Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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IL DELITTO

 

DI BREMBATE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

YARA GAMBIRASIO

MASSIMO BOSSETTI COLPEVOLE PER ANTONOMASIA

 

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SOMMARIO

INTRODUZIONE

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A BREMBATE YARA GAMBIRASIO NON C'E' PIU': ROMANZO NERO IN VAL SERIANA.

IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA?

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

UNA CALIBRO 38 PER I PAROLAI E GLI SCRIBACCHINI.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.

VI RACCONTO DON CORINNO SCOTTI: IL PARROCO DI YARA.

CASO YARA GAMBIRASIO: RESOCONTO.

MOHAMED FIKRI: LA PRIMA VITTIMA DI ERRORE GIUDIZIARIO DEL PROCEDIMENTO.

ANATOMIA DI UN PROCESSO.

3 LUGLIO 2015: INIZIA IL PROCESSO.

17 LUGLIO 2015: SECONDA UDIENZA.

11 SETTEMBRE 2015: TERZA UDIENZA. PARLANO I GENITORI, MAURA PANARESE E FULVIO GAMBIRASIO, E LA ZIA, NICLA GAMBIRASIO, E L’INSEGNANTE DI GINNASTICA, DANIELA ROSSI, E LE AMICHE ED IL COMPAGNO DI CLASSE DI YARA.

18 SETTEMBRE 2015: QUARTA UDIENZA. PARLANO LA SORELLA KEBA, FABRIZIO FRANCESE, SANTINO GARRO, ILARIO SCOTTI, MATTEO EPIFANI E GIUSEPPE DE ZANI.

23 SETTEMBRE 2015: QUINTA UDIENZA. PARLA MICHELE LORUSSO.

2 OTTOBRE 2015: SESTA UDIENZA. PARLANO GIANPAOLO BONAFINI E DARIO REDAELLI.

7 OTTOBRE 2015: SETTIMA UDIENZA. PARLA CRISTINA CATTANEO.

9 OTTOBRE 2015: OTTAVA UDIENZA. PARLANO DALILA RANALLETTA E GIOVANNI SCIUSCO.

16 OTTOBRE 2015: NONA UDIENZA. PARLA GIUSEPPE GATTI E RICCARDO PONZONE.

21-23-30 OTTOBRE 2015: DECIMA, UNDICESIMA E DODICESIMA UDIENZA. PARLA GIAMPIETRO LAGO.

6 NOVEMBRE 2015. TREDICESIMA UDIENZA. PARLANO FABIANO GENTILE E NICOLA STAITI.

13 NOVEMBRE 2015. QUATTORDICESIMA UDIENZA. PARLANO PAOLA ASILI E ROBERTO GIUFFRIDA.

18 NOVEMBRE 2015. QUINDICESIMA UDIENZA. PARLANO ANDREA PICCININI ED EMILIO GIARDINA.

20 NOVEMBRE 2015. SEDICESIMA UDIENZA. PARLANO CARLO PREVIDERE’ E PIERANGELA GRIGNANI.

27 NOVEMBRE 2015. DICIASSETTESIMA UDIENZA. PARLANO GIANCARLO BONACINA, CINZIA CORNALI, FILIPPO LAURINO, PRIMINA LOCATELLI, STEFANIA CAROZZA, GIUSEPPE COLOMBI, MARCO BRIOSCHI, ALESSANDRO DONADONI, SIMONA ARZUFFI E QUATTRO DIPENDENTI DI DUE CENTRI ESTETICI. 

5 DICEMBRE 2015. DEPOSITO DATI GREZZI.

11 DICEMBRE 2015. DICIOTTESIMA UDIENZA. SCHERMAGLIE SUI DATI GREZZI.

16 DICEMBRE 2015. DICIANNOVESIMA UDIENZA. PARLA ANDREA PINTON.

18 DICEMBRE 2015. VENTESIMA UDIENZA. PARLANO GLI IVECO DAILY PEOPLE ED I DELATORI DELLA FINTA MALATTIA.

8-15 GENNAIO 2016. VENTUNESIMA E VENTIDUESIMA UDIENZA. PARLA RUDY CASLINI ED EZIO DENTI. 

20 GENNAIO 2016. VENTITREESIMA UDIENZA. PARLANO I RIS SULLE FIBRE DEL FURGONE.

29 GENNAIO 2016. VENTIQUATTRESIMA UDIENZA. PARLA VITTORIO CIANCI ED IL RIS MATTEO DONGHI.

3 E 12 FEBBRAIO 2016. VENTICINQUESIMA E VENTISEIESIMA UDIENZA. PARLANO I GENETISTI GIORGIO PORTERA, MARZIO CAPRA E SARAH GINO.

19 FEBBRAIO 2016. VENTISETTESIMA UDIENZA. PARLANO GIUSEPPE SPECCHIO E RUDI D’AGUANNO, DANIELE APOSTOLI E NICOLA MAZZINI.

24 FEBBRAIO 2016. VENTOTTESIMA UDIENZA. PARLANO ALMA AZZOLIN, RODOLFO LOCATELLI, ESTER ZUFFI, MARITA COMI, FABIO BOSSETTI, OSVALDO MAZZOLENI. 

26 FEBBRAIO 2016. VENTINOVESIMA UDIENZA. A 5 ANNI DAL RITROVAMENTO DEL CORPO DI YARA. PARLANO NADIA ARRIGONI, MONICA E LUISELLA MAGGIONI.

4, 11 e 16 MARZO 2016. TRENTESIMA, TRENTUNESIMA E TRENTADUESIMA UDIENZA. PARLA MASSIMO BOSSETTI.  PARLANO GIOVANNI BASSETTI E LUIGI NICOTERA. RIPARLANO GIUSEPPE SPECCHIO E RUDI D’AGUANNO, DANIELE APOSTOLI E NICOLA MAZZINI, GIOVANNI RUGGIERI, GIOVANNI TERZI, MAURO ROTA, DOMINIC SALSAROLA.

18 MARZO 2016. TRENTATREESIMA UDIENZA. PARLA CINZIA FUMAGALLI, WALTER BREMBILLA.

30 MARZO 2016. TRENTAQUATTRESIMA UDIENZA. PARLA GIOVANNI BASSETTI, SABRINA RIGAMONTI ED ALTRI 15.

1 APRILE 2016. TRENTACINQUESIMA UDIENZA. PARLANO ALTRI 15 TESTIMONI A DISCARICO.

15 APRILE 2016. TRENTASEIESIMA UDIENZA. PARLANO LUIGI NICOTERA, NICHOLAS BOSSETTI E LA FISIOTERAPISTA.

22 APRILE 2016. TRENTASETTESIMA UDIENZA. LA DECISIONE SULLE RICHIESTE DI PERIZIE E LETTERE HARD.

13 e 18 MAGGIO 2016. TRENTOTTESIMA E TRENTANOVESIMA UDIENZA. REQUISITORIA DELL'ACCUSA.

20 MAGGIO 2016. QUARANTESIMA UDIENZA. ARRINGHE DELLE PARTI CIVILI.

27 MAGGIO, 10 GIUGNO 2016. QUARANTUNESIMA E QUARANTADUESIMA UDIENZA. ARRINGHE DELLA DIFESA.

17 GIUGNO 2016. QUARANTATREESIMA UDIENZA. LE REPLICHE.

1 LUGLIO 2016. QUARANTAQUATTRESIMA UDIENZA. LA SENTENZA.

28 SETTEMBRE 2016: LE MOTIVAZIONI.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

A BREMBATE YARA GAMBIRASIO NON C'E' PIU': ROMANZO NERO IN VAL SERIANA.

Brembate Yara Gambirasio non c’è più, scrive Susanna Schimperna su "Il Garantista" il 27 dicembre 2014. A Brembate di sopra, provincia di Bergamo, vivono quasi 8.000 persone, un numero che i sociologi considerano perfetto per una comunità. Un numero abbastanza limitato da permettere lo stabilirsi di rapporti solidi e indurre un sentimento di appartenenza, ma allo stesso tempo non così angusto da provocare un senso di soffocamento. A Brembate di sopra non si conoscono direttamente tutti, ma tutti conoscono qualcuno che è legato a chi non si conosce. Così, quando il 26 novembre del 2010 una ragazzina di tredici anni non torna a casa dopo la palestra, il primo pensiero non è “qualcuno del nostro paese le avrà fatto del male”, ma “si è certo sentita male per la strada”.  Solo alcuni pessimisti si permettono sospetti terribili, e sono sullo straniero, l’alieno, un uomo certamente venuto da fuori, perché ci sarà pure il web che ci collega al mondo, ma al di là dei 4 chilometri quadrati su cui si sviluppa il paese, si hanno altre facce, altri costumi, si è “diversi”. È sempre stato così, soprattutto nelle regioni montane o circondate, come Brembate, dai monti. Niente di strano. Quando le ricerche non approdano a nulla e il primo fermato è Mohamed Fikri, muratore, si pensa al peggio ma sembra quasi scontato, che ad aver fatto del male alla ragazzina non sia un brembatese. Invece Mohamed, che stava per imbarcarsi su una nave diretta a Tangeri, dimostra subito che lui con Yara Gambirasio non c’entra niente, che non stava scappando ma solo partendo per una vacanza programmata da tempo, e che, soprattutto, la frase che gli imputano “Allah perdonami, non l’ho uccisa”, registrata attraverso un’intercettazione ambientale, nella lingua in cui l’ha pronunciata vuol dire tutt’altro: la traduzione è stata fatta male. Siamo al 5 dicembre. Una settimana più tardi, spunta l’ipotesi del rapimento consumato perché la ditta di papà Gambirasio avrebbe rapporti con la camorra. Ritorsione, avvertimento, estorsione? No. Sfuma anche questa pista. Intanto gli investigatori, fin dai primissimi giorni, lavorano sui dna. Ne raccolgono tantissimi campioni, la gente si presenta spontaneamente, solidale, unita. Presto la ricerca si estende oltre Brembàt sura, come viene chiamato lì il paese, in un’indagine di proporzioni mai viste: ad oggi sono 18 mila i campioni raccolti ed esaminati. Da una parte la scienza, dall’altra la parapsicologia: una veggente racconta di aver sognato Yara distesa in un corso d’acqua, e le ricerche si spostano a Udine, nel comune di Socchiena. Non si trascura nulla, ma il corpo viene trovato soltanto a febbraio, a tre mesi esatti dalla scomparsa: il giorno 26. Il luogo del ritrovamento è a pochi chilometri da Brembate, a Chignolo d’Isola. Yara è stata colpita alla testa e accoltellata più volte, poi lasciata morire di freddo. Uccisa sul posto? Sembra di sì. Sembra. Ai funerali al Palazzetto dello sport, il 28 maggio, ci saranno migliaia di persone. Arriviamo a metà giugno: viene isolata una traccia di dna maschile sugli slip della ragazza, ma non è tra i profili già raccolti. Per trovare un dna compatibile bisogna aspettare fino a settembre 2012, quando il dna che si ricerca viene estratto da una marca da bollo su una vecchia patente di Giuseppe Guerinoni, di professione autista. Ormai, però, Guerinoni non esiste più. È morto a 61 anni, nel 1999. Le indagini sul dna del suo nucleo familiare non danno alcun esito e quindi si pensa a un figlio illegittimo. Chi, dove, di quale madre? Il figlio illegittimo viene individuato in Massimo Giuseppe Bossetti, non a caso, si dice, munito come secondo nome del nome del vero padre. Massimo Giuseppe nulla sa, crede di essere figlio di Giovanni Bossetti e di Ester Arzuffi, e la sua stessa madre, Ester, 67enne signora di cui ogni paesano è pronto a decantare la bellezza, l’eleganza e la dedizione con cui sta vicino al marito claudicante più vecchio di lei, nega e ancora nega, sostenendo di non aver avuto mai una relazione intima col Guerinoni e di aver concepito Massimo con il suo legittimo marito. La levata di scudi di Ester a difesa della propria vita privata va di pari passo con quella di amici, vicini, familiari tutti di Massimo, compresa la sorella gemella e la splendida moglie; levata di scudi, questa, che riguarda una questione molto più importante dell’onore”, cioè la possibilità che Massimo abbia ucciso Yara: ma nessuno sembra avere un dubbio, un tentennamento, niente. Marito esemplare, lavoratore su cui non c’è nulla da dire, padre di tre figli che ama molto. I pubblici processi che gli vengono fatti in tv e sui giornali mettono l’accento sui capelli e le sopracciglia troppo biondi, sull’abbronzatura troppo accesa. Ma più di questo, che dire? Il 16 giugno di quest’anno, Massimo Bossetti viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario. Lo interrogano, tace. La Vodafone smonta un indizio: si pensava che lui avesse spento il cellulare alle 17.45, proprio nel momento in cui agganciava la cella telefonica di Mapello cui si collegava il cellulare di Yara, invece no, perché l’ultimo sms Yara lo spedì alle 18.49, poi il cellulare fu spento alle 18.55, ed era collegato non col ripetitore di Mapello, ma con quello di Brembate. Ulteriore colpo di scena. Il 6 agosto, il pm Letizia Ruggeri rivolge a bruciapelo questa domanda a Bossetti: “Ma lei lo sa che anche suo fratello non è figlio di Giovanni Bossetti?”. Il pm si riferisce al fratello minore, nato cinque anni dopo Massimo e la gemella. Risposta, calma: “Non ci credo”. Oggi, a quattro anni dalla scomparsa di Yara, gli avvocati difensori di Bossetti denunciano inaccettabili pressioni «anche da parte di coloro a cui è affidata la custodia di Bossetti e persino del cappellano del carcere» per spingere il loro assistito a confessare, mentre la moglie Marita ad essere dalla sua parte, la madre è ferma nel negare di aver avuto sia i gemelli che l’ultimo figlio da altri uomini, Bossetti non smette di avvalersi della facoltà di non rispondere. Però ha fatto sapere che in carcere prega. Per i suoi figli e per Yara.

L'omicidio di Yara, romanzo nero in Val Seriana. Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, nel bergamasco, tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riuscita a scalfire il muro del silenzio, scrive Gigi Riva su "L'Espresso". Me no. Io no. Per una frase così breve, pronome personale e negazione, è comprensibile anche l’ostico dialetto bergamasco. «Me no» è il ritornello secco, definitivo, quasi ostile che è stato colonna sonora delle ricerche dell’assassino di Yara Gambirasio. Almeno per le orecchie di un maresciallo che si è scontrato, giorno dopo giorno, porta dopo porta, per mille e più porte, con quella che in Sicilia chiameremmo omertà e che, salendo la latitudine, si addolcisce nella più accettabile “riservatezza”. «Me no» è stata la risposta standard opposta alla perenne domanda, declinata in tante sfumature, “sai qualcosa?”. Finché lentamente, colpo dopo colpo, si è aperta una breccia nel muro della diffidenza. Va bene la scienza, il Dna, le compatibilità genetiche, l’allele raro, i laboratori, ma, parallelamente, per venirne a capo, ci sono voluti il sudore artigianale, le scarpe consumate, la pazienza, l’ostinazione. Insomma l’indagine vecchio stile sul territorio, quella basata sulle confidenze, le mezze ammissioni, le connessioni da interpretare, le tessere di un mosaico che si incastrano e vanno al posto giusto. Per raccontare questo lato meno noto dell’indagine bisogna tornare all’ottobre scorso. Yara è stata uccisa da quasi tre anni. Da uno gli inquirenti sanno chi è il padre dell’assassino. Ci sono arrivati grazie a un mix di tenacia e fortuna. Isolata una traccia di Dna maschile (battezzata “Ignoto 1”) sugli slip e sui leggings della tredicenne hanno disposto il più esteso screening di massa della storia italiana, 18 mila campioni raccolti. Compresi quelli dei frequentatori della discoteca “Sabbie Mobili” di Chignolo d’Isola, che si trova accanto al campo dove è stato rinvenuto il cadavere. Sorpresa: un cliente del locale da ballo, Damiano Guerinoni, innocente, bene precisarlo subito, condivide con “Ignoto 1” il ceppo familiare per via paterna. Di parente in parente sono risaliti allo zio, Giuseppe Guerinoni, di Gorno, autista di autobus, morto nel 1999 a 60 anni, sposato con due figli, pure completamente estranei. Eppure è lui, per la scienza, il padre del presunto killer al 99,99999987 per cento. Un figlio illegittimo, è il sospetto. Corroborato da quanto affermato da Vincenzo Bigoni, collega di Guerinoni: «Mi confidò che aveva messo nei guai una ragazza di San Lorenzo di Rovetta. Sarà stato all’inizio degli anni Sessanta». Verità nella sostanza, ma alcuni dettagli sbagliati, il periodo, il luogo, allontanano la soluzione. Torniamo all’ottobre scorso. Gli inquirenti, più che brancolare nel buio, sono appesi a una provetta. Quasi peggio, psicologicamente: sei a un passo e non procedi mai. Chignolo d’Isola, Brembate Sopra (il paese di Yara), sono all’inizio della pianura bergamasca a ridosso del capoluogo. Gorno, San Lorenzo di Rovetta, una cinquantina di chilometri più su, Alta Valle Seriana, dintorni di Clusone. È là che viene custodito il mistero. Là bisogna vincere il muro di gomma. Letizia Ruggeri, il pm, ha nella sua squadra di polizia giudiziaria. A 20 anni, vinto un concorso alle poste, si è spostato a Varese. Vita impiegatizia? Non faceva per lui. Sente la vocazione della divisa, entra nell’Arma e prende servizio proprio a Clusone, inizio degli anni Ottanta. Lì ancora abita e fa la spola con Bergamo. Chi meglio di lui, una faccia nota, rassicurante, per penetrare nei segreti di questa “Twin Peaks” orobica, con molte similitudini con la famosa serie tv americana di David Lynch? Anche qui c’è l’omicidio di una ragazza, seppur avvenuto altrove, anche qui c’è da far affiorare il lato oscuro di una comunità di montagna. E l’agente speciale Dale Cooper è un signore dall’aria paciosa, giacca cravatta, capelli e barba bianchi: Mocerino appunto. Il maresciallo ha un nucleo forte dal quale partire, Giuseppe Guerinoni. Da quel centro irradia le ricerche. I congiunti, i colleghi, gli amici, i passeggeri dell’autobus. Il suo è un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Alta Valle Seriana degli anni Sessanta - Settanta, in quel mondo che usciva dalla miseria ed entrava, a pieno titolo, nel boom con le fabbriche cresciute attorno al fiume Serio per alimentare, oltre al benessere, il mito della laboriosità bergamasca. Ma si scontra con quella sequela infinita e scoraggiante di «me no». Un’indisponibilità per timore di violare la privacy e rovinare famiglie che finisce per equiparare, nel tetragono mutismo, un adulterio a un omicidio. Però va avanti, Mocerino, convinto che non ci possa essere segreto così impenetrabile da resistere alla sua cocciutaggine. Diverse volte crede di esserci arrivato per una coincidenza di indizi: donna, dell’età giusta, della zona giusta, e con un figlio illegittimo. Ma è il laboratorio di genetica a smontare l’illusione, a strozzare in gola un urlo di vittoria che un Paese intero attende. Perché Yara è uno di quei casi di cronaca nera che eccedono se stessi e diventano metafora della capacità di uno Stato di esercitare la giustizia. Tanto più ora che la tecnologia mette a disposizione strumenti prima impensabili. Tanto più ora che si è arrivati “a tanto così” e non si può subire l’onta di una beffa. Passa però l’autunno 2013. Si entra nel quarto anno dal delitto e niente succede. L’inverno copre di neve i monti delle Orobie e il maresciallo non molla. Va di bar in bar, di casa in casa, offre e si fa offrire caffè. Scende a Bergamo per riferire a Letizia Ruggeri. Niente. Solo un congruo numero di corna scoperte e che erano state cristianamente sepolte nell’oblio. Tornano verdi i prati dell’altopiano di Clusone, fiorisce la primavera e, quando diventa tardiva, ecco la svolta. Per sublimare la quale bisogna lasciare la fiction di “Twin Peaks” e scomodare la grande letteratura per le assonanze con “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne (nella trama, un adulterio) e soprattutto con “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, quel documento che stava sotto gli occhi degli investigatori ma che nessuno vedeva. Perché, come scopriremo, la madre del presunto killer che tutti cercavano era la vicina di casa del padre biologico. E il testimone chiave il vicino di casa del nostro maresciallo. Siamo ai primi di giugno, dunque, e Mocerino si rimette per l’ennesima volta faccia a faccia con Antonio Negroni, il vicino appunto, nonché un anziano autista come Guerinoni. Esce, da quel colloquio, il nome di Ester Arzuffi. È il precipitare verso l’epilogo. L’Arzuffi era stata censita tra le 584 donne che erano entrate in contatto, a qualunque titolo, con Giuseppe Guerinoni, tanto che già nel 2012 era stata sottoposta al test del Dna. Qui due versioni opposte entrano in collisione. Una vuole che quel campione fosse tra i 4 mila (su 18 mila) ancora da analizzare, l’altra che fosse stato vagliato ma sia stato commesso un errore. In ogni caso il 13 giugno i laboratori danno il responso: è la madre di “Ignoto 1”. Due giorni dopo suo figlio Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, muratore, viene fermato per un controllo stradale e sottoposto all’etilometro, lo stratagemma escogitato per prendergli il Dna. Arriva il responso atteso: è lui. E viene incarcerato, 16 giugno, con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio. Non si capisce tanta fretta se non coniugandola alla lunga attesa. Per irrobustire l’apparato accusatorio (in aula il Dna non basta) si poteva mettere sotto controllo il telefono, fargli capire che era braccato, aspettare il passo falso. È sempre facile, a posteriori, riprendere il filo degli indizi e rammaricarsi degli sbagli, del tempo perso. In questo caso con qualche ragione decisiva, scritta nelle biografie degli amanti di allora, Ester Arzuffi e Giuseppe Guerinoni. Lei, classe 1947, è originaria di Villa D’Ogna, a ridosso di Clusone, un paese che al censimento del 1971 denuncia 1727 anime, dove tutti si conoscono e dove non passa certo inosservata l’intrigante Ester con gli occhi color del cielo. Non ha ancora 20 anni, nel 1967, quando si sposa con Giovanni Bossetti e va con lui ad abitare a Ponte Selva, frazione di Parre, grumo di case sul ciglio di alcuni tornanti in salita. Il vicino di casa è proprio Giuseppe Guerinoni, l’autista, al quale l’ingenuo marito affida il compito di portare tutte le mattine la moglie al lavoro alla manifattura “Festi-Rasini” di Villa d’Ogna, distante cinque chilometri, e che a quell’epoca impiegava centinaia di operaie.  Davanti alla fabbrica c’era (c’è ancora) un bar dove si attardava la trentina di autisti in attesa della fine dei turni e dove capitava spesso che quei conducenti e quelle ragazze si mischiassero per una canzone al jukebox, l’accenno di un ballo. Giuseppe Guerinoni ha otto anni più di Ester, è «ö bel òm», un bell’uomo anche nel ricordo attuale di chi lo conobbe e quanto duri quel legame è impossibile sapere dato che lui non c’è più e che lei lo nega contro l’evidenza scientifica. Di certo alcune centinaia di persone potevano sospettare della liaison su quel fazzoletto di terra dove ognuno si fa gli affari propri anche se tutti conoscono gli affari degli altri. Sono ancora vive e in salute molte delle operaie della “Festi-Rasini” che li vedevano comparire insieme, tutte le mattine per almeno un paio d’anni. E poi Vincenzo Bigoni. Ricordate? È l’autista che sbaglia la data e il luogo, ma è amico di tutti e tre, lei, lui e l’altro. E di cui adesso gli inquirenti dicono: «Speriamo che davvero lo abbia tradito la memoria...». Comunque sia, nel 1969 Ester e il marito Giovanni Bossetti lasciano la Val Seriana, lui si è stancato del lavoro alla “Pozzi”, hanno deciso di prendere l’auto e di fermarsi dove troverà una nuova occupazione, allora funzionava così: sarà la“Philco” di Brembate Sopra. Si sono trasferiti da un anno, è l’autunno del 1970, quando nascono due gemelli, Massimo, l’incriminato per l’omicidio, e Laura, riconosciuti dal Bossetti ma figli naturali dell’autista di Gorno per il Dna. E si può dunque dedurre che la storia fedifraga sia continuata almeno un po’. Il segreto di Ester sarebbe stato inespugnabile se le tracce genetiche del figlio non fossero finite sugli slip di Yara provocando il terremoto in una società abituata ai silenzi del monte Presolana e a chiudere le imposte se passa un forestiero, magari per spiarlo da dietro le persiane. Finiranno le dirette tv, i parroci non dovranno più invitare, come fanno in questi giorni, a «pregare e non parlare». Anche se tacere è un’omissione. Chi scrive è della Val Seriana. Nel cortile della mia infanzia abitava una ragazza madre. A chiunque le chiedesse chi fosse il padre rispondeva: «Ön òm coi braghe», un uomo coi pantaloni. Si è portata quel nome nella tomba. Fiera di quel suo essere così bergamasca e così fedele a un giuramento. Ma copriva la sua storia, non un omicidio.

IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA? 

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Caso Bossetti - una realtà mediatica da Grande Fratello che potrebbe capitare ad ognuno di noi...Di Gilberto Migliorini su “Albatros-Volando ControVento”. Mai tale locuzione, prova scientifica, si è usata con tanta leggerezza e utilizzata come specchietto per le allodole per un pubblico educato a programmi di scienza spettacolo, alle fiction e ai reality. Per quale arcano motivo è stata rifiutata la ripetizione del test del DNA? Si è consumato tutto il materiale biologico e il test non è più ripetibile? Si tratta di un reperto fantasmatico ormai dissolto nelle diluizioni e bruciato negli incubatori a forza di procedure analitiche? Con la ripetizione del test (con la stranissima aporia del DNA mitocondriale), si sarebbero evidenziate troppe anomalie e omissioni? Cane non mangia cane. La casta si accinge a condannare Massimo Bossetti in ogni caso? Troppi interessi e carriere in gioco? Un coro angelico di colpevolisti e forcaioli ha fatto da supporto - come opinione pubblica - a un’indagine dalla spesa colossale e dagli esiti che potrebbero alla fine risultare inconsistenti: un cumulo di illazioni e congetture che della prova hanno soltanto l’effetto fantasmatico? Un incensurato e la sua famiglia coinvolti e esposti al pubblico ludibrio sulla base di prove evanescenti? Tutte da dimostrare in un contraddittorio dove a parlare saranno anche la difesa e i suoi periti. E poi quello strano Dna (una macchia) che dura mesi alle intemperie invernali, fresco come una rosa, con il sentore di un Beaujolais nouveau (appellation d'origine contrôlée). Un castello di elementi fondati su suggestioni mediatiche e su indizi che hanno più che altro il sapore dell’escamotage? Sempre che sia vero che il furgone di Bossetti transita qualche volta nei pressi della palestra... cosa ci sarebbe di strano in quello che era il solito itinerario verso una casa distante un paio di chilometri? Un target entusiasta - con veri e propri cori da stadio a ogni notizia (anche la più banale) che regolarmente avrebbe dovuto inchiodare il muratore - ha dato supporto a uno stile investigativo fondato sul Dna. L’audience ha fatto da cassa di risonanza a opinionisti che popolano in pianta stabile i vari format televisivi. Cacciatori di nucleotidi - come gli entomologi di farfalle - hanno ravanato nell’acido desossiribonucleico in un gigantesco consumo di risorse per levare dal cappello una bufala colossale? Quelli che fiutano l’aria, gli opinionisti meteorologi hanno fatto da supporter e da interpreti entusiasti di 'una indagine da manuale'... ancorché futuristica. Passeranno con la rapidità del vento da un colpevolismo senza se e senza ma a un improvviso garantismo ruffiano se il barometro con le ultime notizie cambiasse le previsioni del tempo? Pillole del giorno dopo, profonde elucubrazioni criminologiche col senno di poi, inversioni e ribaltamenti dei contorsionisti dell’etere che da tanti anni la nostra televisione ci elargisce a piene mani. Il popolo della TV è stato variamente educato e ammaestrato da personaggi che con supponente alterigia e borioso sussiego di depositari del verbo ‘scientifichese’ almanaccano come Sibille Cumane, con quei toni da deus ex machina della scienza criminologica. Esperti sempre pronti a elargire alla massa sprovveduta il viatico di certezze distillate un po’ in provetta e un po’ con quelle belle figure retoriche che fanno tanta presa sul popolo dei teleutenti, che da sempre pendono dalle labbra di conduttori serafici del copia e incolla, e da tecnologi che vanno in tv e sui rotocalchi a sponsorizzarsi come un oracolo di Delfi. Un sistema mediatico-investigativo-forense, sulla base di reperti esotici, un po’ come la goccia d’ambra del film di Stephen Spielberg, ha relegato il padre legale di Massimo Bossetti, il signor Giovanni, a mera comparsa della sceneggiatura, sullo sfondo come un pezzo d’arredamento, mentre il povero Guerinoni ha dovuto reggere la scena anche da morto, tirato in mezzo per via di una marca da bollo e di un ardito metodo investigativo che l’ha prima portato nei laboratori come reperto osseo e poi ridotto in fosfati di calcio. Refuso troppo ingombrante per reggere il ruolo che gli era stato proditoriamente assegnato? I media, che tutto possono fare e dire, dichiarano in modo perentorio che tutta la famiglia Bossetti è una accozzaglia di contaballe. Peccato che per quanto se ne sa, nessuna comparazione genetica è ufficialmente stata fatta con il padre legale perché gli esperti della provetta hanno già decretato la paternità Guerinoni. Una elementare controprova (con tutti i crismi di un test di paternità), a fronte di migliaia di reperti già analizzati, è considerata dalla Procura del tutto superflua e irrilevante? Per l’opinione pubblica educata alle notizie senza ulteriori riscontri il caso è assodato, il povero Massimo Bossetti è figlio adulterato. Caso davvero strano che una prova di paternità si faccia prima su una marca da bollo e poi su un cadavere, entrambi reperti vecchi di quasi tre lustri. Strano che - se proprio non si vuole semplicemente guardare delle foto - che la dicono più lunga di polimeri e monomeri - non si provveda almeno a un confronto con il Dna del padre legale, giusto per precauzione (non si può mai dire). Strano il modus operandi di una Procura che con sicumera è andata avanti come se dovesse dimostrare di aver sempre ragione e non verificasse anche le eventuali possibilità a favore dell’indagato, giusto per cautela. Ma si sa, come qualche tecnologo ci informa con un’aria da pedagogo del vogo analfabeta, la scienza non sbaglia e dunque sono inutili ulteriori verifiche. E il popolo dei teleutenti annuisce deferente e ammirato, come folgorato sulla via di Damasco, ai toni altisonanti che sciorinano di genomi e cromosomi, che gridano all’eteroplasmia e discettano biosinteticamente...I media, appiattiti su una tesi di colpevolezza che fa sempre molta audience, hanno fatto e fanno da cassa di risonanza, montando e mantecando il soufflé Massimo Bossetti dando credito alle quisquiglie, alle bagatelle e alle pinzillacchere gridate ad ogni piè sospinto e confezionate con savoir-faire: la radiografia della vita del muratore passata allo scanner ha prodotto risultati di rilievo, una quantità di indizi impressionante come lampade solari, passaggi da Brembate sulla via di casa, qualche bevuta in birreria e altri elementi di tal fatta che inchioderebbero il carpentiere di Mapello... comprese le fibre dei sedili presenti un po’ ovunque su veicoli pubblici e privati. Ormai il battage mediatico è in grado di far credere qualunque cosa, se la retorica è quella giusta e la propaganda è sufficientemente martellante. La signora Ester Arzuffi in modo perentorio ha escluso di aver mai avuto alcuna relazione con il Guerinoni, eppure la stampa e le televisioni l’hanno fatta passare per una bugiarda, un’adultera… con tutto il sarcasmo e la tracotanza di chi considera le persone come oggetti di un esperimento mediatico, cose da rivoltare come guanti, solo personaggi da far recitare in una soap opera e senza che venga fatta una prova ufficiale sul padre legale, come sarebbe logico e auspicabile. Se almeno il Bossetti fosse stato scarcerato in attesa del completamento delle indagini, molto avrebbe potuto essere chiarito evitando un'eventuale figura meschina all'Italia che agli occhi di altri paesi, democraticamente più maturi, appare ormai un posto dove la tortura non fa scandalo (vedi i fatti di Genova), un luogo assai pericoloso per soggiornarvi (vedi il caso Amanda e Raffaele), soprattutto per chi non faccia parte della Penisola dei famosi, quei colletti bianchi, soprattutto di rango e prestigio, per i quali scattano non solo le garanzie costituzionali, ma anche trattamenti di impunità, decadenza dei termini, non luogo a procedere... Lunghe carcerazioni preventive, magari con prove opinabili, sono riservate ai paria, quelli che i verdetti l’attendono pazientemente e fiduciosamente in galera anche quando gli elementi che inchiodano sono per lo più indizi generici (o tirati per i capelli) o il solito Dna che è l’ingrediente paragonabile al prezzemolo. I muratori, le casalinghe, i sottoufficiali… gli anonimi nessuno, incensurati e negletti, possono restare relegati in prigione per anni, magari fino a quando la Cassazione non faccia le pulci ai due gradi di giudizio rilevando contraddizioni e incongruenze e tirando le orecchie a sentenze diciamo un po’ garibaldine. E in galera ci si può finire per anni anche perché da una macchiolina si è rilevato qualcosa di compatibile. Un mero dato tutto da interpretare diventa prova, in quel passaggio ardito come tra il dire e il fare dove c’è di mezzo un mare di indeterminazioni, se è vero che anche i Ris hanno dichiarato che sul Dna di Bossetti sono impossibili prove certe. Nemmeno i molti ricorsi presentati dall’avvocato difensore sono serviti ad aprire gli occhi, a impedire che si arrivi allo sputtanamento di tutto il sistema giudiziario... nel caso che alla fine dei tre gradi di giudizio ci sia l’assoluzione di un innocente tenuto per anni a marcire in galera. È pur vero che la palude mediatica dimentica in fretta… Un’intera nazione ha chiuso gli occhi e si è lasciata accecare da quell’acronimo, Dna, che viene pronunciato come una sorta di abracadabra, un test effettuato al di fuori delle elementari regole e garanzie, senza falsificatori, senza controprove, solo con quella hybris declamata ai quattro venti che la scienza non sbaglia, nonostante che per mesi il cadavere della povera Yara fosse rimasto in balia di chiunque ed esposto alle intemperie rendendo i reperti del tutto inaffidabili. E se davvero di ottima qualità avrebbero dovuto mettere sull'avviso che qualche errore o inquinamento (non si sa se volontario o involontario) ne avesse alterato la sostanza. Nessun dubbio circa l’impossibilità che in quelle condizioni estreme nel campo di Chignolo quella macchia non avrebbe più dovuto dare un Dna nuclerare, tanto era dilavata o comunque alterata dalla neve e dalla pioggia? Siamo al di là di qualsiasi garanzia costituzionale per il povero Massimo Bossetti? Un sistema giudiziario senza regole certe e senza tutele per un indagato tenuto in carcere grazie a un Dna che rimane integro per mesi sotto le intemperie? Esiste come unico fatto realmente rilevante e incontrovertibile, salvo i soliti pettegolezzi e le immagini di un furgone in transito per le vie di Brembate, una palese contraddizione nell'analisi del Dna (nucleare vs mitocondriale) rilevata anche da altri genetisti che con obiettività hanno manifestato le loro perplessità. Eppure gli esperti criminologi sugli schermi della tv hanno pontificato di nucleare e mitocondriale, di alleli e di polimeri… con certezze apodittiche. Tutti epistemologi in una situazione in cui uno dei pilastri scientifici non c’è proprio. Parlo della situazione controllata. Non quella del laboratorio, ma quella di una infinità di variabili assolutamente fuori controllo sulla scena del crimine. Un campo dove il cadavere della povera vittima sarebbe rimasto per mesi (senza che nessuno dei moltissimi frequentatori se ne fosse accorto), un francobollo leccato non si sa bene da chi… e una macchia con un Dna nucleare stranamente di ottima qualità che sarebbe stato per un’intera stagione esposto alle intemperie. Tutto un copione più simile a una fiction. Milioni spesi a centrifugare e agitare polimeri e molecole, un lavorio instancabile per approdare a una indagine che ricorda il teatro dell’assurdo. Aspettando Godot ne è l’epigrafe, l’emblema di una giustizia italiana embricata sui formalismi in un crescendo di non sensi, in una pervicacia di procedure cervellotiche e con un linguaggio involuto e incomprensibile perfino agli addetti ai lavori. Un danno colossale non solo per la genealogia Bossetti, dai genitori - messi in piazza come i reprobi e bugiardi - fino alla sorella, alla moglie e ai figli che soffrono un accanimento mediatico persecutorio. Una macchina gigantesca che produce una mole di faldoni, 60.000 pagine non si sa quanto emblematiche e che potrebbe partorire topolini nati morti o mostruosità alla Jurassick park. Quei personaggi televisivi che giornalmente vanno a brucare la loro razione di gloria continueranno imperterriti il loro lavoro di opinionisti, a dissertare del nulla come Vladimiro ed Estragone? Discorsi con dei Didi e Gogo che discettano di banalità in un legame arbitrario tra le parole e le cose, in un linguaggio narcisistico e autoreferenziale fatto di luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi. Una televisione che replica all’infinito un copione dove i suoi protagonisti, come i personaggi di Beckett, vorrebbero muoversi, ma non possono o non lo sanno fare, e dunque si continua a replicare un copione dove l’audience trova sicurezza e protezione in un eterno immobilismo e in un rassicurante bla-bla. Il topos, la scienza non sbaglia, declamato da tante cariatidi, in barba alla epistemologia contemporanea, è la considerazione dogmatica che molti tecnologi hanno del metodo scientifico, un’immagine della scienza che ricorda il vecchio positivismo mandato in pensione. Tutto il progresso scientifico è sempre avvenuto per congetture e confutazioni e l’errore è stato uno dei suoi propulsori più importanti. Affidarsi solo a dei dati (il Dna), confondere dei dati con una prova, può portare a dei qui pro quo e a delle cantonate colossali. Un uomo e la sua famiglia prima ancora di un processo sono stati messi alla gogna, perfino nella sala colloqui e nei loro momenti di intimità, con i dialoghi decontestualizzati e poi tramessi ai media come per un reality dal vivo, con la corrispondenza epistolare non solo aperta, ma messa in piazza prima ancora di un verdetto di colpevolezza. Le fasi dell’arresto del povero Bossetti sono state registrare puntualmente e mandate in onda a dimostrazione di una giustizia spettacolo che confonde perfino lo stupore di un innocente, ammanettato e immobilizzato come un animale da mandare al macello per un immaginario tentativo di fuga dalla sommità di un immobile in costruzione. Un uomo già definito e chiamato assassino prima ancora non solo di una sentenza ma anche semplicemente di averlo ascoltato in un contraddittorio. In che paese viviamo? Dove sono finite le garanzie elementari di uno stato di diritto? Un Bel Paese da far impallidire il 1984 orwelliano. Altro che 25 aprile, festa della liberazione e dei diritti civili. Un Grande Fratello in versione nazional-popolare e in spregio ai principi costituzionali (ormai da tempo in disarmo e rottamazione) del rispetto della persona umana. Qualcosa che ricorda certi campi di lavoro dove all'ingresso troneggia quel "Arbeit macht frei". Tutto nella più totale indifferenza delle istituzioni, nel silenzio assordante anche di molta stampa cosiddetta progressista che se ne è lavata le mani. Mentre l’Italia viene condannata per tortura, occorre dire che il signor Massimo Bossetti è stato esposto a un trattamento mediatico e giudiziario che ricorda la misteriosa stanza 101 del romanzo orwelliano. Non i topi ma il topos di un sistematico linciaggio morale fatto di pinzillacchere trasformate in elementi che inchiodano, di banalità quotidiane propagandate come prove. Un supplizio dove nanogrammi di materiale genetico contraddittorio hanno consentito di costruire un copione fatto di presunte certezze. La bella Italia è diventato il paese per antonomasia del disprezzo dei diritti civili. Mancano solo le cimici nel culo, l’eye trecking, le neuroimaging, o un trojan che navighi nelle arterie cerebrali, il poligrafo o il test di risonanza magnetica, tutto l’armamentario neopositivista della profezia che si autoadempie, della psichiatrizzazione del crimine, del software da remoto e di tutti quei presunti captatori del nostro io (ci stiamo arrivando per gradi). È l’occhio del Grande Fratello. Ma a fronte del carpentiere (emblema della gente comune senza santi in paradiso) la corruzione imperversa, e nella penisola dei famosi, quella che conta politicamente e socialmente, si tratta invece di garanzie di impunità, di decadenza dei termini, di cavilli e di lungaggini… di un sistema legislativo ad uso e consumo di chi conta, regole ritagliate come abiti su misura per chi sa come muoversi nella giungla di leggi, leggine, codicilli, glosse e pandette. Da troppo tempo nei tribunali si sente l’influenza di un sistema mediatico che invece di agire come controllore funge da angelo sterminatore nei confronti di chiunque gli capita a tiro e promuova le vendite dei suoi prodotti editoriali. Una televisione che asseconda e aizza una marea di forcaioli che cercano di sfogare frustrazioni e delusioni sul malcapitato di turno, nel contesto di una società sempre più in crisi di valori culturali. Un sistema mediatico che però in genere è sempre molto riguardoso (per non dire adulatore, servile e leccaculo) nei confronti di tutti quei potenti che sanno come muoversi nella giungla legislativa e distribuire prebende a parassiti e clientele agitando se occorre la minaccia di querela per diffamazione. Quella che sta emergendo è una verità terribile e sconvolgente che le persone dotate ancora di razionalità guardano con orrore: siamo ormai dentro a un gigantesco reality frutto di un paese dove un’informazione asservita al potere e una professionalità approssimativa e superficiale sta obnubilando le coscienze di milioni di persone, persuadendo un target sempre più vasto di possedere le chiavi del bene e del giusto. Criminologi, psichiatri, mediologi, tuttologi…. ci hanno raccontato con dovizia di particolari una storia che ha appassionato milioni di lettori e telespettatori. I confini tra reale e virtuale sono diventati sempre più incerti e approssimativi. Ormai siamo davvero all’interno di un gigantesco Truman Show. I meccanismi mediatici e gli orrori di istituzioni sempre più in preda agli automatismi di procedure obsolete sono da tempo fuori controllo. Un potere arbitrario e senza più ratio si sta frantumando in potentati in antagonismo, dove i corrotti la fanno franca quasi sistematicamente (con qualche eccezione che non conferma la regola) e dunque si orienta l’attenzione mediaticamente su qualche disgraziato a far da capro espiatorio per dare alla palude mediatica - quel target sistematicamente disinformato e di una ingenuità disarmante - l’illusione di una giustizia produttiva e all’avanguardia. Il Grande Fratello ormai interiorizzato nelle coscienze, agisce nel solco di una cultura dello spettacolo fine a se stesso con persone vere ridotte a personaggi; uomini e donne trasformate in cose da rivoltare e prillare, attori e comparse su un palcoscenico virtuale. L’audience come al solito si beve tutto con una dabbenaggine che ormai non ha più confini, si fa menare per il naso convinta di aver capito tutto, quando invece fa soltanto da zimbello. Molti, troppi, non riescono a vedere né ad immaginare che quanto accaduto a Bossetti e a tanti altri potrebbe capitare anche a loro, a tutti noi. Ma forse neanche questo importa. The show must go on

