ci ha viziato un po’ tutti. È una scorciatoia che fa perdere di vista altri elementi importanti».

Il caso più difficile che le è capitato?

«Un omicidio in Lombardia. Stavano per archiviarlo come trauma cranico. La vittima era stata bruciata, i resti dispersi nell’ambiente. Da un osso carbonizzato abbiamo recuperato i frustoli del proiettile e ricostruito il foro d’ingresso».

Sbaglio o lei evita i salotti televisivi?

«Mi vengono i brividi quando in video gli esperti si accapigliano su presunte prove di casi che sono ancora aperti».

Che cosa pensa delle serie tv tipo «Csi: crime scene investigation»?

«Una volta mi davano fastidio. Ora ritengo che siano utili a far conoscere la nostra professione».

Le capita di guardarle?

«Dopo 10-12 ore trascorse a vederle dal vivo?».

È normale che esista un canale satellitare dedicato solo al crimine?

«Non ci ho mai riflettuto. È un aspetto interessante della natura umana».

La morte è «’a livella» di Totò?

«Non direi. Colpa della stampa».

Qual è il lato peggiore dell’autopsia?

«La chiusura. Non sei mai sicuro di aver espletato tutti i prelievi utili».

Si commuove mai nell’eseguirla?

«No. Però mi capita prima, quando vado sul luogo del delitto. O durante il riconoscimento del defunto da parte dei parenti, il momento più straziante».

Sottoporrebbe ad autopsia un suo congiunto?

(Tace per 14 secondi). «Eeeh... Mah! Non lo so. Sarei molto dibattuta».

Non le pesa il contatto con il male?

«È logorante, sì, te ne accorgi dopo 15 anni di obitorio. Ma è controbilanciato dal bene che sta intorno ai morti: quello che hanno compiuto in vita».

È riuscita a spiegarsi l’origine del «mysterium iniquitatis»?

«Al prossimo giro voglio fare la neuroscienziata. La risposta è lì, nel cervello».

Dopo la morte è tutto finito?

«E chi lo sa? Vedremo».

Lo scopriremo solo vivendo.

(Scoppia a ridere).

E se le dicessi che lei non morirà mai?

«Essere immortale perdendo chi ami? Che resti qui a fare, se intorno a te non hai più le persone care?».

Per cui il senso della vita qual è?

«Aver contribuito. A che cosa, non l’ho ancora ben capito. Aver dato».

·         Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”.

Ezio Denti “Pm perseguita senza prove”. “Assolto ma screditato in processo Bossetti”. Ezio Denti, consulente difesa Bossetti, “un Pm può perseguitarti senza prove”: assolto sui falsi titoli, “sono stato screditato nel processo Gambirasio”, scrive il 18.03.2019 Niccolò Magnani su Il Sussidiario. Lo aveva ben spiegato in una lunga intervista a Radio Cusano Campus tre giorni fa, oggi lo ribadisce con un post molto polemico su Instagram: è Ezio Denti, ingegnere, consulente e criminologo investigativo, impegnato tra gli altri nei processi-casi Bossetti, Trifone e Teresa, Silvana Pica e Renata Rapposelli. Per mesi ha dovuto districarsi tra le consulenze e le accuse invece rivolte a suo carico per presunti falsi titoli di laurea, e dopo l’ultima assoluzione il consulente ha voluto dare un messaggio fortissimo al mondo giudiziario e anche ai colleghi giornalisti. «In Italia un P.M. può perseguitare ingiustamente una persona e i media mettono il carico da novanta puntando il dito e condannando senza alcuna prova», attacca durissimo Ezio Denti, accusato negli scorsi mesi di avere titoli di studio non validi per svolgere la professione di criminologo e consulente nella difesa, specie nell’ultima fase del processo a Massimo Bossetti per il delitto di Yara Gambirasio. «Assolto perché il fatto non sussiste. I media colpevolisti sono stati sempre pronti a condannare e ostracizzare l’Ing. Denti, enfatizzando la situazione, salvo poi non parlare mai delle sue assoluzioni né “riabilitare” la sua immagine, su cui loro stessi avevano contribuito a gettare ombra».

IL CASO BOSSETTI PUÒ RIAPRIRSI? 4 processi, 4 assoluzioni con la stessa formula, “il fatto non sussiste”: «Perché non hanno scritto niente sull’esito dei processi? È facile accusare e denigrare un consulente solamente perché ha compiuto il suo lavoro con massima professionalità andando a cercare la verità. Chi ripagherà l’Ing. Denti per i danni di immagine subiti?», scrive ancora Ezio Denti su Instagram nel post al veleno che richiama anche tanti altri casi magari meno conosciuti in cui errori giudiziari hanno poi portato sul lastrico gli accusati ingiustamente, «soprattutto, chi pagherà le spese processuali affrontate per un ennesimo processo inutile, che si poteva evitare, e di importanza secondaria rispetto a tutti processi ancora aperti in Italia?». A Radio Cusano Campus lo stesso consulente e criminologo aveva spiegato nel dettaglio il suo personalissimo caso: «La mia figura era in qualità di consulente tecnico ed investigatore nel procedimento penale a carico di Massimo Giuseppe Bossetti. Mi ero occupato del furgone di Bossetti. Dopo la mia relazione di oltre 4 ore nel contraddittorio da parte della PM non ci fu nulla nel merito dell’attività svolta ma si cercò esclusivamente di screditare la mia persona partendo dai titoli di studio che secondo la PM non risultavano presenti. Ovviamente aveva ragione semplicemente perché mi sono laureato all’estero, a Friburgo. Da qui è nata la guerra. Anche se un consulente è antipatico come sia possibile fargli sostenere quattro processi? Credo sia una cosa vergognosa». In merito allo specifico caso Bossetti, è Denti a lanciare un’ultima clamorosa “bomba” sempre dai microfoni di Radio Cusano: «Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle».

·         Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso?

Massimo Bossetti, agguato a tarda notte: esplode il muro dell'abitazione dell'attivista che lo sostiene. Libero Quotidiano il 24 Dicembre 2019.

Un caso inquietante, che si lega a doppio filo a Massimo Bossetti - all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio - e che arriva da Capriate San Gervasio. Un'esplosione, infatti, ha distrutto la cassetta della posta e danneggiato gravemente il muro della casa di Pietro Pangoncelli, il fatto è avvenuto sabato sera attorno alle 23.30, ma ne dà notizia soltanto ora Il Giorno. Chi è, Pietro Pagnoncelli? Presto detto: amico della famiglia di Bossetti, da tempo sostiene l'innocenza del carpentiere di Mapello, ormai condannato in via definitiva. Pagnoncelli ha presentato denuncia ai carabinieri e ha spiegato: "Un mortaretto non avrebbe causato un danno del genere". Insomma, il sospetto è che si trattasse di un ordigno ben più strutturato. "Non ho nemici, non ho problemi con nessuno. Mi batto da sempre per Massimo e ultimamente lo sto facendo su Facebook". Il sosetto, dunque, è che sia stato colpito da qualcuno contrario alla campagna a favore dell'innocenza di Bossetti e che mira, in primis, alla riapertura del processo.

Lettera di Massimo Bossetti a “Libero quotidiano” il 9 dicembre 2019. Ill.mo Dott. Feltri buongiorno, Le chiedo gentilmente di non tralasciar nulla di quanto continuo a dover subire dalla giustizia italiana. Com' è possibile che venga trasmessa alla mia difesa l'autorizzazione da parte della Corte, successiva all' istanza depositata dall' avvocato Salvagni qualche giorno fa, di poter accedere ai reperti, ad indagare sui reperti di DNA ancora disponibili, e ad esaminarli con i miei consulenti; conservandoli per i futuri esami. E dopo 48 ore la procura di Bergamo mi nega di fare ulteriori accertamenti e le dovute indagini sui reperti consentiti, non solo nel fare una "ricognizione" senza poterci mettere mano. Scandaloso tutto questo!! Io mi chiedo, come posso difendermi nel provare la mia estraneità, se non mi permettono di difendermi a dovere indagando sui reperti nell' accertare l' assoluta granitica certezza, che quel DNA non mi appartiene. Per favore Dott. Feltri, mi aiuti nel gridare facendosi sentire quanto d' inumano continuo a dover subire, e per quanto tutti noi cittadini "Purtroppo" restiamo nelle loro mani. I miei figli soffrono e hanno bisogno del loro padre. Certo in una sua collaborazione, la ringrazio come sempre di cuore a tutto. Mi permetta di salutare caramente la sua giornalista Azzurra Barbuto che mi ha dedicato la risposta in una mia lettera pubblicata sul suo quotidiano con un bellissimo suo pensiero: «NON PERDERE LA SPERANZA, NOI SIAMO CON TE». È confortante questa vostra bella frase nonostante quello che si vive all'interno di quattro mura. A tutta la redazione un forte abbraccio, vi voglio bene. Grazie a lei Dott. Feltri e a tutta la sua direzione di Libero. I miei cordiali saluti.

Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “Telelombardia”. Di seguito uno stralcio delle lettere di diffida mandate tramite raccomandata da Massimo Bossetti agli avvocati e al consulente nominato dalla moglie Marita Comi per effettuare indagini sul caso del marito. Il testo integrale delle raccomandate sarà mostrato questa sera nel corso della trasmissione “Iceberg Lombardia” su Telelombardia a partire dalle 20.30. “Gentilissimi avvocati, Ho appreso da mia moglie Marita Comi che la stessa ha firmato una nomina a vostro favore contrariamente alla mia volontà. Gli unici avvocati che possono lavorare sul mio caso sono l’avvocato Salvagni e l’avvocato Camporini. Vi diffido pertanto dal compiere qualsivoglia attività processuale o extraprocessuale nonché eventuali indagini difensive in mio favore. Mi riservo di valutare il vostro comportamento e se del caso denunciarlo in ogni sede agli organi competenti. Egregio signor Infanti, Ho recentemente appreso che si sta occupando del mio caso. Non capisco a quale titolo non avendo ricevuto da me alcun incarico in tal senso. Non ho autorizzato nessun altra persona, nemmeno mia moglie, ad assumere decisioni in tal senso così importanti per la mia vita. Le intimo pertanto di cessare qualsivoglia attività con effetto immediato, diversamente la denuncerò alle autorità competenti.”

Dagospia il 12 dicembre 2019. Da “Radio Cusano Campus”. L’avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sugli ultimi sviluppi del processo. “Finalmente, dopo 5 anni e oltre, la Corte d’Assise di Bergamo ha dato un ok ad un primo step, che è quello di una ricognizione dei reperti. Abbiamo evidenziato come ora la tecnologia consenta di avere risultati più affidabili per quanto riguarda il test del dna. La corte ci ha autorizzato su tutto, anche se ha messo un recinto un pochino più stretto concedendoci di fare una ricognizione, quindi capire innanzitutto quali sono i reperti ancora disponibili con la supervisione della polizia giudiziaria. E’ una prima fase indispensabile senza la quale non si può accedere a quella successiva delle analisi, che è il nostro obiettivo. Siamo convinti che quel dna di ignoto 1 non è di Massimo Bossetti. Secondo me questo porterà a un clamoroso colpo di scena e si potrebbe arrivare alla revisione del processo. E’ gravissimo che finora non ci abbiano mai concesso una nuova perizia affermando che non erano più disponibili i campioni di dna, cosa ampiamente smentita dai fatti. Sono contento che quantomeno si sia ristabilito che i campioni ci sono. La moglie di Bossetti ha nominato altri due avvocati per condurre indagini difensive nei confronti del marito, che però non vuole tutto questo ed ha intimato a questi avvocati di non fare alcuna attività che possa andare in contrasto con i suoi avvocati ufficiali”.

Bossetti, guerra tra pool difensivi: è crisi con Marita? L'ex muratore di Mapello, in carcere per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha smentito la presunta decisione della moglie Marita Comi di ingaggiare un nuovo pool difensivo. Marco Della Corte, Domenica 15/12/2019, su Il Giornale. È iniziata una guerra tra pool difensivi per Massimo Giuseppe Bossetti, l'ex muratore di Mapello condannato all'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio avvenuto nel 2010. Marita Comi, moglie di Massimo, avrebbe incaricato un nuovo team di consulenti per occuparsi del caso incentrato sulla figura del marito in qualità di assassino della ragazzina residente a Brembate (Bergamo). Del caso se ne è occupato Gianluigi Nuzzi nella puntata di Quarto Grado del 13 novembre 2019. Nel corso della trasmissione è stata mostrata una lettera inviata da Bossetti, in cui sarebbe stata smentita la decisione da parte della consorte riguardo la nomina di un nuovo pool per la difesa. Una situazione abbastanza ingarbugliata e controversa, che lascerebbe intendere dei contrasti ideologici tra marito e moglie. Il programma ha, inoltre, ipotizzato una possibile mancanza di fiducia nei confronti degli attuali due legali di Bossetti: Claudio Salvagni e Paolo Camporini. I due, che hanno assistito l'uomo nel suo lungo iter giudiziario, non sono riusciti a ribaltare la decisione dei giudici nel corso dei tre gradi di giudizio. Si è parlato inoltre della possibile intenzione di Marita di dare una svolta alla sua vita, senza approfondire ulteriormente la spinosa (ed annosa) questione riguardante Massimo. Giorgio Sturlese Tosi, inviato di Quarto Grado, ha chiesto alla Comi di spiegare la scelta del nuovo pool difensivo per il marito Massimo Giuseppe Bossetti. La donna si è rifiutata di parlare. Tuttavia, utili informazioni le ha fornite Agostino, fratello di Marita e cognato di Massimo, il quale ha chiarito: "Certe persone si sono presentate e hanno detto: "Possiamo dare una mano?". Mia sorella ha detto, ed ero presente anch’io, "l’importante è non andare ad intromettersi nel lavoro degli altri avvocati che han fatto fino adesso". Questi qua non han chiesto niente. Niente! E infatti si è visto non si voleva neanche far sentire chi erano, giusto?". L'uomo ha infatti precisato come il pool difensivo in questione starebbe lavorando senza percepire compensi: "Non è andata a cercare nessuno mia sorella. Io sinceramente non li conosco". Agostino ha inoltre affermato come Marita continui a fidarsi di Massimo e per questo motivo avrebbe riposto fiducia nei nuovi legali. E la diffida da parte di Bossetti? Potrebbe significare qualche crepa nel rapporto tra lui e Comi? A smentire qualsiasi diceria è stato lo stesso fratello della donna: "Ma no, non cambia niente!".

Dagospia il 27 novembre 2019. Anticipazione stampa da “Oggi”. «Il Dna di Ignoto 1 è sempre stato al San Raffaele. L’abbiamo conservato. E c’è ancora. Anche se proprio in questi giorni stiamo restituendo il materiale genetico alla Procura di Bergamo che lo ha richiesto», rivela Giorgio Casari, docente di genetica e consulente dell’Accusa per l’omicidio di Yara Gambirasio, al settimanale «Oggi» in edicola da domani. Una rivelazione clamorosa perché, spiega l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei difensori di Massimo Bossetti, le richieste di una superperizia che confrontasse il Dna di Bossetti, condannato all’ergastolo per il delitto, con quello di Ignoto 1 sono sempre state respinte sostenendo che i reperti erano esauriti. Salvagni preannuncia una denuncia per frode processuale alla quale seguirà la domanda di revisione del processo: «Grazie al vostro settimanale scopriamo che non è vero. Il materiale genetico c’è sempre stato e c’è ancora. E la Procura lo ha sempre saputo. La superperizia si può e si deve fare. E se le notizie saranno confermate anche da una indagine difensiva per la quale ho già ricevuto mandato da Bossetti, verrà valutata ogni possibile azione per il ripristino della giustizia violata, non esclusa una denuncia penale per frode processuale».

Massimo Bossetti, l'avvocato Claudio Salvagni a Libero: "Si riapre tutto, proveremo la sua innocenza". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 3 Dicembre 2019. Il 26 novembre ricorre la data di un terribile omicidio, quello di Yara Gambirasio. Nove anni fa tutta l'Italia si era fermata davanti alla notizia della scomparsa di questa ragazzina di 13 anni. Oggi la giustizia italiana ha condannato in via definitiva all'ergastolo "fine pena mai" Massimo Bossetti, il muratore di Mapello. Nonostante la Corte di Cassazione abbia sancito la fine dell'iter processuale pare che qualche nuovo scenario si possa aprire. È di qualche giorno fa la notizia che la Corte D'Assise di Bergamo abbia autorizzato i legali di Bossetti a esaminare tutti i reperti d' indagine e tutte le tracce di Dna. 

Avvocato Salvagni, hanno detto che ci sono nuovi legali a seguire Massimo Bossetti in questa istanza di revisione del processo.

«Assolutamente no», e mostra l'atto con cui Bossetti riconferma la nomina per questa ulteriore azione legale al team composto oltre che da lui anche dall'avvocato Camporini, più dieci consulenti coordinati dal dottor Bianco. «Oggi sono stato in carcere da Massimo e ci ha riconfermato la fiducia per portare avanti questa decisiva istanza».

Avvocato, quando lei ha conosciuto Massimo Bossetti?

«L'ho conosciuto una settimana dopo l'arresto avvenuto il 16 giugno del 2014 chiamato da Fabio, il fratello, che mi chiedeva di occuparmi della vicenda penale».

Lei quindi conosceva la famiglia Bossetti?

«Io conoscevo Fabio perché l'avevo seguito in qualche procedimento civile».

Si era fatto una idea sulla sua posizione prima di incontrarlo?

«Non sono abituato, forse per deformazione professionale, a costruirmi giudizi prima di leggere le carte. Così dissi alla famiglia di Bossetti che prima di accettare l'offerta di difenderlo avevo almeno bisogno di incontrarlo anche se, non nascondo, ero rimasto molto colpito dalle notizie riguardanti il caso di Yara Gambirasio; così accettai con riserva l'incarico».

E quando lo incontrò che idea si fece?

«Il nostro fu un lungo incontro, credo che durò molte ore e Massimo mi convinse anche senza guardare le carte».

Perché?

«Piangeva ed era un uomo disperato. Mi giurò che mai aveva visto o incontrato Yara e che nulla le aveva fatto. Era stato messo in isolamento e gli avevano detto che suo padre naturale non era Giovanni Bossetti, colui che lo crebbe, ma Guerinoni. Inoltre era disperato per i tradimenti che gli inquirenti, senza alcun motivo processuale, gli rivelarono riguardo alla moglie Marita. Era un uomo che mi chiedeva aiuto e che non riusciva a capire cosa potesse accadergli».

Lei si fidò?

«Mi fidai del mio istinto e sono convinto ancora adesso di aver fatto bene supportato dalle carte processuali».

Bossetti pensava di essere liberato velocemente?

«Certamente sì, colui che si proclama innocente pensa che nel giro di pochi giorni può riassaporare l'aria della libertà».

Anche lei era ottimista su una libertà immediata?

«Sinceramente ogni atto che io faccio è perché credo che sia foriero di notizie positive e quindi anche con Massimo valeva la stessa cosa, anche se c' erano alcune anomalie che non comprendevo».

Tipo?

«Intanto c'è da ricordare che il nostro team legale aveva fatto opposizione alle misure cautelari in carcere al tribunale del Riesame, e che quest'ultimo rigettò affermando che solo all'interno del contraddittorio durante un processo si poteva approfondire tutto il tema legato alla genetica».

Lei parla del Dna trovato sul corpo di Yara?

«Quel Dna è ancora oggi oggetto di valutazione e forse adesso, dopo più di quattro anni e tre gradi di giudizio, possiamo finalmente analizzarlo».

Ma riguardo al Dna quali anomalie ci sono state?

«In prima istanza non può esistere che la difesa non veda quello che viene dichiarata essere per tutti la "prova regina".

È secondo me una violazione del diritto di difesa. Inoltre a me risulta anomalo che un omicida riesca a lasciare una goccia di sangue (così dicono le sentenze) sulle mutandine e in corrispondenza dei leggins della povera Yara e nessun altro segno in tutto il corpo».

Cosa vuol dire?

«Non esiste alcun altro segno riconducibile geneticamente a Bossetti se non quello sulle mutandine. Un assassino tocca la vittima sul giubbotto, sul corpo, ovunque. Ebbene, nessuna traccia di Bossetti».

C'erano altre tracce di Dna?

«Ve ne erano altre undici. Soltanto una riconducibile a una persona nota, l'insegnante di ginnastica Silvia Brena (sangue o saliva), e poi altre denominate "uomo 1" e "donna 1", e alcuni ritrovamenti piliferi».

Altri elementi anomali?

«È un omicidio senza un movente e senza una dinamica chiara».

Cosa vuole dire?

«Che non conoscendo Yara l'omicida avrebbe dovuto caricarla in auto con la forza senza farsi vedere da nessuno e senza mai toccarla. Le sembra possibile e realistico? Inoltre nella famosa traccia 31g20 non c'è il mitocondriale di Bossetti, e oltre ad esistere nella stessa traccia anche una parte di Dna di Yara esiste un'altro incognito che non è né Yara né Bossetti».

L'assenza del mitocondriale nella traccia di Dna lo considera un elemento decisivo?

«Certamente sì! Pensi che fu grazie alla parte mitocondriale del Dna che si riuscì a comprendere a chi appartenevano alcuni corpi dopo l'attentato alle torri gemelle di New York l'11 settembre 2001. Perché la parte mitocondriale è quella più resistente a qualsiasi elemento, sia fuoco che acqua. In questo caso invece inspiegabilmente manca!».

Poi c'è il camioncino che incastrerebbe Bossetti, o no?

«Pensi che anche in questo sono riusciti in qualcosa di unico, quello di mettere insieme immagini di diversi furgoni per motivi di comunicazione in accordo con la Procura».

E adesso cosa succede?

«Succede che il professor Casari ha dichiarato di avere del materiale di Dna di "ignoto 1" e da qui si riapre tutto».

Perché si riapre?

«Perché finalmente la Corte d'assise di Bergamo ha concesso alla difesa di vedere e analizzare tutti i reperti, cosa che per cinque anni c'era stato negato, e questa è una grandissima prova di giustizia perché ci consente di richiedere (visto che ci sono nuovi elementi) la revisione del processo».

E Bossetti come sta?