Caso Bossetti: tutto quello che avreste voluto sapere su come cucinare un colpevole e non avete mai osato chiedere... continua Gilberto Migliorini. Da WikipediaLa parola soufflé è il participio passato del verbo francese souffler, che vuol dire soffiare: è un po' la descrizione di cosa accade al composto messo a cuocere in forno nell'apposito stampo, generalmente realizzato in ceramica. Certo le dosi sono importanti, ma senza gli ingredienti giusti col cavolo che la ricetta vien bene. Intanto occorre dire che il Dna è l’ingrediente più importante, senza quello è come pretendere di fare unsoufflé senza albumi. Le uova dovrebbero essere di giornata, ma se anche hanno qualche settimana (o qualche mese) secondo alcuni van bene lo stesso. Però, parlando di mass-media, forse gli ingredienti sono altri, non di natura culinaria, per quanto si tratti pur sempre di montare e mantecare…Il primo ingrediente che non ammette surrogati di sorta, è quel raggruppamento (associative clustering) con il quale si mettono insieme le cose mediante rapporti di causa ed effetto, in base alla prossimità nel tempo e nello spazio, o in base alla similarità fisica: “ha l’aria di uno che ha commesso il delitto” oppure a una similarità morale “è un bugiardo e dunque è un assassino”. Ovviamente per dare un aiutino e perché la cottura venga bene occorrono buone inquadrature fotografiche, istantanee dove il nostro aspirante colpevole abbia possibilmente un’aria truce, uno sguardo di traverso, una posa rigida e inespressiva. Il buon fotografo sa scegliere gli scatti migliori, ovviamente, magari con qualche ritocchino sulla foto (dissolvenze, primi piani, selfie…) per renderla più aderente a quello che si vuole come protagonista del reality. Si tratta solo di una premessa, l’antipatia del personaggio, di pancia, fa solo da esordio a quegli approfondimenti che preludono a una influenza sui nostri giudizi di valore e sulle nostre reazioni emotive. I bugiardi non piacciono a nessuno, ovvio, e se qualcuno viene chiamato favola dai suoi compagni di lavoro, perché è un mattacchione e gli piace scherzare, basta davvero poco, qualche inversione figura-sfondo o qualche sottolineatura, un qui pro quo, un’interpretazione un po’ sopra le righe… per trasformare un giocherellone in un bugiardo matricolato, un burlone in un mentitore spudorato. La chiacchiera e l’equivoco conferiscono al personaggio un’aura ambigua, basta perfino un cenno, una parola, un epiteto… per dare impronta a un personaggio, tratteggiarlo proprio come nella commedia dell’arte, una maschera stilizzata, un demonio iconografico, uno Zanni malevolo. L’amplificazione costituisce il modo per rendere visivamente e emblematicamente un personaggio come perverso e inaffidabile, basta poi l’accostamento fotografico reiterato tra il presunto colpevole e la vittima, e la prossimità diviene elemento di prova, associazione necessaria e indefettibile. La percezione di causalità tra eventi spesso prescinde dai rapporti oggettivi ma si fonda per così dire sui nessi emotivi e simpatetici, su accostamenti allusivi. Le azioni di chi è già stato presentato come antipatico verranno derubricate come volgari e sospette. Insomma le nostre conoscenze di causa ed effetto vengono organizzate in base a similarità, prossimità e verosimiglianza che i media sanno sfruttare al meglio nell'ambito di una cultura con tutti i suoi preconcetti e le sue idiosincrasie... e soprattutto con quell'addestramento mediatico a dare giudizi sull'onda della spettacolarizzazione, dell'allusione, della frivolezza e della approssimazione. Il primo ingrediente è l’aspetto esteriore che serve più che altro per predisporre la nostra preparazione culinaria. Un po' come il burro per creare l’ambiente ben lubrificato per il nostro soufflé. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, come dice la canzone. Per qualcuno la premessa già basta e avanza, e senza indugi è già pronto a tirare i remi in barca e dichiarare senza mezzi termini che con quella faccia non ci vuole molto a capire che è lui l’assassino. Per chi invece è un po' più esigente e vuole conoscere a fondo la ricetta, occorre procedere nella preparazione gastronomica seguendo con accortezza tempi e modi nei quali gli ingredienti vengono aggiunti e calibrati con le indicazioni dello chef (o cuoco - detto più volgarmente). Nell'epoca della navigazione on-line c'è una facilità davvero intrigante a formare generalizzazioni, il rapporto parte-tutto nella percezione visiva e "olfattiva". Un elemento singolo può essere percepito come rilevante per approdare a una certa conclusione, lo stesso elemento considerato in un altro contesto appare trascurabile. Le pagine visitate da un comune navigante sul web nel corso degli anni sono innumerevoli, analizzandole a dovere si trova per chiunque qualche riferimento sospetto. Sulla base di un teorema qualunque elemento può fungere da verifica, tanto più se il navigante è prolifico. Il contesto decide cosa deve essere considerato per contrasto e cosa per assimilazione. Analizzando le navigazioni on-line di un individuo sospetto e, viceversa, di un buon padre di famiglia, anche in assenza di differenze significative alcuni siti per il primo risalteranno come indizio mentre per il secondo risulteranno solo essere delle normali curiosità. Il pregiudizio colora e dà forma alle nostre percezioni, con quei meccanismi sottostanti che i media sanno usare con dovizia e accortezza. Lo slogan ripetuto (frequenza) ha buona probabilità di successo. Se poi è gridato (intensità) è ancora più efficace e se è movimentato come una insegna al neon (animato) attira l’attenzione più di una normale scritta statica. Perfino i comportamenti più insignificanti sotto la lente di ingrandimento del sospetto (e della gran cassa mediatica) possono apparire come emblematici, perversi e rivelatori. Fatti inconsistenti e banali, presentati con la idonea risonanza emozionale, risaltano nell'opinione pubblica come prove che inchiodano. In un contesto in cui un individuo viene ritenuto autore di un delitto, perfino gli elementi a discarico vengono interpretati come aggravanti, come capacità perversa a dissimulare, fingere e inquinare. È il noto meccanismo della dissonanza cognitiva. Qualunque nuova informazione dissonante rispetto al nostro corredo di credenze verrà interpretata in modo da attenuare o annullare la dissonanza cognitiva ed emozionale. I cambiamenti comportano sempre qualche forma di conflitto con il nostro bisogno di stabilità. Si può distorcere la percezione delle informazioni dissonanti per renderle idonee al nostro sistema cognitivo, almeno fin quando diventa ineluttabile la necessità di una modifica, non senza passare attraverso una fase frustrante e talora dolorosa di riorientamento. Se mi sono convinto che mister X è colpevole (o innocente) di un delitto, anche le nuove informazioni verranno corrette alla luce del mio sistema di credenze. Quello che è dissonante verrà reinterpretato per renderlo congruo e adatto a non mettere in crisi le mie convinzioni, fino al punto di rendermi volontariamente cieco di fronte alle evidenze, per non dover affrontare l’onere e lo stress di un cambiamento. Le difese che riguardano la dissonanza cognitiva hanno anche un carattere preventivo: nel caso dell’influenza mediatica è la tendenza dello spettatore a esporsi selettivamente a quei messaggi che confermano le sue convinzioni e a sottrarsi a quelli che possano mettere in crisi il suo sistema di valori già ben strutturati. Del caso Bossetti, con tutti gli interventi mediatici, ne hanno fatto un caso emblematico di come agisce l’influenza sociale, di quali meccanismi sono in grado di cucinare un colpevole. Pochi ingredienti calibrati, nelle dosi giuste e opportunamente mescolati tra loro per una presentazione ottimale, fanno il miracolo di sfornare il soufflé, un piatto dove la componente dell’aria renda il composto soffice e gonfio Certo, c'è sempre il rischio che si afflosci come una gomma bucata…Il personaggio Bossetti (non l’uomo Bossetti reale) è il prodotto di una informazione che costruisce a tavolino un Dna di sintesi proprio come Dolly. Si tratta di un prodotto clonato usando tutti gli stratagemmi tipici di una ingegneria mediatica che riesce a estrarre dal cilindro un coniglio virtuale (personaggio magari in senescenza prematura, come l'ovino, se il soufflé non riesce bene). Comunque, a detta dei più entusiasti sostenitori ed estimatori, si tratterebbe di un nuovo modello di strategia riproduttiva, di avanzata metodologia investigativa e… di marketing e televendita delle opinioni. Inutile esemplificare con gli ingredienti. Un soufflé dolce o salato si può fare praticamente con un po' di tutto (dai cavolini di Bruxelles fino alla Nutella), l’importante è montare sempre bene. E se la materia prima scarseggia si può ovviare mantecando e gonfiando perfino le bazzecole, le bagatelle e le pinzillacchere per ottenere un cuore morbido e spumoso, proprio quello che piace a un'audience di bocca buona: L'aria, il recitar cantando. Ce la suonano e ce la cantano per rendere il soufflé turgido e cremoso. In realtà, e a denti stretti, bisogna però ammettere che tolto un Dna che sembra un Beaujolais nouveau più che un Cabernet-sauvignon da invecchiamento, nel nostro caso rimane solo uno stampo imburrato e spolverato con il pangrattato. Un polimero montato a neve e tanta tanta aria fritta.

Massimo Bossetti. Nuvole e orologi...Saggio di Gilberto Migliorini. “La natura, così come oggi siamo in grado di capirla, si comporta in modo tale che risulta fondamentalmente impossibile prevedere esattamente cosa succederà in un dato esperimento. È una cosa orribile. Infatti i filosofi avevano stabilito come uno dei requisiti fondamentali della scienza che nelle stesse condizioni debba verificarsi la stessa cosa. Questo è semplicemente falso: non si tratta di una condizione fondamentale della scienza. Il fatto è che non succede la stessa cosa, e possiamo trovare solo una media dei risultati, con metodi statistici. Ciò nonostante, la scienza non è completamente crollata.” - Richard Feynman. Quanti sono i casi Bossetti? Quanti i più eclatanti finiti con condanne senza la ben che minima prova di colpevolezza, ma solo con un sistema teorematico basato su indizi veri o presunti? Nel Bel Paese si è inventato un nuovo tipo di processo, quello indiziario con le prove che si formerebbero in dibattimento, la nuova epistemologia giuridica per la quale esiste un processo magia dove anche in assenza di prove, shakerando a dovere quelli che ormai vengono definitiindizi (talvolta con molta fantasia), salterebbe fuori il nome del colpevole. Con quel topos della prova scientifica, una locuzione richiamata più volte in tutte le salse, si può davvero fare il miracolo. Ma un conto è giostrare con alambicchi e provette, usare qualche algoritmo e formula matematica, magari un database dal quale far saltar fuori per magia il nome del colpevole (qualche volta l’incantesimo riesce, ma non sempre), e un conto essere consapevoli dei limiti e delle condizioni nelle quali un enunciato abbia uno statuto di scientificità e un indizio non sia tale solo perché istituisca dei nessi suggestivi. Mi rifarò alla epistemologia contemporanea - dal momento che molti sembrano tenere in grande considerazione la cosiddetta prova scientifica. Basta il nome e al grande pubblico è come somministrare un placebo, o fargli bere dello spumante con le bollicine: l’effetto è senz'altro inebriante. La magia è di quelle dove basta proferire la parola scienza, un po’ come dire abracadabra, per suscitare un consenso immediato e unanime. Si cita qualcosa che ha valore nella condizione controllata del laboratorio, sovente si tratta di un dato da considerare tutt'al più come elemento all'interno di un sistema di inferenze (possibilmente deduttive e non induttive). In Italia la parola scienza ha assunto per molti quel carattere magico, lo slogan che rende tutto più facile, più persuasivo e coerente. Come dire che se sull’etichetta c’è il suo logo, il marchio di fabbrica, allora possiamo star certi che il contenuto è proprio quello indicato, con tanto di dosi e ingredienti assunti magari come un farmaco dell’anima. Nel caso Bossetti il tema è il Dna, un acronimo evocativo di certezze…Occorre avere una competenza in campo biologico per decidere la rilevanza della prova addotta? Direi proprio di no. Non occorre che un magistrato sappia di acido desossiribonucleico o di mitocondriale e nucleare. Il primo spunto narrativo è appunto quella confusione che salta all'occhio, una sorta di melassa argomentativa spesso al solo scopo di nascondere incoerenze e contraddizioni dietro alla cortina fumogena fatta di parole in libertà, e con in più quel verbo genetista e biologista che incanta la palude mediatica e le fa gridare inenarrabili supplizi all'indirizzo del signor Bossetti per via di quei microgrammi di ottima qualità e che purtroppo sembra siano andati esauriti, consunti o dilapidati nel decifrarne origine e proprietà. Il medium è quel collegamento tra fatti che offre loro rilevanza e visibilità, talora amplificandoli al punto da renderli vistosi ed eclatanti. Si tratta della confusione (ormai cronica e costitutiva) tra dato e prova (ma anche tradato e indizio). Una confusione che crea le premesse (mediatiche) di un’audience che vive la giustizia come un colossale tiro al bersaglio. Quando Karl Popper pubblicava la sua opera, l’epistemologia aveva già conosciuto pezzi da novanta per restare negli ultimi due secoli come Mach e Heisenberg. In seguito altri avrebbero promosso una riflessione critica sul metodo. E solo per citare alcuni nomi, scienziati come Feynman (padre delle nanotecnologie e ispiratore del computer quantistico) Prigogine premio Nobel per la chimica recentemente scomparso o Richard Lewontin - per restare in ambito genetico con l’opera famosa The dream of the Human Genome and Other Illusions. Le certezze illusorie della fisica newtoniana, semplificazioni artificiose della realtà, sono entrate in crisi nel novecento (declino della teoria newtoniana come episteme con l’elaborazione della teoria della relatività diEinstein). È soprattutto nella crisi dell’epistemologia di orientamento positivista e con l’opera di Thomas S. Kuhn - “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” - che si è affrontato il tema della distinzione tra scienza normale (quella dei ragionieri della scienza, i meri esecutori) e scienza straordinaria, dove avvengono le vere e proprie rivoluzioni scientifiche. La distinzione richiama alla mente per il caso Bossetti l’affermazione proditoria fatta da qualche operatore in ambito scientifico che la scienza non sbaglia. Al contrario possiamo affermare in tutta sicurezza che nella storia della scienza proprio l’errore ne ha sempre promosso gli sviluppi e che proprio l’errore è al centro di tutte le rivoluzioni scientifiche, come Kuhn ha osservato nella sua opera. Nella rivoluzione scientifica si vanno affermando nuovi paradigmi (attrezzature intellettuali e manipolative) per far fronte alle “anomalie” che richiedono un ripensamento delle modalità teoriche e procedurali di una determinata disciplina e che preludono appunto a una rivoluzione concettuale in ambito scientifico. Nel 1934, Karl Popper aveva pubblicato la sua “Logica della scoperta scientifica” seguita poi da Congetture e Confutazioni e il Poscritto (per citare solo le opere più famose) che al di là delle prese di posizione dell’epistemologia più recente rimane sicuramente l’opera più importante e significativa sui limiti del metodo scientifico e sui criteri di validità della sua metodologia (ovviamente non come presa di posizione contro, ma al contrario come contributo a chiarire la logica della scienza e le sue eventuali fallacie e illusioni). L’input più significativo dell’opera di Popper riguarda l’induzione (o inferenza induttiva) che normalmente viene usata nei tribunali come procedimento in grado di trasformare gli indizi in elementi di prova. La conclusione di Popper è invece categorica: l’induzione non esiste (non esiste nessun metodo basato sulla routine) e questo, occorre dire, in completo contrasto con il senso comune per il quale è facile passare da alcune osservazioni, per induzione, a delle categorizzazioni di tipo universale. Popper distingue due tipi di induzione:

a) una induzione ripetitiva o per enumerazione (osservazioni ripetute che dovrebbero fondare delle generalizzazioni);

b) induzione per eliminazione.

a - Induzione ripetitiva per enumerazione: Popper osserva che nessun numero di osservazioni di cigni bianchi riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi (esiste sempre la possibilità che un cigno sia nero o di altro colore); nessun numero di spettri di atomi di idrogeno potrà stabilire che tutti gli atomi di idrogeno emettano gli stessi spettri. Nessun numero di osservazioni sul comportamento di un assassino, aggiungo io, potranno mai stabilire che in certe circostanze l’assassino si comporti sempre allo stesso modo: nessun numero di osservazioni di persone può fondare generalizzazioni del tipo tutti gli uomini”. La conclusione popperiana è che l’induzione ripetitiva - o per enumerazione - non è fondante di un criterio di scientificità. Si sente spesso nel caso di un omicidio indicare gli scenari possibili, come se tolti quelli sia esaurita la casistica delle possibilità. In realtà i casi possibili sono solo quelli che riusciamo a immaginare sulla base della nostra esperienza e dei nostri pregiudizi. La realtà è sempre più complessa e imprevedibile di quanto riusciamo a immaginare. Un paio di scarpe si possono macchiare di sangue se qualcuno cammina sul luogo del delitto, ma non è detto che in certe condizioni di umidità e temperatura (difficilmente ripetibili) ciò accada necessariamente. Magari perché il sangue si è già coagulato e/o perché la successiva camminata sull'erba bagnata le ha ripulite. Immaginare scenari è lecito, ritenere che quello che riusciamo a immaginare limiti le possibilità reali è un errore di chi pretende di esaurire il campo delle possibilità in quello che considera logicamente plausibile sulla scorta di quanto conosce o della casistica che ha preso in esame. Sulla base del noto e dell’esperienza sensibile la scienza non avrebbe mai conosciuto né il principio d’inerzia galileiano e né quello della caduta dei gravi. Per non parlare delle teorie completamente anti intuitive come la relatività o il principio di indeterminazione: la scienza per sua natura diffida del principio di induzione (che fa capo al senso comune) che ne minerebbe qualunque possibilità di sviluppo riducendo le sue conclusioni al noto e senza mai prendere in esame quelle discrepanze e quelle ‘eresie’ che invece la sollecitano a nuovi sviluppi. Possiamo senz'altro dire che tutta l’impresa scientifica esplora un campo di possibilità che tende ad espandersi e non già a conchiudersi in una routine predefinita e in un sistema di significati predeterminati. Per sua natura l’impresa scientifica è sempre aperta e pronta a riconsiderare le sue conclusioni sulla base di nuove osservazioni e alla luce di nuovi paradigmi concettuali qualora questi si dimostrino più fecondi e promettenti. La via della scienza è un percorso stretto tra il determinismo di leggi ferree (che in realtà sono solo approssimazioni) e il caos e l'arbitrio dell'indeterminismo.

b - L’induzione per eliminazione (o esclusione) si basa sulla eliminazione e confutazione delle teorie false (Bacone e Stuart Mill credevano che eliminando tutte le teorie false potesse emergere la teoria vera). L’operazione è impossibile perché il numero delle teorie false è indeterminato, potenzialmente infinito, semplicemente crediamo di averne definito la quantità e rappresentato tutti gli elementi. Nel caso di un omicidio si sente spesso parlare di formule che hanno la pretesa di eliminare qualunque altro scenario perché prese in esame alcune possibilità si ritiene di averne esaurito il numero. In realtà in una situazione reale nessuno è in grado di formulare tutti i casi realmente possibili, perché fattualmente la realtà presenta sempre situazioni imprevedibili e del tutto ignote: la logica induttiva non può nemmeno definire una probabilità mancando un numero reale sul quale applicarsi. Le regolarità e i cicli iterativi non sono applicabili a quei numeri primi (che in certo senso rappresentano la realtà nelle sue indeterminazioni) che nonostante il crescere della potenza dei computer risultano del tutto refrattari a un calcolo predittivo. Un conto è la situazione del laboratorio, dove tutte le variabili sono controllate e si può stabilire un nesso certo tra variabili (dipendenti e indipendenti), e un conto una situazione reale dove entrano in gioco inquinamenti di varia natura e dove, come in un omicidio, non sempre è possibile cristallizzare la scena del crimine (come nel caso di un corpo lasciato per mesi alla mercé di chiunque). Le formule spesso usate per utilizzare l’induzione sono quelle che poi possono essere clamorosamente smentite: Chi se non lui? Come altrimenti? Quale altro scenario è possibile? Confondendo il piano logico con quello fattuale. Un delitto non è un gioco di ruolo con risposte chiuse tolte le quali non ne esistono altre. Una criminologia come scienza induttiva che faccia riferimento vuoi a una casistica e vuoi a una supposto criterio testato mediante procedure di esclusione (eliminare tutte le ipotesi impossibili), andrebbe necessariamente incontro, secondo l’epistemologia contemporanea (e il buon senso), ad esiti deludenti e fallaci. Per eliminare tutte le teorie false occorrerebbe conoscerne il numero e la consistenza e, di fatto, poter definire la situazione reale come possibile e definire l’impossibilità con dei criteri che possano dirimerla dal possibile. Se ciò fosse vero, il detective sarebbe una mente onnisciente. Pescare poi in un database nel quale trovare spunti e analogie può essere utile come fonte di suggerimenti, non già come il libro dove estrarre la formula magica con la quale restringere preventivamente un campo di ricerca prima ancora di aver esperito l’ampiezza del campo di indagine; ampiezza che occorre dire può restringersi, ma anche allargarsi qualora altri indizi modifichino l’ambito della ricerca stessa. La conclusione di Popper è perentoria: per qualsiasi problema esiste sempre una infinità di soluzioni logicamente possibili e dunque qualsiasi metodo basato sulla routine risulta inadeguato per dimostrare la sua natura infallibile o per poter essere considerato scientifico. D’altro lato se l’induzione fosse valida scientificamente potremmo evitare di celebrare processi e usare per l’appunto una casistica come criterio di colpevolezza fondando generalizzazioni dal particolare all’universale (che costituisce appunto l’induzione o sillogismo induttivo). Aristotele si era occupato anticamente di definire il sillogismo induttivo con il celebre: L’uomo il cavallo e il mulo sono animali senza bile - L’uomo il cavallo e il mulo sono longevi - (quindi) Tutti gli animali senza bile sono longevi. Per cui qualche moderno criminologo potrebbe usare una formula analoga del tipo: Antonio, Aldo e Gianni sono bugiardi - Antonio, Aldo e Gianni sono assassini -  (quindi) Tutti i bugiardi sono assassini. Per qualcuno si tratta di un sillogismo probabile, ma per altri di uno pseudo-sillogismo (più correttamente un sillogismo non scientifico). Naturalmente per Aristotele il vero sillogismo era quello deduttivo (o scientifico), non dal particolare al generale ma dal generale al particolare: es: Tutti gli uomini sono mortali - Socrate è un uomo - Socrate è mortale: ricavando poi le 4 figure del sillogismo. Già Bertrand Russell col tacchino induttivista aveva bollato l’illusorietà dell'induttivismo. Occorre dire che la posizione ingenua di certo scientismo si sta ormai affermando. Soprattutto in certi programmi televisivi che ci offrono un surrogato di epistemologia da salotto, dove le tautologie rappresentano la forma tipica di ragionamento. Popper ci offre una metafora caustica e illuminante, quella degli orologi e delle nuvole. Il senso comune suddivide gli eventi in due tipologie - quelli prevedibili (gli orologi) e quelli imprevedibili (le nuvole) - e pone l'accento sulle differenze quantitative e di complessità tra i due tipi di oggetti poiché "il comportamento delle nuvole sarebbe altrettanto prevedibile di quello degli orologi, qualora conoscessimo delle nuvole tanto quanto conosciamo degli orologi". Popper controbatte che (imprevedibilmente) la categoria degli orologi (assimilabili a nubi di molecole) può invece avvicinarsi a quella delle nuvole e che le teorie scientifiche, in quanto invenzioni umane, non sono strumenti perfetti. Sono invece strumenti di continua approssimazione alla realtà, reti progettate per catturare il mondo le cui maglie divengono sempre più fitte mano a mano che procede la conoscenza, ma costituisce una trama pur sempre troppo larga, mancando misure assolute, da non lasciare abbastanza spazio per l'indeterminismo. Non occorre per un magistrato sapere di genetica per capire che in quel campo di Chignolo dove è stata trovato il cadavere della piccola Yara l’indeterminismo la fa da padrone, che niente in quello scenario ci riporta a una situazione da laboratorio rappresentativa di un orologio (peraltro con tutti i limiti di precisione di qualsiasi orologio, tutti invariabilmente nuvole di molecole - perfino quelli a scansione atomica sono testati su un tempo con margini di imprecisione), a meno di considerare l’oggetto in questione una pura astrazione, utile per formulare ipotesi, idonea a immaginare scenari, suscettibile di approfondimenti ma lontano davvero da quel senso comune o da certo scientismo che pretende di considerare la prova scientifica (che nella fattispecie è solo un dato) come una sorta di abracadabra. Un orologio insomma che, per quanto ci dicano che il Dna non sbaglia, è solo una nuvola di incertezza con quadrante, lancette e meccanismi di un orologio lasciati sotto la pioggia, sotto la neve e nel fango così a lungo da supporre che ormai non si sa più se le sfere vanno avanti o indietro o se indicano un tempo attendibile o inattendibile. Per non parlare poi del fatto sicuro che un orologio può essere manipolato volontariamente o involontariamente (se non si trova nelle idonee condizioni dove ogni variabile è tenuta sotto controllo) in modo che poi rilevi un tempo che non è assoluto e neppure relativistico: è solo un tempo immaginario o, magari, taroccato (ovviamente quella dell’orologio è solo una metafora). Ciò che colpisce in tanta nostrana criminologia è quella iper-semplificazione che rende banalmente semplice quello che invece è complesso. Non si tratta di un albo a fumetti dove l’assassino assume sembianze prevedibili efantozziane. Il povero Bossetti secondo la vulgata criminologica girerebbe ossessivamente con un camion attorno alla palestra per far cosa? Per intercettare Yara che, sempre stando ai detective, già conosceva? E magari rischiando di non vederla se fosse uscita quando si fosse trovato dalla parte opposta? La logica vorrebbe che, se lo scenario fosse vero, Bossetti avrebbe più semplicemente parcheggiato il camion in attesa della ragazza. Oppure che sarebbe sceso dal mezzo posizionandosi all'ingresso della palestra per vederla uscire. O anche che fosse entrato nell'edificio per localizzarla. Per quale motivo, per il criminologo moderno, l'astuto muratore avrebbe continuato a girare in tondo senza mai fermarsi? La ricostruzione ha un effetto comico, ma è solo un’immagine fantasiosa e suggestiva, una di quelle induzioni che dovrebbero fornire un criterio di verosimiglianza e che invece danno la sensazione di un cartoon buono per un'audience abituata alle fiction e agli sceneggiati. Già Ernst Mach aveva osservato che le teorie scientifiche finiscono per occultare i dati empirici, per nascondere i fenomeni, insomma che la metafisica si nasconde nelle pieghe stesse delle teorie scientifiche: come ad esempio la meccanica classica (galileiano-newtoniana) e come quegli illusori concetti di tempo assoluto e spazio assoluto. In quel campo di Chignolo si è fatto uso di concetti assoluti (Dna, giorno e ora della morte) senza disporre di alcun riferimento certo, solo postulando scenari senza disporre di elementi inconfutabili. Si è dato per buono un Dna che mai avrebbe potuto sopravvivere integro per più di due settimane alle intemperie, si è dato per certo che nessuno per mesi abbia potuto contaminare la scena del crimine e il cadavere, non si è considerata la contraddittorietà degli elementi raccolti (nucleare-mitocondriale) che pongono più di un ragionevole dubbio e non si è considerato che, alla fin fine, non esiste neppure più il reperto che inchioderebbe l’assassino. Ce ne sarebbe abbastanza per ritenere che Massimo Bossetti non solo non dovrebbe trovarsi in carcere, ma nemmeno essere imputabile di un delitto. In un’indagine è del tutto legittimo immaginare uno scenario sulla base di un pre-giudizio (una ipotesi di partenza), cercare riscontri e indizi. Altra cosa perseverare in una certa direzione anche quando le aspettative vanno deluse e i riscontri contraddicono l’ipotesi di partenza. Questo ci porta al cuore dell’epistemologia contemporanea, a quel criterio di falsificazione che costituisce l’elemento che contraddice il senso comune e tutta quella pletora di opinionisti che fanno della prova il leitmotiv di uno scientismo ingenuo. L’ingenuità consiste nell'usare la verifica come criterio di controllo. Una teoria per essere provata deve poter essere falsificabile per via empirica e l’insieme dei potenziali falsificatori non deve essere vuoto: la scientificità di una teoria comporta la possibilità di estrarre conseguenze passibili di controllo fattuale. Nelle parole di Popper: “Da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza” - un sistema teorico è scientifico solo se può risultare in conflitto con certi dati dell’esperienza. Se cerchiamo conferme è facile ottenere conferme e verifiche per ogni teoria, cercando appunto ciò che conferma e non ciò che contraddice fattualmente la mia teoria: solo indicando quali eventi sarebbero incompatibili con la mia teoria mi espongo al rischio della confutazione, ma è proprio in questo che consiste la scientificità.

- Una teoria scientifica è una proibizione, esclude l’accadimento di certi fatti. Quante più cose essa preclude e tanto è migliore e tanto più si espone al rischio della smentita.

- Se una teoria non può essere in alcun modo confutata (non ha potenziali falsificatori) non può dirsi scientifica. L’inconfutabilità è un difetto.

- Controllare la scientificità di una teoria significa tentare di falsificarla (confutarla): la conferma della teoria non è altro che il tentativo fallito di falsificarla.

Esiste però anche la possibilità di sostenere delle teorie che si sono rivelate false introducendo ad hoc qualche assunzione ausiliaria, modificandone alcuni aspetti e reinterpretandola. Sono quelli che Popper chiama Mosse o Stratagemmi Convenzionalistici che salvano la teoria dalla confutazione ma ne distruggono il suo statuto scientifico sottraendola al criterio di falsificabilità. I sistemi metafisici sono sempre verificabili (utilizzano quei fatti che confermano) e mai smentibili. Se oggi dico domani pioverà o non pioverà (non può essere confutata) non faccio una asserzione empirica perché quanto ho detto trova sempre conferma. Se invece dico solo domani pioverà, faccio una asserzione empirica (falsificabile). In un sistema giudiziario se una prova è irripetibile la controparte dovrebbe essere informata per poter effettuare i controlli, altrimenti siamo nuovamente in un sistema senza falsificatori potenziali. La scienza non è un atto di fede, solo gli asserti empirici (la possibilità che un esperimento possa essere riprodotto per un controllo) possono essere falsificati e dunque sottoposti ad eventuale confutazione. Questo fatto comporta che una teoria con maggior contenuto informativo e predittivo è anche la meno probabile (maggior informazione e complessità=maggior probabilità di sbagliare - la teoria più controllabile è anche l’ipotesi più improbabile). In altri termini la scientificità è data dal fatto che una teoria espone sempre il fianco a dei controlli empirici che possono confutare le sue conclusioni. Il rapporto tra verificazione e falsificazione è dunque asimmetrico. Migliaia di conferme non rendono certa una teoria (tutti pezzi di legno galleggiano), perché un solo fatto negativo falsifica dal punto di vista logico la teoria stessa (questo pezzo di ebano non galleggia). A complicare ulteriormente il criterio di scientificità Popper introduce la distinzione tra falsificazione logica e falsificazione metodologica.

Falsificazione logica: se una ipotesi viene falsificata allora la teoria risulta falsificata: se T è vera allora sarà vera anche C (conseguenza); ma se C è falsa anche T è falsa (dalla falsità di una conseguenza si passa alla falsità della premessa). Nella fisica aristotelica la velocità di caduta di un corpo è proporzionale al suo peso. Non si sa se Galileo, martire della scienza, sia mai salito sulla torre pendente per effettuare l’esperimento della caduta dei gravi che confuta la fisica aristotelica. Ma anche in questo caso non tutto è così semplice. Per falsificare un’ipotesi ho bisogno di ipotesi ausiliarie (che mi consentano di estrarre da queste conseguenze osservabili) e in seguito proprio quelle ipotesi ausiliarie potrebbero rivelarsi sbagliate (e dunque responsabili di una scorretta falsificazione): l’esperienza non può mai falsificare un’ipotesi isolata ma soltanto un insieme teorico. In altri termini, potrebbe darsi che in seguito risulti falsa non l’ipotesi sotto controllo ma gli asserti usati per falsificarla (cioè strumenti, procedure e modelli utilizzati). Se faccio cadere degli oggetti senza tener conto della resistenza dell’aria posso essere indotto a credere che la fisica galileiana sia scorretta. Dunque la falsificazione logica è sempre corretta e conclusiva, ma non sempre metodologicamente corretta e conclusiva. Insomma, una teoria è scientifica solo se in linea di principio e di fatto può essere smentita (deve possedere dei falsificatori potenziali). Se non esistono falsificatori si tratta di metafisica o di fede. Lo spazio einsteiniano che si incurva in prossimità delle grandi masse stellari è una previsione che contraddice la fisica classica e comporta il rischio della smentita (l’assunzione di tale rischio determina la scientificità della teoria). Torniamo a quel campo di Chignolo e al Dna per vedere se il criterio di falsificazione risulta soddisfatto, individuando quali potrebbero essere le potenziali conseguenze che falsifichino l’imputazione di omicidio a carico di Massimo Bossetti. Intanto occorre dire che l’uso del termine prova scientifica, usato ad ogni piè sospinto, è del tutto improprio, illusorio e fuori luogo. La prova è sempre deduttiva e implica semmai l’utilizzo di dati. Il termine prova scientifica può riferirsi, come nella teoria einsteiniana, semplicemente a una costruzione teorica con carta e penna (equazioni) e senza l’ausilio di alcuno strumento se non concettuale. Gli strumenti (telescopi, radiotelescopi, ecc) servono semmai come procedure di controllo (nell'infruttuoso tentativo di falsificarla). La prova scientifica non è altro che un sistema deduttivo nel quale poste alcune premesse ne seguono di necessita determinate conclusioni (ma nel caso specifico indicando sempre quali fatti empirici sarebbero in grado di falsificare tali premesse). Nel caso in oggetto (caso Yara) c’è una grande quantità di elementi che rendono aleatoria, per non dire immaginaria, la prova scientifica: mancano del tutto i falsificatori. Nel dettaglio:

A – Non viene indicato quando un reperto biologico non è più utilizzabile (quanto tempo deve trascorrere per considerarlo inattendibile).

B – Non viene indicato quando un reperto biologico sottoposto a stress ambientale (intemperie e parassiti) non possa più essere considerato valido. 

C – Non viene indicato quale deve essere il limite per il quale il luogo del crimine deve considerarsi non contaminato e alterato. Quale deve essere l’attendibilità di un reperto esposto per un tempo X in un contesto aperto a chiunque e dunque in una situazione non controllata.

D – Non viene quantificato il grado di attendibilità del reperto, se non con frasi discorsive e interpretabili a piacere (da “ottimo stato di conservazione” fino a “cattivo stato di conservazione”, “esiti non sempre ben interpretabili”, “elevato livello di degradazione”, “modificazione morfologica e cromaticità”.. alla faccia dei metodi quantitativi).

E – Non viene indicato quale sia l’evidenza che si tratta di sangue, saliva, urina, sperma o magari invece touch Dna. Si sa che una traccia di Dna ancora leggibile (se esposta ad agenti di degradazione chimica e ambientale) è di circa due settimane (vedi articolo di Annika in questo blog). Passato questo termine le ricerche pubblicate su prestigiose riviste scientifiche mondiali ci dicono che la degradazione non potrà ricondurlo al soggetto di provenienza. In pratica, se dopo quel lasso di tempo è ancora di ottima qualità (e nel caso in questione le settimane trascorse non sono solo due ma ben dodici) significa che è subentrata qualche contaminazione... non necessariamente volontaria.

F – Non è più possibile una verifica sul reperto di attribuzione di identità essendo esaurito.

G – Non viene indicata una spiegazione plausibile della contraddizione tra mitocondriale e nucleare.

Perciò, in base all'epistemologia contemporanea non esistono falsificatori e dunque non ci troviamo di fronte a un procedimento scientifico (in merito alla dimostrazione di colpevolezza). Il fatto poi che un reperto venga analizzato da un laboratorio ha come risultato solo un insieme di dati sicuramente attendibili, elaborati con precisione e competenza, ma pur sempre e solo un insieme di dati (elaborazione con metodi quantitativi di un reperto), non certo della prova di un delitto che richiede un procedimento logico che istituisca nessi tra altri fatti. Per quanto le analisi di un reperto possano risultare attendibili, sono altri e ben più complessi i riferimenti al contorno (il contesto) che possono rendere delle conclusioni completamente aleatorie.

Processo mediatico tra gioco e reality - l'esperimento Massimo Bossetti, continua Gilberto Migliorini. Parafrasando l’incipit del Manifesto di Marx ed Engels possiamo dire che c’è uno spettro che si aggira per l’Italia: lo spettro dell’esperimento mediatico. Ormai i cold case più eclatanti hanno quel corollario televisivo dove una pletora di opinionisti, criminologi, magistrati, psicologi, psichiatri, tuttologi, astromanti… si calano nello spazio dell’etere per un esperimento che coinvolge milioni di telespettatori, quel target invisibile e fantasmatico che in genere ha la sua rappresentanza simbolica in uno studio televisivo, con una claque che si vuole rappresentativa (figurativamente) di tutta l’utenza dell’etere, sia pure suddivisa in più canali e fasce orarie. È quella massa atomizzata, rappresentata numericamente dallo share, che dalle sue postazioni domestiche, disperse sul territorio, si forma, come si dice, le opinioni. Si tratta di quel tutt'uno che vibra all’unisono come una sorta di encefalo collettivo e che con enfasi sociometrica viene tout court indicato come opinione pubblica. Una opinione collettiva plasmata non solo dalla pubblicità o dalla propaganda, non solo dalle voci che corrono, ma anche dai sondaggi e rilevamenti demoscopici che, proprio come nel principio di indeterminazione, costituiscono un procedimento di influenza delle opinioni nell'atto stesso della rilevazione statistica. Il concetto di opinione pubblica è ormai largamente usato sia per indicare gli strumenti ‘obiettivi’ di registrazione dei dati di ascolto, ma anche come profezia che si autoadempie, come indicatore che influenza l’opinione pubblica, e non solo come foto istantanea che ne registra gli umori. L’atto della misurazione sociometrica modifica la realtà sperimentale. L’influenza non è solo quella della notizia, ma anche quella nella quale viene ‘pesato’ e ‘misurato’ il suo impatto sull'audience. Proprio come nella meccanica quantistica la misurazione introduce una nuova variabile… e va a modificare la realtà osservata. Il teleutente (contemporaneamente vivo o morto senza ancora gli indici di ascolto) è come il gatto di Schrödinger, con il dato demoscopico acquisisce (finalmente) lo stato determinato di share…I casi in parola, quelli per intenderci che fanno notizia, sono importanti per il potere, non solo mediatico, in tutte le sue forme e le sue occorrenze. I cold case costituiscono una straordinaria opportunità per testare dei modelli di comunicazione e affinare quelle retoriche del consenso con le quali poi si potrà orientare il consumatore e l’elettore, e creare le formule narrative più efficaci e pervasive per costruire e assemblare il target in quanto speculum e cavia sperimentale. Le tecniche di persuasione vengono approntate per modulare le risposte emotive, verificare l’efficienza dei percorsi narrativi, utilizzando non solo l’inossidabile schema stimolo-risposta ma anche tutti quegli input in grado di generare atteggiamenti e nella formazione di quella opinione che si suppone misurabile oggettivamente mediante criteri quantitativi. 

Il target di comunicazione (e di marketing), viene fornito di:

a) di un’agenda setting (notizie notiziabili, scelte ad hoc) da parte dei grandi gruppi mediatici e non già dei piccoli blog dove esiste l’effettiva possibilità di scegliere e non di essere scelti - che è invece tipica di una televisione generalista. L’Italia trovandosi agli ultimi posti nell'uso della rete informatica è rimasta un paese dove la televisione sviluppa ancora il massimo di influenza con il minimo sforzo e senza una significativa concorrenza di altri media (monopolio della televendita delle opinioni); 

b) di competenze e conoscenze opportunamente implementate attraverso i vari apparati informativi (e scenografici) il più possibile circoscritte in formulari e schemi ripetitivi e inferenze standardizzate sotto forma di percorsi mentali tipicizzati (quegli stereotipi così prevedibili in un target non solo poco acculturato ma, soprattutto, poco aduso all'argomentazione razionale, abituato alle risposte di pancia sulla base delle suggestioni e del sentito dire: nel nostro caso indipendentemente dall'età e dal grado di scolarizzazione in un progressivo analfabetismo di ritorno.

La sfida dei persuasori è quella di valutare l’incidenza della narrazione mediatica, l’efficienza dei costrutti metaforici, l’efficacia dei procedimenti logico-argomentativi attraverso vari stili comunicativi e utilizzando tutti gli strumenti offerti dai percorsi di intrattenimento (format). Molta stampa impegnata è ancora convinta che i cold case vengano utilizzati dal sistema politico-istituzionale per agire sulla mentalità e sulle idee della massa condizionandola e distraendola tramite notizie di poca importanza (vedi il film Quarto potere di Orson Welles) dove la cronaca nera e eventi sociali marginali, rispetto ai grandi temi politici e alle controversie ideologiche solleciterebbero l’interesse morboso e disimpegnato dell’opinione pubblica persa dietro a romanzetti banali e notizie di cronaca nera (un po’ come i prolet orwelliani nel romanzo 1984). Il gatekeeping e le strategie di marketing vengono considerate come cernita di quello che si deve filtrare, selezione di notizie a scopo commerciale, in una prospettiva di disimpegno e con il conseguente consenso verso il potere in tutte le sue forme, culturali, economiche e politiche. La prospettiva presuppone una selezione degli input informativi, funzionale ai persuasori e ai loro interessi più o meno occulti, prassi preventiva di condizionamento (nello schema classico del condizionamento pavloviano). In realtà da un bel pezzo le cose non stanno così, anche se è evidente che il gatekeeper (l’esperto, l’opinionista) può essere più o meno consapevole di far parte di un esperimento mediatico di cui è sia mentore e complice, sia strumento e ingranaggio. La pianificazione di molti programmi nazional-popolari, ma anche di quelli che hanno pretese di approfondimento, in realtà segue uno schema diverso, potremmo dire sperimentale. Il modello è quello del condizionamento operante skinneriano (da Burrhus F. Skinner lo psicologo comportamentista americano). I cold case rappresentano una situazione formidabile per testare modelli sociologici in cui il pubblico è all'interno di un esperimento mediatico predisposto a tavolino, oggetto di un test collettivo non diverso da certi esperimenti da laboratorio resi famosi dalla psicologia sociale (esperimento Milgram, esperimento Asch, prigione di Stanford, profezia che si autoadempie ecc.). Gli ‘innocenti’ programmi pomeridiani e serali nei quali si alternano opinionisti e cronisti per descrivere i casi mediatici (soprattutto delitti ed eventi sociali di impatto emotivo) rappresentano una operazione atta non solo a ‘pesare’ le risposte dell’opinione pubblica (diremmo le modalità di intrattenimento in ragione del successo editoriale e della ricaduta sugli ascolti), ma a testare strategie narrative, stili retorici e forme argomentative. Il contenitore mediatico (il format) è in ragione della sua efficacia nel produrre risposte appropriate da parte del pubblico, e nel valutare quali percorsi narrativi e quali stimoli abbiano maggiore presa, e nel misurare poi le risposte in termini di reazione (apprezzamento o disapprovazione) del target di riferimento. Se una strategia comunicativa o narrazione mediatica, e ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, è in grado di dimostrare mediaticamente che una persona è colpevole di un delitto, si può ben dire che il modello è quanto mai efficace, riesce operativamente a orientare l’opinione pubblica servendosi di tutto quell'armamentario retorico, argomentativo e suggestivo non solo in grado di condizionare con stimoli appropriati le risposte del pubblico, ma di poter predisporre un esperimento mediologico per promuovere comportamenti e atteggiamenti idonei a formattare l’audience. Si utilizzano i cold case per testare delle strategie comunicative, un laboratorio nel vivo del paese modulando e perfezionando quei modelli di comunicazione (in campo pubblicitario e propagandistico) attraverso lo studio analitico dell’audience che di fatto risulta il vero soggetto sperimentale e di indagine. L’imputato di un delitto rappresenta soltanto il pretesto o l’occasione con la quale condurre l’esperimento e le relative misurazioni delle risposte dei soggetti sperimentali (la pubblica opinione e le sue articolazioni sociali e culturali). Un laboratorio nel corpo stesso di una nazione è un formidabile test per mettere a punto modelli e strategie manipolative che potranno poi essere applicati agli ambiti più disparati fornendo dati e riferimenti in merito agli atteggiamenti e alle idiosincrasie dell’opinione pubblica e alle modalità operative di condizionamento e formattazione dei comportamenti dell’utenza. Gli strumenti mediologici vengono messi a punto e affinati nel corso di spregiudicati ‘giochi mediatici’ e ‘reality criminologici’ che in dispregio alle persone coinvolte hanno come unico obiettivo il risultato sperimentale (proprio come nell'esperimento Milgram, l’ignaro soggetto sperimentale assegnava delle scosse elettriche, poco importa che fossero puramente simulate, dal momento che per chi le somministrava erano vere). Una sorta di “isola dei famosi” che ha per teatro l’intera penisola e per partecipanti…tutti gli ignari naufraghi del Bel Paese. Predisporre un ambiente mediatico con relativi opinionisti ed esperti non ha tanto lo scopo di influenzare le risposte relativamente a un caso specifico (che in quanto tale è solo un pretesto anche quando viene scelto come emblematico) quanto di testare l’efficacia di un modello comunicativo e le più idonee modalità di approccio all'audience. Nel caso del signor Bossetti la sfida non è tanto dimostrare che perfino una persona completamente estranea a un delitto e senza uno straccio di vera prova che lo coinvolga può essere additato come assassino, quanto di testare in quale misura, sotto quali condizioni e attraverso quali strumenti un battage mediatico può condizionare un target con gli opportuni input orientandolo ed educandolo operativamente, e predisponendo gli opportuni rinforzi e le idonee strategie. Il caso Bossetti in questo senso è emblematico di un sistema mediatico dove non si tratta più di un persuasore occulto riguardo a un ipotetico caso X, ma di un esperimento di psicologia sociale per metter alla prova una strategia comunicativa, un esperimento al di fuori del laboratorio e utilizzando un delitto, emblematico per il clamore che suscita, in un procedimento di ingegneria sociale finalizzata a elaborare strategie comunicative, affinare e testare modelli di persuasione da applicare poi anche in altri contesti (sociali e politici). Nello specifico si possono individuare alcuni espedienti narrativi e ricorsività metodologiche che influenzano ‘positivamente’ l’opinione pubblica. In particolare, sia sul versante cognitivo sia su quello emotivo. Si utilizzano le classiche fallacie della sofistica e eristica greca, tecniche che nonostante la società dei consumi costituiscono a tutt'oggi le migliori forme e modalità di persuasione. Alcuni esempi:

a) - fallacia compositionis: cioè tenere insieme cose che logicamente andrebbero disgiunte: Esempio offerto da Platone: Eutidemo prova al giovane Ctesippo che egli ha picchiato suo padre: “Egli ha picchiato il suo cane che, avendo avuto i piccoli da una cagna, è padre, e che al tempo stesso appartenendo a Ctesippo è suo, da cui per associazione suo padre”. Prima di sorridere vediamo nel caso Bossetti come viene presentato il tema del furgone. Una serie di immagini e filmati ci dicono che il furgone immortalato dalle telecamere è quello di Bossetti. La diatriba sul furgone e sulla sua effettiva identità nei vari pedinamenti delle telecamere sembra avere più che altro lo scopo di rinforzare l’idea di una relazione dell’automezzo con il delitto. Non so se sia vero che si tratti sempre del furgone di Bossetti, probabilmente no. Quello che importa è che si tratta di un gioco di prestigio, l’insistenza ha l’unico scopo di attirare l’attenzione su qualcosa di cui non esiste alcuna prova che intrattenga qualche relazione con Yara. Semplicemente, con una fallacia compositionis si postula, o meglio si sottintende, senza evidenze e in assenza di fatti, che Yara sia salita su quel furgone. L’insistenza sul furgone alla fine ottiene come risultato l’attenzione su qualcosa che si da per scontato abbia attinenza con il delitto e il rapimento. Si tratta solo di un gioco allusivo, ontologicamente inconsistente, ma in grado di sollecitare fantasie inconsce e scenari immaginifici. Analogamente si procede con le microscopiche fibre di tessuto trovate sul cadavere che potrebbero appartenere a migliaia di tessuti identici di altrettanti veicoli dove quel tipo di fibra costituisce un materiale diffusissimo. La fallacia compositionis costituisce un modello pervasivo con il quale l’opinione pubblica può essere distrattaproprio come in un gioco di prestigio nel quale la mano dell’illusionista attira l’attenzione creando relazioni apparenti allo scopo di abbagliare circa la sua rilevanza. Il procedimento è in gran parte inconsapevole, proprio come certi automatismi per i quali siamo presi al laccio e siamo convinti che esista una qualche relazione - anche se non ne abbiamo prova - solo per il fatto che di tale connubio siamo stati persuasi surrettiziamente e inconsciamente. Il modello mediatico è poi applicabile a tutta una serie di situazioni analoghe dove l’immaginario è in grado di suscitare consenso e approvazione anche se si tratta soltanto di un miraggio cognitivo.

b) - La fallacia divisionis. (disgiunzione di termini che andrebbero congiunti) nel caso in parola la troviamo ogni volta che qualche elemento favorevole all'imputato viene tenuto separato per non creare dissonanza cognitiva rispetto all'assunto di colpevolezza che costituisce premessa tutta da dimostrare.

c)  fallacia di accentazione (parole chiaramente diverse, es: àncora e ancòra, che vengono accentate e usate in modo mirato così da portare il telespettatore alle conclusioni volute); nella fattispecie è da intendersi metaforicamente come l’enfasi con la quale si sottolineano alcuni fatti, anche i più insignificanti che per effetto suggestivo acquistano rilevanza di indizio. La natura dell’indizio infatti è la sua totipotenza, ubiquità e indeterminatezza, è tale in un contesto di relazioni che spesso si appoggiano le une alle altre come in un castello di carte dove tolta l’una tutto il sistema crolla. In altri termini, l’indizio ha uno statuto puramente soggettivo e arbitrario se non è supportato da un elemento di concretezza e di realtà. Ma anche qui la latitudine interpretativa è piuttosto arbitraria dal momento che al di fuori di un teorema spesso gli indizi sono semplicemente fatti di nessuna rilevanza che acquistano importanza nel momento in cui esiste un sospetto che ne amplifichi la portata facendoli risaltare in una inversione figura-sfondo. Nella Storia della colonna infame (opera geniale che vale più di un trattato di criminologia) il Manzoni ce ne dà uno splendido esempio: l’andar rasente un muro diventa l’indizio che si tratta di un untore e la stessa opinione pubblica vede i muri unti laddove si tratta di un lerciume che è lì da sempre (la suggestione mediatica purtroppo non è invenzione di oggi). Spesso i fatti più banali assumono un rilievo semplicemente perché vengono segnalati e sotto la lente d’ingrandimento, amplificati col pregiudizio, acquistano lo statuto di indizi. La navigazione in siti pornografici in sé è un fatto banale e non costituisce neppure violazione di qualche norma giuridica (in un paese bacchettone come il nostro però acquista un rilievo moralistico in grado di innescare preconcetti), in certe condizioni allusivamente diviene una sorta di macchia che diffonde un alone di diffidenza e pregiudizio. I comportamenti più banali, allo stesso modo, possono, mediante enfasi e accentuazione e accentazione, creare attorno a un personaggio un’aura di sospetto che diviene ambiente nutritivo di effimere induzioni e falsi sillogismi

d)  esistono poi le fallacie estranee al linguaggio, quelle che confutano una tesi o mettono in bocca all'interlocutore un significato diverso dalle sue intenzioni - o forzandone il senso o introducendo il classico passepartout psicanalitico del significato inconscio, ritorno del rimosso, riaffiorare della verità nascosta.Insomma, i classici paralogismi e psicologismi che van bene in tutte le salse. Nel caso Bossetti ogni parola è stata spaccata in quattro, ogni frase del muratore radiografata, non già in un tentativo obiettivo di cogliere semplicemente la volontà di affermare la sua innocenza (perlomeno di ascoltare quello che l’imputato ha da dire nel tentativo di discolpa), ma nell'intento di individuare, comunque, presunte contraddizioni ed elementi di colpevolezza con un pregiudizio che colora qualsiasi cosa l’uomo dica o faccia, anche la più insignificante e banale, come un indizio di quello che si vuole dimostrare. Il gioco del significato latente di parole e gesti del quotidiano può alla fine metter capo ad alcuni perversi meccanismi proiettivi quali:

d1 - la mistificazione dell’io: attribuire all'interlocutore bisogni, desideri, stati d’animo, motivazioni e pulsioni che in realtà non ha espresso.

d2 - la risposta tangenziale che ha per effetto la disconferma. Avviene quando a un’osservazione dell’interlocutoresi risponde filando via per la tangente, cioè omettendo di prendere in considerazione (o facendolo solo all'apparenza) le sue istanze e i suoi vissuti.

d3 - il doppio legame: nell'ingiunzione paradossale sii spontaneo oppure dì quello che sai, confessa dove il processo di ascolto è viziato da un pre-giudizio che costituisce il contenitore nel quale qualunque comunicazione viene formattata in base a un significato preordinato (ad esempio di colpevolezza). Nel caso Bossetti c’è però un elemento aggiuntivo che colora tutto il procedimento mediatico e che costituisce la peculiarità dell’esperimento in questione: la semplificazione e l’omissione.

Il tema è quello del Dna. Leggendo nei vari blog e nei commenti dei lettori nei quotidiani on-line o ascoltando programmi televisivi dedicati al caso in parola, ciò che stupisce è da un lato l’accuratezza terminologica relativamente agli aspetti biologici e genetici della questione (all'apparenza tutti esperti genetisti), dall'altro, anche in questo caso e in un certo senso come per il furgone, la dimenticanza che il corpo della povera ragazza è rimasto per mesi in balia di chiunque, che nessun Dna può conservare integre le sue informazioni dopo essere rimasto per mesi all'addiaccio, e infine che le analisi dei reperti sono contraddittorie. La semplificazione e l’omissione sono un tratto ormai caratteristico di una forma mentis mediatica che fa dell’apparenza e della semplificazione il suo valore e la sua finalità. Un utente ed elettore di bocca buona, assuefatto a non riflettere troppo, fa piacere a un sistema politico-istituzionale che predilige un target addomesticato e indottrinato

Il caso Bossetti è ben più di un cold case, è l’anatomia di una società dalle risposte emozionali, incapace di valutare i fatti svincolandoli dalle suggestioni mediatiche, predisposta a tutti i livelli e in tutti gli ambiti a dare spiegazioni standard, soggiogata dagli strumenti retorici che essa stessa ha creato e che le si ergono contro dominandola. Un Bel Paese sempre più incapace di comprendere le tensioni e le contraddizioni che lo caratterizzano a tutti i livelli compresi quelli istituzionali. L’opinione pubblica, formula evocativa di una ipostasi mediologica, da tanto tempo ha perso qualunque orientamento e vive il carpe diem - come un day-time - la realtà virtuale di un monitor nel quale si forma un mondo ideativo e immaginario; un reality di pregiudizi e stereotipi. Il caso Bossetti (‘esperimento’ forse destinato ad entrare nei manuali di psicologia sociale) rappresenta la radiografia e il Dna di una società che ha smarrito ogni valore e ogni certezza sostituendoli cinicamente con cliché e decalcomanie. Vivaddio, siamo il paese encomiabile delle garanzie quando si tratta di ex Presidenti del Consiglio, parlamentari, magistrati, industriali, comandanti, notabili, insomma di quel reality dell’isola dei famosi. Quando invece si tratta degli anonimi naufraghi della penisola (muratori, carpentieri, contadine, casalinghe, disoccupati, sottufficiali…) allora le garanzie hanno - come dire - una défaillance, una caduta imputabile forse allo share. Ma in fondo, si tratta solo di un gatto, vivo o morto che sia all'apertura della scatola del famoso esperimento Schrödinger, di un volgarissimo felix catus domesticus