«È felice, ci ha sempre detto che non può esserci una sua traccia di Dna su Yara perché lui non è stato e non l'ha nemmeno mai incontrata; noi abbiamo fatto presente l'importanza di questa sua dichiarazione, ma lui è sicuro di questo».

Anche lei è convinto che questa prova aiuterà Bossetti?

«Sono convinto che "ignoto 1" non sia Massimo».

E pensa che analizzando la traccia potrete capire realmente chi è stato?

«Penso che potremo avvicinarci nel capirlo, perché mi creda, anche noi avvocati che difendiamo Bossetti vogliamo sapere la verità su chi ha ucciso una ragazzina di 13 anni. Ma bisogna trovare il colpevole, non un colpevole». Giovanni Terzi

Denuncia per frode processuale. Caso Yara, Bossetti spera: si può ripetere il test del dna. Tiziana Maiolo il 30 Novembre 2019 su Il Riformista. Lo scatolone è di cartone bianco e un po’ malandato. Porta la scritta “plico 3” e la sigla TI_00205. Sull’esame, anzi il riesame, del suo contenuto poggiano oggi le speranze di Massimo Bossetti, il muratore bergamasco condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Un pool di tecnici, avvocati, genetisti, informatici, docenti universitari, persone capaci di coltivare il “ragionevole dubbio” anche in presenza di una sentenza di condanna, si è messo spontaneamente a disposizione della famiglia per nuove perizie sui reperti che languivano sugli scaffali dove venivano conservati gli oggetti corpo di reato della procura della repubblica di Bergamo. Non si sa chi abbia fatto la richiesta, se Bossetti in persona o la moglie Marita Comi, visto che l’avvocato Salvagni, difensore storico dell’ergastolano, dice di non saperne niente. Lo scatolone è stato presentato giovedì scorso nella trasmissione Iceberg di Telelombardia, la stessa, condotta da Marco Oliva, in cui un mese fa il professor Taormina aveva annunciato di aver presentato un’istanza alla procura generale di Brescia perché verificasse se all’ospedale san Raffaele di Milano esisteva ancora materiale genetico di Yara, come affermato in aula dal professor Giorgio Casari, consulente della procura di Bergamo. Il particolare non è secondario, perché la difesa di Bossetti nel corso dei processi aveva ripetutamente chiesto che fosse ripetuto l’esame del dna, l’unica prova su cui l’imputato è stato condannato, ma le era sempre stato risposto che non c’era più materiale disponibile. Un falso, evidentemente, che risulta anche scritto nella sentenza. Ma nei giorni scorsi il professor Casari, intervistato dal giornalista Giangavino Sulas per il settimanale Oggi, ha confermato che il materiale genetico esiste ancora. Ha anche aggiunto che (si presume in seguito all’istanza del professor Taormina) gli stessi magistrati ne hanno richiesto la consegna. «Stiamo restituendo le rimanenze alla procura di Bergamo» ha annunciato, aggiungendo che è meglio quel

materiale vada nelle mani giuste». Come a dire: si assumano i magistrati le loro responsabilità. Lui ha già dovuto rinunciare, negli anni scorsi, a un’intervista televisiva, proprio dopo la sua deposizione in aula, a causa di interventi “superiori”, proprio dal mondo investigativo. E la corte di cassazione ha dichiarato fuorvianti» le sue dichiarazioni. Comprensibile che un genetista stimato e consulente della procura chiami oggi la magistratura ad assumersi i suoi oneri, dopo tanti onori. C’è un accanimento incredibile contro chiunque osi mettere in dubbio quel processo e quella sentenza ripetuta ormai per tre volte. Ma stranamente, benché Massimo Bossetti non sia certo una persona potente capace di muovere intorno a sé il mondo intero, è incredibile anche quante siano ormai le persone che hanno dubbi sulla sua colpevolezza. Nel corso di questi anni si sono formati comitati e gruppi di suoi sostenitori che operano al di fuori della stretta difesa nel processo. Soprattutto perché emerge sempre più quanto quel processo costoso ( sono stati spesi 6 milioni di euro solo per gli esami del dna, cui sono state sottoposte tutte le persone di un’intera valle) non abbia portato a nessuna prova né sul movente né sulla dinamica dei fatti. C’è solo la prova del dna, quasi la giustizia abbia abdicato in favore della scienza. Ma oggi, con il riesame dei reperti ( in particolare computer e cellulare) che furono sequestrati a Bossetti e su cui si è a lungo favoleggiato su particolari che in seguito sono evaporati, e con la certezza che nella sentenza c’è scritto il falso sulla disponibilità di materiale genetico su cui rifare l’esame del dna, si apre più di uno spiraglio, forse un portone, per arrivare alla revisione del processo.

Lettera di Massimo Bossetti a “Libero quotidiano” il 22 ottobre 2019. Gentile Direttore Feltri, forse rimarrà sorpreso che io Le scriva, ad essere sincero lo avevo in mente da molto tempo, ma la pressione della vicenda che mi ha travolto e il massacro mediatico mi hanno messo alle corde come un pugile che le ha prese di santa ragione. Ritengo che lei, da bergamasco doc, sia un uomo di sani principi. Io Direttore, non sono né l' assassino della povera Jara, né il mostro che i media e i social hanno dipinto. Sono un uomo normale, semplice che pensava al lavoro e a non far mancare nulla alla propria famiglia. Arriva quel maledetto giorno che ha sconvolto la mia vita e quella della mia famiglia, e dei miei cari che oggi mi guardano dal cielo, e sono convinto che questa vicenda li ha provati moltissimo. Non voglio entrare in questa lettera nei dettagli, però non posso fare a meno di dire che il trattamento che la giustizia italiana mi ha riservato è stato scorretto e ha calpestato ogni diritto alla difesa, e mi riferisco anche a quell'ex ministro dell' Interno incapace, che gridava al mondo che era stato preso l' assassino di Jara, calpestando la Costituzione. Poi in carcere a Bergamo, la P.M. e vari responsabili dell'organo penitenziario, mi pressavano a confessare in continuazione un delitto proponendomi benefici. Come potevo confessare un delitto che non ho commesso? La P.M. più volte ha provato a propormi benefici, se erano così sicuri di aver preso l'assassino, non li proponevano con insistenza, né benefici e tanto meno facevano produrre filmati manipolati da distribuire ai media. Poi, il non far assistere i miei legali alle prove più importanti dei reperti e del Dna. Grido dall' inizio di ripetere la prova del Dna e sono sicuro che Le verrebbe ogni ragionevole dubbio. Perché è stato commesso "UN GRAVE ERRORE GIUDIZIARIO" (tutto maiusolo nela lettera, ndr), non sono io il colpevole, e il codice di procedura penale dice chiaramente all' articolo 533 C.P.P. 1° comma che «il giudice pronuncia sentenza di condanna se l' imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio». Direttore, La prego di porgermi la Sua mano d'aiuto, non è giusto essere dipinto un mostro, non è giusto che mi abbiano affibbiato un ergastolo, non è giusto che venga commesso un errore giudiziario, per l'incapacità professionale. Confido che Lei possa capire cosa ho e sto provando. Gentile Direttore, La prego di prendere in considerazione la mia richiesta d' aiuto, restando a sua completa disposizione per ulteriori chiarimenti. Le porgo i miei più cordiali saluti, sperando di ricevere Sue notizie. In fede MASSIMO BOSSETTI.

Lettera di Massimo Bossetti pubblicata da “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Dott. Feltri, lei è un grande! Grazie davvero di cuore per quanto lei umanamente di buon cuore bergamasco, decisamente come me, si è evidenziato. Per favore, di fronte a lei c' è un uomo disperato, che non sa più a chi e cosa aggrapparsi, ovunque mi trovo c' è solo sempre più terreno arido. Le chiedo semplicemente di non smettere MAI nel gridare quanto di disumano mi è stato fatto, agli occhi di tutti voi, del mondo intero. Sto soffrendo tantissimo per quanto non ho commesso. I miei figli, sempre mi chiedono: «Papà, quando vieni a casa, ci manca il tuo amore, l' affetto quotidiano come una vera famiglia, ci manchi tantissimo papà». Io di fronte a tutta questa sofferenza cerco di virare il discorso, dicendo di non preoccuparsi, strozzando il pianto in gola, ma poi la sofferenza prende il sopravvento e mi fa tracimare come un fiume in piena che appena ha rotto gli argini. Sto soffrendo tantissimo, soffro in silenzio, perché ho paura che io non riesca più a intravvedere l' azzurro del cielo, senza le sbarre tra i miei occhi, paura di perdermi quanto ancora lì fuori ho di più caro, per colpa di questo vergognoso, disumano, marcio, corrotto sistema, che interamente mi ha avvolto, senza il diritto di replica. Spero che questa ingiustizia non uccida pure me, come ha fatto con papà e mamma, che da "lassù" mi guardano e mi incoraggiano sempre più nel lottare, e non di farmi chiudere gli occhi per sempre. Caro Dott. Feltri, non le nego che faccio fatica a trovare le parole giuste per ringraziarla. Vedere martedì mattina la mia faccia sul suo giornale, un quotidiano da me sempre e molto apprezzato per come lei si esprime nei diversi temi trattati, il giorno dopo che arriva il mio legale l' avvocato Salvagni che mi abbraccia anche a suo nome, e la sera vedere lei su "La vitain diretta" che prendeva le mie difese, organizzando anche un intervista... Beh dott. Feltri, spero che io possa ricambiare presto con un sincero abbraccio. GRAZIE, GRAZIE MILLE, mi ha tirato su di morale sentire che non sono solo a pensare e ribadire che è stato commesso un "GRANDE ERRORE GIUDIZIARIO"! Sarà un piacere per me in futuro poterla incontrare, anche assieme al mio legale, sperando che la direttrice dia il suo consenso ad un incontro qui a Bollate. Io e il mio pool difensivo, al completo, siamo fiduciosi che venga dimostrata la mia innocenza, perché io mai mi rassegnerò per quanto di disumano ingiustamente ho subito. Non ho commesso nulla di quello di cui mi si accusa, e mi auguro che chi di dovere faccia il proprio lavoro in modo professionale, e dica la verità. Mi riferisco al dott. Casari (consulente della procura, ndr), che una volta per tutte dica che c' è ancora del Dna per ripetere il test, affinché si possa levare "OGNI RAGIONEVOLE DUBBIO" e che la procura dia il suo benestare alla revisione del processo. Resto a sua disposizione per eventuali chiarimenti, ringraziandola di cuore per avermi porto la sua mano, che stringerò con immenso piacere. Con affetto cordiali saluti Bollate, 24.10.2019

PS: Dott. Feltri, il gadget che le ho inviato e che lei ha messo in bella mostra (la maglietta con la scritta “al di là di ogni ragionevole dubbio, ndr) è stata pensata accuratamente per sensibilizzare quanto in me non è accaduto dalla giustizia, e per lanciarla in vendita nel dare un aiuto economico ai miei figli (visto che ancora non lavoro) per poter partecipare alle spese nella continuazione agli studi. Ancora un immenso GRAZIE!!