Da anni sugli schermi italiani si proietta il nuovo romanzo mediatico - "Massimo Bossetti. Il killer che perde sangue e rapisce col furgoncino..." di Gilberto Migliorini. In una storia di fantasia c’è sempre un po’ di verosimiglianza. I romanzi per piacere ai lettori devono intrattenere elementi anche di realtà - per quanto infarcita di immagini e suggestioni. La miscellanea crea appunto l’illusione del verosimile o del simil-vero. Perfino quando si tratta di polpettoni e intrugli indigeribili, bizzarrie senza capo né coda, fa capolino qualche elemento di concretezza, magari accentuato e deformato quanto basta per far sognare, inorridire, immaginare, dedurre… costruire un’immagine convenzionale dei personaggi con quella mise travestita da storia plausibile. Per quanto alle volte gli attori appaiano inamidati e rigidi come baccalà, in abiti di cartapesta e irretiti in ruoli sopra le righe, conservano però il fascino dello status da protagonista che è stato loro proditoriamente assegnato da un romanziere. Santi, poeti e navigatori, ma anche assassini pedofili e… poveri Cristi. Se si dice eroe, eroe dev'essere - anche se il gaglioffo non sembra proprio appartenere alla schiatta dei prodi e valorosi. Se si dice assassino, assassino dev'essere - anche se magari si tratta di un povero diavolo tirato in ballo per qualche brutto scherzo del destino. L’etichetta, per il grande pubblico, è davvero importante, come se davanti a un barattolo con della polvere bianca si potesse scambiare il sale per lo zucchero o non so per quale altra sostanza. Il popolo mediologico ha bisogno di sapere cosa c’è nel barattolo, e se gli fanno credere che è zucchero, anche se è sale, zucchero dev'essere. In fondo le papille gustative si possono addestrare a comando, magari si storce un po’ la bocca, e l’espressione dell’assaggiatore non è propriamente delle migliori, però ci si abitua e alla fine si è tutti concordi: si tratta proprio di saccarosio - e l’espressione sembra perfino trasmutare, diventa estatica e mielosa, segno che la suggestione può davvero fare il miracolo. L’effetto placebo in fondo serve anche a quello, a trovare il farmaco dell’anima più adatto a farci star bene e, qualche volta, perfino sognare. Tutta la società dello spettacolo si regge su quel sistema di etichette con le quali si dà indicazione circa contenuti e contenitori. Basta davvero poco per orientare il target. L’importante è però fargli credere che alle conclusioni ci arrivi lui - in perfetta autonomia - e che il romanzo sia proprio lo spettatore a scriverlo, senza imbeccate e senza quelle suggestioni che lo rendano così disponibile a collaborare alzando lo share nel day-time. La verosimiglianza consiste nel trovare gli ingredienti adatti che poi saranno miscelati a dovere e accostati nelle giuste tonalità. Viene costruita una storia e imbastito un personaggio che abbia una parvenza di realtà. Magari si calca su qualche elemento caratteriale, si corregge un profilo inadatto e non del tutto coerente con la trama, si accentuano gli aspetti in sintonia con l’intreccio lavorando un po’ di taglia e incolla. Occorre arricchire e sostenere la narrazione con qualche escamotage, omettendo dove è d’uopo e aggiungendo dove conviene per creare una storia attrattiva che sia coerente in rapporto al personaggio che si vuole creare. Si tratta appunto di scrivere un romanzo mediatico, con tutto quel sistema di simboli e di elementi evocativi che diano spessore e ‘realtà’ a un protagonista altrimenti votato ad essere solo un uomo qualunque, un attore senza neppure il privilegio e l’eccellenza del sospetto perché troppo banalmente innocente. I media non amano l’anonimato e se il personaggio prescelto non ha tutti i requisiti si lavora di cesello. Così i fatti banali vengono rivitalizzati, nobilitati con un risvolto ambiguo e perverso, colti da prospettive inquietanti, resi emblematici con il gusto dell’iperbole. I protagonisti diventano icone ed emblemi, ruotati e pirlati in 3D e all'occorrenza gonfiati e pompati come camere d’aria. Si tratta appunto di scrivere un copione che abbia il fascino del thrilling trasformando il quotidiano nell'estemporaneo, la normalità nel capzioso e nel difforme. È così che una ciambella diviene un canotto e un palloncino una mongolfiera. La potenza del medium può perfino beatificare o demonizzare, trasformare un personaggio anonimo in un santo o in assassino. La teatralità trasfigura, il pettegolezzo diviene un potente afrodisiaco per un’audience folgorata sulla via di Damasco. Potenza di un sistema mediatico che ha il potere alchemico di trasformare il metallo vile in carati luccicanti e di rendersi invisibile con l’elitropia. Il Calandrino mediatico sembra davvero convinto di essere immune all'abile regia del palinsesto, del tutto persuaso di aver raggiunto le sue conclusioni in perfetta autonomia, come un bravo detective armato solo della sua perspicacia. L’innocenza nella società mediatica, a parte l’eccezione che non conferma mai la regola, è un disvalore, un qualcosa che non può mai assurgere alla gloria del colpevole in quanto capro espiatorio. Soprattutto quando un indagato proclama la sua estraneità rispetto a un delitto e a dispetto di un copione che invece prevede che sia proprio proprio lui il protagonista del cold case. I prodotti editoriali di un giornalismo da scoop, non di quello che voglia disvelare i raggiri e le metamorfosi del potere, hanno per l’appunto quel sapore di artificio... talvolta perfino confezionato con l’accortezza del cuoco che ti sforna un piatto cotto a puntino e lo presenta come conviene. Il caso Bossetti è forse il più emblematico tra i romanzi mediatici. Costruito un po’ a tavolino e un po’ per caso da quella naturale vocazione che il nostro sistema informativo (ma talvolta anche giudiziario) ha nell'assemblare storie con estro fantasioso, in modo eclettico e col gusto per 'l’improvvisazione’...Un elemento caratteristico del romanzo è sempre il dettaglio. Di un personaggio che dev'essere colpevole, prima ancora di presentare i cosiddetti elementi di prova (ma oggidì gli indizi bastano e avanzano) si costruiscono tutti quei fatti al contorno che lo rendano abbastanza antipatico, bugiardo, inattendibile, controverso, contraddittorio, inverecondo: insomma, l’antieroe che prepari il terreno per rendere il protagonista perlomeno moralmente idoneo come colpevole di un delitto. Con le giuste credenziali perfino un camioncino (sia o non sia di Bossetti) che transita sulle strade di Brembate basta e avanza per farne un colpevole. Come se solo il muratore di Mapello, sempre ammesso che sui filmati ci sia lui e sempre solo lui, quella sera transitasse nelle strade del paese Bergamasco. Come se solo quella sera, e non per una sorta di abitudine, percorresse quel tragitto per tornarsene a casa. La relazione col delitto, per quanto omessa, ha come corollario un legame in un immaginario latente, implicito, quell'inconscio collettivo che non ha bisogno d’altro se non di allusioni. Un evento del tutto banale e senza ulteriori riferimenti a un crimine, diviene rilevante perché il personaggio è già stato presentato con tutti i crismi e le qualità adatte a inferire che protagonista del romanzo è proprio lui, è proprio il muratore di Mapello. Identificare il protagonista significa già essere a metà dell’opera, non come in certi romanzi dove occorre qualche pagina per capire dove l’autore andrà a parare. Ce l’hanno confermato in tutte le salse partendo da lontano, da un Dna che rileva una ‘falsa’ paternità e da un Dnache dice che sul cadavere della povera Yara c’è il marchio dell’assassino. Quest’ultimo parrebbe per certo un elemento reale, il solo che poi butta una luce sinistra su qualunque azione che abbia compiuto il signor Bossetti, anche la più banale e insignificante, la più ordinaria ed insulsa, quel quotidiano mestiere di vivere che altrimenti sarebbe senza alcun interesse. Tutto può servire in un teorema, perfino le dimostrazioni per assurdo. Quel Dna infatti aggiunge il sospetto su qualunque cacata Bossetti abbia fatto o detto, in un crescendo dove il romanzo acquista le tonalità del thrilling con la scoperta di indizi che piace descrivere come gravi e concordanti (e la formula è già scodellata bell'e pronta). La latitudine interpretativa - riguardo al concetto di indizio - è sempre piuttosto soggettiva. In fondo l’indizio è l’elemento ubiquitario per eccellenza, sempre in grado di produrre inferenze sic et non. Sul piano logico non è altro che un insieme di relazioni basate su quel sistema induttivo messo più volte alla berlina dall'epistemologia contemporanea... che però è sempre stato in auge nel sistema inquisitorio. Il computer di Bossetti diviene una cornucopia dove salta fuori quello che probabilmente si trova più o meno in milioni di computer. Ma grazie all'induzione creata in precedenza acquista l’enfasi di elemento indiziario che evidenzia con forza e gravità criminologica ciò che in un contesto normale sarebbe solo una bazzecola. Gli eventuali alti e bassi coniugali sono quelli della normale vita domestica della famiglia media italiana, ma nel caso diventano pulsione e movente di un delitto. I rapporti con i colleghi, quelli che normalmente sono rappresentativi del modus vivendi di tanti lavoratori, costituiscono forma mentis e anomala prerogativa comportamentale. Il sospetto, per quel Dna, trasforma ogni evento normale, naturale, banale (compreso il transitare per le strade di Brembate con il camioncino), in elementi significanti, in indizi (parola evocativa e suggestiva che poi assurge come per magia ad elemento di prova). Si misura la lunghezza del cassone dell’automezzo come se quello fosse indizio (di che?). Diciamolo apertamente, se il mezzo che transitava per le strade di Brembate fosse o non fosse del Bossetti non costituisce né indizio né prova. A meno che il Bossetti abitasse in altra città e quella non fosse una solita e normale percorrenza del muratore. Al di là dunque di un romanzo, per quanto suggestivo e avvincente (per chi si accontenta di uno stile prolisso e improbabile), rimane solo quel Dna a indicare che sul luogo del delitto, sul cadavere, c’è davvero il marchio dell’assassino. A indicare che il protagonista è davvero il signor Massimo Bossetti. Eppure anche in quel punto la storia appare evanescente, senza mordente e senza spessore. E non solo perché la macchiolina ormai non c’è più, consunta e svanita, non solo per la contraddizione logica tra mitocondriale e nucleare, non solo per l’impossibilità che una sostanza biologica si mantenga integra per mesi alle intemperie, non solo perché il cadavere della povera ragazza è rimasto in balia di chiunque per un’intera stagione… Gli ingredienti del romanzo per un caso mediatico di eccezionale interesse ci sono dunque tutti. L’opinione pubblica è stata preparata minuziosamente con trasmissioni dedicate, predisposta a una lettura colpevolista. Il muratore di Mapello ce l’hanno presentato con tutti i crismi sgradevoli e con, in più, quella patina da bugiardo che fa in modo che qualunque cosa dica sia solo aria fritta o, al più, il solito modo per imbastire scuse o alibi improbabili. Ad esempio, ci hanno raccontato che diceva di avere un cancro per evitare i lavori pesanti... ma non è che chi ha fatto la confidenza sulle balle raccontate dal muratore ha omesso di dire che si trattava solo di un gioco, di uno scherzo per sopportare la noia e la stanchezza di una giornata di lavoro pesante? Non è che la storia è stata presa alla lettera perché faceva comodo creare un vero contaballe? Non è che un Bossetti inattendibile serve come l'humus per preparare il terreno, serve come la tempera per fare un ritratto del protagonista che paia certo e serva all'uopo? La vita privata del carpentiere viene continuamente scannerizzata con intenti non proprio filologici. Troppo facile decontestualizzare e amplificare fatti banali, scherzi, aneddoti, défaillance, momenti di crisi, di euforia o di disagio. Momenti che esistono in qualsiasi famiglia e in qualsiasi vivere quotidiano. Per quanto riguarda la navigazione on line sembra che nel computer del muratore ci siano prove di straordinaria gravità, come la scritta: “ragazze di giovane età che eseguono esercizi di danza”. In effetti vedere ragazzine col tutù che eseguono qualche figura (a volte si vedono anche in tv) è un fatto che non può lasciare indifferenti. Un allongé o un aplomb, un pass chassé o un piqué sono davvero fatti sconvolgente. Non parliamo poi di una pirouette. La stampa davvero zelante ci informa inoltre che nel computer del muratore ci sono immagini "riconducibili a mappe satellitari delle zone ovest della Provincia di Bergamo". Trattasi di notizia che scava in profondità e che fa pensare a una pianificazione dettagliata, una sorta di piano bellico o magari un indagine satellitare per un delitto (a proposito quale sarebbe la zona ovest?). Chi non l'aveva capito ora lo sa che avere Google Maps sul computer può risultare davvero compromettente. Ma, fatto davvero sconvolgente, è che sembra sul computer ci sia scritto, udite udite… “notizie di cronaca riguardanti minori”. Si tratta di uno scoop che può davvero lasciare sconcertati e far pensare male anche del giornale quotidiano che ricevo on-line, dove talvolta ci sono notizie di cronaca riguardanti i minori. Per quanto sia prudente non mi sono mai accorto della pericolosità degli argomenti di tal fatta. E qui non siamo nemmeno più al processo alle intenzioni, siamo a costruire un personaggio con scrupolo sartoriale, dove il ridicolo diviene grottesco e dove piace vincere facile. Per il capitolo pornografia di solito ci si affida a Google. Basta digitare sex e immagini e così, d'emblée, ti trovi a navigare in quello che un paese ipocrita considera il peccato capitale. Non importa che noi si viva in uno degli stati più corrotti al mondo, importa che ci si scandalizzi per immagini di sesso (considerando poi che viviamo in una realtà dove l’educazione sessuale è considerata cosa demoniaca). Per quanto concerne la pedofilia, la frase tredicenni vergini (rosse o bionde che siano) digitata su un computer di casa Bossetti, sembra un tantino azzardata come prova. Insomma, attorno al muratore hanno imbastito un abito su misura e sembra quasi che ci sia lo zampino di uno stilista di moda che ha assemblato per benino e coordinato i dettagli di abbigliamento e tutti gli accessori annessi e connessi. Ah, dimenticavo le sue frequentazioni in birreria e (sembra documentata almeno una volta) dello stesso supermercato dove andava la povera Yara (ma forse chi ce lo dice finge di non sapere che Brembate e Mapello sono praticamente due paesi attaccati). Certamente dimentico qualcosa e mi scuso, ma purtroppo non sono aggiornato sugli ultimi indizi, visto che piovono a cascata con tanto di menù di degustazione presentato in ceramiche e posate smaglianti. Un opinionista, credo sia un magistrato, in televisione ci ha informato che molti indizi fanno prova. Beh, se gli indizi sono quelli che ci vengono propinati giornalmente c’è da constatare che qualsiasi cosa abbia detto o fatto il povero Bossetti può essere usata contro di lui. Che le bazzecole e le pinzillacchere più insulse vengono presentate come se in tavola si portasse del caviale. Però bisogna ammetterlo, per quanto il piatto sia vuoto la presentazione è davvero d’effetto. Sembra di trovarsi alla prova del cuoco. Ma si sa, il pubblico è di bocca buona e se il piatto piange si può sempre fargli credere che dentro ci sia un antipasto di crudità. Ed è ovvio che perfino cercare di difendersi da un accusa di omicidio, sforzarsi di dimostrare la propria innocenza, si può ritorcere contro il malcapitato. Cosa dire riguardo ai fatti e non alle illazioni, alle congetture e alle correlazioni più o meno arbitrarie? Cosa dire di un Dna invecchiato, quasi come fosse un barolo d’annata, alle intemperie di quel di Chignolo. Di un Dna invecchiato e di ottima qualità di cui però non è rimasta neppure la bottiglia... perché l'hanno scolato tutto senza lasciarne neppure un goccino? Cosa dire di un reperto, di una macchia che gli stessi Ris hanno derubricato come non sempre ben interpretabile “in ragione dell'elevato livello di degradazione biologica”? Cosa dire di un furgonato, di un camioncino immortalato per le strade di Brembate (indizio davvero eclatante per uno che di lì ci passava quotidianamente) che i ben informati dicono sia di Bossetti, per quanto non si veda né targa né conducente? Per parlare del resto bisogna affidarsi alla Divina Provvidenza. Il reale è tutto in quelle tre domande e non si capisce come possa bastare per tenere in carcere il muratore e mandarlo a processo. È possibile che in un paese civile non esista un habeas corpus e che la maggioranza della popolazione neppure si renda conto che quello che sta accadendo al muratore potrebbe accadere a chiunque? Possibile che ormai i media siano solo emanazione di poteri forti senza più autonomia e intenti morali, mossi solo dalla logica del profitto editoriale? Possibile che la gente non si renda conto di essere menata per il naso? Sì, possibile, purtroppo… Nonostante l’opinione pubblica sia ormai persuasa della colpevolezza del carpentiere, ben addestrata da una stampa di regime, ci sono tutti gli ingredienti perché il processo possa trasformarsi in una pessima figura per la giustizia italiana. Per quanto riguarda i media il problema non si pone e non esiste. Siamo da tempo in un sistema informativo di tipo orwelliano e comunque andrà a finire la storia, la cosa certa è che se sarà necessario nel giro di ventiquattro ore cambierà lo scenario mediatico. E tutti saranno persuasi che nulla è cambiato, che ci avevano visto giusto e che la nuova versione che ci daranno era anche quella di ieri e dell'altro ieri… Il caso di Massimo Bossetti è davvero l’anatomia di una società senza più orientamento morale, senza più consapevolezza e preda solo di meccanismi mediologici...

Il Caso Bossetti e la profezia che si autoadempie Di Gilberto Migliorini. In psicologia sociale esiste una teoria che cerca di spiegare quei processi di influenza sociale per i quali le aspettative costituiscono un potente motore di scelte e determinano dei fenomeni che vanno sotto il nome di “profezia che si autoadempie” o, anche, “effetto Pigmalione” (dal nome dello scultore immaginato da Ovidio che si innamora a tal punto di una statua che raffigura una donna da implorare Afrodite di darle vita). Il fenomeno, studiato in vari ambiti (economico, educativo, politico, medico), seppure sia stato variamente esemplificato nella sfera dei diversi comportamenti individuali e collettivi (e articolato secondo vari modelli di riferimento), risulta sempre arricchito da qualche nuova esemplificazione e da più articolate interpretazioni. La profezia che si autoadempie è anche un espediente narrativo in grado di dare linfa ai paradossi temporali, alle coincidenze e a quel tema del destino e del mito che si intreccia con quelle previsioni che paradossalmente si realizzano proprio nel tentativo di sottrarvisi. La profezia che si autorealizza è sicuramente uno dei fenomeni più studiati in psicologia sociale. Il modello risulta sempre in grado di offrire nuovi spunti interpretativi e di produrre ulteriori elementi di riflessione per chi studia i comportamenti collettivi negli ambiti più disparati (anche in campo matematico nella teoria dei giochi). Il caso Bossetti, come qualche altro capitato negli ultimi anni, rappresenta un modello particolarmente significativo in un ambito, quello investigativo, nel quale le aspettative giocano un ruolo talora determinante nel costruire veri e propri teoremi fondati essenzialmente su input iniziali che orientano un’indagine. Intuizioni e convinzioni possono influenzare una filiera di indagine con interpretazioni a cascata, influenzate dalle aspettative che via via ne orientano la direzione investigativa. L’effetto Pigmalione (o effetto Rosenthal dal nome dello psicologo tedesco) studiato soprattutto nella realtà educativa è particolarmente emblematico. Si tratta di quelle aspettative che gli insegnanti assumono nei confronti di un alunno. Tali aspettative determinano l’evoluzione del suo rapporto con il discente e ne influenzano positivamente o negativamente i comportamenti. In un circolo vizioso il bambino si adeguerà all’immagine che l’insegnante avrà interiorizzato. Tali aspettative avranno inoltre una influenza al contorno (compagni e genitori) in un processo di rinforzo positivo o negativo dei comportamenti. La profezia che si autoadempie riguarda anche l’evoluzione del concetto di sé in rapporto all’influenza sociale, sulla percezione delle risposte degli altri e in particolare sulla valutazione (positiva o negativa) in grado di influenzare l’immagine che un individuo o un gruppo sociale ha di se stesso. Il fenomeno intrattiene inoltre relazioni significative con la teoria della dissonanza cognitiva. Quanto sopra parrebbe non avere alcuna relazione con il caso Bossetti e in particolare con l’indagine che lo vede coinvolto. In realtà l’oggetto in questo caso non è il signor Massimo Bossetti, ma l’indagine sull’omicidio della piccola Yara in quanto determinata da una serie di aspettative e di deduzioni in grado di orientarne lo sviluppo in modo più o meno coerente. La profezia che si autoadempie sviluppa tutta le sue potenzialità determinando comportamenti individuali e collettivi in base ad automatismi sociali più o meno razionali, in grado di determinare talora dei miraggi cognitivi e dei labirinti nelle dinamiche di gruppo e nella autorealizzazione delle predizioni. Nemmeno un sistema investigativo - che per sua natura dovrebbe basarsi su solidi impianti deduttivi e su una smaliziata capacità di distanziarsi dalle proprie intuizioni - riesce sempre a sottrarsi alle trappole della profezia che si autoadempie, relativizzando le sue premesse e tornando sulle proprie conclusioni provvisorie per le opportune verifiche. Un’indagine che non sappia tornare sui propri passi per verificare che le aspettative non abbiano per caso portato su una pista sbagliata, ingenerando poi una catena di deduzioni del tutto fuorvianti e decettive, può andare incontro a degli esiti deludenti, in qualche caso a dei clamorosi errori di valutazione. La profezia che si autoadempie nell’ambito sociale riguarda i comportamenti collettivi in funzione di aspettative che coinvolgono le persone sul piano emotivo e cognitivo influenzandone i giudizi e le scelte in processi che sovente sono in relazione a un contesto mediatico. Il modello è: prevedo un fatto X e la mia profezia è in grado di produrre davvero l’evento in una circolarità nella quale l’aspettativa (previsione) genera il fatto previsto che a sua volta funge da verifica. Il caso classico che viene presentato è quello di una (falsa) diceria di una banca che si trova sull'orlo del fallimento. Tutti i correntisti accorrono allora agli sportelli per ritirare i loro risparmi e di fatto la banca si trova veramente in difficoltà e rischia davvero il fallimento. Insomma, il concetto di realtà non è solo quello di entità oggettiva, ma anche quello della valutazione soggettiva (aspettative) che in quanto tale determina delle conseguenze. Anche in fisica, perlomeno quella subatomica, vale il concetto dell’osservatore che modifica la realtà nell’atto di osservarla in quel processo definito come equivalenza onda-corpuscolo e principio di indeterminazione. In psicologia sociale, nella teoria della dissonanza cognitiva, ad esempio, il ruolo delle aspettative è determinato da un sistema di credenze già strutturato che è in grado di relativizzare qualunque ulteriore informazione aggiuntiva integrandone il senso, la portata e il significato all’interno di quella configurazione di convinzioni che funge da frame o sistema di riferimento. Nel caso di un’indagine su un omicidio, nel momento in cui mi convinco che X sia il responsabile del delitto andrò a interpretare qualsiasi suo comportamento integrandolo in un sistema cognitivo che ritengo coerente con l’assunto di colpevolezza. E’ evidente che con tale premessa si può andare incontro a dei veri e propri abbagli. Le aspettative e le suggestioni in certi casi possono influenzare non solo i processi cognitivi, ma talora perfino la percezione creando deformazioni sensoriali. Le convinzioni e le aspettative possono insomma influenzare i giudizi e promuovere comportamenti non sempre coerenti e consequenziali. Nell’effetto placebo la suggestione può essere usata per potenziare l’effetto di un farmaco o addirittura per crearne l’illusione, a dimostrazione di come le aspettative possano avere una influenza reale, dove il concetto di realtà diviene problematico e relativo a un punto di vista che si ritenga privilegiato. Nel caso Bossetti riprendendo l’articolo di Massimo Prati - “E se Massimo Bossetti fosse conosciuto dachi indagava sin dal duemilaundici? E se il Dna, come ammette il Ris inperizia, non fosse davvero inequivocabile?” - parrebbe evidente che l’imprinting di chi ha creduto che fosse il furgone di Bossetti a girovagare per un’ora attorno alla palestra scambiando sempre il mezzo per quello del muratore di Mapello (e se anche fosse non proverebbe di per sé ancora niente), può davvero aver convinto gli investigatori di avere trovato il bandolo della matassa. Tutto quello che è venuto in seguito, comunque lo si voglia valutare, potrebbe allora essere frutto di un gigantesco qui pro quo che ha portato ad interpretare una serie di fatti, di elementi e di circostanze in ragione di quelle aspettative che hanno promosso un’indagine sulla base di un convincimento fondato probabilmente su un errore all’origine. Alla luce di tale convincimento e di tale aspettativa, ogni elemento raccolto (perfino la supposta navigazione in siti pornografici e altri fatti altrimenti insignificanti) è stato integrato organicamente in un sistema di deduzioni apparenti. Il Dna - come è rilevato nell’articolo di Massimo Prati - che i Ris ritenevano di dubbia interpretazione quando scrissero in perizia: “Alla luce delle premesse anzidette, una logica prettamente scientifica che tenga conto dei non pochi parametri che si è tentato di sviscerare in questa sede non consente di diagnosticare in maniera inequivoca le tracce lasciate da Ignoto1 sui vestiti di Yara”, è stato poi derubricato disinvoltamente come materiale di ottima qualità nonostante che, come rilevato nell'articolo di Annika, una permanenza di tre mesi alle intemperie invernali rendesse impossibile la conservazione e una idonea lettura del reperto. L’augurio è per un ripensamento di chi ha condotto le indagini, perché riconoscere un eventuale errore di valutazione è sempre dimostrazione di coraggio e lungimiranza.

GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione.

Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però, propria della magistratura). Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di fughe di notizie. Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia. Si impari da Maria Corbi de “La Stampa” come si redigono i servizi asettici e cos’è la coerenza. Ella non usa e getta. La vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali, meritano il dovuto rispetto. Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.

L´intervista di “Positano News” a l´associazione Scienza per Amore perseguitata perchè impegnata in un progetto umanitario? Il“Bits of Future: Food for All”, promosso dall'associazione Scienza per Amore, hanno già aderito sette Paesi Africani, ha ricevuto il plauso e l'interesse della Presidenza della Repubblica Italiana e di importanti istituzioni e organizzazioni estere (FAO, IFAD, Banca Mondiale e Banca Africana di Sviluppo), il fine del Progetto è la concessione in comodato d'uso gratuito delle installazioni Hyst ai Paesi africani". Patrizia Vitale, dell'associazione Scienza per Amore, è entusiasta di Bits of Future.

Cos'è la tecnologia Hyst…

«La tecnologia Hyst produce, attraverso il trattamento di biomasse di scarto e residui agricoli, diversi prodotti
da destinare all'alimentazione umana, zootecnica e alla produzione di biocarburanti. I risultati delle applicazioni della Hyst sono stati analizzati dall'Università di Milano e riconosciuti dai Ministeri preposti (Ministero della Salute, Ministero delle Politiche Agricole) e da altre Università italiane tra cui La Sapienza di Roma».

Sembra tutto molto interessante, purtroppo...

«Questo progetto sta subendo da oltre 4 anni una continua persecuzione attraverso parole di fango che cercano di contrastare la realtà dei fatti che è comprovata da certezze scientifiche. L'associazione e tutti noi, quasi duecento membri. Siamo stati oggetto di una pesante gogna mediatica. Una situazione che ha causato danni materiali e morali, non solo a noi, ma a tutti coloro che hanno aderito al Progetto, a partire dai Paesi Africani che, con l'uso della Hyst, in questi 4 anni avrebbero potuto far fronte ai gravi problemi di carenza alimentare ed energetica che li affliggono».

Cosa è successo?

«Accuse  partite nel mese di luglio del 2009, inizialmente a carico del primo promotore del progetto (ed allora presidente della ex-associazione R.E. Maya), poi anche verso alcuni soci che si sono adoperati per il progetto, a Danilo Speranza sono stati attribuiti reati di riduzione in schiavitù dei soci della ex- R.E. Maya, che è stata definita una “setta” con a capo un “guru”, Danilo Speranza, secondo i denuncianti, aveva inventato l'esistenza di uno scienziato, di una tecnologia e di un progetto umanitario con il fine di arricchirsi tramite i contributi volontari estorti agli associati».

E che altro?

«A suo carico sono giunte simultaneamente anche accuse di violenza sessuale da parte di due ragazze minorenni, figlie di due associate, tutte le prove scientifiche lo scagionano completamente da queste accuse. Le varie denunce sono state depositate stranamente il giorno prima della firma che sanciva l’acquisizione della tecnologia da parte dell'Associazione. Sarebbe dovuto essere un momento storico per tutta l'Associazione, ma così non è stato. Dopo più di tre anni di indagini, le accuse non sono state supportate da alcun riscontro scientifico né da alcuna prova concreta, ma hanno solo rallentato l'avvio del progetto umanitario, forse nella speranza di una rinuncia da parte dell'Associazione a far valere i propri diritti. Sono stati aperti quindi due procedimenti: uno a Tivoli per abusi e uno a Roma per truffa. Gli stessi inquirenti hanno collegato tali procedimenti consegnando ai due tribunali la stessa documentazione. Le accuse, che si basano su “tesi mutanti”, inizialmente mettevano in dubbio l'esistenza stessa della tecnologia. Quando invece è stata dimostrata l'esistenza degli impianti e quindi della Hyst, le accuse, depositate a più riprese, sono modificate dichiarando che “la tecnologia produce veleni”. Ovviamente menzogne. Inoltre, la consulenza tecnica della ASL disposta dal P.M. non ha trovato traccia di alcun veleno; e la stessa ha anche confermato i risultati positivi relativi ai prodotti Hyst così come già rilevato dall'Università di Milano. La consulenza disposta dal P.M. è stata gravemente manipolata. Le indagini relative al caso da qualche mese sono state affidate a un altro procuratore poiché il precedente PM è stato arrestato. Ora la chiusura delle indagini - "Notificata la chiusura delle indagini", con art. 415 bis cpp, nella quale compaiono 17 indagati: persone che, come me, hanno dedicato parte della loro vita ad un Progetto Umanitario. La chiusura delle indagini del procedimento a Roma ha dato il via ad una nuova gogna mediatica, da parte di alcuni giornalisti, disonesti intellettualmente, incapaci di condurre un'inchiesta seria. Noi siamo tutti in attesa che qualcuno ci ascolti e che la magistratura esamini le certificazioni e le prove scientifiche. La nostra speranza è quella di vedere il prima possibile un impianto Hyst in funzione in uno di quei Paesi africani in cui sarebbe così utile. I Paesi in Via di Sviluppo hanno compreso la vitale importanza della Hyst e ce la stanno chiedendo a gran voce».

Siete molto preoccupati?

«Saremmo dei marziani se non fosse così».

Le baby squillo dei Parioli e l'ultima gogna giudiziaria. Per una settimana un dirigente della banca d'Italia è stato indicato come uno dei clienti pedofili. Tutto falso, era un errore. Ma non è ora di finirla? Si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. La gogna mediatico-giudiziaria, crudele istituzione italiana, torna a fare danni irreparabili. Per oltre una settimana il vicecapo del Dipartimento d'informatica della Banca d'Italia, Andrea Cividini, 58 anni, è stato descritto dalle cronache nazionali come uno dei clienti delle due ragazzine «parioline» di 14 e 15 anni, che si prostituivano a Roma. I giornali, evidentemente attingendo a informazioni in mano agli inquirenti romani, hanno scritto e ri-scritto che il telefono di Cividini era tra i 40/50 che si collegavano con maggiore assiduità a quello delle due squillo minorenni. Le cronache sono state severe, indignate; e i commenti anche peggio: Gad Lerner è stato tra i più duri. Ecco che cosa ha scritto venerdì 14 marzo: «Escono con il contagocce, sempre per via delle speciali reticenze loro concesse dal nostro turbamento, i nomi dei clienti delle baby-prostitute dei Parioli. Definirli pedofili? Macché, il marchio non si applica se la “merce-corpo” desiderata e comprata ha apparenze maggiorenni: credevo avesse 19 anni come scriveva nella sua vetrina sul web… Dopo Mauro Floriani, il fascista-maiale marito della fascista col nome famoso, che ha infine ammesso ciò che prima tentò di negare, da oggi conosciamo anche il nome di un dirigente della Banca d’Italia: è Andrea Cividini, 58 anni...». Vicenda davvero paradossale: perché nel suo scritto Lerner critica quasi come una indebita, vergognosa autocensura la «reticenza» dei giornali sui nomi dei futuri, potenziali indagati. È invece bastato aspettare sei giorni e si è scoperto che Cividini non c'entrava nulla. Perché il cellulare «incriminato» non era suo, ma apparteneva alla Banca d'Italia, e l'ente non lo aveva dato in uso a lui, bensì a un collega (il cui nome per fortuna viene ora un po' più accortamente coperto dal segreto, forse per paura di nuovi, possibili, disastrosi errori di persona...). Il punto è che, mentre in prima battuta il nome di Cividini veniva scritto nei sommari degli articoli ed esposto nemmeno fosse una preda, nel momento in cui s'è capito che era stato accusato ingiustamente tutto è stato nascosto nel corpo degli articoli. Uno si domanda come debba sentirsi il malcapitato, o che cosa debba avere patito lui, la sua famiglia. Viene da domandarsi anche se Cividini abbia figli, e che cosa sia accaduto loro a scuola... Ma sono problemi che evidentemente non sfiorano quanti sono convinti che garanzie e tutele degli indagati, ma un po' anche la prudenza, siano soltanto una «speciale reticenza». Purtroppo sono in tanti. 

La gogna di Maurizio Tortorella. Casa editrice: Boroli. Data pubblicazione: luglio 2011. Come i processi mediatici e di piazza hanno ucciso il garantismo in Italia. Quando i processi si trasferiscono dalle aule di giustizia ai mezzi d'informazione, con pressanti campagne di stampa, vi è il rischio che risulti compromesso il principio costituzionale della presunzione d'innocenza, e che i “processi mediatici” si trasformino in un anticipo di condanna, senza possibilità di appello. Calogero Mannino, il ministro "mafioso", e il suo calvario durato quasi due decenni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo abbia avuto inizio. Silvio Scaglia, l'imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxifrode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Roteili, il "re delle cliniche private" accusato per quattro anni di un'odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto quasi in silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c'è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell'inchiesta Why Not. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso "Magnanapoli". Sette recenti casi giudiziari, sette storie di grande attualità raccontate attraverso le carte processuali e le relative cronache giornalistiche trasformate in condanne preventive. Calogero Mannino, il ministro «mafioso», e il suo calvario durato 18 anni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo avesse inizio. Silvio Scaglia, l’imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxi-frode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Rotelli, il «re delle cliniche private» accusato per quattro anni di un’odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto in totale silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c’è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell’inchiesta Why Not dell’ex pm Luigi De Magistris. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso Magnanapoli. Racconta le loro vicende «La Gogna» (Boroli editore, 160 pagine, 14 euro), il libro scritto dal vicedirettore del settimanale «Panorama», Maurizio Tortorella.  Sette recenti casi giudiziari, sette storie esemplari che raccontano i perché della morte del garantismo in Italia. In realtà, è dai tempi di Mani pulite, quando parte dei tribunali e delle redazioni cominciarono a piegarsi alla strumentalizzazione politica, che la gogna non ha mai smesso di funzionare: da allora, reclama sempre nuove vittime. E anche con la pubblicazione di migliaia d’intercettazioni la cronaca giudiziaria, che dovrebbe esercitare anche un qualche controllo sull’attività inquisitoria, si è trasformata in strumento, se non in megafono, delle procure.  Ogni inchiesta, quando se ne appropriano i mass media, si trasforma in un massacro senza salvezza, anche per il più saldo degli indagati. Vincono sempre le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il mostro che si nasconde nell’espressione «opinione pubblica», portato al guinzaglio da chi ne sa condizionare le pulsioni, reagisce sempre allo stesso modo di fronte all’apertura di un’indagine: ogni volta prevale una presunzione di colpevolezza che è l’esatto contrario del precetto costituzionale. Per questo «La Gogna» è un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura e pezzi dell’informazione. Tortorella, come inviato speciale di «Panorama», dai primi anni Novanta, ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i processi che ne sono derivati. È coautore di «L’ultimo dei Gucci» (1995, MarcoTropea Editore e 2002, Mondadori) e di «Rapita dalla giustizia» (2009, Rizzoli).

Scrive Giulia De Matteo per "Il Foglio”. La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d'ordine ("cricca", "la rete di relazioni", "appaltopoli", "l'affare") da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l'indagato nell'angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l'indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro "La Gogna" (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un'analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C'è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall'accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull'isola della Maddalena (poi spostato a L'Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l'apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l'indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo' di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l'opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l'età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l'articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell'indagato e dell'imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L'apertura di un'indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell'articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E' questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. "La Gogna" come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell'operazione "Why Not"). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Come nell’affaire Formigoni?

«Sì. Fa parte dello stesso gioco».

Tutto questo nonostante il potere mediatico si sia dato una parvenza di legalità. Naturalmente intervento inattuato!!

Codice Tv e Giustizia. Agcom: stop ai processi show in tv. I diritti inviolabili della persona pietra angolare del lavoro giornalistico. Così scrive Franco Abruzzo. Ordine dei giornalisti, Fnsi, Rai, Mediaset ed emittenti radio tv hanno firmato il CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. L'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. Sarà l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente.

Roma, 21 maggio 2009. Stop a i processi scimmiottati in tv o trasferiti impropriamente dalle aule di giustizia al piccolo schermo: l'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. E' stato siglato ieri pomeriggio a Roma, nella sede dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. A sottoscrivere l'intesa sono state le principali emittenti nazionali (Rai, Mediaset, T.I. Media), la Federazione Radio Televisioni, l'Aeranti-Corallo, l'Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della Stampa e l'Agcom. Il Codice, che esegue un atto di indirizzo dell’Agcom del gennaio 2008 e che è frutto di 18 mesi di paziente lavoro intorno ad un tavolo comune cui hanno partecipato tra gli altri i Presidenti emeriti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, autorevoli giuristi e rappresentanti del Csm, entrerà in vigore entro il 30 giugno 2009 dopo la costituzione di Comitato di controllo cui spetterà il compito di accertare eventuali violazioni e proporre le misure del caso. Sarà poi l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente. E’ stato così finalmente attuato quanto più volte sollecitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi".  Oltre al Presidente Agcom, Corrado Calabrò, erano presenti il Presidente della Rai Paolo Garimberti, il Presidente Mediaset Fedele Confalonieri, il Vice Presidente RTI Gina Nieri, l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni, il Presidente FRT-Federazione Radio Televisioni Filippo Rebecchini, il Presidente Aeranti-Corallo Marco Rossignoli, il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Roberto Natale e il consigliere Pierluigi Roesler Franz per l’Ordine nazionale dei giornalisti. «E' una svolta nella comunicazione – ha detto il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente alla firma in veste di "notaio" - Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile». Garimberti ha parlato di «opera meritoria», Confalonieri e Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione». Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».  Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. Con tale atto le parti s’impegnano ad osservare le seguenti regole nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore un’adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili, o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

ALLEGATO A

CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE IN MATERIA DI RAPPRESENTAZIONE DI VICENDE GIUDIZIARIE  NELLE TRASMISSIONI RADIOTELEVISIVE

Le emittenti radiotelevisive pubblica e private, nazionali e locali e i fornitori di contenuti radiotelevisivi firmatari o aderenti alle associazioni firmatarie, l’Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana, d’ora in avanti indicate come parti

VISTI gli articoli 2, 3, 10, 11, 15, 21, 24, 25, 27, 101, 102 e 111 della Costituzione italiana e gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;

VISTO l’articolo 3 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante “Testo unico della radiotelevisione”, secondo il quale sono principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, l’obiettività, la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e la salvaguardia delle diversità etniche e culturali, nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, in particolare della dignità della persona e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, garantiti dalla Costituzione, dal diritto comunitario, dalle norme internazionali e dalle leggi statali e regionali;

CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”;

CONSIDERATO che ai sensi dell’art. 471, comma 1, del codice di procedura penale “l’udienza è pubblica a pena di nullità”, e che l’art. 147 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271, nel consentire la ripresa e la diffusione dei dibattimenti processuali, ne esplicita ed accentua la naturale destinazione alla pubblica conoscenza;

VISTA la Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13) relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali, la quale, nel ricordare i principi fondamentali in materia quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto al giusto processo, la tutela della dignità della persona e della vita privata e familiare, elenca i principi ispiratori dell’attività giornalistica in rapporto ai procedimenti penali e invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei citati principi; nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali;

VISTA la Carta dei Doveri dei Giornalisti sottoscritta da CNOG e FNSI l’8 luglio 1993, la Carta di Treviso del 5 ottobre 1990, il Vademecum Carta di Treviso del 25 novembre 1995, la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai;

VISTO l’“Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive” approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 13/08/CSP, il quale, nel declinare i principi e i criteri relativi alle trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, invita i soggetti interessati a redigere un codice di autoregolamentazione al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai predetti principi e criteri;

CONSIDERATO che il principio costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo titolare della sovranità, che può anche direttamente parteciparvi, esige che la collettività in cui il popolo consiste sia informata nel modo più ampio possibile dei fatti attinenti a vicende giudiziarie nonché dell’andamento delle medesime e dei modi in cui in relazione ad esse la giustizia sia in concreto amministrata in suo nome;

CONSIDERATO altresì che l’esigenza informativa è assolta primariamente dai mezzi di comunicazione di massa che, a norma dell’art. 21 della Costituzione come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, concorrono a fornire alla pubblica opinione un’informazione completa, obiettiva, imparziale e pluralistica;

RILEVATO che l’attività professionale dei giornalisti e in genere degli operatori dell’informazione, in quanto comporta la necessità di raccogliere e valutare fatti ed indizi, vagliarne l’attendibilità, organizzarli secondo logica e assumerli o rifiutarli come elementi di convincimento per l’espressione del proprio pensiero in forma assimilabile al giudizio, il quale ultimo però si svolge secondo puntuali regole procedurali e trova parametri valutativi prefissati in precise norme, che tuttavia sono suscettibili di interpretazione al pari dei fatti ai quali esse vanno applicate, lasciando dunque inevitabili margini di opinabilità che comportano una relazione solo presuntiva di corrispondenza tra il giudicato e la verità dei fatti stessi.

RILEVATO, ancora, che l’attività informativa in forma di cronaca e critica giudiziaria su fatti oggetto di accertamento giurisdizionale si svolge inevitabilmente in stretto parallelismo con questo, solo così potendo assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di rendere edotta la comunità mediante la formazione della pubblica opinione sugli eventi e sulle persone nei cui confronti, in suo nome, la giustizia è amministrata;

CONSIDERATO che tale andamento parallelo determina le condizioni di un circuito virtuoso potendo, in particolare, dare impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti nella prospettiva dell’espansione degli spazi di garanzia degli indagati e degli imputati, della completezza delle indagini e della maturazione del libero convincimento dei giudici;

CONSIDERATO che l’essenziale funzione di informazione accompagna ma non sostituisce la funzione giurisdizionale, rispettando l’esigenza di evitare la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori i processi in corso;

CONSIDERATA la necessità costituzionale di preservare la libertà di manifestazione del pensiero degli operatori dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa da ogni forma di pressione o censura, anche a garanzia del diritto dei consociati a ricevere informazioni complete, veritiere e pluralistiche;

CONSIDERATO altresì l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale libertà, i diritti inviolabili alla dignità, alla onorabilità e alla riservatezza, specificamente tutelati dalla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 Cost., delle persone, specie se soggetti deboli in ragione dell’età minore o per altre cause, a qualunque titolo aventi parte in vicende giudiziarie o che, pur a queste estranee, possano in qualsiasi modo con esse trovarsi in occasionale rapporto di connessione; dovere da valutare, quanto alla esigibilità del suo corretto adempimento, in connessione con l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

PRESO ATTO che la peculiarità del mezzo radiotelevisivo, destinato alla narrazione per immagini in movimento, implica la modalità espressiva della rappresentazione scenica – comune peraltro agli aspetti “liturgici” della celebrazione processuale - la quale, se non contenuta in ragionevoli limiti di proporzionalità, può trascendere in forme espressive suscettibili di alterare la reale figura dell’indagato o imputato e di altri soggetti processuali o estranei al processo;

CONDIVIDENDO l’esigenza segnalata nella delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 13/08/CSP di disciplinare le modalità di rappresentazione televisiva delle vicende giudiziarie in corso, attraverso una scelta di autoregolamentazione da parte dei soggetti titolari del diritto costituzionale di liberamente manifestare il pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, anche a garanzia della formazione di una libera e consapevole opinione pubblica quale fondamento del sistema democratico;

IN CONTINUITÀ con un’autonoma tradizione di autodisciplina, ispirata al comune intendimento di assicurare il massimo grado possibile di effettività ai valori costituzionali sopra richiamati che, a partire dalla Carta di Treviso e dalla Carta dei doveri del giornalista, ha consolidato nel tempo l’acquisizione e l’attuazione dei criteri di un ponderato bilanciamento tra diritto-dovere dell’informazione, i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza della persona umana e i principi del giusto processo;

dopo ampio confronto in sede di “tavolo tecnico” istituito con la citata delibera AGCOM e ricevuta dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’attestazione che il testo elaborato risponde compiutamente ed in modo satisfattivo alle indicazioni da essa ivi formulate, che ne rimangono pertanto attuate

ADOTTANO

il presente Codice di autoregolamentazione di seguito denominato “Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive”.

Articolo 1

1. Le parti, ferma la salvaguardia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione in sé e a garanzia del diritto dei cittadini ad essere tempestivamente e compiutamente informati, e ferma altresì la tutela della libertà individuale di manifestazione del pensiero, che implica quella di ricercare, acquisire, ricevere, comunicare e diffondere informazioni e si esprime segnatamente nelle forme della cronaca, dell’opinione e della critica anche in riferimento all’organizzazione, al funzionamento e agli atti dei pubblici poteri incluso l’Ordine giurisdizionale, si impegnano ad adottare nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso le misure atte ad assicurare l’osservanza dei principi di obiettività, completezza, e imparzialità, rapportati ai fatti e agli atti risultanti dallo stato in cui si trova il procedimento nel momento in cui ha luogo la trasmissione, e a rispettare i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza costituzionalmente garantiti alle persone direttamente, indirettamente od occasionalmente coinvolte nelle indagini e nel processo.

2. Ai fini di cui al comma 1, nelle trasmissioni radiotelevisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie, le parti si impegnano a:

a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;

b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;

c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore una adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;

d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;

f) non rivelare dati sensibili o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.

Articolo 2

1. L’accertamento delle violazioni del presente Codice, comprensivo delle indicazioni formulate con la citata delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, alle quali esso compiutamente risponde, e l’adozione delle eventuali misure correttive sono riservati alla competenza di un apposito Comitato che le parti sottoscrittrici ed aderenti si impegnano a costituire entro il 30 giugno 2009.

2. In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all’Ordine professionale.

Articolo 3

1. Il presente Codice è aperto all'adesione da parte di altri soggetti iscritti al ROC presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e a loro associazioni e consorzi.

2. L’adesione comporta la piena accettazione del presente Codice.

Articolo 4

Il presente Codice entra in vigore all’atto di costituzione del Comitato di cui all’art. 2.

Roma, 21 maggio 2009

Per Rai – Radiotelevisione Italiana Spa: Dott. Paolo Garimberti, Presidente; Prof. Mauro Masi, Direttore Generale

Per RTI – Reti Televisive Italiane Spa: Dott. Fedele Confalonieri, Presidente Mediaset; D.ssa Gina Nieri, Vice Presidente R.T.I.

Per Telecom Italia Media Spa: Dott. Mauro Nanni, Amministratore Delegato

Per l’Associazione Aeranti – Corallo: Avv. Marco Rossignoli, Presidente e Coordinatore Aeranti – Corallo

Per l’Associazione FRT – Federazione Radio e Televisioni: Dott. Filippo Rebecchini, Presidente

Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti: Dott. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere Nazionale

Per la Federazione Nazionale della Stampa: Dott. Roberto Natale, Presidente

ALLEGATO B

Gazzetta Ufficiale N. 39 del 15 Febbraio 2008 AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI  DELIBERAZIONE 31 gennaio 2008. Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive. (Deliberazione n. 13/08/CSP).

L'AUTORITA'

Nella riunione della Commissione per i servizi ed i prodotti del 31 gennaio 2008;

Visti gli articoli 2, 3, 21, 24, 25, 27, 101 e 111 della Costituzione italiana;

Visti gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;

Vista la legge 31 luglio 1997, n. 249, pubblicata nel supplemento ordinario n. 154/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 177 del 31 luglio 1997, ed in particolare l'art. 1, comma 6, lettera b), n. 6;

Visto il decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante «Testo unico della radiotelevisione», pubblicato nel Supplemento Ordinario n. 150/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 208 del 7 settembre 2006, ed in particolare i suoi articoli 3, 4 e 34, che delineano quali fondamentali principi dell'informazione, tra gli altri, quelli della lealtà ed imparzialità, della salvaguardia dei diritti fondamentali e della dignità della persona, della tutela dei minori;

Visto l'Atto di indirizzo sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo approvato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nella seduta dell'11 marzo 2003, secondo il quale, in particolare:

«1. Tutte le trasmissioni di informazione - dai telegiornali ai programmi di approfondimento - devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell'informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio; ai direttori, ai conduttori, a tutti i giornalisti che operano nell'azienda concessionaria del servizio pubblico, si chiede di orientare la loro attività al rispetto dell'imparzialità, avendo come unico criterio quello di fornire ai cittadini utenti il massimo di informazioni, verificate e fondate, con il massimo della chiarezza... .... omissis.... 4. Considerato che la legge garantisce agli imputati e alla loro difesa di tacere quando loro può nuocere; considerati altresì i vincoli ai quali la legge obbliga i magistrati, sia requirenti che giudicanti nel rapporto con i mezzi di informazione, in tutte le fasi del giudizio; nei programmi della concessionaria del servizio pubblico aventi ad oggetto procedimenti giudiziari in corso, l'esercizio del diritto di cronaca, come l'obbligatorio confronto tra le diverse tesi dovrà essere garantito da soggetti diversi dalle parti che sono coinvolte e si confrontano nel processo. La scelta di questi soggetti - la cui delicatezza è evidente – appartiene esclusivamente alle decisioni dei responsabili dei programmi»;

Visti i codici di autoregolamentazione applicabili alla comunicazione radiotelevisiva, e, in particolare, la «Carta di Treviso sul rapporto Informazione-Minori» del 5 ottobre 1990 e il suo addendum del 25 novembre 1995, la «Carta dei doveri del giornalista «sottoscritta dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della Stampa italiana in data 8 luglio 1993, la «Carta dell'informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli operatori del servizio pubblico - RAI» del dicembre 1995, il «Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attivita' giornalistica» (allegato A1 del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196);

Considerato quanto segue:

1. Alcuni programmi televisivi mostrano la tendenza a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie in corso, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali che vengono riprodotti, peraltro, con i tempi, le modalità e il linguaggio propri del mezzo televisivo, i quali si sostituiscono a quelli, ben diversi, del procedimento giurisdizionale. Si crea cosi' un foro «mediatico» alternativo alla sede naturale del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi, ma si assiste a una sorta di rappresentazione paraprocessuale, che giunge a volte perfino all'esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, cosi' da pervenire, con l'immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria. Tanto più accreditato risulta tale convincimento quanto più, nella percezione di massa, la comunicazione televisiva svolge una sorta di funzione di validazione della realtà. In tal modo la televisione rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia: e può accadere che effetti «coloriti» o «teoremi giudiziari alternativi» o rappresentazioni suggestive (a volte persino con l'utilizzazione di figuranti) prevalgano sull'obiettiva e comprovata informazione, con il concreto rischio di precostituire presso l'opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto, basato su una «verità virtuale» che può influire, se non prevalere, sulla «verità processuale», destinata per sua natura ad emergere solo da una laboriosa verifica che richiede tempi più lunghi, portando addirittura, in casi deteriori, a un giustizialismo emotivo e sbrigativo, talora non alieno da tratti morbosi.

2. La tecnica della spettacolarizzazione dei processi, che le trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, amplifica a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie che, per il loro carattere spesso semplicemente prodromico e cautelare, potrebbero nel prosieguo del processo anche rivelarsi infondate e risultare quindi superate, con il rischio della degenerazione della trasmissione in una sorta di «gogna mediatica» a scapito della presunzione di non colpevolezza dell'imputato e, in ultima analisi, della tutela della dignità  umana e del diritto al «giusto processo», garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari. E la «gogna mediatica» può diventare già essa stessa una condanna preventiva, inappellabile e indelebile.

3. Il livello di civiltà di uno Stato si misura innanzitutto dal rispetto per la giustizia. E da un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Tuttavia, non si può supplire ai tempi troppo lunghi della giustizia trasferendo il giudizio dalle aule giudiziarie alla televisione, in violazione del canone della centralità del processo, quello vero, quale unica sede deputata dall'ordinamento alla ricerca e all'accertamento della «verità». La cronaca può indubbiamente riferire del processo, ma non può spingersi a crearne un surrogato che, nella pretesa di ricostruire la vicenda delittuosa, ne amplifichi a dismisura e - in un certo senso - ne rinnovi e incrudisca gli effetti lesivi. Il processo deve essere svolto dal giudice competente, l'accusa va sostenuta dal pubblico ministero, la difesa va fatta da avvocati che conoscano il diritto e gli incartamenti processuali: il tutto secondo regole che garantiscano il regolare e appropriato svolgimento del processo e i diritti fondamentali della persona. Non e' pertanto ammissibile - e contrasta con gli indirizzi dettati dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi sul pluralismo informativo - che il ruolo di giudici, accusatori e difensori sia svolto da giornalisti o conduttori televisivi o, comunque, da soggetti estranei, senza quelle garanzie che nella cultura giuridica del Paese rappresentano un caposaldo dello Stato di diritto.

4. L'attenzione distorta, insistente e talora parossistica dedicata a taluni pur gravi fatti delittuosi comporta notevoli rischi di alterazione, anche perché l'estremizzazione mediatica dell'indagine nel suo farsi processo da un lato inevitabilmente amplifica le sofferenze della vittima e dei suoi congiunti (trasformando il dolore della persona in spettacolo pubblico, in contrasto con elementari istanze di tutela della persona), e dall'altro enfatizza, spettacolarizzandolo, il ruolo dell'imputato, che esce dall'anonimato per venire oggettivamente proposto come un vero e proprio protagonista della vita sociale «mediatica», con risultati abnormi e talora aberranti, vuoi sul versante della deturpazione dell'immagine vuoi sul versante di un'enfatizzata notorietà che regala a protagonisti negativi una celebrità distorsiva dei valori di una società civile.

5. Né è da escludere o da sottovalutare il pericolo che una siffatta rappresentazione «mediatica» del processo - ispirata più dall'amore per l'audience che dall'amore per la verità in programmi delle principali emittenti televisive che occupano con grande ascolto la prima e la seconda serata - possa influenzare indebitamente il regolare e sereno esercizio della funzione di giustizia. Esiste, in particolare, il pericolo dell'identificazione dell'organo giurisdizionale con la «platea dei telespettatori» che rischia di mettere a repentaglio l'indipendenza psicologica del giudicante (anch'essa valore costituzionalmente rilevante), facendo risentire la pressione di un processo di piazza dei nostri tempi sul processo nella sede giudiziaria. Con la conseguenza che, quando il processo reale approderà al suo esito giudiziario, la sentenza, se conforme all'esito della rappresentazione televisiva, appaia nient'altro che la tardiva rimasticatura di quell'esito tempestivamente raggiunto e, se difforme, venga contaminata dal sospetto di una distorsione dal giusto esito che, per frange non trascurabili del pubblico, rimane quello del processo celebrato in TV, impressosi ormai nella memoria dei telespettatori. Per altro verso, un'attenzione sproporzionata a un certo «caso» può determinare una «personalizzazione» delle indagini che competono al giudice, esponendo così il singolo magistrato a tentazioni di protagonismo mediatico (oltre che a rischi personali) e sottoponendolo ad una sovra-pressione che può mettere a repentaglio la correttezza delle dinamiche di funzionamento del processo.

6. La problematica rappresentata, nei suoi molteplici risvolti, e' di estrema delicatezza, in quanto in essa confluisce la considerazione di plurimi valori costituzionalmente garantiti: in sintesi, da un lato la libertà di espressione e di opinione, il diritto di informare e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivo anche del diritto di cronaca - che costituiscono estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero affermata dall'art. 21 della Costituzione; dall'altra la salvaguardia delle libertà individuali e della tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.), nonché il diritto al «giusto processo» tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 47). Il compito di contemperare i contrapposti interessi in gioco e' difficile e sfuggente, dovendosi ben ponderare, nella loro relazione reciproca, valori ciascuno di per sé meritevole di considerazione, di rispetto e di tutela.

7. La vigente disciplina delle riprese audiovisive dei dibattimenti (art. 147 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) già fornisce una misura - ed un caveat sulla necessità - di contemperamento degli interessi in gioco: garanzia del diritto di cronaca, ma anche salvaguardia delle personalità individuali. Omologo al diritto di cronaca e' il principio della pubblicità delle udienze, immediatamente riconducibile al disposto dell'art. 101 della Costituzione: in un sistema democratico che garantisce la sovranità popolare, e nel quale la giustizia e' amministrata in nome del popolo, devono esistere meccanismi di controllo sui modi di esercizio della giurisdizione. Dall'altra parte vi sono però i valori connessi al rispetto di alcune importanti prerogative dell'individuo, tra cui l'onore e la riservatezza. La norma dianzi citata prevede che ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca il giudice, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa audiovisiva del dibattimento, purchè non ne derivi un pregiudizio al regolare svolgimento dell'udienza o della decisione. L'autorizzazione può essere data pure senza il consenso delle parti «quando esiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Anche quando autorizza la trasmissione, il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti e testimoni, periti, consulenti ed altri soggetti presenti, se i medesimi non vi consentono. Infine, non possono essere autorizzate le trasmissioni di processi che si svolgono a «porte chiuse». Secondo autorevole dottrina, la norma testè esaminata non ha fugato i dubbi che il dibattito sulla «cronaca giudiziaria» ha sollevato. Come vi e' un interesse sociale alla conoscenza del dibattimento, infatti, vi e' anche un interesse generale a non turbare lo svolgimento del processo.

8. La vigente normativa sul sistema radiotelevisivo pone tra i principi fondamentali del settore la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo (inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni), l'obiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione, nel rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona e dell'armonico sviluppo dei minori, garantiti dalla Costituzione, dalle regole di base dell'Unione europea, dalle norme e convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali. Ne deriva che nell'ordinamento della comunicazione i principi rappresentati dalla libertà di espressione, di opinione e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivi certo anche del diritto di cronaca, costituzionalmente garantito, - devono pur sempre conciliarsi con il rispetto delle libertà e dei diritti, e in particolare della dignità della persona; ne discende che a tale rispetto non e' possibile derogare neanche nel caso in cui la persona sia sottoposta a procedimento giudiziario o sia stata condannata con sentenza definitiva.

9. Ferma la necessità di evitare ogni menomazione ed ogni ingiustificato limite al diritto di informazione, si ritiene, pertanto, che la rappresentazione in televisione di temi di cronaca giudiziaria non possa reputarsi totalmente esente da regole, ma debba osservare una serie di limiti modali, riconducibili in primis all'ambito della deontologia professionale, tali da evitare il rischio che attraverso la spettacolarizzazione di vicende delittuose e giudiziarie vengano compromessi i principi di correttezza, lealtà, equità e completezza dell'informazione, nonchè i valori del rispetto della dignità umana e del diritto al «giusto processo».

Considerato che ai sensi dell'art. 7 del «Testo unico della radiotelevisione» l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente o fornitore di contenuti esercitata, costituisce un servizio di interesse generale e deve garantire il rispetto dei principi ivi recati, la cui osservanza e' resa effettiva dall'Autorità attraverso le regole dalla stessa stabilite.

Ritenuta la necessità che - in considerazione della delicatezza e degli aspetti marginali di opinabilità del problema - al soddisfacimento delle esigenze di correttezza della rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive si proceda attraverso un'opportuna e responsabile scelta di autoregolamentazione degli operatori interessati, in considerazione del valore costituzionalmente garantito della libertà di espressione del pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, valore che si traduce nell'esigenza che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica. Ravvisata, pertanto, l'utilità dell'istituzione di un apposito tavolo tecnico presso l'Autorità con l'obiettivo di promuovere la redazione, da parte degli operatori, di un corpo di regole di autodisciplina in tale materia.

Ritenuta, peraltro, necessaria al corretto dispiegarsi delle dinamiche autoregolamentari l'individuazione di criteri a presidio degli interessi tutelati dalle norme vigenti nella materia.

Ritenuta, pertanto, l'opportunità di adottare in questa sede un apposito atto di indirizzo sui criteri relativi alle corrette modalità di rappresentazione della materia delle indagini e dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, anche in vista del successivo impegno autoregolamentare dei soggetti interessati. Udita la relazione dei Commissari Giancarlo Innocenzi Botti e Michele Lauria, relatori ai sensi dell'art. 29 del regolamento concernente l'organizzazione ed il funzionamento dell'Autorità.

Delibera:

Art. 1. Criteri sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive.

1. Le emittenti radiotelevisive pubbliche e private, nazionali e locali, e i fornitori di contenuti radiotelevisivi su frequenze terrestri, via satellite e via cavo - ferme la garanzia della libertà d'informazione e del pluralismo dei mezzi di comunicazione nonchè la salvaguardia della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o comunicare informazioni - sono tenuti a garantire l'osservanza dei principi normativi di obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione, rispetto delle libertà e dei diritti individuali, ed in particolare della dignità della persona e della tutela dei minori, in tutte le trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, quale che sia la fase in cui gli stessi si trovino.

2. I soggetti di cui al comma 1, al fine di garantire l'osservanza dei suddetti principi, si attengono, in particolare, ai seguenti criteri:

a) va evitata un'esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva, anche per le modalità adoperate, delle vicende di giustizia, che non possono in alcun modo divenire oggetto di «processi» condotti fuori dal processo. In particolare vanno evitati «processi mediatici», che, perseguendo il fine di un incremento di audience, rendano difficile al telespettatore l'appropriata comprensione della vicenda e che potrebbero andare a detrimento dei diritti individuali tutelati dalla Costituzione e delle garanzie del «giusto processo;

b) l'informazione, fermo restando il diritto di cronaca, deve fornire notizie con modalità tali da mettere in luce la valenza centrale del processo, celebrato nella sede sua propria, quale luogo deputato alla ricerca e all'accertamento della «verità»: dovranno pertanto essere seguite modalità tali da tenere conto della presunzione di innocenza dell'imputato e dei vari gradi esperibili di giudizio, evitando in particolare che una misura cautelare o una comunicazione di «garanzia» possano rivestire presso l'opinione pubblica un significato e una concludenza che per legge non hanno;

c) la cronaca giudiziaria deve sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell'informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l'altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime e rifuggendo da aspetti di spettacolarizzazione suscettibili di portare a qualsivoglia forma di «divizzazione» dell'indagato, dell'imputato o di altri soggetti del processo; deve inoltre porre sempre in essere una tutela rafforzata quando sono coinvolti minori, dei quali va salvaguardato lo sviluppo fisico, psichico e morale;

d) restando salva la facoltà di sviluppare sui temi in esame dibattiti tra soggetti diversi dalle parti del processo nel rispetto del principio del contraddittorio ed assicurando pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, vanno evitate le manipolazioni tese a rappresentare una realtà virtuale del processo tale da ingenerare suggestione o confusione nel telespettatore con nocumento dei principi di lealtà, obiettività e buona fede nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;

e) quando la trasmissione possa inferire sui diritti della persona, l'informazione sulle vicende processuali deve svolgersi in aderenza a principi di «proporzionalità», accordando pertanto alle informative e alle analisi uno spazio equilibratamente commisurato alla presenza e all'entità dell'interesse pubblico leso e raccordando la comunicazione al grado di sviluppo dell'iter giudiziario, e quindi al livello di attendibilità delle indicazioni disponibili sulla verità dei fatti.

Art. 2. Codice di autoregolamentazione

1. I soggetti di cui all'art. 1, comma 1, singolarmente o attraverso le proprie associazioni rappresentative, sono invitati a redigere un codice di autoregolamentazione, con il concorso dell'Ordine dei Giornalisti e delle organizzazioni rappresentative delle professionalità della stampa, al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai principi e ai criteri individuati nel presente atto di indirizzo.

2. L'Autorità, con separato provvedimento, provvederà ad istituire un tavolo tecnico in funzione di promozione ed ausilio rispetto alla elaborazione del codice e alla definizione delle modalità della sua redazione e sottoscrizione.

3. L'Autorità, nell'ambito della propria competenza, uniformerà la propria attività di vigilanza in materia al rispetto delle norme e dei principi richiamati, avendo specifico riguardo alle disposizione del codice di autoregolamentazione.

La presente delibera e' pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e nel Bollettino ufficiale e sul sito web dell'Autorità ed e' trasmessa alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.

Napoli, 31 gennaio 2008

Il presidente Calabro'. I commissari relatori Innocenzi Botti – Lauria

Pierluigi Franz replica al presidente dei cronisti Guido Columba: “Il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro. “Il codice riconosce la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso”.

Caro Presidente, sono rimasto assolutamente sconcertato dal Tuo farneticante comunicato odierno: "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca. - Hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom - Soltanto lo scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" (Allegato A). E mi meraviglio che un cronista bravo ed esperto come Te sia riuscito a mettere insieme così tante inesattezze e imprecisioni senza neppure leggere l'ampio ed articolato preambolo al Codice, ricco di citazioni di numerose norme in vigore che soprattutto i giornalisti devono comunque conoscere e rispettare. Ad esempio, quando affermi nel titolo che "Fnsi e Ordine hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom, mentre soltanto nello scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" dimentichi un particolare tutt'altro che trascurabile. Difatti, successivamente - anche grazie al mio modesto contributo - il testo del Codice é stato del tutto modificato su un passaggio chiave per i giornalisti iscritti all'Albo. Si tratta in particolare dell'art. 2, secondo comma, che prevede testualmente che "In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all'Ordine professionale". Di conseguenza mentre fino a febbraio scorso concordavo pienamente con te e con i colleghi del Consiglio nazionale contrari all'approvazione di quella prima Bozza del Codice perché non potevano essere varate nuove regole a carico dei giornalisti in aggiunta a tutte quelle già esistenti (Costituzione della Repubblica, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13 -relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali - nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, codice penale, codice di procedura penale, codice civile, legge sulla stampa del 1948, legge n. 69 del 1963, Carta dei doveri, Carta di Treviso, Codice della Privacy, Testo unico della radiotelevisione, Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai; ecc.), la nuova formulazione accolta dal tavolo tecnico e dal Presidente dell'Authority Corrado Calabrò ha ovviamente ribaltato la situazione perché mantiene l'esclusiva competenza degli Ordini regionali territorialmente competenti così come era già avvenuto per il Codice di autoregolamentazione dell'informazione sportiva "Codice media e sport". E nell'ultima seduta del Cnog del 6-7 maggio 2009 se ne é preso atto, come delle dichiarazioni anch'esse favorevoli del Presidente della Fnsi Roberto Natale. Appare quindi del tutto inverosimile e fuorviante il sottotitolo "biforcuta" (come, cioé, se l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Fnsi avessero la lingua biforcuta di indiana memoria) al Tuo comunicato "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca" quando dovresti sapere che non é affatto vero, anzi é l'esatto contrario. E te lo dice uno come me come ha trascorso più di 30 anni in Cassazione, che si é letto una montagna di Gazzette Ufficiali e circa 600 mila sentenze della Suprema Corte e della Consulta, e che conosce circa 220mila tra leggi, codici e Trattati internazionali. A mio parere il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, cui hanno lavorato tra gli altri due ex Presidenti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, fa, invece, finalmente chiarezza su una materia delicatissima che era stata più volte al centro di discussioni e polemiche. Mi limito solo a ricordarTi che:

1) il 30 gennaio scorso il Primo Presidente della Cassazione Vincenzo Carbone nella sua relazione sull'amministrazione della giustizia nella cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2009 al "Palazzaccio" di piazza Cavour a Roma aveva sottolineato la necessità di "evitare la realizzazione di veri e propri processi mediatici, simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre é ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali. La giustizia deve essere trasparente, ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria";

2) il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento dello scorso anno al Consiglio Superiore della Magistratura si era richiamato ai principi affermati dalla nostra Costituzione e insiti sia nell'ordinamento nazionale, sia in quello comunitario, osservando che l'indirizzo rivolto il 31 gennaio 2008 dal Presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni Calabrò costituisce "un atto puntuale e fermo contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi";

3) il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente ieri alla firma in veste di "notaio" ha ribadito che il Codice rappresenta «una svolta nella comunicazione. Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile»;

4) Il presidente della Rai Paolo Garimberti ha parlato di «opera meritoria», il Presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione», mentre Roberto Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».

In conclusione ti ricordo che contrariamente a quanto affermi nel Tuo comunicato il Codice trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione, in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso. Ti sarei molto grato se volessi rendere nota questa mia richiesta di rettifica del Tuo comunicato, essendo gravemente lesivo della mia onorabilità. Cordialmente. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.

Invece....nel 2015.

Caso Yara, Bossetti: “Sono innocente, basta accanirsi contro di me”, scrive “Il Garantista”. “Sono innocente, sono un padre di famiglia, perché il pm si accanisce contro di me?”. Con queste parole Massimo Giuseppe Bossetti, accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, prende per la prima volta la parola in aula e di fronte ai giudici del Riesame di Brescia si difende. Parole rivolte puntando lo sguardo fisso verso Letizia Ruggeri, titolare dell’inchiesta della procura di Bergamo, che lo scorso 16 giugno ha chiesto l’arresto del 44enne muratore ritenuto il responsabile dell’omicidio della 13enne Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra (Bergamo). Bossetti, spiega il suo avvocato Claudio Salvagni davanti alle telecamere di RaiNews 24, “ha ribadito la sua innocenza, ha detto in maniera molto serena che lui non ha mai conosciuto questa ragazza, che è un padre di famiglia normalissimo, che è innocente”. Poi rivolgendosi al pubblico ministero – tanto che i giudici lo hanno dovuto richiamare perché non si rivolgeva ai togati – “ha detto come mai tanto accanimento nei confronti della mia persona. Sono innocente -riferisce ancora il legale – e continuerò a gridarlo”. L’udienza, durata circa 90 minuti, ha visto al centro del confronto tra accusa a difesa le novità emerse dalle analisi del Dna riportate nella consulenza tecnica della procura firmata da Carlo Previderè rispetto alla traccia mista (Yara – Ignoto 1) trovata sugli slip e i leggings della vittima. I giudici del Riesame si sono riservati sulla richiesta di scarcerazione avanzata dall’avvocato di Bossetti. Si tratta del secondo ricorso davanti al tribunale della Libertà, dopo il no dell’ottobre scorso, il doppio rigetto alla scarcerazione deciso dal gip di Bergamo e la più recente bocciatura della Cassazione.

Il muratore avrebbe tentato di impiccarsi con una cintura. Salvato dal tempestivo intervento di un agente penitenziario. Ma la polizia penitenziaria smentisce…scrive “Oggi”. Massimo Bossetti, l’unico imputato per il delitto di Yara Gambirasio, avrebbe tentato di impiccarsi in carcere: si sarebbe legato una cintura al collo, e solo il pronto intervento di un agente penitenziario avrebbe evitato il peggio.  L’episodio sarebbe avvenuto lo scorso sabato scorso, all’indomani della seconda udienza a suo carico. Ma è rimasto a livello di indiscrezione, di voce che correva intorno al carcere di via Gleno a Bergamo: non è stato riferito ufficialmente al pubblico ministero e Bossetti non è stato portato in ospedale. A confermare il tentativo di suicidio sono stati uno dei legali di Bossetti, Claudio Salvagni, e la moglie del muratore, Marita Comi. Ma la polizia penitenziaria smentisce per bocca del sindacalista Donato Capece: “È tutto falso”. Bossetti è detenuto dal 16 giugno del 2014 per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio. Il gesto autolesionistico sarebbe stato una conseguenza del “disastro” della seconda udienza, che ha visto respingere tutte le eccezioni preliminari della difesa di Bossetti.

Se Massimo Bossetti ha tentato il suicidio è perché i giornalisti da cani da guardia della democrazia si son trasformati in belanti pecorelle disposte a far tutto ciò che ordina il pastore di turno...scrive Massimo Prati su “Albbatros-Volando Controvento”. Massimo Bossetti, al ritorno in carcere dopo l'udienza del processo celebrata venerdì scorso, ha tentato di farsi del male. Probabilmente un tentativo di suicidio. Quel suicidio che più volte gli è balenato per la testa, come ha riferito alla sua consulente, la psicologa con cui ha parlato un paio d'ore la settimana scorsa, la dottoressa Casale. Ma chi l'ha portato a quel tentativo? I fattori che scatenano in un uomo la voglia di farla finita sono tanti. Parlando in tutta sincerità, ognuno di noi ha pensato almeno una volta di chiudere il discorso con la vita. E se il pensiero insano si presenta quando l'uomo è libero, figuriamoci se non è sempre presente quando viene chiuso in gabbia da innocente. Capire il dolore che prova chi viene preso di peso e portato in carcere con accuse infamanti non è facile. Io ho provato a trasportarlo in un libro quel dolore, ne La Legge del Disprezzo, un libro scritto assieme a un uomo, un vero uomo, che per nove anni ha subito la forza delle istituzioni italiane vedendosi rovinato psichicamente ed economicamente. Parlo di Federico Focherini che venne arrestato e portato in carcere perché accusato di essere il responsabile della morte della sua fidanzata Claudia Bianchi. Dopo quella carcerazione riuscì solo a sopravvivere, mai più a vivere veramente, e dopo essere stato incredibilmente condannato in assise dal giudice Elena Natoli, che probabilmente non è in grado di fare il giudice e andrebbe tolta dalle aule dei tribunali, rinunciò alla prescrizione che lo liberava da ogni guaio, rischiando di andare in carcere in caso di condanna, pur di venire assolto con formula piena. Voleva girare a testa alta Federico. Dopo essere stato additato per anni voleva che una assoluzione lo reintegrasse nella società. E venne assolto! Non c'era nulla contro di lui, nessuna prova e pochissimi indizi interpretabili in vari modi, eppure i "migliori" procuratori di Roma (parlo della dottoressa Diana De Martino e del dottor Italo Ormanni) coadiuvati da famosi investigatori italiani, avevano chiesto e ottenuto la sua custodia cautelare in carcere in quanto soggetto altamente pericoloso e perfido. Non c'era nulla, ma se parlassimo di come si fecero le indagini cadremmo nel baratro investigativo, visto che i bravi investigatori avevano indagato in maniera non solo unilaterale ma anche pessima (per non dire sporca viste le intercettazioni trascritte sempre "a modo" o addirittura ignorate quando erano palesemente favorevoli a Federico). Oggi tanti uomini che si dichiarano innocenti sono in custodia cautelare. Uno è rinchiuso nel carcere di Bergamo e da 14 mesi è tartassato dagli investigatori, dai magistrati e dai media. Leggiamo cosa provò Federico Focherini e cerchiamo di capire cosa prova Massimo Bossetti e quali voglie lo pervadano.

(Estratto da La Legge del Disprezzo)

- Alle 18.20 precise, ammanettato e accompagnato da quattro appuntati, varcai da prigioniero la soglia del carcere Sant’Anna di Modena. La mia mente andò in tilt. Tutto mi colse alla sprovvista: non ero in grado né di connettere e capire, né di difendermi in alcun modo. In balia di un’ordinanza emessa per motivi che non conoscevo, dopo aver sbrigato le formalità di rito fui sistemato in una piccola cella fredda, buia, con le pareti ricoperte di ritagli di giornale e immagini pornografiche che si alternavano a icone religiose. In un qualsiasi altro luogo gli stridenti accostamenti avrebbero suscitato una mia reazione forte e indignata, ma ero in carcere e l'indignazione l’avevo lasciata all’ingresso, dove, con le manette ai polsi e due guardie ai lati che mi bloccavano le braccia, sentii il sangue svanirmi dal cuore quando l’enorme portone cigolante, sbattendo, si chiuse alle mie spalle. Quando in uno sgabuzzino fui costretto a spogliarmi e a farmi toccare in ogni dove. Non sapevo cosa fare. Ero un essere inerme rimasto senza voce, un essere che nessuno voleva ascoltare. Ero un innocente che piangeva, si disperava e non aveva reazioni. Mi sentivo morire dentro e stavo perdendo la voglia di lottare. Avrei voluto parlare subito al procuratore e al giudice che aveva firmato e avallato la richiesta di arresto; poco ci voleva per far capir loro che sbagliavano, che non meritavo di stare in carcere. Ma intorno a me regnava il silenzio assoluto. Mi sentivo instabile. Tutto era inquietante e il tempo passava lentamente, troppo lentamente, immergendomi in un’allucinazione da cui credevo di non riemergere più. A minuti fissi due occhi mi osservavano. Capii che quanto stava accadendo mi avrebbe potuto portare al suicidio. Ma non avevo il tempo per elaborarlo né modo di fare gesti insensati, perché la mente mi obbligava a lottare col solo pensiero fissatosi a cemento. Mi chiedevo di continuo per quale assurdo motivo mi avessero rinchiuso. No, mi ucciderò domani, pensai, quando avrò metabolizzato e capito il perché dell’infame accusa di omicidio. Omicidio significa assassinio. Quindi, qualcuno credeva che io fossi un assassino. E non un assassino qualunque, addirittura chi aveva tolto la vita alla donna che amava! La donna che sentivo di avere accanto anche quando non era con me, che stuzzicava i miei pensieri, che mi ingelosiva, che mi mancava perché abitava lontano, che andavo a trovare per farci l’amore. 