Azzurra Barbato per “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2019. Caro Massimo, per lenire il suo sconforto ci piacerebbe rinfrancarla con la speranza che un dì, prima o dopo, la sua innocenza salterà agli occhi del mondo intero, pronto a porgerle sentite scuse, e lei sarà considerato non più quel mostro che uccise una ragazzina indifesa, la quale stava tornando a casa, bensì un martire. Ossia un uomo che ha subìto il delitto atroce di essere reputato nonché giudicato quale omicida pur non essendolo. Tuttavia, non sarebbe onesto ricorrere alle solite frasi fatte, che si utilizzano per rincuorare chi è disperato: «Vedrai che tutto si risolverà», «Devi credere nella giustizia» e così via. Sciocchezze! La verità è che finché non interverranno fatti nuovi - come lei sicuramente sa - non esiste alcuna possibilità, neanche minima, che abbia luogo una revisione del processo. Dunque, è probabile che in cella ci trascorra tutta l' esistenza. Però sappia che noi non l' abbandoneremo. Le staremo al fianco. Continueremo a darle voce, a pubblicare i suoi scritti, a risponderle. Ad un essere umano si può togliere la libertà e pure la vita, ma non la parola. Essa è indistruttibile ed eterna. Il suo urlo ci giunge silenzioso, mesto, eppure assordante. Ci fracassa il petto. E ci fa rabbrividire l' ipotesi che lei davvero non c' entri un bel niente con quella brutta faccenda, con la scomparsa tragica di Yara, alla quale tutti noi ci siamo affezionati pur non avendola mai conosciuta. Se così fosse, là fuori, da qualche parte, c' è qualcuno, o più di uno, che ha massacrato sia una bambina abbandonandola in un campo, al gelo, ferita e terribilmente spaventata, sia un padre di famiglia, un marito, un individuo semplice, su cui è ricaduta la colpa di un gigantesco crimine. Qualora ci fosse un autentico responsabile, diverso da lei, sulla coscienza di questi ogni giorno deve pesare pure la sorte di Massimo Bossetti, condannato all' ergastolo per una nefandezza mai compiuta. Codesto pensiero non deve dargli tregua. Si può sfuggire alla giustizia degli uomini, ma io credo in una giustizia più grande che tutto vede e tutto conosce, persino i più impercettibili moti del cuore. Non abbia paura, Massimo. E scriva. Le darà sollievo nelle notti insonni, nella insostenibilità delle giornate infinite, nei momenti più bui, che sono quelli, come spiega, in cui le mancano i suoi figli e la sua famiglia tutta. Anch' essi sono vittime, a prescindere dalla sua colpevolezza o meno. E comprendo che la vera pena è stare loro lontano, non partecipare, non essere presente, non potere contribuire anche materialmente alla loro formazione. Desidero raccontarle una storia lieta, magari la risolleva un po', chissà. Io ci provo. Qualche anno fa mi è capitato di intervistare un signore, Giuseppe Gulotta, sessantunenne di Certaldo, il quale nel 1976, all' età di 18 anni, fu condannato all' ergastolo per duplice omicidio: era ritenuto colpevole dell' uccisone di due giovani carabinieri ad Alcamo. Giuseppe, muratore come lei, ha passato in gattabuia decenni, fino al 2012 quando è stato proclamato innocente per non avere commesso il fatto. La revisione del processo fu aperta nel 2011 grazie alle dichiarazioni rese da un ex brigadiere il quale testimoniò che la confessione di Gulotta era stata estorta per mezzo di atroci torture, dall' elettroshock all' annegamento simulato, dai pestaggi alle minacce di morte. La strage di Alcamo, tuttora irrisolta, rappresenta uno dei più gravi casi di errore giudiziario nonché di ingiusta detenzione nella storia italiana. Nel gennaio del 2017, quando finalmente Gulotta ottenne il risarcimento di 6,5 milioni di euro da parte dello Stato per il periodo trascorso dietro le sbarre, lo sentii al telefono e il suo pensiero andò proprio a Massimo Bossetti. Mi disse affranto: «Riguardo la vicenda di Bossetti nutro alcuni dubbi e me ne interesserò direttamente insieme ai miei avvocati. Nessuno può calcolare il costo di un solo giorno di vita strappato via. Soltanto chi patisce questo abuso può capire cosa si prova». Massimo, rammenti che non è solo. Le auguro che pure il suo "fine pena mai" muti in lieto fine. Un abbraccio.

Respinto il ricorso alla Corte Europea di Massimo Bossetti. Pubblicato sabato, 28 settembre 2019 su Corriere.it. La Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha ritenuto inammissibile il ricorso dei legali di Massimo Bossetti contro la sentenza di ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Lo ha comunicato la trasmissione Quarto Grado, che venerdì 27 settembre ha dato la notizia.Per il carpentiere di Mapello, condannato in via definitiva all’ergastolo, a questo punto resta solo la strada della revisione. «Ovviamente — il commento in trasmissione dell’avvocato Claudio Salvagni — una sentenza positiva della Corte Europea dei Diritti dell’uomo sarebbe stata la più grande soddisfazione per noi avvocati che abbiamo sempre protestato per una violazione giuridica di questo processo. Però non cambia nulla perché la strada maestra rimane comunque la revisione: il legislatore ha ben compreso che i giudici sono uomini e possono sbagliare, ci sono tanti casi revisionati in Italia, di persone che hanno fatto anche 20 anni di carcere per poi essere dichiarate innocenti. A Bossetti ho detto che abbiamo raccolto degli altri sassolini che vanno a creare una piccola montagnetta, non abbiamo trovato una pietra gigantesca che possa ribaltare la sentenza in un attimo. Ci stiamo lavorando ma è un lavoro di tessitura molto difficile. Quello che posso dire è che abbiamo ulteriori elementi che vanno ad aggiungersi a quelli vecchi che ci confortano sulla nostra strada. Difficile dire che tempi ci saranno, tutto dipende dalla risposta che ci verrà data sull’analisi dei reperti. Vogliamo vedere questi reperti, vogliamo condurre degli esami su questi reperti e ci aspettiamo dei responsi. Una volta ottenuti questi responsi possiamo completare il quadro».

 “BOSSETTI? E’ UN POVERO DISGRAZIATO, UN GIORNO LA VERITÀ SALTERÀ FUORI...” Anticipazione stampa da OGGI il 3 luglio 2019. «Bossetti? Un povero disgraziato. Mi fa pena. Vorrei guardarlo negli occhi e parlargli. Un giorno la verità salterà fuori. Temo che sia diversa da quella che ci hanno raccontato». E poi: «Siamo stati utilizzati perché qualcuno potesse coprirsi di gloria e di riconoscimenti. E qualcuno non ha fatto onore alla sua professione». E ancora: «Mio marito lo conoscevo troppo bene. Non ha lasciato figli in giro. Mi sarei accorta se mi avesse nascosto qualcosa». Queste alcune affermazioni di Laura Poli, 80 anni, vedova di Giuseppe Guerinoni, padre naturale di Massimo Bossetti, l’uomo il cui Dna, dopo un’inchiesta durata quattro anni, ha consentito alla giustizia di identificare e condannare l’assassino di Yara. L’ha intervistata per la prima volta il settimanale OGGI. Nel numero in edicola da domani, anche il racconto di come la signora aiutò gli inquirenti a prelevare il Dna del marito, defunto molti anni prima.

LA VERITÀ SU YARA. Da Notizie.yahoo il 23 settembre 2019. Omicidio Yara Gambirasio, emergono nuovi dettagli. Parla l’avvocato di Massimo Bossetti, l’uomo accusato della morte della giovane e in carcere per scontare l’ergastolo: “E’ un processo che mi ha cambiato la vita”. E continua: “Nulla sembra essere chiaro“.

Omicidio Yara Gambirasio. Della morte di Yara Gambirasio tanti sono i dettagli che sono rimasti nell’ombra, sconosciuti, nella complicata vicenda che ha visto la scomparsa della giovane il lontano 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra, ritrovata poi abbandonata in un campo. Un processo lunghissimo e doloroso, per familiari e amici, conclusosi solamente il 12 ottobre 2018 con la condanna all’ergastolo di quello che è stato dichiarato l’unico colpevole del caso, Massimo Giuseppe Bossetti. Ma la vicenda sembra tornare nuovamente sotto i riflettori, con l’avvocato del colpevole che si fa avanti e torna a parlare, rivelando dettagli destinati a far discutere e che potrebbero aprire nuove strade sul terribile caso. Claudio Salvagni, l’avvocato, avrebbe rilasciato alcune importanti dichiarazioni nel corso di una trasmissione radiofonica di “Radio Cusano Campus”, riportando parte dei colloqui avuti in carcere con Bossetti: “Da una parte lui vuole esternare tutta la sua rabbia per la mancata possibilità di difendersi, dall’altra parte ci sono io. Questo è un processo che mi ha cambiato la vita”.

Le parole dell’avvocato di Bossetti. Salvagni ha anche parlato dell’idea, da parte di entrambi, di produrre un libro/memoriale sugli eventi del drammatico omicidio. L’avvocato avrebbe quindi fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per la violazione dei diritti di difesa: “Strasburgo potrebbe dire che Bossetti non ha mai avuto la possibilità di difendersi”, cosa che – se dovesse realmente verificarsi – darebbe la possibilità di chiedere e ottenere una nuova revisione del processo e di tutte le carte. E non sarebbe tutto. Per Salvagni sarebbero ancora tantissimi i dettagli su cui lavorare e su cui non sarebbe stata fatta la giusta chiarezza, in particolare sulla perizia per il Dna chiesta dal pool difensivo e negata diverse volte. “Non sappiamo se quegli slip esistono davvero o se hanno i buchi, perché sono stati fatti i prelievi del Dna“. Esami che secondo l’avvocato potrebbero essere stati falsificati, con il test condotto dal Ris che – sempre secondo il legale – potrebbe essere sbagliato: “Siamo convinti che rifacendo quell’esame verrebbe fuori un risultato completamente diverso. Nulla sembra essere chiaro”. Infine, il difensore di Bossetti si è detto convinto che la ragazza – la sera della scomparsa – non sarebbe mai uscita dalla palestra dove si sarebbe recata proprio nella tragica data del 26 novembre 2010.

 “IO COME OLINDO E ROSA”. Anticipazione di Oggi il 4 settembre 2019. «Voglio fare un appello pubblico a chi di dovere, a chi custodisce i reperti del mio caso: chiedo che venga garantita la massima custodia e conservazione, che non vengano distrutti come accaduto in altri casi, affinché un domani la mia difesa possa fare un’ulteriore accurata indagine. Il timore che possano andare irrimediabilmente distrutti è alto, basti vedere quanto è avvenuto nel caso di Rosa e Olindo… Non per niente – scrive il carpentiere di Mapello – come me sono stati allegramente condannati all’ergastolo due sprovveduti, i coniugi di Erba». Così scrive Massimo Bossetti in una lettera-appello scritta al conduttore di «Iceberg» su Telelombardia Marco Oliva e che OGGI è in grado di anticipare nel numero in edicola da domani. Bossetti ribadisce la sua innocenza: «Lo ripeto e lo ribadirò finché ne avrò le forze, non sono io la persona che ha ucciso la piccola Yara, non ho minimamente idea di cosa potrebbe essere successo. Confermo la fiducia al mio legale, l’avvocato Claudio Salvagni e a tutto il suo pool che stanno percorrendo tutte le piste alternative senza tralasciare nulla di intentato». Si firma «Massimo Bossetti, prigioniero di Stato». Racconta cosa fa nel carcere di Bollate dove è stato trasferito: «Sto intraprendendo un percorso rieducativo, occupo il mio tempo in modo utile attraverso lo studio e le attività lavorative che il contesto qui offre». E annuncia di stare scrivendo un libro: «Dopo quanto abbiamo subito io e la mia famiglia, è inevitabile la stesura di un memoriale, non crede?».

"Io come Olindo". E Bossetti scrive un libro. Condannato all’ergastolo per il delitto: sono innocente, ecco il mio memoriale. Gabriele Moroni il 5 settembre 2019 su Il Giorno. Ha iniziato a scrivere nell’ottobre dello scorso anno, nel carcere di Bergamo, all’indomani del pronunciamento della Cassazione che aveva reso definitiva la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Ha proseguito dopo il trasferimento a Bollate, lo scorso maggio. Massimo Bossetti scrive ogni giorno, per più ore giorno, riempiendo con la sua scrittura, spesso a stampatello, decine e decine di fogli protocollo. E’ un memoriale, che parte dal giorno dell’arresto, il 14 giugno del 2014, mentre era al lavoro in un cantiere a Seriate, con frequenti flash-back agli anni felici che il muratore aveva vissuto nella casa di Mapello, accanto alla moglie Marita e ai tre figli. L'intenzione è quella di farne un libro, anzi un libro scritto con il suo storico difensore, l’avvocato Claudio Salvagni. «L’idea - dice Salvagni - è quella di un libro a quattro mani, alternandoci un capitolo io e uno Massimo. In quello che ha scritto finora Massimo ha messo non solo i fatti, ma anche i suoi sentimenti, le sue emozioni, le speranze deluse, la rabbia che prova, da innocente. Da parte mia sarà il racconto di una battaglia che, nelle fasi iniziali, non era neppure lontanamente prevedibile. Si è rivelata come qualcosa di immenso, una battaglia contro il sistema che si è chiuso a riccio e non ha consentito di esercitare appieno la difesa. Ma non sarà una riproposizione di atti giudiziarie di ricorsi. Nel libro ci sarà anche la mia storia personale, ci saranno le mie emozioni private, intime, per quello che è stato un lavoro incredibile e nello stesso tempo una grande esperienza umana». Il penalista si rivolge al mondo dell’editoria: «Per la casa editrice che decidesse di pubblicare il libro sarebbe una scelta di civiltà e non solo una scelta editoriale». Massimo Bossetti ha indirizzato una lunga (sette facciate) lettera a Marco Oliva, conduttore di ‘Iceberg’ sull’emittente Telelombardia, firmata ‘Massimo Bossetti, prigioniero di Stato’. «Voglio - è una delle frasi - fare un appello pubblico a chi di dovere, a chi custodisce i reperti del mio caso: chiedo che venga garantita la massima custodia e conservazione, che non vengano distrutti come accaduto in altri casi, affinché un domani la mia difesa possa fare un’ulteriore accurata indagine. Il timore che possano andare irrimediabilmente distrutti è alto, basti vedere quanto è avvenuto nel caso di Rosa e Olindo (i coniugi Romano, condannati al carcere a vita per la strage di Erba)». «Lo ripeto e lo ribadirò finché ne avrò le forze, non sono io la persona che ha ucciso la piccola Yara, non ho minimamente idea di cosa potrebbe essere successo». Il detenuto, l’ergastolano, il bandito che scrivono. Altri come Bossetti. In scena nella Milano violenta negli anni Settanta, Vincenzo Andraous ha scoperto nei “braccetti” del carcere di Voghera una vocazione di delicato poeta. Poi l’impegno di saggista, la fede, il volontariato. Si sono raccontati nei libri Luciano De Maria (rapina di via Osoppo a Milano), Angelo Epaminonda il Tebano, Saverio Morabito, pentito di ‘ndrangheta. Esordì nella letteratura nel 1963 con “La traduzione”. Silvano Ceccherini, livornese, basava quel crudo romanzo sulla sua vita di vagabondo, anarchico, rapinatore. Famoso il caso di Caryl Chessman. Condannato alla camera a gas nello Stato della California per rapina, sequestro di persona e violenza sessuale, riuscì a rinviare l’esecuzione per otto volte in dodici anni. Scrisse quattro libri di successo prima di essere giustiziato, il 2 maggio 1960.

"Sono un prigioniero dello Stato": Bossetti, libro bomba in cui urla la sua innocenza. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 6 Settembre 2019. Massimo Bossetti sta scrivendo un memoriale (un libro in cerca di editore, in pratica) sin dal giorno in cui la Cassazione l' ha condannato all' ergastolo per l' omicidio di Yara Gambirasio nel bergamasco, a Brembate di Sopra. Ci lavora da Bollate, dov' è rinchiuso. Ed è normale, i condannati lo fanno spesso per dimostrare di essere innocenti a dispetto dell' esito processuale: ma nel suo caso - forse anche perché è scritto a quattro mani col suo avvocato, Claudio Salvagni - forse nel libro potremo leggere anche un esercizio di difesa che in parecchi, a parte i giudici e qualche colpevolista televisivo, hanno avuto l'impressione che non sia stato esercitato appieno. Oltre a materiale da ricorso, ci saranno le sue emozioni private e un appello affinché il materiale probatorio del suo processo sia ben custodito, questo in vista di una possibile revisione giudiziaria e come, per esempio, non è accaduto - scrive Bossetti - nel caso di Rosa e Olindo, ergastolani per la strage di Erba. Insomma: che a margine di uno degli omicidi più mediaticamente coperti che si ricordino - il caso Yara - debba ricorrersi a un libro per apprendere chiaramente la posizione di Bossetti, in definitiva, non corrisponde per niente a una battuta e pare semmai emblematico. Di che cosa? Anzitutto del fatto che in Italia l' espressione giuridica «in dubio pro reo» (nel dubbio, giudica in favore dell' imputato») si applica solo a processi lontani dai riflettori. È sempre più forte l' impressione che ci sia una relazione quasi matematica tra la celebrità di un caso giudiziario e lo sforzo profuso per risolverlo: nel caso di Yara Gambirasio, però, forse si è toccato l' acme.  Giornali e televisioni ne fecero un caso talmente percussivo da spingere le Forze dell' ordine a un dispendio di mezzi che senza la pressione dell' opinione pubblica, forse, avremmo continuato a vedere solo nei telefilm: battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, intercettazioni, rilevazioni satellitari, georadar, sensitivi, testimoni fatti tornare dal Centro America, 18mila campioni di Dna prelevati, e una spesa - pare - attorno ai tre milioni di euro. Prima ancora che valutazioni giuridiche, cioè, il caso Bossetti - o Yara - evidenzia una clamorosa disparità di trattamento rispetto ad altri casi, ma, soprattutto, ufficializza che le indagini e i processi di grande impatto mediatico hanno una celebrazione più rapida. D' un tratto sparisce la cronica lentezza della giustizia italiana: i casi Yara (o Cogne, o Boettcher) filano via come lippe e si concludono sempre con pene molto alte, come si dice: esemplari.

L'ergastolo - Nel caso di Bossetti, l' ergastolo è stato confermato a margine di un processo che più indiziario non si può, ergo: senza delle prove propriamente dette. Ci fu l' arresto e il frettoloso proscioglimento di un primo sospettato, poi le strane circostanze del ritrovamento del corpo (l' ha trovato un tizio a caso, dopo mesi di affannose ricerche dei carabinieri) e ci fu una pressione popolare fuori dalle righe. Nel giorno del funerale di Yara, fu letto un messaggio del presidente della Repubblica mentre tuttologi come Roberto Saviano ritennero di dover suggerire piste camorristiche, ovviamente infondate. Poi, a tre anni dall' omicidio, eccoti spuntare Massimo Giuseppe Bossetti, un muratore di Mapello (incensurato) a cui gli inquirenti arrivarono per esclusione di tanti altri e per sovrapponibilità del suo Dna con quello rinvenuto sugli indumenti intimi di Yara: e qui si entra nel mondo complicatissimo delle perizie genetiche. Poi ci fu che alcune telecamere di sorveglianza avevano filmato il furgone di Bossetti nella strada in cui Yara frequentava una palestra, o così pare. Sulle prove genetiche non proviamo neppure a pronunciarci: basti che furono contestatissime e che la procura rifiutò di ripeterle, sicché il processo dovette attenersi solo agli accertamenti parziali dell' accusa. Anche la faccenda del furgone con cui Bossetti avrebbe adescato Yara: a molti parve un caricamento improbabile e immotivato dopo il quale, oltretutto, lui avrebbe guidato per una decina di chilometri senza che lei, intanto, riuscisse a ribellarsi o provasse a fuggire. Comunque Bossetti è stato condannato con l' aggravante della crudeltà e la revoca della potestà sui tre figli. La Cassazione ha parlato di «evidenza scientifica» e di «prova piena». Resta la libertà di pensare che qualsiasi tribunale anglosassone l' avrebbe assolto per mancanza di prove o, forse, più probabilmente, non sarebbe neppure arrivato a un processo. Perché poi i processi bisogna concluderli: presto e male, in questo caso. Intanto Bossetti scrive. Ne ha tutto il tempo. Filippo Facci

Massimo Bossetti. Omicidio Yara, riapertura caso? Dna e nuovi elementi (Quarto Grado). Il caso sul delitto di Yara Gambirasio potrebbe essere riaperto. La difesa di Massimo Bossetti afferma di avere elementi sufficienti, le novità stasera a Quarto Grado, scrive il 22.03.2019 Emanuela Longo su Il Sussidiario. Il caso sull’omicidio di Yara Gambirasio, nonostante tre gradi di giudizio abbiano indicato in Massimo Bossetti il suo assassino, potrebbe non essersi ancora del tutto concluso. La trasmissione Quarto Grado torna anche questa sera a porre l’attenzione su uno dei delitti tra i più mediatici della storia, quello della 13enne di Brembate, promessa stella della ginnastica artistica, uccisa il 26 novembre 2010. Per quell’omicidio, il carpentiere di Mapello, Massimo Bossetti, è stato condannato in via definitiva alla pena dell’ergastolo ma sin dal giorno del suo arresto non ha mai smesso di ribadire la sua totale estraneità rispetto alle accuse che gli sono state mosse. Bossetti tuttavia è sempre stato il solo indagato per l’uccisione della giovane Yara e soprattutto ad incastrarlo è stata quella prova regina tanto contestata dalla sua difesa, ovvero il Dna. Dopo cinque mesi dalla sentenza emessa dai giudici della Cassazione, però, potrebbe ora giungere un clamoroso colpo di scena che farebbe riaprire nuovamente l’intero caso. La difesa di Bossetti ritiene infatti di avere tra le mani elementi sufficienti per capovolgere le carte in tavola e, forse, riuscire dopo anni di tentativi a scagionare il proprio assistito dalle pesanti accuse di fronte alle quali i giudici di ben tre gradi di giudizio non hanno mai avuto alcun dubbio circa la colpevolezza del solo imputato.