Non avevo tempo di pensare ad altro, perché altro da pensare non c’era. Gli spiriti che gironzolano nell’aria fredda della cella mi pugnalavano con le loro urla inquietanti, mi rimandavano le immagini del funerale di Claudia e approfittavano del mio pianto continuo per infierire. Gli occhi di una guardia entrarono di nuovo in quella che era ormai la mia gabbia. Forse a lei sembravo solo, ma in realtà in quei quattro metri quadrati eravamo in tanti. C’erano i fantasmi delle mie paure e del mio orgoglio che mi circondavano, che mi ferivano al pensiero di essere additato come un assassino. Quando quegli occhi tornarono per l’ennesima volta, cercai di dire qualcosa. Volevo parlare a qualcuno, fosse anche una guardia carceraria che nulla poteva fare per aiutarmi. Ma in quella cella maledetta la voce cadeva nel vuoto e si rompeva, come il mio corpo che si rifiutava di reagire, come il mio stomaco che aveva deciso di bruciare, come la mia vescica che sentivo scoppiare e come la mia mente che non trovava risposte. In quella cella maledetta mi sentivo inerme e privo della forza necessaria a creare una briciola di speranza. Stavo davvero molto male e andavo continuamente in bagno, sebbene non avessi con me neppure una bottiglietta d’acqua e non potessi bere; mi guardavo attorno spaesato come se mi trovassi all’estero, in una grande piazza fra migliaia di persone sconosciute. Ma non c’era nulla attorno a me, solo muri umidi e scaffali costruiti con pacchetti di sigarette incollati tra loro. Mi resi conto che da quando ero entrato, non avevo neppure fatto un passo e che fra le mani tenevo ancora quanto consegnatomi all’ingresso dalle guardie: una coperta ruvida, un pacco marrone con un lenzuolo di carta velina piegato all’interno, due gavette per il cibo, un sapone inodore e un rotolo di carta igienica. Nient’altro, giacché le mie cose erano finite in una scatola e non mi avevano concesso di tenere nulla, neppure la custodia degli occhiali e i lacci delle scarpe. 

Ho sempre odiato camminare senza lacci, però camminai e appoggiai il tutto sulla brandina. Gli occhi che mi fissavano scomparvero e mi venne voglia di sbattere la testa contro il muro. Riuscii a trattenermi e sulla parete sbattei solo i pugni. Gli occhi tornarono. Mi girai e appoggiai le spalle al muro. Poi mi voltai, sperando di trovare, assieme agli occhi, anche due orecchie cui ribadire la mia innocenza. Fu in quel preciso istante che vidi uno strano oggetto appoggiato su una mensola. Lo presi in mano e capii che era un piccolo crocefisso ortodosso di plastica bianca… era sporco, molto sporco. Decisi di lavarlo e tenerlo con me: forse mi avrebbe aiutato a capire l’animo di chi mi aveva sbattuto in carcere, quali pensieri e sicurezze l’avessero convinto di avere a che fare con un assassino. Ma via, com’era possibile credere che fossi un assassino? Che diavolo c’entravo con la morte di Claudia? Chi erano gli incapaci che mi accusavano? 

I primi giorni di carcere tolsero la luce ai miei occhi e la vita al mio corpo. Mi sentivo uno straccio e non vedevo futuro. L’unico sollievo era Alba, la mia amica avvocato che non mi fece mai mancare la sua presenza e addolciva la mia rabbia con un cioccolatino. Aspettavo con ansia che mi chiamassero in procura per interrogarmi, ma i giorni passavano e nulla accadeva. Perso in un incubo delirante, pensavo a mia madre e speravo che almeno lei non subisse le conseguenze del mio arresto. Non sapevo che i giornalisti avevano già alzato il tiro e coi loro cannoni carichi d’inchiostro cercavano di affondarmi. Ero in carcere da quattro giorni, quando sul quotidiano La Repubblica, cronaca di Roma di venerdì 7 ottobre 2005, si materializzò un articolo su di me, scritto da una tale che si firmava Anna Maria Liguori. Lei sostiene di essere una giornalista, ma vi posso dimostrare che nel suo modo di scrivere di giornalistico non c’è nulla. Il titolo, a caratteri cubitali, annunciava l’articolo: «L’ha iniziata al doping e l’ha pompata fino a ucciderla». E già qui le falsità balzano agli occhi, facendo capire come la Liguori sia solo una sorta di imbonitrice, la cartomante di turno, dotata di sparacazzate per convincere l’opinione pubblica e portarla sulla tesi della procura. È bene sapere che lo sparacazzate è l’arma in dotazione a quasi tutti i giornalisti accucciati nei corridoi delle procure, quelli che senza l’elemosina dei magistrati dovrebbero inginocchiarsi nei pressi del portone di una chiesa. È un’arma micidiale, a lunga gittata, può arrivare ovunque e uccidere la mente di ogni lettore. Lettore che una volta colpito perde autonomia di pensiero. A quel punto, più le cazzate sono grandi più diventano credibili. Garantisco che le tantissime bugie della Liguori, forse studiate a tavolino con qualche suo “amico” coinvolto nelle indagini, erano davvero enormi e per questo capaci di lasciare il segno in qualsiasi lettore. 

Lei stessa scrisse sul giornale: «Pochi mesi prima di morire la giovane donna denunciò il suo compagno per maltrattamenti». Oddio, questo è vero. Claudia denunciò il suo compagno per maltrattamenti, peccato che nell’articolo manchi l’avverbio ex, dato che Claudia denunciò per maltrattamenti il suo “ex compagno”. Non me. Da ciò si evince che la credibilità della Liguori è pari a zero (...) Quando si scrive di fatti reali, il personaggio viene materializzato tanto che il lettore può riconoscerlo mentre cammina per strada, offenderlo o sputargli addosso, perché è lui l’assassino. È scritto sul giornale! Ma è anche colpa dell’uomo comune se una falsa notizia si allarga a macchia d’olio e passando di bocca in bocca diventa credibile. Il concime capace di fertilizzare le menti del popolo nasce dai pregiudizi, dalle invidie, dalle paure, dall’autocommiserazione e dal desiderio di cibarsi delle miserie altrui. I giornalisti sanno che scrivendo in una certa maniera, l’opinione pubblica s’infervorerà fino a mordere; sanno come lisciare il pelo alla massa coalizzata che seguirà la corrente mediatica, favorendo l’audience, gli introiti pubblicitari e la loro carriera. Per questo molti non hanno scrupoli e soddisfano il bisogno di sangue del cittadino frustrato, pur sapendo che la distruzione dell’indagato causerà dolore anche alla sua famiglia e a chi gli vuole bene. Nel mio caso, il mondo mi è crollato addosso. Che poteva importare ad Anna Maria Liguori, ai carabinieri, ai procuratori, della sofferenza mia e di mia madre? Che importava loro del buon nome della famiglia Focherini, del fatto che per sostenere le spese legali, conseguenti all’indagine, mi sarei rovinato economicamente, come puntualmente accadde quando fui costretto a vendere la mia quota di palestra e la casa. La realtà dei fatti mi scagionava e mi dava ragione. Eppure fui attaccato dai media e dai procuratori come fossi stato il peggiore dei mafiosi in circolazione. Eppure, senza motivo, mi spedirono in carcere dopo essere rientrato in Italia proveniente dall’Arizona (...)

È stato mostruoso. Avrei dovuto soggiornare in Italia per una decina di giorni, non di più, giusto il tempo necessario per depositare al Consolato Americano i documenti del mio permesso di soggiorno oltre oceano. Invece, a causa d’indagini portate avanti da incapaci, ho perso tutto. Nei primi quattordici giorni di carcere sono dimagrito undici chili. Nei primi tre giorni non ho mangiato perché avevo perso ogni ragione per vivere. Piangevo, ero rabbioso e non riuscivo a ingerire nulla. Poi, appena uscito dall’isolamento, ho seguito i consigli di altri detenuti e ho iniziato a capire come si fa a sopravvivere in galera. Il segreto è annullarsi e rimanere calmi. Non pensare a nulla, non pensare a nessuna persona cara. Non pensare alla libertà e galleggiare, autoeliminarsi senza guardare la finestra con le doppie inferriate, senza guardare la porta a sbarre con la grata da dove ti passano il cibo due volte al giorno (una sola la domenica), perché se la fissi troppo a lungo, dopo essere rimasto al chiuso per quindici ore consecutive impazzisci come impazziscono gli animali selvatici stivati in anguste gabbiette. Non guardare da nessuna parte. Non ascoltare le urla o i pianti che squarciano la notte, le risate sguaiate e le bestemmie che non ti consentono di prendere sonno e ti fanno realizzare dove sei, lontano dai tuoi affetti più cari. Non ascoltare le preghiere dei maghrebini, una litania, un mantra in grado di rapire la ragione e convincerla a seguire la musicalità anche quando sei assorto nella più completa solitudine dei tuoi pensieri. 

Ecco il punto: i guai nascono dai pensieri. In me il pensiero della morte diventò talmente insistente, che a volte lo cercavo e lo focalizzavo nella mente come fosse l’unico sollievo. Dopo averlo localizzato lo fissavo, come il pilota di un caccia blocca nel mirino un aereo da abbattere, e alla fine: Bingo! Ecco il momento della mia unica evasione cerebrale. Pensare di morire mi lasciava una sensazione di quiete e tranquillità. Federico è ora un uomo libero. Lo è soprattutto grazie al lavoro e alla passione del suo avvocato Alessandro Sivelli e del pool che lo ha affiancato quando si è scontrato con procuratori privi di scrupoli e coscienza che già avevano deciso che il Fochero andava condannato. Massimo Bossetti, invece, al momento è un uomo in gabbia con tutti i pensieri neri che gli balenano nella mente. La procura di Bergamo lo vuole colpevole e non lesina colpi bassi pur di farlo figurare pedofilo. Non ha nulla di serio in mano, eppure si getta contro la sua famiglia fregandosene dei suoi figli e del male che loro padre prova quando questo avviene. Con indagini unilaterali cerca di affossarlo definitivamente non perché voglia la verità, ma perché a tutti gli italiani venga imposta la "loro verità". E visto che non tutti sono stati convinti, ai procuratori farebbe molto comodo un suicidio che chiuda il caso e gli accertamenti. Dovrebbero essere i media a vigilare affinché l'evento suicidio non si realizzi. Dovrebbero essere i giornalisti, gli unici che possono fungere a cani da guardia della democrazia pronti ad abbaiare e a mordere quando qualcuno non si comporta nel rispetto delle regole. Ma da tempo i giornalisti italiani si sono trasformati in pecorelle pronte ad ubbidire al pastore di turno. Infatti lo schieramento anti-Bossetti è imponente è lo spinge al suicidio tramite scoop mirati in grado di colpirlo a morte nel profondo della sua sfera psichica più intima. E la pubblica opinione se ne frega di quanto ora capita a un altro, anche se un domani potrebbe capitare a chiunque, acquista il Giallo e sbava ad ogni accusa come se ci fossero tonnellate di prove anziché nanogrammi di pseudo-indizi. Come scrive Gilberto Migliorini nel suo ultimo articolo, pare quasi che i media stiano facendo un servizio di stato. Pare quasi che le pecorelle dell'informazione servano solo a testare le risposte degli italiani per capire se la cura usata negli ultimi decenni è riuscita ad addomesticarli, a farli reagire in maniera positiva agli stimoli negativi che chi detiene il potere lancia ad ogni ora del giorno e della notte per impedire un autonomo pensiero e trasformare un popolo in gregge...

Le dichiarazioni esclusive che Marita fa al nostro giornale contrastano con quelle degli inquirenti. E il processo è sempre più vicino…Intervista esclusiva a Marita Comi, moglie di Massimo Giuseppe Bossetti su Oggi. «Massi era sorvegliato già due mesi prima che fosse arrestato. Di notte e di giorno. Attorno a casa, nei campi sul retro della palazzina o all’imbocco della strada che dalla Provinciale porta nel nostro cortile c’erano spesso due persone che chiacchieravano o fumavano…», racconta la moglie dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. «Eravamo preoccupati, ne abbiamo parlato, ci siamo chiesti chi potessero essere, cosa facessero, cosa volessero. Abbiamo pensato a dei ladri. Mai avremmo immaginato quello che è successo due mesi dopo. Chissà perché dal 16 giugno 2014, il giorno dell’arresto di mio marito, quei due sono spariti… Più visti» Una convinzione, quella di Marita Comi, che contrasta con le spiegazioni degli inquirenti, secondo i quali la certezza che la mamma di Ignoto 1 fosse Esther Arzuffi è stata raggiunta solo il 14 di giugno, 48 ore prima dell’arresto. Massimo Bossetti era nel mirino degli inquirenti due mesi prima della scenografica cattura nel cantiere di Seriate? Marita Comi non vuole dare risposte e sul processo che sta per aprirsi a Bergamo dice: «Mio marito è innocente ma io ho ugualmente tanta paura». Infine, sulle lettere anonime giunte proprio a Oggi che delineano un diverso scenario del delitto (Yara uccisa da un muratore polacco alla presenza di Bossetti), dice: «Se Massi avesse solo assistito a quello che si racconta in questi fogli prima o poi me l’avrebbe confidato. Non è capace di tenere un segreto così pesante. Non avrebbe dormito di notte. Massi non è un duro. È un sentimentale tenero.

Cara Marita, ti spiego perché tuo marito non può aver ucciso Yara...Lettera aperta di Annika a Marita Comi su "Albatros Volando Controvento". Cara Marita Comi, spero che tu segua il blog di Massimo o che qualcuno ti informi di quanto sto per scriverti. Mi chiamo Annika e mi occupo di scienze forensi. Ho seguito con grande interesse il caso di Salvatore Parolisi, in cui ho notato che molti degli elementi fatti passare per scientifici, addirittura nelle carte ufficiali, di scientifico non avevano, e tuttora non hanno, proprio nulla. Melania è morta molto dopo i tempi che ci sono stati raccontati e suo marito è assolutamente innocente. Ho anche seguito il caso di Yara Gambirasio. All'inizio con interesse appena superficiale, poi qualcosa mi ha fatto tirare su le antenne e scattare l'allarme. Così, come per Melania sapevo che Parolisi era solo il capro espiatorio prescelto - per via della Semenogelina (lunga storia) - allo stesso tempo, dall'istante dell'annuncio del ritrovamento di DNA estraneo sul corpo della piccola vittima, ho capito che nel caso Gambirasio qualcosa non andava proprio per come doveva andare. Ma procediamo con calma. Innanzi tutto permettimi di spendere due parole sull'incessante tamburo battente di intercettazioni tra te e tuo marito, dalle quali si percepirebbero i tuoi presunti dubbi sulla sua innocenza e blah blah blah... I media quando ci si mettono sono come ogni altro branco - sia formato da bulli o da cani randagi - e si eccitano tra loro. Sai che goduria rotolarsi nella melma del loro stesso gossip? Ma tuo marito è innocente, Marita: lo sai tu e in questo blog lo sappiamo in tanti. Dammi cinque minuti e te lo confermo. Allora, come ti dicevo ho sgamato il PMI di Melania Rea in un batter d'occhio per via della Semenogelina. Ma di semenogelina, a meno che tu non segua questo o altri blog di utenti che leggono e commentano i casi ambigui di cronaca nera, non avrai mai sentito parlare. In pratica, la semenogelina ci dice che Melania, ancora viva, ha avuto un rapporto sessuale, non consenziente visto il conseguente omicidio, dopo i tempi del suo presunto decesso, solo ufficialmente avvenuto il 18 aprile. E poco importa che non si siano trovate tracce di stupro sul suo corpo, perché la droga da stupro non me la invento io e in Italia si trova in ogni ceto sociale (per capirlo basta scrivere sulla barra di ricerca di google: arrestato con droga da stupro). I media una storia del genere non la racconteranno mai: sia perché dovrebbero puntare il dito dove non si vuole che punti, sia perché scagionerebbe immediatamente l'assassino prescelto. Insomma, niente semenogelina per la massa già da mesi e anni imboccata a cucchiaiate di borse gialle, occhiali, chioschi, imbuti e, naturalmente, DNA da "ultimo bacio"! Parliamo di DNA. La relazione autoptica di Tagliabracci conferma la presenza del DNA di Parolisi sia sul labbro di Melania che all'interno della sua bocca, nell'arcata dentaria. Proprio come nel caso del DNA di Ignoto 1 su Yara, il DNA sulla e nella bocca di Melania Rea, stando alle carte, avrebbe un donatore certo (Salvatore Parolisi) ma un'origine incerta: forse saliva, forse touch DNA, forse chissà... E infatti, se tu avrai modo di accedere alle carte del caso Gambirasio, scoprirai che anche il DNA di Ignoto 1 apparterrebbe (nota il condizionale!) a Massimo Bossetti, ma avrebbe natura incerta. Nonostante la si sia cercata in lungo e in largo. Sarà sangue o forse touch DNA, saliva oppure urina o sperma? Mistero! Ora, torniamo a Melania. Ricorderai sicuramente il tam tam mediatico del Bacio della Morte, bacio che Salvatore avrebbe dato a Melania moribonda (per via dei tempi altrimenti impossibili, le carte ci raccontano che lui la abbandona a Ripe dove lei, in fin di vita, spirerà alcune decine di minuti più tardi). Ora, Marita, la verità è che il DNA di Parolisi non poteva in alcun modo essere rilevato in corso di autopsia, né sulla arcata e meno che mai nella bocca di Melania, per via della scarsissima resistenza del DNA - di qualunque natura - una volta a contatto con la saliva del corpo ricevente. E a dimostrarlo non c'è solo l'alpha amilase che distrugge e digerisce quasi istantaneamente una qualsivoglia traccia estranea di qualsivoglia origine, ma c'è anche, incredibilmente, proprio il perito della parte civile. La Dott.ssa Baldi ha svolto una serie di esperimenti empirici di French kissing & mouth touching (esperimenti per fortuna ripetuti da Kamodiova et al, 2012, in una ricerca seria documentata in double blind fuori Italia da un team assolutamente estraneo al caso Rea). In parole povere, ora è certo che la saliva maschile resiste nella bocca femminile non più di una manciata di secondi, e se anche fosse stato Parolisi ad aver ucciso Melania, e se anche l'avesse baciata o solo toccato la sua bocca prima di abbandonarla sanguinante, quel DNA si sarebbe dissolto entro 45-60 secondi al massimo, e sarebbe sparito del tutto prima ancora che lui avesse aperto la portiera della macchina per rimettersi presumibilmente in moto verso Colle San Marco. Ma nonostante i tempi di persistenza del DNA estraneo sulla e nella bocca siano ormai ben conosciuti anche alla parte civile, oltre che alla procura, ai giudici e al resto del mondo (grazie allo studio internazionale di cui sopra), nessuno ha mai ritrattato o rettificato la balla di dimensioni cosmiche del DNA di Salvatore rimasto sulla moglie. Solo due possibilità scientificamente provabili permettevano a quel DNA di trovarsi realmente sulla bocca di Melania:

Prima: "O a Salvatore Parolisi è stato permesso di baciare Melania durante l'autopsia (giudica tu...)";

Seconda: "O quel DNA, magari prelevato o rubato a Salvatore a sua insaputa, lì ci è stato messo apposta da 'qualcuno'..."

Scegli tu. Non sto quindi dicendo che il DNA di Salvatore non fosse sulla e nella bocca di Melania, tra l'altro misto al DNA di Melania: non sto accusando Tagliabracci di un falso colossale. Sto dicendo piuttosto che, se realmente quel DNA è stato rilevato, registrato (campioni 4493 e 4494), isolato da quello di Melania e identificato come appartenente a Salvatore Parolisi, come da relazione autoptica con tanto di firma dell'anatomopatologo, allora su Melania ci è arrivato solo tramite una delle due soluzioni qui sopra menzionate. E data l'impossibilità di accertarne la natura (salivare, epiteliale, ecc), qualcosa mi dice che quel DNA potesse non avere un RNA perché, altrimenti, la sua natura sarebbe certa e nota da anni. Comunque sia, ciò farebbe poca o nessuna differenza, dato che se realmente Salvatore avesse baciato la moglie in fase autoptica, il suo DNA sulla bocca della moglie non proverebbe la sua colpevolezza. Quindi, se delle uniche due ipotesi possibili escludiamo la prima...Lasciamo il caso Rea-Parolisi e passiamo ora a tuo marito, a Massimo Bossetti, o meglio ancora passiamo al DNA di Ignoto 1 rilevato dagli slip/leggings di Yara. Qui davanti a me ho2 papers aperte, una più ufficiale dell'altra ed entrambe datate 2011, che continuo a sfogliare mentre ti scrivo - e altre ne ho nel mio ufficio, nel mio lab, nello studio di casa mia. Tutte queste papers riguardano la persistenza di tracce di DNA estraneo su cadavere in un ventaglio di condizioni (in acqua, su terreno, al chiuso, all'aperto, al caldo, al freddo, sotto la pioggia). Ebbene, la durata massima di una traccia di DNA tale da rendere il DNA ancora leggibile, in condizioni ottimali è al massimo di due settimane. Ripeto Marita: DUE (2) SETTIMANE = 14 GIORNI. Oltre questo tempo il DNA sarà forse ancora presente, ma talmente degradato da non essere più riconducibile al soggetto da cui proviene. Dato che però il RNA ha una persistenza circa 8-10X (8-10 volte) maggiore del DNA, e che il RNA fornisce la natura della traccia (sangue, saliva, urina, sperma, touch DNA) laddove altri test non riescano o non diano risposte conclusive, passate le prime due settimane qualunque resto di traccia di DNA servirà non tanto all'attribuzione a un soggetto, quanto piuttosto ad accertare la natura della traccia (es saliva) proprio grazie al RNA in esso ancora presente e ancora leggibile. Nel caso di Ignoto 1 sappiamo dalle carte che non si è riusciti ad accertare l'origine della traccia, che si è solo presunto si trattasse di sangue. Se di sangue si trattasse, il RSID-Bloodlo confermerebbe tutt'oggi al 100%, ma comunque è sorprende che nel 2011 - o dopo - non si sia confermata la natura del DNA di Ignoto 1 tramite l'analisi del suo RNA, sicuramente ancora presente e certamente ben leggibile nella traccia a 3 mesi dal presunto deposito. Soprattutto se, come dicono, il DNA stesso presentava uno straordinario stato di conservazione...Quello che però sorprende ancora di più, e sorprende fortemente, è che un team di esperti di scienze forensi di fronte a un corpo presumibilmente rimasto a Chignolo d'Isola immobileper ben 3 mesi, abbia preso per buona la presenza di una traccia di DNA estraneo a presunte 14 SETTIMANE dal decesso! Cosa IMPOSSIBILE per via di due fattori altamente provati e risaputi:

1. degradazione ambientale

2. degradazione chimica

Senza voler entrare nei meandri di un discorso complesso, riassumo in pillole che non solo a Chignolo pioveva (ergo pH, ecc) e faceva freddo, entrambi fattori acceleranti, ma che anche sul suo terreno ci sono quelle bestie voraci dei batteri del suolo. Se hanno ridotto il corpo di Yara nello stato in cui l'hanno ridotto, figuriamoci in che insignificante manciata di nanosecondi hanno fatto fuori qualunque traccia estranea. Infine c'è la scoperta non nuova (solo una conferma in realtà avvenuta per ricerca datata proprio 2011) che, come si pensava da tempo, sono i liquidi corporei stessi a disfare definitivamente qualunque traccia rimanente di DNA estraneo su pelle o vestiti. E non parlo solo di liquidi corporei che escono da cavità e orefizi, ma soprattutto di quelli prodotti dalla putrefazione dell'intero corpo. Ed ecco che l'alta acidità putrefattiva dell'intero cadavere spiega i tempi di max 2 settimane di persistenza e rilevabilità di tracce estranee di DNA. Ma allora, il DNA di Ignoto 1 come lo si spiega? Lo si spiega esattamente come il DNA di Salvatore Parolisi sulla e nella bocca di Melania: ovvero prendendo i dati scientifici a nostra disposizione e traendo le uniche due conclusioni scientificamente possibili:

Prima: "O Massimo Bossetti ha toccato e, data la posizione del DNA, per forza di cose spostato il cadavere di Yara una decina di giorni al massimo prima del ritrovamento".

Seconda: "O il DNA di Massimo Bossetti lì ci è stato messo - più o meno apposta - da qualcuno..."

Nuovamente, non sto dicendo che quel DNA proprio non ci fosse. Sto dicendo che dove è stato trovato... hai voglia a inventarti che era nascosto dall'elastico con Yara ben putrificata a dovere: sai gli acidi del corpo come lo avrebbero trovato? Non so se hai visto lo stato dei leggings. E dato che il cadavere era più o meno intero, ovvero non si trattava di pezzi di cadavere riassemblati post spostamento di un corpo trovato dopo 3 mesi grazie all'aiuto di brandelli di vestiti (il che sarebbe saltato subito all'occhio), direi che quel DNA, se realmente presente laddove le carte dicono che è stato rilevato, per forza di cose ci è arrivato tramite terzi. Infatti Marita, basta ricordare quel DNA nucleare ma non mitocondriale... et voilà, cominciamo a parlare di un modello genetico pret-a porter semi-vintage modificato su misura per le esigenze della moda attuale, conservato manco fosse nuovo, ma stranamente incompleto di mRNA e pure di provenienza da soggetto unico...! Un vero cocktail. E allora si che, proprio come nel caso del DNA di Salvatore Parolisi, potrebbe essere che: chissà quando - chissà dove - e soprattutto - chissà perché qualcuno potrebbe aver rubato DNA a tuo marito, ad esempio da una bottiglia di acqua minerale, e, chissà come, potrebbe averlo passato ad altri...Concludendo Marita, i tempi delle scienze forensi sono quelli che sono e non c'è nessuno in grado di plasmarli a proprio uso e consumo. Sebbene la polemica su tua suocera, Ester Arzuffi, sia di uno squallore perfido, in realtà è irrilevante di chi sia figlio tuo marito ed è anche irrilevante scoprire se il DNA di Ignoto 1 sia realmente riconducibile a lui. Infatti, proprio come per quello di Salvatore Parolisi sono pronta a scommettere che, solo in partebada bene, sia proprio riconducibile a Massimo... ma solo in parte, ripeto, e magari una parte sottrattagli a sua totale insaputa un anno e mezzo fa o giù di lì. Insomma, grazie ai tempi della permanenza delle tracce estranee di DNA e RNA su cadavere, è irrilevante che il DNA di Ignoto 1 sia anche solo in parte di tuo marito, come è irrilevante che lui sia figlio o meno di Guerinoni perché, in ogni caso è - e resta - INNOCENTE. Un affettuoso saluto, Annika.

Bossetti minacciò il suicidio per i tradimenti della moglie. Piangeva al cantiere, lamentava l'infedeltà di Marita, si racconta negli atti. Per gli inquirenti il rapporto con la moglie ha un peso nei motivi per cui avrebbe ucciso Yara, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Massimo Bossetti aveva minacciato il suicidio. In uno dei periodi di crisi con la moglie Marita Comi era scoppiato a piangere in cantiere e parlava di buttarsi giù dal ponte di Sedrina. Gli altri muratori all’inizio pensavano fosse una delle sue solite favole, ma dopo un po’, terrorizzati, avevano chiamato l’impresario che era arrivato di corsa per scongiurare il peggio. C’è molto del rapporto tra marito e moglie negli atti ufficiali a chiusura dell’indagine sull’omicidio di Yara Gambirasio, per la stessa ragione per la quale non viene risparmiata la vita privata di mamma Ester e l’adolescenza incupita di Massimo. Per gli inquirenti, il rapporto tra Bossetti e Marita, caratterizzato da “periodi di particolare criticità”, rientra a pieno titolo nel “contesto predisponente” alla commissione del reato, cioè un tentativo di spiegazione del perché possa avere commesso un delitto a sfondo sessuale su una ragazza di tredici anni. Gli investigatori lo mettono nero su bianco e specificano che nel periodo in cui Bossetti avrebbe ucciso Yara, la coppia viveva un momento di estrema criticità. Lo testimonia il silenzio insolito tra i telefoni di marito e moglie, con una totale assenza di conversazione tra i due nel periodo tra il 21 e 28 novembre 2010, proprio a cavallo della scomparsa di Yara, quando normalmente i contatti avevano cadenza quotidiana. Un buco che non può non essere notato. Come non può non essere evidenziato l’atteggiamento di Bossetti nei periodi di crisi con Marita. In uno di questi racconta al lavoro che tutte le sere deve andare via un’ora prima per passare dai Carabinieri di Ponte San Pietro a firmare perché ha picchiato la moglie. Certo, lo chiamano ilFavola perché racconta fesserie con facilità estrema. Ma in quei giorni del 2008 lo trovano in lacrime dentro un container, racconta i sospetti sull’infedeltà di Marita e dice di averla beccata. Diversi testimoni, che rientrano nella sua sfera privata e non lavorativa, confermano la crisi tra marito e moglie, tanto che lui per un periodo era tornato a vivere nella casa dei genitori. Scrivono gli inquirenti che l’attività di “reperire tracce di situazioni legate al rapporto di coppia” è importante perché può “spiegare il movente latamente sessuale del delitto”. Ecco perché non vengono risparmiati i tradimenti di Marita Comi, che sono parte integrante degli atti, con nomi e cognomi degli amanti, luoghi degli incontri, date precise, ricevute dei motel, e perfino la descrizione del tipo di attività sessuale.

Caso Yara, due uomini ai giudici: “Eravamo amanti della moglie di Massimo Giuseppe Bossetti”. Ma lei smentisce, scrive “Oggi”. La vita privata dei coniugi sotto la lente degli inquirenti: e spuntano due presunti amanti di Marita Comi, la moglie di Massimo Giuseppe Bossetti. Lei, tramite gli avvocati, smentisce. Ma resta ancora da chiarire come la testimonianza dei due uomini possa integrarsi alle indagini… Massimo Giuseppe Bossetti è in carcere da 65 giorni con l’accusa di aver ucciso la 13enne di Brembate di Sopra. E mentre gli inquirenti continuano le indagini e gli interrogatori, spunta la testimonianza di due uomini che sarebbero stati amanti della moglie del muratore di Mapello, Marita Comi: uno nel 2009, l’altro in tempi più recenti. E per gli investigatori la loro testimonianza sarebbe credibile. Anche se la donna assicura: “Mai avuto amanti”. I due uomini si sarebbero fatti avanti da soli e avrebbero raccontato di aver avuto una liason con la moglie del presunto omicida. Senza nessuna pressione da parte degli inquirenti, avrebbero reso una testimonianza spontanea. Un fatto che fa propendere per una dichiarazione veritiera e che, a quanto pare, potrebbe avere una relazione con le indagini sulla morte di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui corpo è stato trovato tre mesi dopo in un campo a pochi chilometri da casa. La Comi, attraverso i suoi legali, ha negato i fatti e ha ribadito di “non aver mai avuto amanti”. Perché gli inquirenti si stiano concentrando con tanta attenzione sulla vita privata dei coniugi Bossetti è ancora da chiarire. Quello che inchioda il 44enne, per ora, è la prova del Dna con tracce trovate sugli indumenti di Yara Gambirasio. Ma agli inquirenti non basta, mancano ancora degli anelli alla ricostruzione della scomparsa della giovane atleta e un perché alla sua morte. E la sfera privata sembra avere sempre più rilevanza nell’indagine. Il pm Letizia Ruggeri ha chiesto dettagli al muratore di Mapello sulla relazione con la moglie durante l’interrogatorio del 6 agosto. La stessa cosa ha fatto durante l’audizione della moglie, che però, dopo l’intervista rilasciata ad un settimanale, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Il confine tra inchiesta e vita privata è molto sottile. E lo dimostrerebbe anche il fatto che, durante l’ultima perquisizione nella casa di Bossetti e della Comi, gli investigatori abbiano sequestrato un biglietto d’amore scritto da Marita al marito per San Valentino, una fotografia di famiglia e il dvd con le foto del matrimonio. Non solo. Anche alla suocera del presunto omicida, gli inquirenti avrebbero chiesto particolari della vita dei due coniugi. Sotto la lente è l’apparente normalità della vita di Massimo Giuseppe Bossetti e della moglie Marita Comi. Una coppia solida e con rapporto rose e fiori o con qualche crepa? E lui, un uomo tutto lavoro, casa e famiglia? O forse nasconde una doppia personalità o particolari tendenze sessuali e perversioni? Cosa cerchino gli investigatori è ancora un mistero.

Le cronache, sempre pronte a descrivere con enfasi dettagli ininfluenti di ogni fatto, ci avevano informato tempo fa che la moglie di Massimo Bossetti (presunto assassino di Yara), Marita Comi, non disdegnasse qualche avventura amorosa, ovviamente fuori dal matrimonio, il che avrebbe creato in famiglia un clima poco idilliaco, scrive Vittorio Feltri su il Giornale”. Poi delle fuitine della signora non si è più parlato per un pezzo. Ma negli ultimi giorni, avviato il processo in Corte d'assise, i pettegolezzi pruriginosi sono tornati a bomba. È accaduto quando la pubblica accusa ha chiesto di ascoltare quali testimoni gli uomini con i quali Marita avrebbe avuto relazioni. Meno male che la giuria ha respinto in parte la proposta, per cui all'imputato e alla consorte si spera sarà risparmiata l'umiliazione di lavare i panni sporchi in un'aula di giustizia. Ciò nonostante, non siamo soddisfatti. Rimane lo stupore (l'indignazione) suscitato dai pubblici ministeri con la loro pretesa di discutere di corna nell'ambito di un dibattimento incentrato su un omicidio. Se Bossetti ha ucciso una ragazzina (e bisogna dimostrarlo) che c'entra la sua sposa, per nulla coinvolta nell'assassinio? Si è arrivati a sostenere che i tradimenti (veri o no) di Marita avrebbero influito negativamente sull'equilibrio psicologico di Massimo, portandolo ad ammazzare l'adolescente. Una tesi talmente sgangherata da meritare, questa sì, l'intervento della psichiatria. In realtà, si è scoperto che gli episodi di infedeltà della signora sarebbero avvenuti dopo (non prima) la morte di Yara, pertanto è da scartare che abbiano inciso sul delitto attribuito a Bossetti. Di qui l'assurdità dell'audizione degli amanti. D'altronde ci mancava solo, in simile vicenda torbida, una discettazione sull'adulterio quale propellente di atti criminali. Il punto però è un altro. Se un'indagine e un processo riguardano un omicidio compiuto da un uomo, che senso ha tirarne in ballo la consorte e frugare nelle pieghe riservate del suo comportamento privato? Ammesso e non concesso che Marita abbia deciso di abbandonarsi a qualche distrazione, sono casi suoi e non casi giudiziari. I peccati della carne non sono reati, e gli investigatori, nonché i magistrati, dovrebbero disinteressarsene per rispetto delle persone che li hanno commessi, ma anche del codice penale che non persegue le effusioni extraconiugali. Come si fa a introdurre il gossip più basso nelle istruttorie? D'accordo che da parecchi anni le procure sono indaffarate ad ascoltare intercettazioni telefoniche e non cassano le più piccanti che, di conseguenza, finiscono sui giornali, comprese quelle penalmente irrilevanti; ma c'è un limite oltre cui non è lecito andare. Nella fattispecie, della reputazione di Marita è stato fatto strame con grave danno per l'intera famiglia. Il rischio è che quelli di Bossetti, nelle chiacchiere popolari, siano definiti non soltanto figli di un assassino, ma anche figli di una poco di buono, la quale, mentre il marito era in galera con l'infamante accusa di aver tolto la vita a una ragazzina, si consolava abbracciando altri uomini. Un pericolo da evitare e, invece, ingigantito da metodi investigativi indegni di una nazione civile. Tra l'altro, risulta che la signora Comi abbia sempre amorevolmente assistito Massimo, dal giorno dell'arresto a oggi. Inoltre, ha provveduto in proprio alla prole, confermando di essere una donna responsabile. Cosa le si poteva chiedere di più? Sarebbe ora, infine, di giudicare ogni individuo tenendo conto che il cuore e il cervello di ciascuno di noi sono separati nettamente da quanto abbiamo (giudici inclusi) dalla cintola in giù.