MASSIMO BOSSETTI, REVISIONE PROCESSO? A sperare in una svolta che potrebbe essere rappresentata dalla riapertura del processo ora è anche Massimo Bossetti. La sua difesa non ha mai smesso di credere nella sua innocenza e lo dimostra il duro lavoro mai cessato anche dopo l’ennesima condanna all’ergastolo che lo ha bollato a tutti gli effetti ed “al di là di ogni ragionevole dubbio” come l’assassino di Yara Gambirasio. “Per un processo di revisione serve qualcosa di forte, fortissimo. Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle”, sono state le parole pronunciate di recente da Ezio Denti, uno dei consulenti tecnici che fa parte del team difensivo di Bossetti, intervenendo a Radio Cusano Campus. Denti ha confermato di non essersi mai fermato anche di fronte alle dure sentenze nei confronti del carpentiere di Mapello ma di essere ora pronto a ridare battaglia.

OMICIDIO YARA GAMBIRASIO: LA QUESTIONE DEL DNA. Su cosa si baserà la difesa di Massimo Bossetti nel richiedere la revisione del processo resta ancora un mistero. Ciò che trapela però, stando alle parole di Denti, è che “l’errore di questo processo è all’inizio. C’è un errore che si son portati fino alla fine”. Il riferimento è forse al Dna che ha portato ad incastrare il carpentiere? Il consulente ha aggiunto che nel revisionare le carte sono trapelate “delle anomalie che potrebbero portare a riaprire il caso. Ci servono elementi forti e concreti, li stiamo classificando uno ad  uno e credo che questa possibilità possa esserci”. Al centro dell’attenzione della difesa, non solo le questioni scientifiche più volte ribadite, ma anche “attività di soggetti interessanti”. La difesa in passato aveva lanciato un appello ai cittadini di Brembate chiedendo loro di farsi avanti se avessero saputo qualcosa di importante. “Abbiamo quindi ricevuto diverse informazioni che sono interessanti”, ha confermato ora il consulente. Tornando invece all’annosa questione del Dna e al mancato accoglimento della richiesta di poter eseguire una nuova perizia, sarebbe emersa una tesi discordante in merito alle quantità di Dna rinvenuto sugli abiti di Yara Gambirasio. Se nell’interrogatorio in carcere gli inquirenti ammisero che il Dna era tanto, al punto da poter riempire un flacone, differente fu quanto sostenuto in seguito dal Procuratore del Tribunale di Bergamo, Eugenio Meroni, che invece ritenne l’esigua quantità del Dna, tale da non poter permettere di poter ripetere il test. 

Massimo Bossetti, "possibile la revisione del processo". Yara Gambirasio, svolta clamorosa? Scrive il 15 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il processo contro Massimo Bossetti, condannato per l'omicidio della 13enneYara Gambirasio, potrebbe riaprirsi clamorosamente. "Per un processo di revisione serve qualcosa di forte, fortissimo. Non posso entrare nei dettagli ma crediamo di avere elementi sufficientemente forti per poter riaprire il caso, ne sono più che convinto. Mi mancano ancora dei tasselli importanti ma se riuscirò ad incastrarli allora ne vedremo delle belle". Lo ha rivelato Ezio Denti, uno dei consulenti tecnici della difesa del carpentiere di Mapello, comune della Bergamasca, condannato in via definitiva all'ergastolo. Intervenuto ai microfoni della trasmissione L'Italia s'è Desta in onda su Radio Cusano Campus, ha spiegato: "Non mi sono mai fermato. Abbiamo ricominciato da capo. Il tempo ci darà ragione". "L'errore di questo processo è all'inizio. C'è un errore che si son portati fino alla fine". Ecco perché "nel revisionare le carte ci sono delle anomalie che potrebbero portare a riaprire il caso. Ci servono elementi forti e concreti, li stiamo classificando uno ad uno e credo che questa possibilità possa esserci. Al di là delle questioni scientifiche, comunque centrali, ci stiamo concentrando sulle attività di soggetti interessanti. Noi avevamo fatto un appello ai cittadini di Brembate per chiedere loro di farsi avanti se sapevano qualcosa. Abbiamo quindi ricevuto diverse informazioni che sono interessanti".

L’ultra petitum della sentenza Bossetti: la Cassazione e il “contenitore mediatico”, scrive il 22 Febbraio 2019 Giulio Vasaturo su articolo21.org. Con la sentenza n. 52872 del 23 novembre 2018 (udienza 12 ottobre 2018), la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha definitivamente stabilito la verità (giudiziaria) sul brutale omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, avvenuto a Chignolo d’Isola, in provincia di Bergamo, il 26 novembre del 2010. Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, è stato riconosciuto come il responsabile dell’atroce delitto, commesso con efferate sevizie e crudeltà, e per questo destinato all’ergastolo. Le argomentazioni con cui la Suprema Corte ha confutato, uno ad uno, i rilievi difensivi, volti ad insinuare un “ragionevole dubbio” circa la colpevolezza dell’imputato, appaiono insuperabili, sia sotto il profilo logico che squisitamente giuridico. Colpisce, però, nel tessuto motivazionale della decisione, l’approccio a dir poco inusuale con cui il giudice di legittimità si è soffermato, a tratti in maniera sferzante, nel vagliare le deduzioni del ricorrente. Il sommo Collegio lascia trasparire la volontà di respingere non solo le «pseudo-valutazioni tecniche che sono estranee alle argomentazioni sviluppate dagli esperti (anche della difesa)», in quanto «frutto» – secondo il lapidario giudizio della Corte – «della scienza privata del difensore» (punto 13.1), ma anche ed a tratti – viene da dire – soprattutto, quelle congetture che negli anni si sono rincorse nei salotti televisivi ove si è celebrato, contestualmente, il “processo mediatico”. A fronte della preliminare declaratoria di inammissibilità del ricorso, la meticolosa ponderazione con cui la Corte ha demolito l’intero costrutto difensivo viene fatta discendere, per espressa ammissione degli stessi giudici, dall’esigenza non secondaria di replicare alle semplificazioni diffuse dai talk show serali. Vi sono alcuni passaggi della pronuncia in esame in cui viene ad infrangersi apertamente, per la prima volta, la regola aurea della giurisdizione penale che vuole che lo ius dicere appaia, almeno nella forma, impermeabile rispetto a quel che viene detto al di là ed al di fuori delle aule di giustizia (quod non est in actis non est in mundo). Nel contestare le asserzioni con cui la difesa, con «sorda ostinazione» (punto 2 della sentenza), ha tentato di ribaltare la duplice e conforme condanna di merito, con particolare riguardo al nodo centrale della validità scientifica e processuale della prova del DNA, la Corte di Cassazione, da un lato, ribadisce l’irricevibilità di simili eccezioni nel giudizio di legittimità ma, dall’altro, si dichiara ben «consapevole delle reiterate mistificazioni di cui è stato alimentato il dibattito tecnico e pubblico sulla vicenda» (punto 7) per cui ritiene di dover comunque valicare i limiti del sindacato giurisdizionale, strettamente imposti dal devoluto. Attraverso il consapevole ricorso all’ultra petitum, il giudice di nomofilachia vuol tacitare così, insieme alla perorazione difensiva «spesso caotica e sempre ripetitiva e priva di una effettiva autocritica» (punto 1.1), ogni ulteriore illazione ripresa dai social, dai giornali, dalle tv. La Cassazione procede con intransigente severità critica, «tenuto conto dei reiterati tentativi di mistificazione degli elementi di fatto che caratterizzano numerose censure contenute nel ricorso, amplificate – ed è questa la sottolineatura più emblematica – da improprie pubbliche sintetizzazioni» (punto 12). Eloquente è ad esempio l’inciso con cui la Corte rileva, «visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extraprocessuale», che «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del DNA dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica» (punto 16.5.4 della sentenza). L’intento esplicito del Collegio è quello di mostrare la «strumentalità» delle tesi difensive, «non infrequentemente esposte anche al di fuori del contenitore processuale» (punto 16.5); vale a dire in quel tanto vituperato “contenitore mediatico” a cui i giudici di Cassazione lasciano clamorosamente intendere di aver guardato, per l’intero corso del dibattimento, con estrema attenzione e con cui, al termine della vicenda giudiziaria, si confrontano apertamente per esplicare le ragioni (indubbiamente persuasive) che impongono la condanna del reo. Dal punto di vista comunicativo, la sentenza Bossetti costituisce un unicum giurisprudenziale e non tarderà a richiamare l’attenzione, oltre che dei giuristi, di quanti studiano l’impatto dei media nel processo penale e, più in generale, nella società del nostro tempo.

Bossetti dal carcere: “Mi hanno offerto benefici in cambio di una confessione”, scrive Bergamo News il 31 gennaio 2019. Le parole di Massimo Bossetti in una lunga lettera inviata a Marco Oliva, conduttore della trasmissione di Telelombardia "Iceberg Lombardia" che giovedì sera ne trasmetterà la versione integrale. Massimo Bossetti torna a parlare. Lo fa dal carcere di Bergamo, con una lunga lettera indirizzata a Marco Oliva, conduttore della trasmissione “Iceberg Lombardia”, in onda su Telelombardia: nella puntata di giovedì sera, a partire dalle 20.30, verrà diffusa la versione integrale di cui vi proponiamo qui di seguito uno stralcio. “Avrei potuto usufruire di benefici se mi fossi proclamato colpevole, molte volte mi sono state fatte delle proposte dalle persone che hanno indagato, ma il sottoscritto ha sempre declinato. Ho sempre declinato la proposta di confessare perché come padre devo poter guardare negli occhi i miei figli. Qualcuno si è mai chiesto cosa hanno subito e cosa continuano a subire i miei famigliari? Non credo. Sono quattro anni e sette mesi che sono detenuto e che chiedo un test del dna che sgombri ogni dubbio. Nei tribunali ho sentito solo ipotesi senza che siano state portate prove serie, granitiche e concrete. Questo non danneggia solo me e la mia famiglia, ma non rende giustizia neanche alla povera Yara. Continuo a ripetere e griderò no a quando avrò forze che non sono io la persona che ha ucciso Yara e se qualcuno pensa che io nasconda altre persone si sbaglia. Sono stati spesi milioni di euro e bisognava trovare un capro espiatorio, ma si è tralasciato di cercare altre piste che avrebbero portato la reale verità e non una verità costruita mediaticamente. Io sono padre di tre gli, di cui due bambine. Se fosse stata coinvolta in una vicenda simile una delle mie figlie io non mi sarei dato pace. Aspetto con pazienza perché sono certo che prima o poi la verità salterà fuori. Massimo Bossetti, Prigioniero di Stato”.