Ormai l'opinione pubblica ha emesso la condanna per Massimo Bossetti, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Eppure lui non ha mai avuto un cedimento: si è sempre dichiarato innocente né, pare, abbia avuto momenti di sconforto nonostante su di lui penda un'accusa pesante come un macigno. Veniamo adesso a sapere che forse ha tentato di suicidarsi, e il motivo che l'avrebbe spinto a questo gesto sarebbe stata la conoscenza del tradimento di sua moglie, avvenuto nel periodo che intercorre tra il presunto omicidio di Yara e l'arresto. Ora, soltanto per un istante, s'immagini, in via del tutto astratta, una bilancia che, su un piatto tenga lo stupro di una ragazzina minorenne, sull'altro il tradimento della propria moglie. Chiunque, proprio in un istante, vede il peso spaventoso del reato di stupro, mentre il tradimento muliebre per quanto possa essere fastidioso e umiliante appare di una gravità irrilevante rispetto alla violenza su una minorenne. Eppure è proprio questo fatto irrilevante, nella proporzione ora immaginata, che avrebbe potuto annientare le resistenze psicologiche di Bossetti al punto da fargli tentare il suicidio. Insomma, l'Italia lo considera un mostro, ma lui non fa vedere crepe nella sua resistenza emotiva di fronte all'accusa; il tradimento della moglie invece lo distrugge. Sembra inconcepibile, eppure questo accade perché il modo in cui viviamo le emozioni, i sentimenti, le passioni hanno caratteristiche così soggettive che possono sorprendere soltanto se supponiamo che quegli stati d'animo dovrebbero essere uguali per tutti. E invece il nostro senso della moralità ha certamente una base comune, costruita da convenzioni sociali e da credenze religiose quando ci sono, ma poi c'è tutto un insieme di altri fattori come l'educazione ricevuta, l'ambiente in cui si vive con le sue usanze, i suoi pregiudizi, il tipo di cultura, anche se limitata, di cui si dispone, che finiscono per essere più determinanti nella formazione della propria moralità rispetto a quei valori che sono un patrimonio (piccolo) condiviso da tutti. E così ciò che a qualcuno può apparire moralmente inaccettabile, a qualcun altro quell'inaccettabilità può essere sempre considerata tale, ma non ritenuta tanto grave a confronto di altri comportamenti immorali. Bossetti potrebbe aver ritenuto evidentemente più grave il fatto che la gente lo possa considerare un cornuto piuttosto che uno stupratore. Questo modo di pensare è davvero una cosa così strana ed eccezionale? Gli episodi di stupro sono drammaticamente all'ordine del giorno. Si provi a ricordare le dichiarazioni dei criminali dopo aver commesso quell'orribile reato: spesso avanzano giustificazioni e non è raro cogliere, senza mistero, il loro compiacimento per la bravata. E, allora, appare ancora tanto strano che per queste persone - le quali arrivano a distruggere l'integrità di un altro essere umano, talvolta di una ragazzina, andando magari dopo a vantarsi con gli amici al bar - il tradimento della loro donna sia considerato un crimine peggiore di quello commesso da loro?

Anche l’imputato Bossetti ha diritto al diritto, scrive Astolfo Di Amato su "Il Garantista". Prima di riflettere sulla notizia, immaginate di stare una intera settimana senza poter scambiare parole, sentimenti, sfoghi con nessuno. C’è da impazzire! Per Bossetti le settimane sono state 19. Oltre quattro mesi. Un tempo certamente reso ancora più pesante dal dover far fronte alla accusa che lo sovrasta. In molti stati degli USA la possibilità di isolamento in carcere è stata bandita come una forma di detenzione crudele e di tortura, contraria ai diritti umani, alla dignità della persona e al valore rieducativo della pena. E’ noto e documentato clinicamente il rischio di crollo psicologico, specialmente per le persone incensurate, durante i primi giorni di detenzione, con la comparsa di gravi forme di autolesionismo fino al suicidio. Né la circostanza che si tratti di carcerazione preventiva muta la sostanza degli effetti dell’isolamento in carcere. Anzi, lo stato di incertezza che caratterizza la carcerazione preventiva, ogni carcerazione preventiva, rende ancora più difficile reggere, sul piano psicologico, la condizione di isolamento. Che, è inutile girarci intorno, finisce con l’essere, oggettivamente, una forma di tortura, al di là delle intenzioni e delle motivazioni che l’hanno determinata. È finita, dunque, per Bossetti la tortura costituita dall’isolamento in carcere, pur continuando quella costituita dalla carcerazione preventiva. Va fatto, allora, un bilancio di questo tempo passato. Indubbiamente si tratta di un tema reso estremamente delicato dalla odiosità del delitto per il quale Bossetti è indagato e dalla circostanza che gli inquirenti hanno in mano un elemento di accusa estremamente pesante: la presenza del Dna di Bossetti sugli indumenti della povera Yara. Detto questo, vi sono due considerazioni da fare. La prima è che non può escludersi che il Dna sia giunto sugli indumenti di Yara non per contatto diretto, ma perché portato da un oggetto (Bossetti ha dichiarato di perdere abitualmente sangue dal naso). La seconda è che la odiosità del reato, proprio perché implica una pena maggiore, dovrebbe far aumentare e non diminuire le garanzie. Fatte queste premesse, diventa inevitabile registrare alcuni dati di fatto. Il primo è che Bossetti ha retto alla tortura dell’isolamento. Non può, certo, questa essere una prova di innocenza. Ma la debolezza psicologica in cui l’isolamento fa sprofondare, associata al senso di colpa, costituisce di regola una molla potentissima per la confessione. Tanto potente che, in questi casi, si rischia che vi sia la confessione anche di ciò che non è stato commesso. Il secondo è che, nonostante la meticolosità con cui le indagini sono portate avanti, non sono emersi elementi ulteriori di prova a carico di Bossetti, idonei a vivificare e confermare l’elemento costituito dalla presenza del Dna. Anzi, come ha messo in evidenza su questo giornale Tiziana Maiolo, con una analisi esemplare per lucidità e rigore, si è assistito allo stillicidio di notizie su presunti indizi, poi ogni volta smentiti dai fatti. Colpisce, in particolare, che non si siano trovati riscontri né con riguardo all’omicidio in sé, né con riguardo alla personalità deviata che avrebbe dovuto avere Bossetti per commettere quel reato. E allora? Innanzi tutto le ragioni della carcerazione preventiva, come da tempo sta sottolineando Tiziana Maiolo, perdono consistenza ogni giorno che passa. Poi, l’orrore per il delitto bestiale di cui si di- scute non può e non deve impedire che si guardi al giudizio con la pacatezza della ragione. Il rischio di un errore, in un senso o nell’altro, è altissimo.

«Perché continuano a picchiare la gemella di Bossetti?», scrive Antonello Micali su “Il Garantista”. Che cosa c’è dietro le misteriose aggressioni, tre in pochi mesi, subite da Laura Letizia Bossetti, sorella (gemella) di Massimo Giuseppe Bossetti, l’uomo in carcere da giugno con l’accusa di essere l’assassino della tredicenne Yara Gambirasio? La domanda, forse inevitabilmente dietrologica, ma irrinunciabile visto il legame con il muratore 44enne di Mapello, dopo l’ultima aggressione denunciata dalla donna, sorge spontanea. La donna ha denunciato di essere stata aggredita mentre stava ritirando la posta: bloccata, nell’androne del palazzo dei suoi genitori che era andata a trovare a Terno d’Isola, sotto la minaccia di un coltello da due uomini incappucciati, che alla fine l’hanno massacrata di botte, spingendola a calci e pugni fino all’ascensore (dove è stata spogliata degli stivali e del giubbino) e trascinata nelle cantine dello stabile, dove poi avrebbe perso i sensi a causa delle percosse. Testimoni riferiscono che quando l’ambulanza l’ha portata via era ancora priva di conoscenza. Giunta in ospedale, i sanitari le hanno diagnosticato, oltre a un brutto trauma cranico, tre costole rotte ed alcune incrinate, un’emorragia ad un occhio ed ecchimosi varie per una prognosi di trenta giorni. A trovarla esanime negli scantinati e a soccorrerla insieme ad un vicino sarebbe stata la stessa madre della donna, Ester Arzuffi, già nota ai media suo malgrado per la vicenda delle indagini sul dna, per la quale secondo le risultanze della Procura avrebbe avuto i figli gemelli dalla relazione segreta con un autista oggi scomparso che sarebbe poi il padre di Ignoto 1, alias Giuseppe Bossetti, ovvero l’uomo che avrebbe lasciato tracce dl proprio dna (nucleare ma non mitocondriale, l’anomalia su cui si basano molte delle speranze della difesa) sui leggins della piccola vittima. Secondo quanto si apprende, la sorella gemella del presunto killer della ragazzina di Brembate negli ultimi tempi sarebbe stata presa di mira altre volte da alcuni sconosciuti; in un paio di casi solo con degli insulti e minacce di morte e a settembre sarebbe già stata picchiata, mentre in un’altra occasione, l’ultima prima del pestaggio, lo scorso 10 febbraio, avrebbe trovato al suo rientro la casa a soqquadro. Il legale di Laura Letizia, Maria Bonomo, ha reso noto che si era già rivolto ad un’agenzia di sicurezza per cercare di tutelare la sicurezza della sua cliente. Ma presidi di sicurezza a parte, il passaggio destinato principalmente a tutelare l’incolumità della donna rimane l’indagine avviata, al momento a carico di ignoti, per tali al momento incomprensibili aggressioni.  Ed ora sono comunque in molti quelli che si domandano se non vi sia un legame tra questi agguati e la vicenda del fratello, che tra l’altro continua a proclamarsi innocente dal carcere. Ci sarebbe una frase, pronunciata dal muratore, che farebbe pensare e il cui senso sarebbe (farebbe parte di un’intercettazione ambientale in carcere trascritta negli atti dell’inchiesta e non nella disponibilità della difesa): «Non confesso per la mia famiglia …», da alcuni interpretata come un modo per giustificarsi da una parte, continuando a nascondere qualcosa di cui sarebbe però a conoscenza ma che non può riferire; forse perché Bossetti deve coprire qualcuno? Da un legale, quello della sorella di Bossetti, che ora si preoccupa di proteggerla, ad un altro avvocato, Claudio Salvagni, il difensore del presunto assassino ieri impegnato a preparare l’udienza del ricorso di oggi in Cassazione per l’istanza di scarcerazione di Bossetti.  Salvagni su quella che ad oggi rimane comunque poco più che una suggestione dà la sua personale chiave di lettura: «Non posso entrare nel merito delle aggressioni subite dalla sorella del mio assistito non essendo il suo legale ma posso, oltre a rammaricarmi umanamente per quanto accaduto, far notare che prima di questa inchiesta quella signora non aveva mai subito nulla del genere.  Si può forse mettere tutto ciò in relazione all’esposizione e all’odio mediatico cui è stato sottoposto Bossetti e naturalmente la sua famiglia in un’inchiesta che lo ha processato e condannato prima del processo. In relazione alla presunta frase attribuita a Massimo, a maggior ragione, siamo ancora una volta in presenza di una grave violazione delle regole processuali, dando in pasto ai media una frase che è stata estrapolata e della quale al momento questa difesa non ha nessuna contezza. Il pensiero del mio cliente è stato sempre questo: “Non sposso prendermi colpe che non sono mie”, ed è a questo che credo e su cui faccio fede: Bossetti non confessa, perché non ha fatto nulla. Vuole solo dimostrare la sua innocenza».

Le immagini barbare rubate in galera, scrive Astolfo Di Amato su "Il Garantista". Di Bossetti sappiamo ormai tutto. Non solo quale è stata la vita sua e di tutta la sua famiglia. Ma anche cosa pensa, come si muove, cosa fa quando si sveglia, etc. L’unica cosa che non sappiamo è se ha ucciso la povera Yara. E, anzi, più sappiamo di lui e più la verità si allontana e il suo coinvolgimento appare sempre meno giustificato. Oggi veniamo a sapere, perché addirittura trasmessi in televisione, che ci sono i video dei suoi colloqui con la moglie in carcere. Spiato, dunque, per cogliere anche i momenti più intimi della sua esistenza. Una barbarie. La quale trova spiegazione, oltre che in una evidente percezione attenuata del valore delle dignità che spetta a qualsiasi uomo, anche il più indegno, anche nella circostanza che l’accusa si scopre debole. La famosa prova di un Dna scomposto in due parti tra loro incompatibili finisce con l’essere troppo fragile; la devastazione della vita privata del muratore non ha portato risultati apprezzabili; l’esito negativo della ricerca di tracce biologiche di Yara nel furgone è diventata una prova importante a favore di Bossetti. Se, poi, dal caso di Yara si passa a guardare gli altri casi non risolti o non risolti in modo chiaro (basta citare tra gli ultimi il caso Meredith, il caso Scazzi, il caso Poggi, il caso Loris) si deve rilevare un comune denominatore: la inadeguatezza della attività investigativa. Spesso compensata da una vera e propria brutalità nell’uso della carcerazione preventiva e degli altri mezzi di costrizione e dalla pretesa di compensare l’assenza di prove con la fede nelle proprie intuizioni. In alcuni casi, leggendo le decisioni, si ha addirittura l’impressione che chi scrive la motivazione in realtà riversi sul caso, inverandole, alcune proprie pulsioni profonde, che sono sotto controllo e che la necessità di dare un senso alla condotta degli altri consente di fare emergere. Tutto questo ha una spiegazione. Il codice di procedura penale del 1989 ha dato risposta ad una antica e, per molti versi legittima, richiesta della magistratura. Quella di mettere la Polizia Giudiziaria alla diretta dipendenza delle Procure della Repubblica, in modo da evitare che poteri estranei all’ordine giudiziario potessero influire sulle indagini. È così accaduto che il Pubblico Ministero non è più solo il titolare dell’azione penale e, cioè, colui che porta avanti l’accusa, ma anche il capo degli investigatori. Mentre in precedenza riceveva dalla polizia giudiziaria una proposta di accusa e la vagliava per decidere se portarla avanti o no, oggi è colui che guida la polizia giudiziaria, ipotizza l’accusa e decide se portarla avanti. Il sistema, perciò, finisce con l’essere caratterizzato da due profili di criticità. Innanzi tutto ha perso un filtro: prima il pm operava una valutazione di correttezza e di attendibilità della attività della Polizia Giudiziaria. Oggi ne è il capo ed è il protagonista dell’indagine, con la quale si identifica. Non svolge più, dunque, quel ruolo di filtro. In secondo luogo, una attività complessa, quale quella investigativa, è stata affidata a degli incompetenti. Il magistrato è, per formazione, un giurista. Non ha, perciò, gli strumenti concettuali e le categorie logiche necessari per svolgere una attività complessa e specifica come quella investigativa. E, ciononostante, è colui che la dirige, che prende le decisioni, che ne assume la responsabilità. Si tratta di una incongruenza che non sarebbe accettata in nessun altro ambito organizzativo. E’, difatti, di palmare evidenza la inadeguatezza che ne può facilmente derivare, l’incremento dei margini di errore, l’incapacità di leggere appropriatamente i fatti. Si tratta, poi, di una inadeguatezza ancora più accentuata dalla mancanza di separazione tra giudici e pubblici ministeri. Può, difatti accadere (ed accade) che un magistrato che sino al giorno prima ha prestato servizio come giudice civile, il giorno dopo si trovi a svolgere le funzioni di Pubblico Ministero ed a guidare le indagini. È facile immaginare con quanta competenza!

Ecco, allora, come può spiegarsi il ricorso ossessivo a strumenti invasivi della libertà e della vita intima: forme di tortura volte ad ottenere la confessione ed a spiare, se possibile, l’anima. Ecco, ancora, come si spiega la fiducia cieca nei risultati delle indagini scientifiche. Nel momento in cui la filosofia della scienza è unanime nel ripudiare la scienza come fonte di certezze, in sede giudiziaria ci si ostina ad affidare alla scienza, ed alla sola scienza, la soluzione di molti casi. Le incertezze di questo modo di procedere sono sotto gli occhi di tutti. Ed impongono che, tra i tanti problemi che affliggono la giustizia, sia messo all’ordine del giorno anche il recupero di una professionalità investigativa a monte del processo penale.

Tortura e linciaggio a mezzo stampa: così sperano di far confessare Bossetti, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Massimo Bossetti è in carcere da 126 giorni in custodia cautelare, senza rinvio a giudizio, senza processo. E’ in isolamento, subisce minacce insieme alla sua famiglia, i cui componenti corrono anche il rischio di aggressioni. Se il giudice respingerà nuovamente la richiesta di scarcerazione, vorrà dire che siamo all’interno di un sistema barbaro, che tortura le persone per ottenerne la confessione. Come ai tempi dei processi alle streghe. Poco importa che l’accusato sia innocente o colpevole, quel che conta è che confessi: quel che ha fatto o quel che non ha fatto. Massimo Bossetti, indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, è già vittima: dello Stato che lo tiene prigioniero senza processo, ma anche del circo mediatico-giudiziario che unisce l’antico costume del “velinismo” (giornalisti servili alla Pubblica Accusa) a quello più sofisticato del “voyerismo” (con il sesso si vendono più giornali). Prendi nelle mani il mostro e strizzalo ben bene, lui, sua moglie, sua madre e i parenti di sei generazioni: questa la parola d’ordine che ha guidato in questi mesi grandi e piccoli organi d’informazione. Un’altra forma di tortura, che si aggiunge a quella del carcere (una delle poche eccezioni, la bella intervista di Luca Telese a Marita Bossetti su Matrix). Il capolavoro è arrivato pochi giorni fa, sotto il titolo “Ecco perché Bossetti è colpevole”: Il mistero di una lettera anonima con minacce di morte nei confronti di Bossetti. La lettera è precedente alla sparizione di Yara, e Bossetti ha fatto regolare denuncia. Non c’entra con le indagini, ma intanto la si spara in prima pagina. Il giorno della sparizione di Yara Bossetti era chiuso in un silenzio anomalo. Doveva esserci un carabiniere nascosto in casa sua a controllare il suo umore. C’è un vuoto di giorni nelle telefonate e nei messaggi tra Bossetti e la moglie. Molto sospetto se i coniugi non si scambiano quotidiani bacetti. Il balletto di finte notizie (l’unica seria è quella sul dna di Bossetti, di cui ci sarebbero tracce sui leggins e sugli slip di Yara) ha costellato tutti i 126 giorni, da quel 16 giugno in cui Bossetti fu arrestato. Sull’arresto: Bossetti non ha reagito, è rimasto immobile e muto. Il che è sospetto. Bossetti ha tentato la fuga al momento dell’arresto. Mettetevi d’accordo. E prima ancora, dopo il ritrovamento del corpo di Yara: Bossetti andò nel campo del delitto. C’era mezza provincia di Bergamo in quel campo, in quei giorni. Banale turismo macabro. Una fattura dimostra che Bossetti comprò della sabbia in quella zona. Dal solito fornitore, il che è molto sospetto. Che cosa è successo il giorno del rapimento di Yara: Bossetti andò a lavorare al cantiere e per tornare fece la strada più lunga. Bossetti non andò al cantiere il giorno dell’omicidio di Yara. Spuntano testimoni come funghi. La supertestimone: «L’ho sentita urlare “Lasciami”». I colleghi: Bossetti spesso si assentava dal lavoro. C’è un secondo uomo, forse scappato all’estero. I titolari di centri estetici di Curno, Mapello e Brembate si contendono la presenza di Bossetti nei loro centri abbronzanti. Si dà la sensazione che il carpentiere sia un uomo vanitoso, abbronzato e troppo biondo, sicuramente tinto. Tutti indizi di indole violenta, da killer. Uomo con doppia vita. Bossetti non è l’uomo casa e lavoro che dice di essere. Frequentava locali e aveva una relazione con la conduttrice di un ristorante. Ce n’è anche per sua moglie: Marita Bossetti aveva due amanti. Le testimonianze. E per sua madre: Anche il terzo figlio di Ester Arzuffi non è del marito. La madre di Massimo Bossetti sospettava del figlio. Ampia è la casistica, un vero balletto che riguarda l’auto, il furgone e il computer. Sue questi due argomenti si è scritto di tutto e del suo contrario. Il fratellino: Yara aveva paura di un signore, cicciottello, con una lunga auto grigia. Auto e signore cicciottello presto spariscono dalle indagini. Il furgone girava intorno alla palestra. Il furgone girava intorno alla casa di Yara. Ma nessuno parla della cosa più importante: poiché furgone e auto di Massimo Bossetti sono stati da subito sequestrati e sottoposti a perizia, c’erano tracce del dna di Yara all’interno? Il computer: risulta aver cliccato su notizie relative a Yara (notizia smentita). Risulta un accesso a un sito pedopornografico (notizia smentita). Ha cliccato sia la parola “sesso” che “tredicenni”. Sarebbe accaduto un mese prima dell’arresto, quindi quattro anni dopo il rapimento e la morte di Yara. Se Bossetti fosse colpevole e se queste fossero le “prove” (quella del dna da sola non è sufficiente), ci sarebbe presto un colpevole assolto. Se invece è innocente, qualcuno dovrà pagare per queste torture indegne di un paese civile.

Massimo Bossetti: lo hanno già condannato, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. L’ Italia il 16 giugno di un anno fa si è divisa in due: da una parte chi ha goduto nel vedere le manette ai polsi di Massimo Bossetti, un’altra – piccola, minuscola – che ha lanciato un urlo di orrore: un presunto assassino dato in pasto alla pubblica gogna con l’avallo del ministro dell’Interno. Angelino Alfano infatti, forse forzando anche il volere della procura di Bergamo, disse con gioia, ma contro la Costituzione: «Abbiamo preso l’assassino di Yara». E’ per questa ragione che il processo, che prende il via oggi contro Bossetti, nasce sotto una cattiva stella. La cattiva stella di chi, fin dal primo momento, ha deciso che lui fosse l’assassino, senza presunzione di innocenza, senza nessun rispetto per lo Stato di diritto. Da quel momento in poi, niente è più stato come doveva essere. La vita di Bossetti è stata racchiusa in quelle manette: manette di condanna, manette che hanno esposto la sua vita nella pubblica piazza. I media, in questi dodici mesi, non hanno risparmiato quasi nessuno o quasi nulla della sua sfera privata, travolgendo la moglie, i figli, la madre, la sorella, la quale – non dimentichiamolo – è finita diverse volte in ospedale perché presa di mira da orde giustizialiste. Sarà difficile corregge il tiro, trovare quella serenità e obiettività che il giudice deve avere per affrontare un caso così complesso. Gli occhi dell’Italia che esultano per le manette sono lì che aspettano di vedere Bossetti crollare, di vedere la sua esistenza fatta a pezzettini. Ma c’è anche quell’altra Italia, quella che ha lanciato un urlo di orrore. È una parte piccola, minoritaria, che però esiste e che deve vigilare perché il processo si svolga nel migliore dei modi. È l’Italia che non si vuole sostituirsi ai giudici, ma che pretende che tutto venga fatto secondo giustizia. Oggi, la sfida, che si combatte è anche questa. Quella per un giusto processo nei confronti di Bossetti e in generale per una giustizia che non rinneghi i suoi principi fondamentali. Si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Non se ne dimentichi la pubblica accusa, non lo dimentichi l’opinione pubblica, non lo dimentichino i giornalisti. Ps: Ci piacerebbe che almeno questa volta l’Ordine dei giornalisti vigilasse sul rispetto del codice deontologico da parte dei suoi iscritti.

Il Garante: «Incivile la gogna mediatica allestita per Bossetti», scrive Alfredo Barbato su “Il Garantista”. Due vittime della giustizia da baraccone: Silvio Berlusconi e Massimo Bossetti. Due imputati molto particolari e assai diversi tra loro. Sia per il ruolo che hanno avuto sulla scena pubblica sia per le accuse loro rivolte. Ad accostarli, per il trattamento che l’ex premier e il presunto assassino di Yara hanno subito da parte dei media, è il Garante della Privacy Antonello Soro. Il suo intervento al talk show KlausCondicio, che il giornalista Klaus Davi mette in onda su You Tube, è di quelli destinati a suscitare nuove polemiche. Anche considerato che il tema delle intercettazioni, sollevato dal presidente dell’Authority in particolare per Berlusconi, è di nuovo scomparso dal dibattito pubblico, dopo un breve ritorno di fiamma seguito al caso dell’ex ministro Lupi. «Premesso che non conosco il complesso delle indagini nei confronti di Berlusconi, mi rendo conto però che l’uso delle intercettazioni nei confronti dell’ex premier è stato assolutamente devastante», dice Soro. «Mi riferisco anche a quelle più recenti riversate sui giornali, che non avevano nessun interesse dal punto di vista penale. E, aggiungo, anche ai fini dell’individuazione di un particolare comportamento nei riguardi di un uomo che non riveste alcun ruolo parlamentare, non mi sembravano significative. In Italia esiste un esasperato ricorso alla pubblicazione delle intercettazioni, che considero un aspetto non esaltante del giornalismo di inchiesta», è l’attacco del Garante. A suo giudizio i media dovrebbero piuttosto «filtrare» le intercettazioni «rilevanti e di interesse pubblico» da quelle che invece «non lo sono. Va trovato un punto di equilibrio tra il diritto dei magistrati a intercettare e la pubblicazione delle intercettazioni rilevanti», osserva Soro. Molto severe anche le considerazioni relative al video dell’arresto di Bossetti, reso disponibile dagli inquirenti proprio in coincidenza con l’udienza preliminare, che ha visto il muratore rinviato a giudizio come presunto autore dell’omicidio di Yara Gambirasio: «Prima ancora dell’avvio del vero e proprio processo, il cittadino Bossetti è stato trattato in modo incivile e rappresentato come un mostro in prima pagina. Non spetta ai giornalisti emettere la sentenza usando i ferri di campagna, come accadeva una volta, prima che un processo di civilizzazione avesse trovato una norma che esplicitamente lo vietasse». Resterà difficile da dimenticare quel «cittadino Bossetti», espressione che forse per la prima volta viene pronunciata da un rappresentante delle istituzioni da quando il carpentiere bergamasco è stato arrestato. Antonello Soro risponde anche a una domanda sul rischio che a intercettare le conversazioni private non sia solo la magistratura ma anche la criminalità organizzata: «Mi meraviglierei del contrario, e cioè che la ’ndrangheta non fosse in grado di intercettare mail e telefonate. La criminalità informatica ha assunto dimensioni globali assolutamente straordinarie rispetto solo a quattro anni fa. E, quando la criminalità organizzata trova un filone ricco, è la prima che individua il modo di sfruttarlo», dice il presidente dell’Autorità Garante della Privacy. Che ricorda: «Le organizzazioni criminali utilizzano un’infinità di tecnologie per praticare anche il furto di identità, usandolo come grimaldello per spostare risorse economiche o per demolire il profilo delle persone».

UNA CALIBRO 38 PER I PAROLAI E GLI SCRIBACCHINI.

Era proprio necessario sbattere in prima pagina le vicende della famiglia dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara? Oggi nell’era di WikiLeaks la privatezza non esiste più. E i panni sporchi si lavano in televisione, scrive Umbereto Eco su “L’Espresso”. La Bustina scorsa avevo commentato cosa accade in un universo in cui è scomparsa la privatezza e tutti possono sapere che cosa facciamo. Ne avevo concluso che sembra inutile che ci si batta per conservare zone di riserbo quando la tendenza generale sembra essere quella di voler essere visti e sentiti ad ogni costo per avere la sensazione di esistere. La gente non vuole la privatezza, anche se l’invoca. Ora nel caso Yara è accaduto qualcosa di diverso. Qualcuno - e se non gli inquirenti, la stampa o qualche altra fonte - non solo ha detto che il colpevole era Bossetti (il quale, mentre scrivo, è ancora soltanto un “presunto” colpevole), e che la sua colpevolezza era stata scoperta grazie alla prova del Dna, ma che per questa via si era dimostrato che era figlio illegittimo di un tale, che con questo tale la sua signora mamma aveva avuto decenni fa una relazione adulterina, che il marito della mamma non l’aveva mai saputo, aveva allevato Bossetti come figlio suo, e adesso manifestava un’ira furibonda, eccetera eccetera. Subito, dopo la prima eccitazione, si sono levate voci di sdegno: va bene arrestare un colpevole, ma era necessario proclamare col megafono tutto quello che era successo nella sua famiglia, facendo fare una figura sgradevolissima sia alla mamma sia al non-papà, rovinando di fatto una unione coniugale, tirando in ballo ed esponendo alla pubblica gogna persone che col delitto non c’entravano e avrebbero avuto diritto di non vedere esposti in pubblico i soliti panni sporchi? Mea culpa a catena, stampa compresa, che chiedeva scusa di quello che aveva allegramente contribuito a provocare, e ipocriti cenni di consenso da una pubblica opinione che celebrava il trionfo della cosiddetta “schadenfreude” e cioè della libidinosa soddisfazione per la sfortuna o il dolore altrui. Ma ora facciamo una riflessione. Poniamo che gli inquirenti avessero detto che avevano scoperto il colpevole (presunto, ancora al momento in cui scrivo) e che la sua colpa era certificata dalla prova del Dna. E basta. Allora stampa e pubblica opinione avrebbero chiesto come si era arrivati a Bossetti tra le migliaia di persone che vivevano nei dintorni. E poniamo che gli inquirenti avessero risposto: “Questo non ve lo diciamo, almeno sino al processo, se ci sarà.” È facile immaginare che cosa sarebbe successo. Ci saremmo domandati cosa ci celavano magistratura e forze dell’ordine: chi ci diceva che avessero agito bene (o, come si suol dire, “con professionalità”)? L’opinione pubblica, si sarebbe gridato, ha diritto di sapere! È che il pubblico si è abituato con WikiLeaks e con le rivelazioni di Snowden, al fatto che tutto, ma davvero tutto, deve essere pubblico. Il che è giusto sino a un certo punto: certe marachelle pubbliche o private vanno svelate e denunciate ma in principio, perché una macchina statale possa funzionare, i rapporti d’ambasciata e vari documenti governativi debbono poter essere riservati. Immaginatevi se la polizia fosse obbligata a dire: stiamo cercando l’assassino, forse l’abbiamo individuato, lo pediniamo per coglierlo in fallo, si chiama Pinco Pallino e abita in via tale. Pinco Pallino si darebbe alla fuga e non verrebbe mai arrestato. Alcuni progetti devono rimanere segreti, almeno sino a che è essenziale alla loro riuscita (che può essere virtuosa). Ma la perdita della privatezza, specie dopo i fatti WikiLeaks e Snowden, è stata elevata a principio etico e tutti sentono il bisogno che tutto venga detto, sempre, in ogni caso. Pertanto guai se le tristi vicende dei parenti di Bossetti fossero state taciute, si sarebbero accusati gli inquirenti di sordido complotto. E allora di che ci lamentiamo? La mamma di Bossetti, e quello che sino a ieri era ritenuto suo padre, debbono ormai prendere atto che i panni sporchi si lavano in televisione, durante la pubblicità delle lavatrici. Se la perdita della privatezza è arrivata (giustamente) nelle latebre del Dna, non può che trionfare sempre e ovunque. Che ci piaccia o no.

L’avvocato di Bossetti: «Basta sciocchezze tv, così rovinate un uomo», scrive Antonello Micali su "Il Garantista”. A sentire Claudio Salvagni, l’avvocato di Massimo Giuseppe Bossetti, muratore 44enne e padre di tre figli e finora unico accusato dell’uccisione della tredicenne Yara Gambirasio, ogni qualvolta la difesa mette a segno un colpo a suo favore, ecco uscire nuove notizie spacciate come prove o indizi mirabolanti che puntualmente incastrano ulteriormente il proprio assistito e che poi, alla fine, sarebbero meno che indizi. Non un fatto personale della Procura certo, ma il risultato dell’effetto perverso della spettacolarizzazione di queste notizie. Il classico corto circuito media-giustizia tanto dibattuto in questi giorni di ira dello stesso presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, che annuncia misure e contromisure, che tende a celebrare i processi soprattutto in tv, innescando nell’opinione pubblica e forse anche negli stessi inquirenti, anche inconsapevolmente, una pressione che un tempo non c’era. Come non c’erano tutti quei moderni presidi della scienza e della tecnologia che consentono è vero riscontri prima inimmaginabili, ma che si portano appresso anche tutti i limiti di indagini che non dovrebbero mai rinunciare anche ai modelli investigativi classici fatte dalle persone, gli inquirenti, con le persone, gli indagati.

Avvocato, sicuramente lei si riferisce anche all’ultima notizia che vorrebbe che il furgone immortalato nelle telecamere intorno al centro sportivo di Brembate Sopra il giorno della scomparsa di Yara Gambirasio sarebbe proprio quello di Giuseppe Massimo Bossetti. Le perizie della procura che, hanno scomodato pure Iveco, non ci mettono nemmeno il dubbio.

"E cosa proverebbe? A parte il ribadire che io sono ancora della scuola di chi pensa che le prove si formano in dibattimento, il mio assistito ha sempre dichiarato che passava da quelle parti e per vari motivi… insomma ci passava, lo ha ammesso sempre. Insomma era di strada per lui."