L'avvocato di Bossetti: "Cerchiamo un uomo misterioso". Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, non si arrende e di fatto apre nuovi scenari sul delitto, scrive Luca Romano, Venerdì 25/01/2019, su "Il Giornale".  Il legale, secondo quanto riporta Como News 24 avrebbe affermato di aver ricevuto un dossier da una persona vicina a lui che potrebbe di fatto riscrivere la storia del processo. Una pista alternativa a quella che ha portato in carcere con condanna all'ergastolo il muratore di Mapello, Massimo Bossetti: "Cerchiamo un uomo misterioso la cui posizione va valutata attentamente", ha affermato in una intervista a Telelombardia. Una nuova ipotesi investigativa dunque su cui si sta concentrando il legale di Bossetti. Di fatto l'avvocato non ha accettato la sentenza della Cassazione che ha condannato il muratore di Mapello al carcere a vita. Subito dopo il verdetto dei giudici aveva detto: "Riteniamo questa sentenza in violazione della convenzione dei diritti dell’uomo perché non è stato rispettato il diritto di difesa. Ricorreremo a Strasburgo. Le sentenze della Suprema Corte di Cassazione non sono distillati di verità, anche loro sbagliano. Sono umani, ma la scienza è scienza: una cellula senza Dna mitocondriale non esiste. Bossetti non si è potuto difendere perché non ha mai partecipato a nessuna perizia. Io gli atti di fede li faccio in chiesa. Io non mi fido e voglio partecipare alle perizie, non mi interessa dei risultati". Adesso per il legale si apre una nuova strada investigativa da seguire.

La genetica non ha dato scampo a Bossetti, scrive LF, Martedì 22/01/2019, su "Il Giornale". Una possibilità su 3.700 miliardi di miliardi di miliardi: a questa cifra quasi impronunciabile ammontano secondo la Cassazione le possibilità che il Dna trovato sui leggins e sugli slip di Yara Gambirasio non sia quello di Massimo Bossetti, il muratore che per l'omicidio della ragazzina (26 novembre 2010) è stato condannato all'ergastolo. Tanti indizi, contro di lui, ma una sola prova: il Dna. Tanto da fare del «caso Yara» un caso di scuola, studiato in tutto il mondo per l'applicazione delle analisi genetiche al diritto penale: approdando a quello che la Cassazione definisce «un processo dominato dal sapere scientifico». Nelle 155 pagine della sentenza che il 12 ottobre scorso ha reso definitiva la condanna di Bossetti, il peso del Dna grava come un macigno su due passaggi chiave delle accuse contro il muratore di Mapello. Il primo riguarda il percorso dell'inchiesta, ed è importante perché garantisce che ad accusare Bossetti si è arrivati seguendo una traccia precisa: l'identificazione certa di «Ignoto 1», il titolare del Dna trovato sui resti della ragazzina, come figlio illegittimo di Ester Azzuffi e Giuseppe Guerinoni: la prima analisi dà una compatibilità al 99,87 per cento, quando poi dal bollo di una vecchia patente si estrae il vero Dna di Guerinoni (morto da tempo) la compatibilità sale al 99,9999929%; quando si esuma Guerinoni, si arriva al 99,99999987%. Da quel momento il cerchio di stringe progressivamente, dall'indizio più vago fornito dal Dna - l'assassino ha gli occhi azzurri - fino ad incastrare Bossetti. Se - come ricorda la sentenza - in astratto la possibilità di due individui con lo stesso Dna è di 1 su 20 miliardi, nel caso concreto, incrociando i dati sui genotipi dei 36.500 campioni genetici in mano al Ris di Parma, la percentuale di errori scende a ridosso dello zero assoluto: 10 alla meno trentunesima. Quella possibilità su 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di cui parla la sentenza. Certo, esiste in astratto l'ipotesi che qualcuno abbia ricostruito in laboratorio il Dna di Bossetti e lo abbia sparso sui resti di Yara: «Idea priva di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà».

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Anticipazione stampa da OGGI il 15 luglio 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, annuncia le nuove mosse della difesa di Massimo Bossetti, condannato all’ergastolo per la morte di Yara Gambirasio: un ricorso in Cassazione, una denuncia penale per «rifiuto di atti d’ufficio» nei confronti del Ris di Parma e un’istanza al ministro di Grazia e Giustizia, Alfonso Bonafede, perché disponga una ispezione nel tribunale di Bergamo. Il ricorso in Cassazione è per sbloccare il provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione, Giovanni Petillo, il 15 gennaio scorso ha messo sotto confisca i reperti dell’inchiesta sull’omicidio di Yara. La denuncia del Ris di Parma e del suo comandante, il colonnello Giampietro Lago è perché, malgrado l’autorizzazione firmata a fine novembre 2019 dal giudice Petillo, hanno «rifiutato, confermando peraltro l’atteggiamento ostile serbato durante l’intero procedimento/processo, il rilascio di quanto richiesto ed autorizzato dall’Autorità giudiziaria».

«Chi ha paura di riaprire il caso Bossetti?» I legali chiedono le analisi sui reperti: “Qualcuno sa di aver sbagliato e non vuole ammettere l’errore”. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 giugno 2020. Perché non si concede alla difesa di Massimo Bossetti la possibilità di effettuare per la prima volta le analisi sui reperti? L’uomo è stato condannato all’ergastolo in via definitiva per la morte di Yara Gambirasio. Ma la legge consente di rivedere i provvedimenti, anche se irrevocabili, in presenza di nuove evidenze. Bossetti dal carcere di Bollate continua a professarsi innocente. E a sostenerlo ci sono i suoi difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini che non smettono di criticare lo svolgimento del processo, caratterizzato da una formazione della prova al di fuori di ogni contraddittorio, in violazione dell’articolo 111 Cost. e di tutte le norme processuali ad esso ispirate: «Durante tutti i processi – ci dice Salvagni – non abbiamo mai neppure potuto vedere questi reperti, il nostro è stato un forzato atto di fede verso il lavoro degli inquirenti. Non è accettabile che la difesa non veda e non analizzi quella che viene dichiarata essere per tutti la prova regina. Si tratta a nostro parere di una violazione del diritto di difesa». E Camporini aggiunge: «I genetisti che abbiamo consultato ci hanno detto che a dieci anni dagli eventi le tecniche di analisi si sono evolute e noi crediamo che analizzando oggi quei reperti potremmo avere quelle risposte alle numerose anomalie accertate che le stesse sentenze hanno ammesso di non essere riuscite a dare, si pensi ad esempio al dato escludente del dna mitocondriale». In vista di una possibile revisione del processo, i due legali il 26 novembre 2019 hanno presentato una istanza alla Corte di Assise di Bergamo per avere accesso ai reperti. Riportiamo una cronologia dei fatti alquanto strana ed ondivaga. Il 27 novembre il giudice ha accolto la richiesta con un provvedimento sintetico, prosegue Salvagni: «” Visto, si autorizza tutto”; nessuno impugna e la decisione si stabilizza. Il 2 dicembre il presidente della Corte indirizza all’Ufficio Corpi di Reato un provvedimento in cui dichiara che l’autorizzazione concessa deve riferirsi alla ricognizione dei reperti, ossia alla mera osservazione». Il 9 dicembre i due legali avanzano un’altra istanza in cui chiedono in che modalità sarà concesso loro di effettuare l’osservazione dei reperti. Il 15 gennaio 2020 la Corte, a seguito di una richiesta del Pm, con cui chiedeva che fine faranno quei reperti, dispone la confisca degli stessi e la loro conservazione. Gli avvocati a quel punto hanno accesso all’elenco delle prove e, come precisa Camporini, «rispetto a quanto riportato nelle sentenze, che avevano negato ogni ulteriore accertamento per l’esaurimento del materiale probatorio, sono invece comparsi 54 campioni di Dna; inoltre mancano molti reperti presenti invece negli atti processuali, come ad esempio i guanti di Yara trovati nella tasca del giubbino sui quali erano state rinvenute tracce genetiche non appartenenti a Massimo Bossetti, i margini ungueali della vittima, sim, batteria, chiavi, portachiavi, lettore mp3, braccialetto, mancano moltissimi campioni relativi ai prelievi durante l’autopsia, molti campioni di formazioni pilifere, etc.». Inoltre, aggiunge Camporini, zabbiamo chiesto al Ris e alla Polizia Scientifica di fornirci le caratterizzazioni genetiche effettuate e il cd con le foto scattate ai reperti e, nonostante il giudice abbia concesso l’autorizzazione senza condizioni, loro si sono rifiutati. Perché, come in corso di processo, questo ostinato ostruzionismo di fronte a un possibile confronto in contraddittorio? Ci hanno accusato di essere diffidenti e sospettosi, ma ogni giorno le perplessità aumentano». Dopo il 15 gennaio i legali presentano altre due istanze, non avendo ricevuta alcuna risposta a quella del 9 dicembre, e incredibilmente la stessa Corte, che a fine novembre li aveva autorizzati, il 26 maggio fa un altro provvedimento in cui dichiara inammissibile la loro richiesta. «Abbiamo presentato ricorso in Cassazione» ci dice Salvagni perché «si tratta di una pervicace negazione dei diritti di Massimo Bossetti. Due anni fa parlai proprio da queste pagine di errore giudiziario ma oggi credo che qualcuno sa di aver sbagliato e non vuole ammettere l’errore. Se venisse fuori che lo Stato italiano ha tenuto per oltre 6 anni un innocente in carcere a partire da un dato scientifico sbagliato, sarebbe una vergogna a livello mondiale».

Caso Yara, Massimo Bossetti e le mail con Giovanni Terzi: "Pronto a morire per dimostrare la mia innocenza". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano l'8 giugno 2020. In questo periodo di quarantena ho scambiato mail e lettere con Massimo Bossetti, colui che secondo la legge e per ben tre gradi di giudizio, si è macchiato del terribile omicidio della povera Yara Gambirasio il 26 novembre del 2010. Avrei voluto che questa intervista, fatta attraverso uno scambio epistolare, rimanesse nell'alveo di un patrimonio mio di conoscenza personale, ma alla luce dei nuovi accadimenti processuali non posso più permettermi di tenerla riservata. Chi mi segue sa che ho sempre nutrito grandi perplessità sulla colpevolezza di Bossetti. Oggi non voglio soffermarmi su questo ma su un semplice principio giuridico che prevede all'imputato di poter esaminare e verificare le prove che l'accusa ha trovato contro di lui. Un principio giuridico sacrosanto che potrebbe riguardare ognuno di noi nel caso andassimo sotto processo e l'accusa non ci permettesse di verificare le prove trovate contro di noi. Un principio talmente semplice che sembra pleonastico doverlo spiegare. In questo caso si tratta della prova regina del Dna che a novembre del 2019 la Procura di Bergamo aveva consentito di replicare e che, improvvisamente, a maggio del 2020 ha negato. Tre sono state le conversazioni epistolari con Bossetti. Una datata il 25 marzo, una il 2 aprile ed una il 5 giugno. Le prime due erano speranzose di poter dimostrare che il Dna trovato sul corpo della piccola Yara non era il suo; nella terza c'è lo sgomento per, ancora una volta, la negazione di questa opportunità.

I FAMILIARI. «Bisogna trovare a tutti i costi la forza nel resistere e cercare di preservare quella poca dignità che ancora mi è rimasta e non mi è stata rubata». Perché resiste Signor Bossetti? A questa domanda il muratore di Mapello risponde scrivendo «fondamentalmente per i miei cari familiari che non hanno mai smesso di credere in me, per tutte le persone che mi stanno accanto e che mi vogliono bene e soprattutto perché dimostrare la mia innocenza è diventata fonte della mia ragione di vita». Ma Massimo Giuseppe Bossetti aggiunge un'altra frase: «Una persona innocente deve essere disposta a tutto, anche a morire, se dovrà essere necessario farlo... signor Terzi, che voglia crederci o no, la mia colpa è quella di essere innocente e il vero problema è di essere un cittadino assalito da un terribile errore giudiziario». Bossetti continua scrivendo, il 25 marzo, che «è molto difficile poter ammettere la realtà dei fatti con una semplice e banalissima ripetizione di un dato non graniticamente accertato al 100%. Signor Terzi, mi permetto di fare un paio di domande: secondo lei è questa la Giustizia Italiana che ogni cittadino italiano vorrebbe nell'essere sempre e più protetto e tutelato? È questa la Giustizia che calpesta ogni diritto di difesa offrendo benefici soltanto se mi dichiaravo colpevole? Come si può accettare ogni forma di benefici non avendo commesso il fatto? Quando riuscirete a rispondermi a queste domande capirete quanto di disumano ho subito e continuo purtroppo a dover subire». Alla lettera di Massimo Bossetti ho risposto con una mail dove facevo altre domande riferite al momento storico che stava vivendo, l'isolamento nelle carceri a causa del Covid. Una domanda era sull'ultimo libro che aveva letto. «Il segreto della libertà e del successo di Napoleon Hill. Questo libro è carico di suggestioni e può dare una mano per uscire dalla inerzia e dalla negatività per poter intraprendere la via di un futuro più roseo, migliore e molto più gratificante».

L'INTERVISTA. Il libro scritto nel 1938 da Napoleon Hill è pensato come un'intervista tra lo stesso Hill ed il diavolo che viene chiamato Sua Maestà, quest' opera mostra come superare gli ostacoli che si incontrano nella propria vita e suggerisce come raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge. Bossetti mi scrive: «In realtà a parte la cultura, in questo momento, mi piacerebbe poter scrivere una mail al mondo. Perché proprio al mondo mi chiederà lei dottor Terzi? Per chiedere che ci fosse meno cattiveria e meno disumanità nel genere umano e avere più comprensione e più cuore per le ingiustizie che ci vengono inflitte senza concentrarsi sul perché tutto questo debba avvenire». Come si sente in questo momento? «Signor Terzi sono avvolto all'inferno; sono disperato perché mi manca tutto l'amore di chi fuori mi vuole bene e mi chiedo quando smetterò di soffrire così tanto e soprattutto quando riuscirò di smettere di vedere trasparire dagli occhi dei miei figli tanta ingiusta sofferenza. Sono certo che riuscirò a dimostrare la mia più totale estraneità, ma non so quando». Il 5 giugno mi arriva un'altra mail da parte di Massimo Bossetti. È di qualche giorno prima la notizia in cui la Corte d'Assise di Bergamo aveva risposto negativamente alla revisione da parte della difesa del Dna dopo che la stessa Corte a Novembre aveva acconsentito. «...nessuno può capire davvero quanto sia dura sia fisicamente che psicologicamente. Ogni ora è un giorno ed ogni giorno è una settimana e la sofferenza si abbatte giorno e notte nello status di detenuto, aggravato ancor di più da una accusa infamante quale l'omicidio di una povera bambina».  

LO SFOGO. «Speravo che andando avanti le cose prendessero una giusta via avendo la Corte di Bergamo ufficialmente autorizzato i miei legali a visionare i reperti. Invece a sette mesi di distanza quella via che sembrava spianata è diventata faticosa e piena di ostacoli ... Una persona normale dovrebbe chiedersi come mai non viene autorizzata la ripetizione da parte della difesa dei reperti da me implorata da sei anni. Non so più a chi ed in che modo io mi debba rivolgere per essere ascoltato e capito... Anche se un magistrato mi avrà tolto la libertà di movimento, comunque sia, non potrà mai togliermi la libertà che sta nelle mie ragioni e convinzioni nell'essere innocente. Forse verrò abbandonato da tutti ma non da Dio, con Lui troverò sempre le forze nel lottare giorno dopo giorno a questo crudele massacro giudiziario fino al mio ultimo battito respiro di vita». Così si conclude lo scambio epistolare tra Massimo Bossetti e me. Una domanda, a questo punto, appare evidente: perché non dare la possibilità alla difesa (peraltro già accordata) di analizzare i reperti per il DNA visto che è stata acclarata la loro esistenza?

Anticipazione da “Oggi” il 29 gennaio 2020. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica in esclusiva il documento in quattro pagine firmate dal presidente della Corte d’Assise Giovanni Petillo che riporta l’elenco di 98 reperti dell’inchiesta sull’omicidio di Yara confiscati perché non vengano distrutti, né restituiti (ai familiari della vittima e di Bossetti). Viene ufficializzato che ci sono, ancora utilizzabili, ben 54 campioni di Dna di Ignoto 1 in provetta. Una novità importante che smentisce clamorosamente quanto scritto nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Brescia: «Quello che è certo, in ogni caso, è che non vi sono più campioni di materiale genetico in misura idonea a consentire nuove amplificazioni e tipizzazioni».

Anticipazione da “Oggi” il 29 gennaio 2020. Claudio Salvagni, uno difensori di Bossetti, rivela a OGGI le possibili conseguenze dell’atto che conferma l’esistenza di materiale genetico di Ignoto 1, su cui è possibile effettuare raffronti: «Se il Dna c’era ancora ed era a disposizione in notevole quantità, come è possibile che il presidente della Corte d’Assise di Brescia, Enrico Fischetti, abbia scritto nella sentenza d’Appello il 17 luglio 2017 che “il materiale genetico è esaurito”? Quali verifiche erano state fatte?». E prosegue: «Anche la Corte di Cassazione ha fatto sue le conclusioni dei giudici di Brescia definendo “ininfluente” la possibilità che il Dna esistesse ancora. Oggi il presidente Petillo ha emesso un decreto e ci ha consegnato un documento che, da solo, è sufficiente per chiedere la revisione del processo. Dimostra infatti che in una sentenza passata in giudicato la Suprema Corte ha scritto il contrario della verità». Conclude il legale: «Voglio credere che i reperti siano conservati in modo adeguato perché sono certo che Ignoto 1 non sia Bossetti e che la nuova perizia dirà un’altra verità. Ma se confermasse che gli inquirenti non hanno sbagliato almeno Bossetti sconterà l’ergastolo dopo aver avuto un giusto processo e la possibilità di difendersi».

Delitto Yara, dai verbali secretati di Bossetti nuovi possibili scenari. Libero Quotidiano il 09 marzo 2020. Difficile non pensare che oggi Yara Gambirasio sarebbe una splendida giovane ragazza di ventitré anni se, quella maledetta sera del 26 novembre del 2010, non avesse incontrato la furia omicida di una persona. Per la legge italiana, con una sentenza passata in giudicato, quella persona che spezzò le ali della speranza di Yara Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, che dal 16 giugno 2014 è rinchiuso in carcere; prima in attesa di giudizio, poi dal 13 ottobre del 2018 in via definitiva. Tutto parrebbe davvero concluso se, ad alcuni dubbi mai fugati non si aggiungessero i verbali degli interrogatori durante il processo di primo grado che sono stati resi pubblici solo dopo la sentenza della Cassazione in quanto prima erano stati segretari. Lo scrive Giovanni Terzi sul Tempo in edicola martedì 9 marzo. Il tema è quello relativo al Dna, riferibile ad Ignoto 1 e trovato sul corpo della povera Yara. In questi mesi la corte d'assise d'Appello di Bergamo ha consentito alla difesa di visionare per la prima volta i reperti Questo fatto è importante, direi decisivo, per Bossetti e la sua difesa che da sempre hanno ipotizzato un errore nell'attribuire a Bossetti il Dna di Ignoto 1. Stupore nel vedere la traccia di Dna evidenziata dai Ris (Carabinieri ) di così ottima qualità al contrario di quelle trovate in giro per il corpo di Yara. La qualità è talmente ottima da farlo sembrare un tampone salivare. Inoltre è ottima la qualità del DNA di ignoto 1 considerando quanti gelate e disgelate c'erano state in 3 mesi in cui il corpo di Yara era stato lasciato nel campo di Chignolo d'isola. Qualche domanda queste dichiarazioni le pongono. Innanzitutto perché secretarle? Inoltre se per quantità e qualità il Dna di Ignoto 1 era eccellente perché non consentire da subito una controperizia da parte dei suoi difensori? Per concludere chiedendo il perché proprio quel reperto di Dna era perfetto mentre gli altri (più di 100) no? A tutto questo si aggiungono altre criticità mai spiegate. In primo luogo il movente. Ad oggi, anche in sentenza, si parla di un movente di natura sessuale seppur nessun segno di violenza sessuale sia stata trovata sul corpo di Yara. Bossetti stato arrestato quattro anni dopo l'omicidio e si è riscontrato che mai aveva messo in atto alcun tipo di violenza nella sua vita, tanto meno sessuale. Bossetti non conosceva Yara, né i parenti di Yara, mai l'aveva contattata sui social e mai era entrato in contattato con qualcuno di riferibile a Yara. Quindi si accusa di un movente sessuale chi, a parte aver guardato qualche film hard e non di carattere pedo pornografico, non ha mai dimostrato di avere avuto, in più di 40 anni di vita, alcun atteggiamento censurabile.  Altro elemento importante è la dinamica. Partiamo dall'assunto che Yara era una brava ragazzina, timida e riservata che giocava ancora con «Hello Kitty» e che mai si sarebbe avvicinata ad uno sconosciuto e men che meno sarebbe salita su una macchina o furgone che sia. Ecco quindi che Ignoto 1 dovrebbe averla rapita con violenza e trascinata via, ma anche qui due dubbi: il primo come mai la Procura non parla mai di «sequestro di persona» e la seconda è mai possibile che un uomo scenda dal furgone alle 18,30 di sera davanti a molte persone (118.000 utenze diverse sono state intercettate tra le 18 e le 20 in quella zona) senza che qualcuno notasse quanto meno una stranezza? Infine quel Dna di Ignoto 1 non risulta essere completo in quanto contiene solo una parte, quella nucleare e non quella mitocondriale e da qui la domanda se, la comunità scientifica, ritenga possibile che l'identificazione di una persona possa avvenire attraverso il Dna nucleare pur in presenza di una ingiustificata assenza del corrispondente mitocondriale? In sintesi esiste solo la traccia di Dna nucleare, per l'accusa riconducibile a Bossetti, ma quella mitocondriale no o, quantomeno se c'è questa è riconducibile ad altri soggetti diversi dal muratore bergamasco. Considerate poi che il famoso furgone bianco in sentenza si dice che è «compatibile» ma non «uguale» a quello di Bossetti. Prendete poi le celle telefoniche dove dalle 17,45 del giorno del rapimento di Yara ll cellulare di Bossetti risulta essere spento e a casa sua.  Anche Roberto Saviano pochi mesi or sono aveva dichiarato: "Il padre di Yara ha lavorato per la Lop av, un'azienda di proprietà dei figli di Pasquale Locatelli, super boss del narcotraffico, che aveva anche un appalto nel cantiere di Mapello". "Inoltre, alla festa della Lopav parteciparono tre magistrati della procura di Bergamo" - contesta ancora Roberto Saviano - Mi sembra inquietante che non si sia indagato in quella direzione".