Sì ma gli investigatori dicono anche che, a differenza di quanto detto da Bossetti che era passato solo per acquistare delle figurine per i figli, quel giorno avrebbe gironzolato per 50 minuti nella zona…

"Anche questo lo vedremo in tribunale; certo è che se lo dicono avendo a disposizione solo due immagini la vedo difficile. Vede tutti questi casi che finiscono nei talk show hanno in comune che molto spesso vengono veicolate giorno dopo giorno nei vari polpettoni di informazione, elementi che il più delle volte sono destituiti da ogni minimo fondamento, oppure vengono interpretati a favore, di volta in volta dell’accusa (più spesso) o della difesa (si veda ad esempio nel caso del piccolo Loris Stival le notizie che nei primo giorni davano per assodato che il piccole fosse stato oggetto di abusi e che non era vero, ndr). E tutto ciò, sempre prima che questo avvenga nei luoghi deputati dalla legge. E poi spesso non si tratta nemmeno di indizi. D’altronde se non fosse davvero così credo che la procura avrebbe già rinviato a giudizio, e questo non è ancora avvenuto… Ci sarà un perché… Non si è lesinato in tutti questi mesi, con grave danno della tranquillità e dell’immagine di una famiglia ora distrutta, che si aggiunge a quella cui va tutto il mio rispetto della piccola vittima, a spacciare, come prove o scoop che fossero il fatto che Bossetti si facesse le lampade o che nel suo pc si fossero trovate le parole “sesso” o tredicenni”, senza spiegare che è impossibile contestualizzare la ricerca a ritroso; ovvero se i due termini siano stati digitati nel motore di ricerca insieme, in un lasso di tempo enorme tra l’altro… E soprattutto anche da chi… Come anche che sui veicoli in uso al mio cliente non è stato trovato nulla che rimandi alla povera Yara."

Quindi alla fine l’unica prova regina rimane al momento quella del dna rinvenuto sui leggins della povera ragazzina che gli esami hanno detto appartenere a Bossetti?

"Vede anche nel caso del Dna, se si avesse una visione meno distorta e amplificata del caso, si dovrebbe parlare di indizio tuttalpiù. Perché quando ci sono alcuni elementi di dubbio sullo stesso tema come quello avanzato dagli stessi tecnici del Ris non viene data nessuna eco dai media? Mi spiego meglio, non ci sarebbe dubbio sull’appartenenza, ma sul fatto che in un contesto di devastazione (il corpo della ragazza) quella traccia di dna, per quanto piccolissima e unica, sarebbe invece contraddittoriamente “meravigliosa”, perfetta ed abbondante…Quantomeno un’anomalia e che rimanda a certi pensieri… Tipo che la scienza non basta a tutto. E mi auguro che il modello di questa indagine (per i cui sofisticati accertamenti genetici sono stati spesi oltre 7 milioni di euro) non diventi, come auspicato in questi giorni da molti addetti ai lavori, un modello investigativo addirittura europeo… Certo il giro d’affari non mancherebbe. E sarebbe milionario. E guardi che sono uno che non ama la dietrologia."

Beh così si torna al caposaldo finora della vostra difesa sull’argomento: le ipotesi del complotto e della contaminazione del dna per trasporto…. E chi ce l’avrebbe trasportato?

"Al momento non posso dirle altro, sennò dovrei rimangiarmi quanto detto prima, che le prove si formano al processo, fatto in cui credo fermamente e, perché no, anche un possibile effetto “sorpresa”. Il mio compito non è quello di scoprire il colpevole, quello spetta alla procura, bensì quello, nel difendere il mio cliente, di insinuare dubbi al fine di scoprire la verità, qualunque essa sia. Insomma, dopo secoli di civiltà giuridica mi trovo a disagio a dover considerare relativo quello che per noi è un capofermo: l’onere della prova, che secondo la legge è un principio generale secondo il quale chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire le prove per l’esistenza del fatto stesso. Prove, non indizi (anche se molti e supportati dalle moderne tecnologie e dalle esigenze del mainstream mediatico) e spesso nemmeno quelli."

L'avvocato di Massimo Bossetti: "Mi viene voglia di usare la calibro 38", scrive ancora “Libero Quotidiano”. "Che pattumiera, che disinformazione. Pennivendoli, come dice qualcuno. Si parla del nulla dando voce ad emeriti ignoranti (purtroppo per loro ignorano) nonostante qualcuno affermi di aver letto le 60 mila pagine. Disinformazione all’ennesima potenza. Mi viene voglia di usare la calibro 38”. Parole pesantissime, quelle che l'avvocato difensore di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, scrive sulla sua pagina facebook. Le minacce sono rivolte contro il direttore del settimanale Giallo Andrea Biavardi, la criminologa Roberta Bruzzone, Alessandro Dell'Orto di Libero e Giovanni Terzi de Il Giornale. "Che cosa vuol dire, infatti, invocare la calibro 38? Forse l’avvocato Salvagni vuole spararci per farci tacere? La P38, tra l’altro, è diventata tristemente nota negli anni ’70 come l’arma dei terroristi. È proprio con la P38 che furono gambizzati giornalisti e dirigenti aziendali", scrive il direttore di Giallo che ha dato notizia delle minacce sul numero in edicola questa settimana. E continua: "Questo uso delle parole, che viene da un legale, è un vero incitamento all’odio e alla violenza: se qualcuno lo prendesse sul serio? Ecco perché abbiamo deciso di querelare l’avvocato Claudio Salvagni e contemporaneamente di presentare un esposto all’ordine degli Avvocati. A far infuriare il legale, la puntata condotta da Salvo Sottile in cui di parlata della lettera indirizzata da Bossetti a un suo amico.  "Come direttore di Giallo ho citato le numerose contraddizioni in cui è caduto il muratore nel corso degli interrogatori, tutte documentate nei corposi faldoni dell’inchiesta, in tutto 60, per un totale di quasi 60 mila pagine. Siamo in possesso, naturalmente, di questo materiale, diventato disponibile da quando è stata chiusa l’indagine e avviato il processo, che riprenderà l’11 settembre prossimo. Leggerle è stato un lavoro lungo e complesso, ma e lo imponeva il dovere di cronisti. Come si può parlare di un caso di cronaca così importante senza “conoscere le carte”?  È qui che si parla delle analisi sul Dna, del furgone di Bossetti che viene visto passare dalle parti della palestra, della compatibilità delle fibre del furgone e di una coperta con quelle ritrovate sul corpo della povera Yara.Tanto che sulla base di queste carte per ben otto volte i giudici hanno respinto la richiesta di carcerazione di Bossetti. Ebbene, secondo la difesa di Bossetti pubblicare e citare queste carte è fare disinformazione, da zittire con una calibro 38".

«Mi viene voglia di usare la calibro 38». L’avvocato di Bossetti scatena la polemica. «Che pattumiera, che disinformazione. Pennivendoli, come dice qualcuno. Si parla del nulla dando voce ad emeriti ignoranti (purtroppo per loro ignorano) nonostante qualcuno affermi di aver letto le 60 mila pagine. Disinformazione all’ennesima potenza. Mi viene voglia di usare la calibro 38». Parole pesantissime, quelle che l’avvocato difensore di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, scrive sulla sua pagina Facebook., scrive ”L’Eco di Bergamo”. Parole rivolte contro il direttore del settimanale Giallo Andrea Biavardi, la criminologa Roberta Bruzzone, Alessandro dell’Orto di Libero e Giovanni Terzi de Il Giornale. «Che cosa vuol dire, infatti, invocare la calibro 38? Forse l’avvocato Salvagni vuole spararci per farci tacere? La P38, tra l’altro, è diventata tristemente nota negli anni ’70 come l’arma dei terroristi. È proprio con la P38 che furono gambizzati giornalisti e dirigenti aziendali», scrive il direttore di Giallo che ha dato notizia delle minacce sul numero in edicola questa settimana. E continua: «Questo uso delle parole, che viene da un legale, è un vero incitamento all’odio e alla violenza: se qualcuno lo prendesse sul serio? Ecco perché abbiamo deciso di querelare l’avvocato Claudio Salvagni e contemporaneamente di presentare un esposto all’ordine degli Avvocati». A far infuriare il legale, la puntata condotta da Salvo Sottile in cui si parla della lettera indirizzata da Bossetti a un suo amico. «Come direttore di Giallo ho citato le numerose contraddizioni in cui è caduto il muratore nel corso degli interrogatori, tutte documentate nei corposi faldoni dell’inchiesta, in tutto 60, per un totale di quasi 60 mila pagine. Siamo in possesso, naturalmente, di questo materiale, diventato disponibile da quando è stata chiusa l’indagine e avviato il processo, che riprenderà l’11 settembre prossimo. Leggerle è stato un lavoro lungo e complesso, ma e lo imponeva il dovere di cronisti. Come si può parlare di un caso di cronaca così importante senza “conoscere le carte”? È qui che si parla delle analisi sul Dna, del furgone di Bossetti che viene visto passare dalle parti della palestra, della compatibilità delle fibre del furgone e di una coperta con quelle ritrovate sul corpo della povera Yara. Tanto che sulla base di queste carte per ben otto volte i giudici hanno respinto la richiesta di scarcerazione di Bossetti. Ebbene, secondo la difesa di Bossetti pubblicare e citare queste carte è fare disinformazione, da zittire con una calibro 38» conclude Andrea Biavardi. E Salvagni ribatte via Fb: «Una provocazione espressa sulla mia pagina personale ripresa da organi di (dis)informazione. La si vuole buttare in cacciare (caciara, ndr)... qualcuno comincia ad accorgersi che gli argomenti sono finiti... Facciamo parlare gli scienziati, quelli veri... ancora un po’ di pazienza. Per il resto, grazie della pubblicità... che si sappia l’avv. Salvagni per i suoi assistiti non risparmia certo energie».

Yara, avvocato lascia la difesa di Bossetti: «Posizioni inconciliabili», scrive “Il Mattino”. Uno degli avvocati di Massimo Bossetti, Silvia Gazzetti, indicata d'ufficio il giorno dell'arresto del carpentiere in cella per l'omicidio di Yara Gambirasio, oggi ha rimesso il mandato. I motivi della scelta - si legge tra l'altro in un comunicato stampa - sono le «inconciliabili posizioni rispetto a quelle espresse dal collega» comasco Claudio Salvagni in merito alle scelte difensive. «Preso atto delle inconciliabili posizioni di questo difensore rispetto a quelle espresse dal collega nell'ambito del collegio difensivo del signor Massimo Bossetti - si legge nella nota -, in ordine all'adeguata condotta e alla linea difensiva da sostenere nella piena tutela degli interessi dell'indagato, alla luce delle quali appare ragionevole ritenere non più sussistenti le condizioni idonee a proseguire oltre lo svolgimento di un efficace, proficuo, e sereno patrocinio difensivo e tenuto altresì conto dell'approssimarsi di importanti scadenze processuali, lo scrivente avvocato Silvia Gazzetti ha oggi inteso rimettere il proprio mandato difensivo». Dalle parole usate dalla Gazzetti si evince chiaramente l'esistenza di dissensi non conciliabili con il collega comasco Claudio Salvagni in merito alle scelte difensive nel caso Bossetti.

La calibro 38 dell'avvocato Salvagni fa pensare ma è innocua, la penna e la bocca di giornalai e opinionisti che disinformando massacrano chi ancora deve essere processato è invece letale... eliminiamoli (metaforicamente parlando), scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando Controvento”. Occhio ragazzi che in Italia volano diffide e querele a go go. Occhio a come parlate e scrivete, occhio a come usate le metafore e a chi quelle metafore le dovrebbe capire in un modo e invece le interpreta in un altro. Occhio perché se la metafora si riferisce a quei personaggi pubblici che troppo spesso le sparano grosse sugli schermi, per ogni frase detta o scritta ci sarà sempre qualcuno disposto a farvi le pulci, a tradurla per come meglio gli aggrada pur di apparire "il più bello del reame" di fronte alla pubblica opinione. Perché, dovete sapere, se i qualcuno che dalla metafora vengono colpiti sono i giornalisti del facile scoop che pagano una quota al sindacato che li rappresenta, in men che non si dica sui giornali si pubblicherà una nota di protesta in cui sarete dipinti quali "nuovi mostri istigatori". Perché in Italia è così che funziona. Da noi esiste l'ordine dei giornalisti, roba che non si trova in nessun altro paese europeo, roba che da decenni si cerca di chiudere senza però riuscirvi, che in pratica è una lobby di potere che non controlla nulla e salta di palo in frasca a seconda del vento che tira e di chi vi si rivolge. Parlare per parlare, sempre bene (come fa il presidente Iacopino) ma senza far nulla, sono capaci tutti. E infatti del tanto parlare e dei tanti rimproveri ai propri "assistiti" alla fine non se ne fa nulla, dato che nessuno punisce gli sproloqui di tanti iscritti, di chi paga al medesimo ordine una quota annuale, dato che solo a voce si tutela la pubblica opinione, dato che in realtà nessuno fa qualcosa per i lettori e i telespettatori che da tanti giornalisti vengono trattati come animali da allevamento: sempre esposti alla luce artificiale e sempre ingrassati col mangime "raccomandato dai dati d'ascolto e dalle vendite". Nessun controllo equivale a nessuna tutela, a nessuna garanzia di usufruire di quella giusta informazione che da troppi anni è solo un'utopia, una chimera sacrificata sull'altare dell'audience e del facile guadagno. E pensare che basta davvero poco a capire che se in una trasmissione televisiva partecipano quattro colpevolisti e un solo garantista, la "giusta e seria informazione" va a farsi benedire da altre parti. Inoltre, si può dire che sia serio un Ordine che nei comunicati si affida a luoghi comuni obsoleti e li pubblica senza verificare i motivi che hanno portato "qualcuno" a scrivere certe frasi e metafore? Un Ordine che si attorciglia su se stesso ed è capace solo di scrivere fregnacce sapendo bene che col sistema informativo attuale non c'è modo di smentire nulla di quanto vien detto e scritto dai soliti noti? Un Ordine capace di scrivere che se qualcuno chiama pennivendolo un giornalista lo fa perché non sa come ribattere a quanto portato dal giornalista stesso? Ma quale voce tombale o tavolo a tre piedi ha suggerito allo scrivente (che neppure si è firmato) che non si sa come ribattere a quanto dicono i pennivendoli suoi colleghi? Alle frottole non basta forse contrapporre la verità? Oppure vige la legge del "chi urla più forte e si associa al gruppo ha sempre ragione"? No cari signori dell'Ordine, il problema che impedisce di ridicolizzare troppi pennivendoli iscritti al vostro sindacato viene dalla casta che si è formata nei decenni che non permette al cane di mangiar cane. Che non permette di contraddire, usando i giusti tempi e le giuste informazioni, nel momento esatto in cui lo sproloquio viene pronunciato. E' quello l'unico momento in cui si può far capire che il pennivendolo è davvero un pennivendolo perché non racconta la storia per come va raccontata ma per come vuole raccontarla (o per come gli han detto di raccontarla). Voi non fate nulla per salvaguardare la legge e lasciate che tanti vostri associati se ne freghino della presunzione di innocenza e delle persone che massacrano per lucro e non per amor di verità... e questo si che è sconvolgente! Che i giornalisti di partito seguano il colore della loro corrente politica è risaputo. Ma questo in fondo non comporta stravolgimenti mentali dato che ogni italiano è libero di scegliere lo schieramento e il giornale che preferisce, sia di destra che di centro che di sinistra. Ciò che invece stravolge la mente della casalinga o del pensionato che potrebbero finire a fare i giudici popolari in un processo, e appare imbarazzante il fatto che il fenomeno sia in aumento, è che ci siano giornalai che sguazzano fra la cronaca nera come fossero su un lago di gossip e oltre a non fornire giuste informazioni si ergono prima a detective, poi a pubblici ministeri e infine a giudici (popolari e togati) come se avessero il diritto di rovinare chi più gli pare, come se avessero il diritto di presiedere un processo e sentenziare a favore di una colpevolezza da provare solo in un vero tribunale da veri giudici non informati da fonti mediatiche unilaterali. Il tutto in barba alla legge che vuole l'imputato non colpevole fino a sentenza definitiva e in barba alla deontologia che predica, ma non impone a suon di multe, il loro stesso ordine sindacale. Ciò che fa specie è che chi dovrebbe intervenire in pratica non interviene preferendo parlare e poi mettere la testa sotto la sabbia, preferendo pubblicare comunicati prestampati e lasciare che il pus mediatico allarghi la ferita e aumenti l'infezione. Ciò che fa specie è che chi dovrebbe fermare l'emorragia che infetta l'opinione pubblica resta immobile, forse infettato a sua volta, così facendo credere al pubblico che gli intoccabili degli schermi e dei giornaletti siano imparziali e giusti, quando di imparziale non hanno nulla e di giusto hanno solo un buon conto in banca che ad ogni ospitata cresce. Loro, dicono, hanno letto tutti gli atti e maturato un convincimento personale che esprimono pubblicamente. Peccato che ad ogni critica si alterino e si coalizzino per darsi manforte. Peccato che se vengono attaccati, oltre a dimostrare quanto poco ci capiscano della lingua italiana dimostrino anche di avere la coda di paglia. Perché mai quei fenomeni si sentono tirati in ballo quando un avvocato, che non ci sta a subire le angherie dei media senza reagire, professionalmente squalifica i pennivendoli inserendo una metafora sul proprio profilo facebook? Parlo dell'avvocato Claudio Salvagni che dopo alcuni interventi televisivi dei soliti noti ha scritto un post in cui, come da sua abitudine, non si è nascosto dietro il dito dell'ipocrisia ma ha attaccato chi strapazza la cronaca nera dimostrandosi scarso e non preparato per un argomento così delicato. Cosa ha scritto l'avvocato di Massimo Bossetti? Leggiamolo insieme quanto riportato dai giornali: "Che pattumiera, che disinformazione. Pennivendoli, come dice qualcuno. Si parla del nulla dando voce ad emeriti ignoranti (purtroppo per loro ignorano) nonostante qualcuno affermi di aver letto le 60 mila pagine. Disinformazione all'ennesima potenza. Mi viene voglia di usare la calibro 38". A queste affermazioni si sono annunciate querele e denunce e si è squarciato il cielo tirando in ballo i giornalisti gambizzati o uccisi negli anni di piombo (ma quelli erano davvero giornalisti e il paragone con gli attuali pennivendoli che monopolizzano gli schermi per guadagnare trenta denari in più non regge). In pratica, come sono soliti fare in tanti anche in altri ambiti e istituzioni statali, i giornalai della nera si sono nascosti all'ombra dei veri giornalisti che hanno subito la ferocia della storia italiana (senza vergognarsi di paragonarsi a loro) per far credere alla pubblica opinione di avere a che fare con una persona pericolosa, l'avvocato Salvagni, che con le sue parole istiga il pazzo di turno alla violenza quando, invece, i pazzi sono chiaramente quelli che alla frase del legale, frase che avrebbe letto solo chi lo segue su facebook, hanno fatto da eco. Quindi, semmai, le persone pericolose sono gli stessi giornalai per quanto hanno deciso di divulgare a trombe spianate. Loro sono i pazzi che per aumentare lo spessore della notizia e catturare più lettori hanno tradotto la metafora sulla calibro 38 nella maniera pubblicitaria più conveniente, quando la stessa frase si può leggere anche in un modo più soft e convincente. I privi di coda di paglia, i giornalisti seri, poco ci han messo a capire che la calibro 38dell'avvocato, vista la pattumiera in premessa, vista la denuncia sull'ignoranza di tanti pennivendoli e sulla disinformazione, non è stata inserita perché si volevano morti i giornalai e gli opinionisti incapaci. Che metaforicamente serviva solo a far capire che è giunto il momento di eliminare le menti ignoranti e disinformate da una scena mediatica che non meritano. In pratica, certi personaggi andrebbero emarginati dagli editori. Questa la traduzione che più si addice alla personalità dell'avvocato Salvagni, alla metafora che ha esternato e che i soliti noti con la coda di paglia si son sentiti cucire addosso. L'avranno capita secondo voi? No, visto che sentendosi parte in causa hanno preferito non cercare un altro mestiere (per alcuni sarebbe più consono aprire un bar - in società - con un palo al centro dove si possano fare qualche struscio di lap dance e tante chiacchiere) e dare un senso diverso a una frase che se ignorata sarebbe rimasta in ombra e mai entrata nel circuito mediatico. Ma alla calibro 38 si doveva dare massima visibilità per poter continuare a fare quanto i soliti noti sono abituati a fare: "vendere la loro verità un tanto al chilo". Infatti il settimanale della Cairo Editore ha postato la "notizia" in copertina sotto la scritta "sconvolgente". Sconvolgenti sono altre cose molto più gravi. Sconvolgente è il mestiere che rovina la vita altrui e che alcuni per guadagnare più denari si sono inventati. Sconvolgente è vendere l'informazione che non è informazione pubblicizzandola come fosse Zimil... senza però dire che il prodotto non contiene lattosio. Faccio un esempio di come venga stravolta una non notizia e pubblicizzata per essere venduta un tanto al chilo. Per farlo mi baso sul settimanale che ritocca i personaggi con Photoshop. Parlo del settimanale che in copertina dice una cosa, la copertina la vedono tutti quelli che passano accanto a un'edicola (anche chi non compra nulla), mentre al suo interno ne scrive un'altra. Parlo del settimanale che chiama gli imputati col nome di battesimo, quasi che sia nata un'amicizia fra il massacrato e il director Andrea Biavardi - l'uomo messo dal presidente del Torino Calcio a dirigere un settimanale di cronaca nera dopo avergli fatto fare esperienze cartacee appropriate con mensili del calibro di Men's Healt, For Men Magazine, In Viaggio, Natural Style, Airone... ed esperienze televisive con apparizioni in "Il Campionato dei Campioni" (in cui giornalisti tifosi discutono di partite di calcio). A ferragosto bastava una rapida occhiata alla copertina per venire a sapere che tutti in Italia sono colpevoli a prescindere dai processi ancora da celebrare e, anche, dalle accuse ancora da formalizzare. Ad esempio:

1) Sulla copertina era scritto che altre due telecamere di Santa Croce Camerina accusavano Veronica Panarello.

2) che Michele Buoninconti aveva aggredito le guardie penitenziarie in carcere.

3) che il marito di Eligia Ardita, la donna incinta di otto mesi morta a Siracusa, era indagato per la morte della moglie.

La copertina l'ho vista di fronte a un'edicola mentre passeggiavo sul lungomare di Rimini. Era in bella vista e ha attirato la mia attenzione e quella di tanti altri. Quando son tornato a casa ho verificato le notizie notando quanto pesasse in termini pubblicitari.

1) Delle altre due telecamere di Santa Croce che accusano Veronica Panarello non si sa nulla. Se si parla di due nuove telecamere occorre dire quali siano e dove siano. Occorre dire quali orari sono stati visionati... perché nell'articolo di questi particolari non se ne parla?

2) Come sarebbe a dire che Michele Buoninconti ha aggredito le guardie penitenziarie in carcere, se nell'articolo dello stesso settimanale è scritto che "i poliziotti hanno segnalato una serie di frasi offensive e comportamenti scorretti che il detenuto avrebbe tenuto nei loro confronti. I reati che gli vengono contestati, nello specifico, sono oltraggio a pubblico ufficiale e resistenza (e non l'aggressione). Gli insulti agli agenti sarebbero scattati in particolare quando Michele ha visto che ad attenderlo all'uscita del tribunale c’erano molti fotografi e telecamere. Secondo le indiscrezioni (di chi?), Buoninconti avrebbe accusato gli uomini della Polizia Penitenziaria di avergli teso una trappola (quindi il fatto non è accaduto neppure in carcere ma all'uscita del tribunale)".

3) La notizia è stata pubblicata ad agosto, come fosse nuova, ma il marito di Eligia Ardita era iscritto sul registro degli indagati già da giugno. Perché evidenziare una notizia vecchia come se fosse nuova? Cosa si è cercato di fare?

Insomma, come si evince facilmente la copertina pesa più degli articoli. Da qui le notizie un tanto al chilo, dato che un settimanale lo si acquista non per quello che è scritto al suo interno ma per quanto si vede in copertina. E se la copertina pesa molto, poco di meno pesano la seconda e la terza pagina, quelle più facili da sfogliare all'acquisto. In queste si trovano anche le lettere spedite dai lettori. E a mio parere sarebbe bello che la signora Marina Bareggia di Monza si facesse viva per dimostrare la sua identità o che la redazione del settimanale ci mostrasse la busta, con il relativo francobollo timbrato, che conteneva la sua lettera. Perché lei è la persona che a pagina tre si è lamentata di chi difende gli assassini (tutti colpevoli anche a parer suo in Italia), ma allo stesso tempo pare essere un fantasma spuntato dal nulla, dato che a Monza esiste un paese che si chiama Bareggia ma non vi risiedono persone che di cognome fanno Bareggia (cognome sconosciuto in tutta Italia). Naturalmente c'è anche la possibilità che chi lavora per quel settimanale sia poco professionale. Sia chi scrive sia chi controlla gli scritti. Che qualcuno abbia sbagliato a digitare e che la signora Marisa viva a Bareggia, in provincia di Monza, ma abbia un cognome completamente diverso. Non si può escludere dato che nello stesso numero la dottoressa Vera Slepoj a pagina due risulta essere una psicanalista. Ma che importa la professionalità. Che valore ha di fronte al dio denaro che ha voluto far vincere a Massimo Bossetti il premio fedeltà della truppa di Biavardi e Cairo? Infatti il carpentiere nel 2015 è apparso sulla copertina (pesante) del settimanale in ben trenta pubblicazioni su trentacinque. Pur di vendere il prodotto, su di lui e sulla sua famiglia si è scritto di tutto e questi scritti orrendi hanno generato profitti in gran quantità all'editore. Oramai la mente di chi vi lavora si è modificata e mai cambieranno il loro stile di pensare. Per cui è impossibile far capir loro che esistono le metafore, come la calibro 38 usata dall'avvocato e di sicuro intesa a far cambiare lavoro a chi per guadagnare in copertina spara "palle" che uccidono l'informazione. Urbano Cairo, l'editore del settimanale, parlando dei dieci anni di presidenza del Torino Calcio oggi ha ammesso che nel passato ha sbagliato a fare certe scelte, ad acquistare certi giocatori (famosi ma che si son mostrati solo figurine) e ad allontanare certi allenatori per assumerne altri. Purtroppo sbagliando le scelte ha gettato soldi al vento... ed è uno parsimonioso il signor Cairo. La Terra come si dice è tonda... e chissà, magari fra qualche anno le cose cambieranno e ci sarà qualche innocente assolto in cassazione che querelerà tutti i pennivendoli e gli opinionisti che l'hanno massacrato e tutte le case editrici che hanno permesso il massacro. A partire da Mediaset per finire alla Rai e arrivare al signor Cairo, al suo direttore e ai suoi collaboratori. Chissà, magari ci sarà anche un giudice che imporrà alla Cairo Editore di pagare cinquanta o cento milioni di euro per quanto di orrendo scritto negli anni. E chissà... forse in quei giorni i denari perduti faranno venir la voglia, al signor Cairo e a tanti altri editori, di usare la metafora della calibro 38 usata anche dall'avvocato Salvagni...

Massimo Bossetti. Come lanciare nuovi stimoli mediatici e testare le risposte della pubblica opinione così da farle fare quel che si vuole quando si vuole..., scrive Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”. Secondo una certa giustizia sarebbe spettacolarizzazione quella di un sistema video audio che documenta le fasi di un processo (che consentirebbe a tutti di verificare la rispondenza degli atti con le regole formali e le garanzie del testo costituzionale). Strano paese il nostro che sembra aver dimenticato le regole nate dall’antifascismo e vorrebbe mettere il bavaglio all’informazione documentale, dove non si tratta di opinioni magari mantecate con tanta aria fritta e invenzioni dell’ultima ora spacciate per scoop, ma di fornire hic et nunc quello che accade in un processo. Una notifica dove tutti possano verificare che non c’è trucco e non c’è inganno, e che tutto si svolge alla luce del sole, secondo quei criteri dove la logica la faccia da padrone e non le suggestioni spacciate per indizi, non l’emotività che è in grado di obnubilare la mente di un’opinione pubblica assuefatta agli slogan e alle veline. La protesta dei cronisti per le riprese come diritto all'informazione non solo è sacrosanta, ma è il minimo per poter dire che siamo ancora in uno stato di diritto, considerando poi che sul caso in questione molta stampa si è sbizzarrita in acrobazie dal sapore surreale, con invenzioni e resoconti giornalieri che avrebbero dovuto come al solito inchiodare l’imputato. Neppure nella vedova di Norimberga c’erano tanti chiodi quanti quelli che sarebbero stati inflitti al muratore di Mapello e che per inciso sembrano più che altro bullette da calzolaio spacciate per chiodi da carpentiere...Nel Bel Paese sembra essere in atto un tentativo autoritario, uno di quelli che nella storia italiana ricorrono a cadenza regolare soprattutto quando avvengono trasformazioni che incidono in profondità nel tessuto sociale, momenti di crisi di identità e travaglio nei valori, nelle scelte e soprattutto nei modelli socio-economici, quando il politico di turno più che da rappresentante eletto la fa da padrone, quel dux al quale noi italiani siamo assuefatti e del quale ci sentiamo spesso perfino lusingati, sia che si tratti di un capo politico o religioso, sia che rappresenti un’autorità scientifica e culturale con tutti i crismi del dogma o del verbo infallibile… Le istituzioni come al solito si stringono attorno ai privilegi di quei pochi che tirano le fila e vorrebbero che il Paese fosse soltanto un esercito di zombi ben addestrati a fornire sempre la risposta appropriata e a credere al ritratto immaginario, instillato mediaticamente, di popolo sagace, dismagato e aggiornato. Si lusinga l’italiano, quello bene (dis)informato, che ha capito tutto e che nessuno mena per il naso… anche quando vien preso regolarmente per i fondelli. Il processo a un muratore diventa per alcuni un tentativo per imprimere una svolta ‘autorevole’ alla società rivendicando la propria egemonia e un potere discrezionale senza contraddittorio, considerando la democrazia come puro formalismo per allocchi, la bella retorica per gonzi da proporre come carnevale con coriandoli e stelle filanti. È una kermesse con tanta retorica e colpevoli da dare in pasto all’opinione pubblica, un po’ come quei giochi circensi con i gladiatori e le bestie feroci: e una plebe che evade (mentalmente) tra la partita della squadra del cuore, il gossip su letterine e subrettine con l’articolo a tergo (lato b) e il classico colpevole  a fare da valvola di sfogo per la frustrazione e la delusione di un paese sull’orlo di una crisi di nervi. La Grecia è vicina, e forse è il caso di cominciare a preparare i nuovi modelli comunicativi, testandone l’efficienza argomentativa e modulandoli secondo una retorica sperimentata sul campo. Si tratta anche di conoscere i fiancheggiatori più fedelmente addomesticati, sui quali si possa contare alle bisogna, che sappiano tirare di fioretto (e con la clava se serve). L’obiettivo è una informazione ben congegnata, al passo coi tempi e per meglio addormentare gli ignavi che fanno da popolo bue. Però nel Bel Paese nonostante quel conformismo tipicamente da cervelli nella vasca, sta anche montando la consapevolezza riguardo al caso Bossetti che la vicenda puzza, sì fieramente, di persecuzione nei confronti di un uomo che ha come unica colpa di essere fin troppo normale, lavoratore e buon padre di famiglia, uno preso a far da attore principale nella fiction, anche se non sembra avere proprio il ‘physique du rôle’. Nell’opinione pubblica, palude che 'l gran puzzo spira - solitamente più distratta dal gossip e dallo stereotipo evasivo - sta crescendo il sospetto e la consapevolezza che sia in atto un palese tentativo di trasformare il carpentiere di Mapello in un capro espiatorio, comodo per annacquare altre problematiche e mettere una pezza a errori madornali e inconfessabili. L’uso della stampa di regime è così smaccatamente di parte nell’utilizzo di informazioni taroccate - e nel fare da cassa di risonanza alle stronzate più assurde e inverosimili - che perfino molti colpevolisti cominciano ad avere un conato di vomito proprio all’apice del piacere (sembra che il disturbo talvolta accada anche in fase di orgasmo). È il dubbio che si sia un po’ esagerato nel copione, con una retorica da trombe e tromboni, e che la trama alla fine ricordi un romanzo di Victor Hugo o di Alexandre Dumas. Che si tratti di Jean Valjean o di Edmond Dantès, insomma si comincia a realizzare che il troppo storpia e che hanno esagerato montando quisquiglie e pinzillacchere e tirando in ballo adulteri e tradimenti come se si trattasse non di un delitto, ma del sequel dell’ultima telenovela televisiva, una di quelle dove i personaggi sembrano cavati fuori da un album dei fumetti, da un romanzo da cappa e spada, o addirittura da una slapstick comedy dove si scivola su una buccia di banana e si sbatacchia. È stata costruita una pseudo-commedia dell’arte con tante arlecchinate che perfino il pubblico di bocca buona le comincia a considerare di cattivo gusto. Si è allestito un copione alla Buster Keaton e alla Harold Lloyd, una sceneggiatura alla Chaplin e alla Stanlio e Ollio, unoscript alla Ridolini dove la gag finisce con quelli delle torte in faccia. Può sembrare assurdo, ma a fronte del tragico e orrendo omicidio di una povera ragazza si è costruita - a proposito del muratore di Mapello - una storia inverosimile che sembra più umoristica e caricaturale che tragicamente orribile. Anche quelli che di solito non fanno una piega quando si tratta di dargli all’untore e gridare al linciaggio, cominciano a chiedersi se il confine del tragico si sia a tal punto superato da cadere prima nel grottesco e poi nel comico. La storia ricostruita dalla procura con l’aiuto di tanta stampa servizievole e ben istruita sembra quella di un personaggio fantozziano alla Paolo Villaggio, messo di fronte alle traversie più assurde e inverosimili, surreali come giustamente si è espresso l’imputato che assiste impotente alle proprie avversità. Perfino i più accaniti cominciano a interrogarsi se per caso non ci sia una bella regia e che proprio a loro tocchi il ruolo di comparse, di quelli che vanno a gridare sotto al patibolo già eretto e virtualmente collaudato. A fronte delle inefficienze e dello sperpero di denaro pubblico in un’indagine senza capo né coda e dalle conclusioni campate in aria, il caso Bossetti serve anche come diversivo e surrogato per quella parte dell’opinione pubblica che è più sensibile all’informazione addomesticata da tanti media spazzatura. Si scommette su una audience incapace di vedere e riconoscere i giochi di prestigio di un’informazione abilmente pilotata. Il potere si traveste da giustiziere per dimostrare che fa sul serio nel riportare il paese in carreggiata. È il segno di una svolta autoritaria, di un sistema di controlli sempre più invasivi su tutti quelli che non sono abbastanza omologati? Un modello istituzionale dai formalismi inespugnabili e che fa della democrazia un semplice gioco di ruolo? I banali casi giudiziari non sono mai da sottovalutare, sono sempre la cartina al tornasole della salute di un sistema, delle sue storture e dei suoi inganni. Lo è stato il caso di Gino Girolimoni in epoca fascista, lo è stato il caso Tortora (e altri di minore impatto mediatico) e lo è il caso Bossetti che forse entrerà nella storia del nostro Paese con risvolti e implicazioni che ancora non siamo in grado di valutare in tutta la loro rilevanza e in tutte le loro implicazioni sociali, culturali e politiche. Per certo il caso del muratore è una radiografia dello stato del Paese - dal punto di vista dell’epistemologia giuridica - e rappresenta perfino una sorta di proiezione rappresentativa di come saremo, del ruolo sempre più importante che l’informazione concretizza nel plasmare credenze, valori e atteggiamenti di una società sempre più indottrinata e pianificata scientificamente. Il caso in parola è in certo senso un esperimento dove trova posto quella capacità del sistema di assegnare quei rinforzi positivi e negativi atti a orientare l’opinione pubblica con il condizionamento operante skinneriano. Il caso Bossetti, nonostante molti storcano il naso per l’eccessivo clamore dato alla vicenda, rappresenterà comunque un indirizzo per il futuro del nostro paese e le sue istituzioni. C’è da augurarsi nel senso di una maggiore consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dei meccanismi occulti che ne influenzano le scelte e i valori.

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti “eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con “Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: “Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: “lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi  qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due  intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».

La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.

«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiat